A partire da Grivois
Nella psicosi nascente, per Grivois, si riscontra con regolarità l’esperienza di essere al centro instabile e singolare del mondo: "il soggetto si sente proiettato nel cuore di un sistema senza limiti, con una polarizzazione che gli sembra al tempo stesso arbitraria e impensabile, pur diventando la matrice dei suoi rapporti con gli uomini" (H. Grivois, 1999). A questo "fantastico sentimento di essere il solo della propria specie, il solo al centro della specie umana", a questa esperienza vissuta all’insegna della passività, Grivois dà il nome di "esperienza centrale" o di "polarizzazione centrale". Si tratta di un’esperienza difficilmente raccontabile o per mancanza di parole in grado di descrivere e di tradurre un qualcosa vissuto con le caratteristiche dell’estraneità e della sorpresa assolute, o per la quasi certezza di non essere creduti, o di essere considerati folli, o ancora per un troppo pieno di informazioni.
La fase della centralità, suggerisce Grivois, è sottesa da un primo atteggiamento di "concernement" che significa essere l’oggetto dell’attenzione universale e che non è ancora polarizzazione centrale, e da un secondo di "centralité" dove si giunge alla certezza di essere il punto di riferimento attorno al quale tutto si dispone, di essere al centro del mondo.
Il primo atto della psicosi nascente è quindi caratterizzato dalla "sensazione di essere al centro della totalità degli altri" (polarizzazione), ma anche dalla "sorpresa di occupare da soli questa posizione" (singolarità) e dalla "incapacità di fornire a tutto questo un significato durevole" (arbitrarietà), le costruzioni deliranti essendo successive a questi vissuti parossistici. Questi fenomeni psicotici acuti iniziali seguono inoltre uno svolgimento pressoché costante: "rapidità d’instaurazione (da qualche ora a due o tre giorni), irreversibilità iniziale e durata ordinariamente di alcune settimane". Le possibili successive crisi psicotiche, anche se caratterizzate dal medesimo sentimento di vivere un accadimento di per sé unico, sono solitamente vissute con meno perplessità, stupore e angoscia rispetto al primo episodio: in questo senso per Grivois "la psicosi è veramente nascente una volta soltanto".
Grivois riassume le caratteristiche peculiari della centralità identificandole in: 1) sentimento di essere al centro della totalità degli uomini; 2) esperienza patica di ricoprire un ruolo unico; 3) esperienza di essere uno e tutti allo stesso tempo.
L’autore si sofferma inoltre nella descrizione di una particolare sensazione soggettiva che accompagna l’acuzie del momento, che di fatto si rileva frequentemente con i pazienti che vivono una fase acuta di tipo psicotico: questa sensazione può essere raccontata dal soggetto oppure, qualora non venga verbalizzata, viene comunque percepita controtransferalmente dal terapeuta. Grivois la descrive con queste parole: "…la sensazione di un’intensa accelerazione del funzionamento cerebrale, di una spinta ai limiti delle proprie prestazioni: sensazione spesso insopportabile ma impareggiabile, impressione panoramica di aderire al reale se non addirittura di precederlo, straordinaria fecondazione intellettuale". Si tratta di un pieno di senso, di una sensazione di grandiosità, di essere, appunto, al centro di un interesse generalizzato, di aver raggiunto una impensata popolarità: vi è un sentimento di reciprocità senza limiti, il pensiero del soggetto è in collegamento con quello degli altri che lo circondano, "tutto parte dal soggetto e ritorna a lui, nulla sfugge"; la sensazione di una estrema solitudine comunque è sempre contemporaneamente presente.
A tal proposito, opportunamente Gozzetti si chiede se l’essere al centro dei riferimenti deliranti (anastrophé secondo Conrad) viene per lo più passivamente vissuto o meglio subito. In altre parole, per Gozzetti, si manifesterebbe qui una peculiare intenzione nel malato che presupporrebbe un inconscio. Lo stesso Binswanger, a proposito del caso Ilse, affermava che la convinzione della paziente di essere messa al centro dell’interesse di tutti non teneva conto di una sua profonda richiesta di poter ottenere un’attenzione, di raggiungere una posizione centrale di dominio, una posizione narcisistica e megalomanica (Gozzetti, 1999).
Centralità come forma di disproporzione antropologica
Sirère, Naudin e Grivois (1999) ricordano che la nozione di "essere posti in un punto centrale" è stato sviluppato da Binswanger proprio nel caso Ilse la quale, in occasione di una lettura in comune che si era tenuta durante un soggiorno in una località climatica, crede di essere "posta al centro": le altre signore si siedono in modo tale da poterla osservare, nella novella di G. Keller vi ritrova abbondanti riferimenti a sé stessa e alla sua famiglia, alcuni personaggi alludono a lei e al padre, in breve è "al centro dell’interesse" di tutti (delirio di riferimento) (Binswanger, 1973).
