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La scuola della memoria

6 Feb 13

Di FRANCESCO BOLLORINO

L'utilizzo delle tecniche di ricognizione biografica nella rialfabetizzazione di adulti, sofferenti psichici, istituzionalizzati.

di

Linda Alfano Docente del Corso

Francesca Romana Scaletti Docente del Corso

Rossella Valdré Direttore Tecnico Comunità "Skipper"

Scuro

Nero

Il mare

Che si muove anche di notte

Ha cullato il mio cuore

Per la vita

(P.B., 54 anni, ospite dello "Skipper)

Con la collaborazione di Maria Cerminara, Educatrice dello "Skipper"

 

 

L'esperienza dello "Skipper".

 

Questo lavoro intende presentare una peculiare esperienza riabilitativa: un corso di scuola elementare all'interno di una struttura comunitaria per pazienti ex OO.PP.

E' infatti ufficialmente operativa dal Novembre '98, nella Comunità "Skipper" di Masone (Genova), una sezione di scuola elementare – sede distaccata del Circolo Didattico di Genova-Voltri – allo scopo di promuovere la rialfabetizzazione di base di alcuni dei pazienti ospiti della Comunità.

Il corso si articola in tre giornate settimanali ed è condotto da due insegnati che operano in presenza simultanea su un'utenza di circa dieci iscritti (questi dati si riferiscono allo scorso anno scolastico).

La peculiarità dell'esperienza e, se vogliamo, la sua originalità, non consiste tanto nella "novità" dell'esperienza in sé (sappiamo che attività del genere non erano assenti dagli ospedali psichiatrici negli ultimi anni, e che corsi di rialfabetizzazione per adulti sono previsti nell'ambito dei distretti didattici); ci pare che la peculiarità risieda nel contesto particolare in cui l'esperienza si è svolta e sta proseguendo.

Prima di entrare nello specifico circa le modalità tecniche con cui il Corso è stato condotto, occorre collocarlo nell'intero processo del superamento dei manicomi che la legge ha decretato e che, per quanto riguarda la Provincia di Genova, ha visto un importante ruolo delle strutture intermedie, strutture, come è noto, tradizionalmente destinate ad altre utenze psichiatriche (pazienti giovani, spesso con patologia borderline, ritenuti a buona o discreta prognosi per quanto attiene il recupero sociale, eccetera).

Lo "Skipper" è una di queste strutture, aperta nel Marzo '98, destinata ad accogliere 40 pazienti definiti gravi o gravissimi (provenienti dai competenti ospedali liguri di Quarto e Cogoleto), con patologia mista psichiatrica e disabile, di età generalmente avanzata (l'età media è di 54 anni), vissuti per gran parte della loro vita, e in alcuni casi tutta la vita, in manicomio (la permanenza media in O.P. è di 32 anni), e repentinamente ‘dismesssi' nei primi mesi del '98.

Il cosiddetto "residuo" manicomiale. Caratteristica piu' saliente del "residuo", dal punto di vista clinico, ma potremmo dire anche esistenziale, e comune sia agli psichici che ai disabili, è l'estrema compromissione di tutte le competenze di cui l'essere umano dispone.

La residualità va pertanto qui intesa in senso lato: se è vero che la maggior parte delle diagnosi si designano come ‘schizofrenie residue', il concetto non si può restringere nel qualificare un tipo di sindrome schizofrenica piuttosto che un'altra, e neppure nell'indicare l'esito deteriorato e relativamente aspecifico di tutte le forme di schizofrenia, ma implica nel nostro caso un concetto più vasto, che va dalla progressiva perdita e atrofia delle funzioni più elementari della vita biologica (come il mangiare, il controllo sfinterico) fino a quelle più complesse della vita di relazione (come il linguaggio, l'espressione emozionale, la capacità di apprendere, la capacità di responsabilizzarsi su un compito). Tra queste ultime, anche la capacità di leggere e scrivere.

Lo "Skipper" si è trovato dunque di fronte ad un compito difficile: doversi occupare di pazienti non solo e non tanto così gravi, ma così gravosi sul piano assistenziale, e restare, anzi diventare una Comunità Terapeutica, com'era nel nostro spirito, nella nostra formazione e nelle nostre premesse. Armonizzare, far lavorare insieme queste due esigenze (da un lato l'accudimento di base a persone così regredite, dall'altro quell'attenzione relazionale e riabilitativa che scaturiscono dal lavoro gruppale ) si è rivelato, a mio parere, il compito che definisce e qualifica, più di ogni altro, una Comunità terapeutica adattata a pazienti ex OO.PP. ( e forse a pazienti cronici in generale).

