Innanzi tutto riguardo al titolo: "Addiction to normality" è un’espressione coniata da Kohut per indicare una condizione di schiavitù interiore, ben diversa dalla salute, al cui centro c’è la necessità patologica di non uscire in alcun modo, neppure nel proprio intimo, dal gregge dei "non devianti" [2, 3]. Il risultato è una vita soggettiva inautentica, forgiata su pressioni esterne, povera o priva di emozioni spontanee, altrimenti definita come "falso sé" [9].
Come clinico interessato [vedi, ad es. 4], trovo "Teorema" di Pasolini [6] ricchissimo di suggerimenti utili alla comprensione profonda di questa condizione, cui appartengono quasi tutti i personaggi della vicenda. Quest’ultima, come sappiamo, inizia con la comparsa di un misterioso giovane di straordinaria bellezza e dai frequenti atteggiamenti a carattere androgino e bisessuale. Egli è ospitato da una famiglia, ricca ma di mentalità piccolo-borghese, e ne seduce tutti gli appartenenti. Poi, lasciandoli di colpo, ne provoca in diverso modo la caduta in condizioni rovinose o avvilenti. Si distingue dagli altri la cameriera Emilia che, riconosciuta ed onorata come santa, termina nella gloria di un martirio la sua vita.
Sul rapporto tra l’ospite sconosciuto e gli altri personaggi, sentiamo cosa ci dice lo stesso Pasolini: "Dio è lo scandalo. Il Cristo, se tornasse, sarebbe lo scandalo; lo è stato ai suoi tempi e lo sarebbe oggi. Il mio sconosciuto (…) non è Gesù inserito in un contesto attuale, non è neppure Eros identificato con Gesù; è il messaggero del Dio impietoso, di Jehovah che attraverso un segno concreto, una presenza misteriosa, toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza. È il Dio che distrugge la buona coscienza, acquisita a poco prezzo, al riparo della quale vivono o piuttosto vegetano i benpensanti, i borghesi, in una falsa idea di se stessi". [7]
Una "falsa idea di se stessi" domina, quindi, la mente di queste persone consentendo loro, al più, di "vegetare" ma non di "vivere" come esseri autentici. Tutto questo è evidente sin dalla prima presentazione dei personaggi che, nel romanzo, precede il vero e proprio inizio della storia. Lo sguardo con cui si presenta all’inizio il capofamiglia Paolo, ad esempio, "è perduto nel vuoto, tra preoccupato, annoiato o semplicemente inespressivo"[6, pag. 10]. Il figlio Pietro ci appare come "un ragazzo debole, (…) con gli occhi già invigliacchiti dall’ipocrisia (…) già spento da un futuro di borghese destinato a non lottare"[6, pag. 12]. Non dissimile è la madre Lucia in cui bellezza e cultura, che apparentemente la caratterizzano, non sono frutto di autentiche esigenze interiori, ma di "una funzione che le spetta", di un "obbligo" che l’ambiente le ha imposto [6, pag. 19]. Tutti ci appaiono, all’inizio, come rigorosamente rispettosi delle forme esteriori, privi di vera intimità nel rapporto reciproco e di contatto con la propria vita interiore. Dagli altri si discosta un poco la figlia Odetta, la cui "consapevolezza dolorosa e mascherata del proprio nulla" [6, pag. 16], tuttavia, non la preserva dai pericoli che comporta la "falsa sicurezza" comune agli altri. I personaggi di Teorema, infatti, come tutti gli "addicted to normality", si rivelano estremamente fragili, a dispetto delle apparenze di perfetta adattabilità e "normalità".
Il "messaggero del Dio impietoso", che mette tutti in crisi, può essere inteso in molti modi che non si escludono tra loro. Un clinico come il sottoscritto lo intende più facilmente come personificazione della realtà che prima o poi, inesorabilmente, colpisce queste persone nel loro punto più vulnerabile. Ma perché lo fa per il tramite dell’amore e non di altro? Può aiutarci a rispondere a questa domanda una breve digressione su "1984", opera al cui centro troviamo un tentativo fallito di emancipazione dalla "addiction to normality" legata ad un regime autoritario [5]. L'amore, qui, è l’atto rivoluzionario per eccellenza. Non si tratta di amore cerebrale, acorporeo: questo può essere facilmente mistificabile e difatti ci pensa una commissione governativa a convincere ciascuno che si "deve" amare una persona piuttosto che un’altra; e neppure si tratta d’amore puramente sessuale: anche qui ci pensa lo stato ad organizzare attivamente pornografia e prostituzione. No: si rivela rivoluzionario solo l'amore che coinvolge spontaneamente anima e corpo, nessuno dei due escluso, quello, appunto, che prende Julia e Winston e li fa finire nei guai con il potere. Il perché mi pare semplice: un amore di quest'ultimo genere è il sentimento per il quale, più di ogni altro, è impossibile mentire a se stessi. È espressione di quello che si è veramente, al di là di ogni maschera che ci s’impone o che altri impongono. E cosa c’è di più temerariamente rivoluzionario che essere se stessi? Ecco perché i personaggi "finti" di Teorema (tutti figli del tolstojano Ivan Ilijc, che non a caso viene citato esplicitamente) sono severamente messi in crisi dal fatto più "vero" che possa loro capitare: da quella "cartina di tornasole" della verità interiore di ciascuno che è l’amore.