Anche Ellen West, similmente a Ilse, denuncia uno stato di accerchiamento da cui non riesce a sottrarsi: "La vita si è per me trasformata in un campo di concentramento, ed io bramo la morte con lo stesso ardore con cui il povero soldato in Siberia brama il ritorno in patria. Io sono prigioniera: prigioniera in una rete dalla quale non posso liberarmi. Io sono prigioniera in me stessa…le maglie si stringono sempre di più"; e ancora : "Sono circondata da nemici…come sul palcoscenico. L’infelice cerca scampo…è accerchiato, non può più sfuggire" (Binswanger, 1973). E così, anche Jurg afferma di sentirsi al centro focale della critica, delle derisioni e dei sarcasmi; allo stesso modo Lola parla di accerchiamento, essendo questo costituito però non solo dalle persone ma anche e in genere dalle varie cose che quotidianamente incontra nell’ambiente in cui è costretta a vivere (D.Cargnello, 1982).
In riferimento al metodo della Dasainsanlyse di Binswanger, e nello specifico al concetto di "proporzione antropologica", Sirère, Naudin e Grivois propongono di definire la centralità come una "quarta forma" di esistenza mancata, specifica della psicosi nascente e complementare a quelle descritte da Binswanger: centralità come disproporzione spaziale della presenza, come un disequilibrio dell’esperienza dell’intersoggettività, intersoggettività che, come specificano gli autori, non è solo portatrice ma anche creatrice di significati.
Nella centralità tutta l’intersoggettività è al centro di un unico Io; è un’esperienza vissuta attraverso l’oscillazione tra un punto e l’infinito. "Essere al centro del mondo significa essere sé stessi e contemporaneamente tutto il mondo, è finalmente essere il e nel centro del mondo…; lo spazio intero è ridotto ad un punto che non è altro che l’infinito"(Sirère, Naudin e Grivois, 1999).
Nel momento stesso in cui un soggetto non riesce più a decentrarsi dalla posizione di centro del mondo, possibilità propria dell’esperienza naturale, " cambia prepotentemente la sua prospettiva; egli non è più in grado di incontrare gli altri e le cose; ha la sensazione che gli altri e le cose siano lì per lui, precipitando in una situazione di troppo pieno: è tutto troppo pieno, le percezioni, le sensazioni, i sentimenti, il mondo delle cose;…non c’è più spazio per il caso, non c’è più alcun sfondo neutrale in cui le persone possono muoversi, ma vi è l’angosciosa sensazione di un mondo che parla un unico linguaggio: il fisionomico acquista una importanza particolare con costante declinazione paurosa o persecutoria e i temi deliranti si evidenziano con sempre maggior chiarezza" (Cappellari, 2002).
Come sappiamo Binswanger (1992) descrive tre forme di esistenza mancata: l’esaltazione fissata, la stramberia, il manierismo. Esse vengono considerate come minacce incombenti sull’uomo, minacce immanenti, forme di fallimento, di mancata riuscita dell’esistenza umana. La caratteristica comune a tutte e tre queste forme di esistenza mancata coincide con l’"arrestarsi", il "giungere a una fine" dell’autentica mobilità storica dell’esistenza, in questo senso vicinissimi ai modi di esistenza della schizofrenia in quanto modi dell’"irrigidimento" della mobilità dell’esistenza, irrigidimento inteso come il rovesciamento dell’esistenza come storicità nell’astoricità.
"La vicinanza della schizofrenia alle forme d’esistenza dell’esaltazione fissata, della stramberia e del manierismo, anzi la loro temporanea identificazione, si basa quindi sul fatto che, dal punto di vista dell’esistenza, queste forme sono forme intermedie, disposte tra l’autentica mobilità storica dell’esistenza e un completo arresto di questa mobilità, forme quindi che permettono all’esistenza di affermarsi in qualche modo, per un periodo più o meno lungo "nel mondo"; ma ciò non nel senso della riuscita dell’esistenza, dello sviluppo della sua libertà, della sua pienezza e della sua forza creativa, bensì nel senso di un indugio sull’orlo dell’abisso…l’esistenza sprofonda in questo abisso nel momento in cui anche quelle forme d’esistenza non sono più in grado di resistere all’assalto della paura" (Binswanger, 1992; corsivi miei). L’evoluzione della forma morbosa è sottesa dallo sforzo continuo di sottrarsi a questa minaccia, di salvare la propria presenza, dal bisogno di garantirsi un "dove" potersi declinare liberamente. Cargnello (1953) descrive l’angoscia come l’appropinquamento al limite del nulla, un penosissimo Erlebnis di una minaccia indeterminata incidente sulla nostra presenza nel mondo, e il dinamismo che sorregge tale fenomeno ne risveglia un altro, di "salvazione", inteso a permutare l’angoscia in una paura determinata.