E' dalla tensione dinamica tra questi due poli solo apparentemente antitetici – accudimento e riabilitazione – dal prevalere ora dell'uno ora dell'altro a seconda del caso e del momento, che viene tessuta la trama di un lavoro comunitario orientato alla cronicità residuale.

Se ora torniamo alla premessa iniziale, comprendiamo che ogni attività riabilitativa, compresa la scolarizzazione, va inserita in questo contesto teorico di riferimento, per potersi definire come un'esperienza utile e mirata. La scuola, fra tutte, è stata scelta come oggetto di questo contributo perché in qualche modo esemplifica l'insieme dei nostri sforzi: si tratta di un lavoro complesso e articolato, condotto in un setting specifico da personale esterno alla Comunità ma collegato al resto del gruppo di lavoro attraverso la costante funzione di mediazione, filtro e connettivo garantita dalla presenza di operatori interni, in questo caso un educatore, che si pongano come ponte ed interfaccia.

Occorre evitare il pericolo, non raro in questi casi, che l'attività, soprattutto quando affidata ad esterni, venga sì condotta correttamente dal punto di vista tecnico, ma resti un'isola scollegata e solitaria rispetto alla vita complessiva della Comunità, che finisce per non conoscere e quindi non appropriarsi, paradossalmente, proprio di quegli strumenti che essa stessa si è data.

Si tratta quindi di un lavoro "adattato", come detto prima, alla tipologia particolare d'utenza, reso usufruibile attraverso modifiche tecniche, come vedremo, a pazienti usualmente poco raggiungibili. In ultimo, da un punto di vista istituzionale, si è potuto realizzare l'incontro di due istituzioni – la scuola, rappresentata nel Provveditorato agli Studi e la Comunità Terapeutica – e quindi di due culture, tradizionalmente non abituate a conoscersi e a confrontarsi. Accade a volte negli ambiti terapeutici che strumenti di lavoro diversi, ma applicati coerentemente allo stesso oggetto, producano risorse creative del tutto insperate.

 

Presupposti teorici

 

L'osservazione della globale compromissione dei pazienti, unitamente all'età avanzata, se da un lato ci ha obbligati a riflettere sulla qualità dell'intervento che potevamo realisticamente proporre (quali attività, come dosare la stimolazione, in che tempi, con che finalità), dall'altro non ci ha impedito di immaginare l'esistenza di risorse residue, anche minimali, all'interno di alcuni di loro. E' dalla semplice osservazione quotidiana dei pazienti che scaturiscono le premesse teoriche, seppur grossolane nella loro non obiettivabilità, che fanno da scheletro di riferimento a tutta l'impostazione riabilitativa. Abbiamo ipotizzato che:

– esistessero capacità residue in alcuni dei pazienti

– le funzioni che ci sono sembrate, ad un'osservazione esterna, irrimediabilmente perdute, fossero in realtà andate in disuso perché via via negli anni non più utilizzate, non più sentite come proprie, delegate globalmente all'istituzione un tempo totale.

Entra qui in campo il concetto di danno istituzionale.

L'esistenza di risorse residuali, sepolte in anni di patologia e istituzione, sembrava percepibile da alcuni dati legati alle prime osservazioni: i pazienti avevano genericamente risposto bene ad uno sradicamento tanto radicale, mostravano un buon grado di adattamento al nuovo ambiente, e nel complesso riuscivano a tollerare il minore contenimento offerto dal contesto comunitario rispetto all'ospedale (non solo all'ospedale psichiatrico). Quest'ultimo punto è senz'altro da sottolineare: è ipotizzabile che il cambiamento abbia suscitato angoscia ma anche, laddove questa angoscia ha potuto essere incanalata e contenuta, liberato risorse, e allentato, seppur di poco, le difese coriacee con cui lo psicotico cronico si trova costretto a dover convivere, come un prigioniero in una fortezza.

Non da ultimo, le emozioni suscitate dentro di noi (di tenerezza, di desiderio di aiutare, di impotenza, di rabbia) se considerate con un'attenzione che potremmo genericamente chiamare controtransferale, fanno pensare alla presenza di qualcosa all'interno delle menti dei pazienti, qualcosa di emotivo ancora presente, la sopravvivenza di bisogni ancora in parte riattivabili se opportunamente raccolti e compresi.