Il film fu accusato da destra di oscenità e da sinistra di misticismo. Un’attenta considerazione delle vicende dimostra facilmente l’infondatezza di entrambe le accuse: le scene a carattere sessuale (del resto appena accennate) non sono fini a se stesse, ma elemento indispensabile per descrivere un amore che, come si diceva poc’anzi, deve necessariamente coinvolgere i personaggi "anima e corpo". L’ascesi, il misticismo non compaiono affatto come la soluzione definitiva e certa del problema, ma, appartenenti ad una civiltà al suo tramonto, sono presentati in modo del tutto problematico. La presenza contemporanea di sesso e di sacralità è inoltre giustificata da un motivo particolare, rappresentato visivamente, nel film, dal deserto che compare in più riprese. Nel romanzo esso è descritto come l’ambiente simbolico in cui domina la "Unicità" che assorbe in sé "l’intera complicazione del mondo umano" [6, pag. 88]. È un nucleo di vita interiore a carattere primitivo, indifferenziato, cui i "falsi sé" dei personaggi e i loro simili (la cui evoluzione interiore s’è fermata, a livello profondo, a stadi precoci) guardano con terrore e insieme con nostalgia perché si tratta della parte più autentica di loro [1, pag. 80]. Ecco perché può suscitare in loro un sentimento d’amore solo un rapporto, quale quello con l’ospite, capace di evocare lo "informe originario" in cui scompare ogni differenza del mondo umano evoluto: sacro e profano, spirituale e corporeo, maschile e femminile, appartenente ai genitori oppure ai figli.
L’ospite, tuttavia, è il "messaggero del Dio impietoso" e non un terapeuta o un amico. Il suo amore provoca in tutti la dissoluzione della "addiction to normality" ed il crollo del "falso sé": vediamo, ad esempio, il capofamiglia Paolo, l’austero e irraggiungibile capitano d’industria, ridotto, al cospetto dell’ospite, ad un essere impacciato, "…definitivamente regredito a inferiore (…) intimidito" [6, pag. 84]. Ma a questo punto, anziché assistere gli altri nella ricostruzione di un vero sé, l’ospite se ne va. Seguono le reazioni d’autodistruzione, nel corpo e/o nell’anima, da parte degli amanti abbandonati, come avviene inevitabilmente dopo il contatto/distacco con un oggetto arcaico [8]. Di queste vicende, per brevità, consideriamo solo la parte finale delle storie di Emilia e di Paolo.
Un montaggio alternato, nel film, ci mostra le vicende di Emilia contrapposte a quelle degli altri. Nel romanzo, il capitolo in cui è narrata la parte finale della sua storia s’intitola significativamente "È tempo di morire". Anche Emilia, infatti, ricerca la sua fine ma, a differenza dei quella ingloriosa degli altri personaggi, essa è un martirio. La città ed il mondo industriale stanno avanzando, distruggendo quell’ultimo residuo d’ambiente contadino in cui era ancora possibile essere santa; ed Emilia decide di seguire la sorte della sua terra unendosi ad essa. Le lacrime di lei sepolta viva, emergendo dalle profondità del suolo, si trasformano in una fonte che si rivela miracolosa; per il suo tramite, Emilia continua a mandare a chi vive nel mondo i suoi messaggi.
La reazione più palesemente e deliberatamente autodistruttiva all’abbandono è, al contrario, quella compiuta da Paolo: "spogliatosi" della sua azienda, perduta la capacità di "distinguere la realtà dai suoi simboli" [6, pag. 191], egli si reca alla Stazione Centrale di Milano e qui si libera materialmente degli indumenti che indossa, nello sforzo di disfarsi di tutte le false acquisizioni stratificatesi nel corso della sua vita. Lo vediamo, subito dopo, raggiungere "la realtà / di tutto spogliata fuori che della sua essenza" [6, pag. 197], ossia quel deserto di cui si è parlato più sopra. In esso, attraverso l’autoannientamento quasi totale, Paolo ritrova una realtà originaria, primitiva, ma finalmente autentica, in cui forse, pur nella follia, potrà iniziare ad essere vivo.
Un interrogativo finale rimane, tuttavia, senza risposta: "Ma cosa prevarrà? L’aridità mondana / della ragione o la religione, spregevole / fecondità di chi vive lasciato indietro dalla storia?" [6, pag. 197]. È il dilemma tra una ragione resa "arida" dal suo essere "mondana", cioè distolta dalla realtà interiore, ed una "feconda" attenzione alle esigenze dello spirito, come quella della religione, resa tuttavia superata e "spregevole" dal suo non essere stata integrata nel pensiero moderno. Pasolini lascia al lettore il compito di rispondere a quest’interrogativo che riguarda non solo i personaggi di Teorema o i gravi "addicted to normality", ma noi tutti.
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