Nello studio dedicato all’"esaltazione fissata, Binswanger definisce la "proporzione antropologica" come il rapporto "felice" tra l’"ampiezza" dell’esperienza e l’"altezza" della comprensione della stessa. Se nel progettarsi in una direzione orizzontale, nel senso dell’ampiezza, l’esistenza umana prende possesso del mondo, "amplia il suo angolo di visuale", allarga la propria comprensione e visione globale del mondo, nell’espandersi nel senso dell’altezza ella (l’esistenza umana) supera la forza di gravità, innalzandosi al di sopra della "paura di ciò che è terreno", conquistando un punto di vista "superiore", appropriandosi di ciò che ha esperito, realizzando e diventando sé stessa.
L’immagine che Binswanger propone — la relazione tra la verticalità e l’orizzontalità — rende intuitiva la relazione tra l’ambire alla realizzazione delle proprie aspirazioni e del dover tenere conto delle effettive possibilità di attuazione.
Nell’esaltazione fissata (nella sproporzione antropologica) "l’esistenza sale troppo in alto, più di quanto sia consentito alla sua ampiezza, più di quanto le consenta il suo orizzonte di esperienza e di comprensione" (Binswanger, 1992); essa si perde in una determinata "esperienza", senza essere in grado di rivedere e di verificare l’"orizzonte della propria esperienza", non potendo più progettarsi in un futuro, fissandosi su un punto di vista "limitato".
Come scrivono Maggini e Raballo, "nella centralità è coglibile una infrazione di quel rapporto tra ampiezza dell’esperire e capacità elaborativa che sostanzia la ‘proporzione antropologica’ per una profonda distorsione in senso spaziale dell’orientamento umano".
Per meglio comprendere in che senso sia possibile parlare, nel caso della centralità, di una forma di esistenza mancata, caratterizzata nel senso di una disproporzione spaziale dell’esistenza, è a mio avviso necessario riportare in sintesi alcune nozioni fondamentali dell’analisi antropofenomenologica di Binswanger in relazione ai concetti di "mondo" e di "sé".
Presenza, Sé e Mondo. Il metodo della Daseinsanalyse.
Riferendosi al pensiero di W.Szilasi, secondo il quale "la presenza apprende come mondo esteriore ciò che essa stessa originariamente è", Binswanger scrive: "Poiché mondo sempre significa non soltanto il che cosa entro cui una presenza esiste, ma al tempo stesso il come e il chi del suo esistere, le forme del come e del chi, dell’essere-in e dell’essere-se-stesso risultano spontaneamente dalla caratterizzazione dei mondi in cui tale esistenza rispettivamente si svolge… Si aggiunga inoltre, in via preliminare, che l’espressione ‘mondo’ si riferisce in pari tempo a mondo circostante (Umwelt), a mondo della coesistenza (Mitwelt) e a mondo proprio (Eigenwelt), non certo però come compendio di questi tre mondi in uno solo, bensì come espressione designante i modi universali in cui il mondo in generale si costituisce in quelle regioni mondane" (Binswanger, 1994).
Il termine mondo viene usato nella precisa accezione che esso riveste nella locuzione heideggeriana essere-nel-mondo come trascendenza, il che significa che sempre, in questo essere-nel-mondo, l’essere oltrepassa sé stesso verso il mondo, al quale esso è sempre indissolubilmente legato. La trascendenza appartiene all’Esserci dell’uomo non tanto come suo possibile comportamento tra altri comportamenti possibili, ma come sua costituzione fondamentale, precedente ogni altro comportamento. Trascendenza significa, quindi, non solo progetto di mondo, ma anche progetto di sé, poter-essere-sé. Ecco che "…al posto del concetto di esperienze vissute (Erlebnisse) "interiori" e di avvenimenti "esteriori" si affaccia ora il concetto di situazione che riassume in sé soggetto e mondo, di una certa posizione di presenza e mondo" (Binswanger, 1994) "Colla locuzione essere-nel-mondo si deve pertanto intendere propriamente che l’uomo abita il mondo, in altre parole che c’è in preciso riferimento ai rapporti di destinazione e di rimando che gli fanno apparire come sensate le situazioni in cui di volta in volta egli viene a trovarsi iscritto" (Cargnello , 1982).