L'insieme di questo "sentire" (in gran parte affidato alla nostra sensibilità, poiché le capacità di linguaggio dei pazienti sono estremamente ridotte) ha costituito la premessa su cui si è mosso l'asse dell'intervento, e con la quale ci si è dunque rivolti anche alle tecniche scolastiche.

Durante lo svolgimento del corso, dai resoconti delle insegnanti e dalla ricaduta, potremmo dire, che il corso sembra avere sui pazienti che lo frequentano, esso ci è parso tanto più utile non solo e non tanto per il suo oggetto specifico (la rialfabetizzazione), quanto per la possibilità che l'attività scolastica, adeguatamente condotta, faciliti il ripristino della funzione elettivamente compromessa nella psicosi e non solo nella psicosi cronica: la simbolizzazione.

La scuola come setting specifico per tentare un percorso a ritroso verso la parola (la parola scritta, parlata, letta, evocata, raccontata), così ampiamente perduta o ridotta all'essenzialità dei bisogni, schiacciata nel concretismo, delegata passivamente agli altri e svuotata di progettualità e di senso.

 

Metodologia d'intervento

 

di Linda Alfano e Francesca Romana Scaletti, docenti del corso)

Quale metodo di lavoro con il gruppo sono state individuate le tecniche di ricognizione biografica, che consistono in racconti retrospettivi in prosa che soggetti "reali" fanno della propria esistenza, mettendo l'accento sulla loro vita individuale ed in particolare sulla storia della loro personalità.

Hanno mediamente frequentato il corso, nell'anno ‘98-99, nove pazienti, di cui due hanno conseguito la Licenza Elementare (con regolari Esami di Stato), e ai rimanenti sette è stato consegnato un Attestato di frequenza (allo scopo di "attestare", per tutti, il valore della partecipazione).

L'idea pedagogica sottesa alla pratica di ricognizione biografica si fonda sull'auto-formazione, sul progetto di vita, sull'elaborazione autonoma di senso, sull'appropriarsi del sapere da parte del soggetto. Raccontare la propria biografia, infatti, significa cominciare a riappropriarsi del potere (auto)formativo, mettendo a confronto le diverse esperienze, solitamente misconosciute, che emergono rivisitando i legami con gli altri, con le cose e con se stessi.

Un punto importante è che le pratiche biogafiche mettono sullo spesso piano l'esperto e il soggetto in quanto persone dotate di una storia, del diritto-dovere di interpretarla e darle un senso. Si tratta di una vera e propria "arte dell'esistenza": l'esercizio del raccontarsi implica infatti un linguaggio complesso, fatto di idee e rappresentazioni (di sé, degli altri, del mondo), di emozioni (positive o negative), di valutazioni, di relazioni significative (ci si racconta a qualcuno per qualche scopo).

Le attività autobiografiche ci permettono di ricostruire, di interrogarci su noi stessi, di progettare. Hanno cioè una finalità "trasformativa", educativa e/o autoeducativa per il soggeto stesso.

Vi è dunque la possibilità di riconsiderare l'esperienza vissuta per poi esplicitare un progetto di vita ossia, attraverso la costruzione della propria biografia, di allargare l'orizzonte temporale e creare un'apertura sul futuro, ivi compresa l'elaborazione della propria morte.

In sintesi, la frequentazione di queste pratiche implica, come ha evidenziato Josso (1991):

  •  
  • Una presa di distanza necessaria per rivedere il proprio sviluppo personale e raccontarlo a sé e agli altri;
  • La responsabilizzazione personale del soggetto rispetto alla propria (auto)formazione
  • La costruzione di un orientamento significativo che finisca per trasformare la storia di ciascuno anticipandone la continuazione
  •  

Il prodotto delle pratiche biografiche è una storia, cioè una costruzione, un racconto, che si fa insieme agli altri: non un'autovalutazione asettica né una descrizione oggettiva, né un elenco di fatti con un loro significato intrinseco.

Il suo valore di storia la rende trasformabile, trascrivibile, un prodotto sempre incompiuto e misterioso. Le pratiche discorsive che accompagnano le biografie vanno dalla semplice condivisione collettiva (orale) di ogni storia, alla discussione dei temi, alla ricerca di modelli ripetitivi, di somiglianze e di differenze, ad una vera e propria attività di analisi e di ricerca sui racconti.

Queste ultime attività costituiscono processi di esplicitazione e interpretazione molto importanti nel dar senso alle storie. Per essere efficaci, le pratiche biografiche qui proposte richiedono l'esercizio collettivo della conversazione collaborativa, che deve avere le sue regole: ognuno viene responsabilizzato rispetto alla discussione in atto; c'è la massima libertà di contenuto e di tono; linguaggio, metafore, interpretazioni e premesse vengono rispettati e non giudicati; tutti assumono una posizione di ascolto attivo (accettante e insieme critico); tutto quello che viene detto è importante e merita di essere ascoltato; ogni idea viene presa in considerazione per quello che è, idee diverse possono convivere in quanto non c'è l'obiettivo del consenso.

Questo esercizio si rivela una pratica educativa particolarmente importante nel contesto di una educazione alla vita collettiva.

Nella realizzazione pratica del laboratorio di ricognizione biografica ci si è riferiti ad alcuni criteri:

  •  
  • La singolarità del laboratorio stesso che si manifesta negli interessi dei partecipanti, nelle interazioni/connessioni già esistenti. Per costruire una proposta significativa è necessario entrare in comunicazione; non ha senso proporre una metodologia standard preconfezionata. In effetti la contrattazione fa già parte dell'impresa educativa autobiografica;
  • La necessità di porre vincoli: solitamente si tende a sottovalutare l'importanza delle regole e si dimentica che "il vincolo non limita semplicemente i possibili, ma è anche opportunità" (Prigogene, Stengers). Nei contesti biografici i vincoli dovrebbero essere come regole di un gioco: sufficientemente elastici ed espliciti da permettere future trasformazioni.
  • Il setting: si è ritenuto opportuno strutturare un setting di tipo narrativo nel quale ogni racconto biografico è stato considerato una storia con un narratore ed un pubblico capaci di mettere in gioco un sapere interpretativo, simbolico e condiviso.
  •  

Un setting di questo tipo si apre a linguaggi personali, emotivi, metaforici che, pur privilegiando il verbale, non si limitano ad esso; ad esempio, si può usare immagini, movimenti, suoni, sia come stimoli che come elementi della narrazione, che come sintesi di un percorso avvenuto.

Questa apertura permette di far dialogare tra loro mondi diversi, che sarebbero incommensurabili e difficilmente confrontabili all'interno di un approccio logico-razionale: quei mondi irriducibili e personali che gli individui costruiscono nelle loro vite e che solo la narrazione riesce a far convivere.

A conclusione del percorso formativo potrà emergere — questa è l'ipotesi che guida il presente progetto — premesso il recupero e il potenziamento delle capacità residue dei singoli pazienti, una più chiara consapevolezza del disagio e dei suoi punti nodali, la capacità di raccontarsi e di dare l'avvio all'elaborazione della fine del proprio percorso esistenziale, compito ineludibile del soggetto anziano.

Parallelamente al laboratorio di ricognizione biografica sono state proposte schede di lavoro che, per le loro caratteristiche di percorso strutturato in passaggi graduali minimi, costituiscono a nostro avviso una proposta didattica accessibile a questo tipo di utenza. Le proposte sono state suddivise in cinque fasi. Ogni fase corrisponde ad un modulo su cui riflettere e lavorare. Le proposte operative vanno reiterate per tutto il tempo necessario ai soggetti per esibire la prestazione richiesta, variando il contenuto delle proposte, ma lasciando inalterata la gradualità del percorso.

La prima fase è quella delle attività propedeutiche, in cui gli allievi vengono accostati al lavoro con modalità piacevoli che non umilino l'età, non banalizzino gli sforzi e non alzino i livelli d'ansia, per cui sono stati presentati disegni da completare e colorare, simboli, titoli di giornale, marche pubblicitarie al fine di preparare i soggetti a trarre inferenze, a prendere in considerazione ciò che non è immediatamente evidente, a realizzare collegamenti reali e mentali.

Nella fase successiva ci siamo proposte di allenare gli allievi a realizzare inferenze semantiche. Dapprima sono state le poesie ad introdurre le inferenze, facilitate dalla rima e dal ritmo, poi i personaggi di racconti da indovinare a seconda di ciò che dicono (collegamento tra una persona e un determinato contesto linguistico); successivamente sono state le descrizioni degli oggetti e dei luoghi un tempo conosciuti.

La terza fase corrisponde all'attività "dell'anticipare": per abituare i soggetti a porsi in modo attivo di fronte alla lettura si offrono indizi stimolanti come fotografie, disegni, didascalie, titoli di giornale da osservare, da identificare attraverso dialoghi e situazioni comunicative, attivando conoscenze e schemi già presenti nella memoria.

Quarta fase: cogliere la struttura. Si utilizzano storie da scomporre e ricomporre in parti, ognuna corrispondente ad un fatto, per far acquisire la capacità di rappresentare in sequenze ordinate il contenuto di un testo. La comprensione delle singole parti conduce, infine, alla comprensione complessiva. Anche in questa fase si lavora mediante l'uso di schede, disegni e fotografie che sollecitano i soggetti a distinguere i vari piani e gli elementi di sfondo rispetto a quelli principali.

La quinta fase, selezionare le informazioni, ha lo scopo di sviluppare la capacità di rilevare informazioni in testi che esplicano funzioni diverse (indicazioni in una scatola di medicinali, libretto di istruzione programmi televisi) e quindi la capacità di distinguere ciò che non è essenziale al mio scopo da ciò che lo é. Le informazioni da cogliere sono proposte così come si reperiscono dall'ambiente risultando, perciò, spesso difficilmente accessibili a soggetti in difficoltà.

Questa fase del lavoro è quindi mirata a potenziare le strategie necessarie ad organizzare i dati della realtà in rapporto alle proprie esigenze.

La procedura di insegnamento è quella del Modeling (apprendimento per osservazione di modelli) dove inizialmente è l'insegnante a fornire il modello, pensando ad alta voce, mentre formula le domande da farsi per attivare la comprensione; l'insegnante fornisce esempi di strategie all'interno di ciascuna fase del lavo ro, mentre si dà delle autoistruzioni sulle strategie da adottare.

Partendo da questi esempi si coinvolgono gli allievi in discussioni centrate sul "Problem solving" nelle difficoltà di comprensione. In seguito, si lascia il controllo delle autoistruzioni agli allievi stessi aiutandoli a formulare le opportune domande. Nel caso di soggetti in grave difficoltà può essere utile l'acquisizione mnemonica di alcune domande chiave.

 

Dal diario di scuola

 

V.T. – 64 anni-

"In tempo di guerra l'aereoplano era il veicolo più pericoloso.

Una volta ero andato al fiume a pescare, d'un tratto sentii un rombo che sembrava non finire più, un rombo infernale che tappava le orecchie.

Guardai in cielo per capire cosa potesse essere, vidi una riga di aerei che si abbassavano verso terra uno alla volta. Si piegarono verso lo stabilimento e incominciarono a sganciare bombe. Vidi tutto rosso intorno a me e sassi che volavano. Era un bombardamento a tappeto. Passato un po' di tempo venne un uomo di nome Berto, mi chiamò ma io non capivo più niente, come fossi sotto la dormia. Lui gridava che ero in pericolo ma io non capivo. Mi vide assordato, stordito, allora mi prese in braccio e mi portò a casa. Mi salvò. Fu un uomo molto coraggioso"

P.B. – 54 anni-

"C'era una donna che andava a scuola per imparare i numeri e l'algebra.

Dopo essere andata a scuola, un uomo, che aveva paura di tenere le gambe a bagno per tutta la vita, le fece un grosso guaio, mettendole i pezzi di vetro nel cibo. Era un sasso che ruba forza e che non lascia più sapere quello che si sapeva. L'acqua della pioggia rompe i sassi dei quali sono fatte le nostre case e i nostri ospedali e le nostre case di riposo. Per questo che la notte non deve più ritornare e non deve più piovere acqua dal cielo.

…..Sono P.B., sono nata nell'anno 1945 nell'ospedale di Auswitz. Vorrei sognare i miei sogni di verità ma c'è qualcuno che non vuole da quando ero appena nata."

B.B. –63 anni –

"Dieci anni fa sono scappato dalla Polizia, ero in prigione, mi hanno preso per un malato di mente e mi hanno portato nell'ospedale psichiatrico.

Mi avevano dato la colpa di aver ucciso mio padre con un corpo contundente nella pancia e non era vero niente. Un anno e nove mesi li ho trascorsi in prigione, dopo sono scappato ma mi hanno trovato. Mi ero nascosto in casa, perché c'era mia madre che stava in pensiero. Quando ero in macchina e stavo venendo a Genova mi ha fermato la Polizia, mi hanno preso la macchina e l'appartamento. La mamma è andata ad abitare nelle case del Municipio, dove ha una sala che costa più di un milione, gliela ho comprata io quando facevo il carpentiere. Le regalavo soldi. Mio padre è a Genova e fa il magnaccio".

M.F. – 56 anni –

"Quando ero piccola giocavo con la quartarella, una specie di bottiglia con due manici, fatta di creta e cotta con il fuoco. La creta è nera, quando si cuoce diventa rosa. Giocavo con un altro bambino, facevo finta di bere e di mangiare. Da ragazzina ho imparato a ricamare. Facevo piccoli ricami su una pezza di filo di seta. Ero capace di fare il punto indietro e il punto erba".

Anno Scolastico 1998/99

 

 

Obiettivi e riflessioni

La tecnica di ricognizione biografica – inserita come strumento di lavoro elettivo di un corso di rialfabetizzazione di base per pazienti dimessi dagli ex OO.PP. e condotto da personale docente all'interno della Comunità in cui i pazienti vivono — induce alcune riflessioni.

Mi limito a proporle condensate in alcuni punti, così come la lettura del testo redatto dalle insegnanti le ha evocate in me.

  •  
  • Il valore del recupero anamnestico, del "darsi" una storia, magari confusa tra ricordi reali e fantasie, produzioni deliranti e confabulazioni, ha pur sempre una capacità ristrutturante, conferente senso e cornice al pensiero e all'esistenza rispetto al vuoto e al buio sul proprio passato (ricordiamo che i pazienti sono giunti a noi senza cartella clinica, con un'intera vita racchiusa in qualche riga di referto medico).
  • Il valore autoterapico e formativo di tutte le tecniche di autonarrazione (dalle psicoterapie in un setting definito al raccontare di sé ad un amico). Il raccontarsi come aspetto normale (tutti più o meno lo fanno) e normalizzante (parlare di sé fa bene) della vita di tutti noi.
  • Il valore più strettamente cognitivo dell'esperienza. L'insieme delle tecniche usate è rivolto a migliorare le capacità residue dell'Io del paziente, attraverso le sollecitazioni mnemoniche, i processi di analisi e sintesi che vengono stimolati, la concentrazione, l'attenzione, l'applicazione ad uno scopo, il dover stare in limiti di spazio e tempo, l'uso delle regole, il costante riferimento al test di realtà. E' collegato a questo il tentativo di rianimare la capacità di simbolizzazione che, nel caso dei cronici, non solo è perduta ma è rigidamente sclerotizzata nei suoi capovolgimenti e nelle sue perversioni.
  • Il valore relazionale, mediato attraverso l'uso ripetuto della conversazione condivisa, dello stare insieme all'interno di una comune esperienza (che ha un inizio, un decorso, e avrà una fine). Si realizza una piccola comunità nella Comunità, che ha suoi partecipanti e regole, e che dovrà poi relazionarsi, anche attraverso gli allievi, al resto del gruppo che ne è rimasto escluso.
  • L'aiuto offerto all'elaborazione del lutto (quello della propria vita, in quanto soggetti anziani), ma potremo dire dei numerosi lutti a cui i pazienti sono andati incontro nel loro percorso esistenziale (la perdita della salute, della propria casa, della libertà).
  •  

Molti sarebbero gli spunti.

Un solo anno scolastico di osservazione, peraltro iniziato in ritardo e con tutte le difficoltà degli inizi, non ci consente per ora di andare oltre. Ma l'esperienza continua.

Per quanto attiene agli obiettivi, torniamo ancora a sottolineare come debbano coesistere obiettivi specifici e obiettivi più generali, che potremmo chiamare aspecifici, o ad ombrello, che fanno riferimento al globale recupero di competenze da parte dei pazienti. Queste devono necessariamente abbracciare un arco esteso e complesso, che va dal riconoscimento del proprio Sé, al possedere una dignità personale, all'essere soggetti il più possibile attivi nel mondo .

Racconta Saint Exupery:

"Il Piccolo Principe traversò il deserto e non incontrò che un fiore. Un fiore a tre petali, un piccolo fiore da niente…..
- Buongiorno- disse il Piccolo Principe.
- Buongiorno- disse il fiore.
- Dove sono gli uomini?- domandò gentilmente il Piccolo Principe
Un giorno il fiore aveva visto passare una carovana: Gli uomini? Ne esistono, credo, sei o sette. Li ho visti molti anni fa. Ma non si sa mai dove trovarli. Il vento li spinge qua e là. NON HANNO RADICI, E QUESTO LI IMBARAZZA MOLTO"

( da ‘Il Piccolo Principe' di Antoine De Saint Exupery )

 

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