Quando il "mondo" (anche in questo caso, il "mondo" di cui si parla è riferibile, di volta in volta, a tutte e tre le regioni mondane) non si presenta più come un qualcosa di definito e riconoscibile, ma come contraddittorio, vago o estraneo, inquietante e perturbante, accade, contestualmente, che anche il sé subisce una trasformazione che fa vacillare la sicurezza di potersi decidere e affermare in modo autonomo. Binswanger parla di "mondificazione" per descrivere il travolgimento del sé ad opera di un mondo strapotente, dell’abdicazione del sé nei riguardi delle proprie possibilità esistentive e attuative: il sé è vincolato ad un unico progetto di mondo. "Sé" e "mondo", quindi, "sembrano additare una sorta di giusta proporzione in riferimento alla quale il sé risulta capace di affermarsi nel mondo senza esserne travolto…" (Cargnello, 1983).
Le tre forme di esistenza mancata a cui si riferisce Binswanger, rappresentano appunto alcune modalità con cui la presenza cerca in qualche modo di mantenersi per non arrendersi al mondo.
Centralità come quarta forma di esistenza mancata
Nell’esperienza della centralità il soggetto perde la possibilità di spazializzarsi in modo autentico; "compare imperioso il senso del non potersi sottrarre, dell’essere comunque e in ogni caso legato-a, fino al sentimento penoso dell’essere accerchiato, del non avere via di scampo, dell’essere un bersaglio" (Cappellari, 2002). Tutto, persone e cose, diventa prossimo, vicino, in un contatto troppo immediato: "…questi malati esperiscono lo spazio come se racchiusi in un "punto focale" verso cui convergono, insistentemente, opprimenti influssi altrui" (Cargnello,1983).
Il soggetto nella fase della centralità sembra costretto a subire un mondo che gli è "addosso", non riuscendo a distogliersi da esso, distanziarsi da esso, senza essere in grado di ri-prendersi in uno spazio dove sia possibile un libero coesistere.
Centralità, dunque, come disproporzione spaziale del Dasein, vero e proprio capovolgimento del modo in cui il soggetto si rapporta al mondo, dove "l’Io è prigioniero di un mondo diventato improvvisamente così saturo di significati e riferimenti da non permettergli più la libertà di scelta" (Cappellari, 2002), dove non c’è più spazio per una autentica modalità coesistentiva.
Tuttavia, ci possiamo chiedere se in una situazione così critica (quale quella, appunto, dell’Erlebnis della centralità) il soggetto riesca comunque a ricavarsi e/ conservare un suo spazio, nel cui contesto poter ancora aggrapparsi, appigliarsi, afferrarsi.
Significative a tal riguardo alcune riflessioni che Binswanger (1994) dedica al tema della metafora e della similitudine, quale linguaggio privilegiato che la presenza può adottare per descrivere il suo modo di essere: puro linguaggio della trascendenza attraverso il quale si esprimono i modi di essere di chi le enuncia, attraverso il quale si rendono intuibili i fatti antropologici, grazie al quale riusciamo ad apprendere noi stessi, nella nostra più profonda essenza.
Richiamandosi a Wilhelm Szilasi, secondo il quale il mondo delle immagini è anch’esso un mondo che non cessa di divenire, Binswanger (1994) scrive : "…l’umana presenza (Dasein) vede — come spettatrice, cioè come sé — se stessa nell’immagine, apprende ancora di se stessa sotto forma di un sapere per immagine, per similitudine. E’ sempre ancora trasparente a se stessa nell’immagine".
Nell’immagine, quindi, riusciamo ad apprendere noi stessi, nella nostra più profonda essenza.
Nella metafora in cui l’individuo "è come..;…si vede come se…", il processo di mondificazione (termine che Binswanger utilizza per designare contemporaneamente l’irretimento da parte del mondo, la limitazione della presenza ad una sola possibilità esistentiva, l’imposizione di un solo progetto di mondo) non è così spiccato da non permettere al soggetto di potersi ancora porre come spettatore di sé stesso, cogliendo direttamente nell’immagine l’essenza della sua modalità esistentiva, di essere ancora trasparente a sé stesso nell’immagine, di riacciuffarsi attraverso la similitudine. Quando invece il processo di mondificazione si è totalmente compiuto manca al soggetto la necessaria distanza per porsi come spettatore di sé stesso e nei confronti del mondo, venendo radicalmente coinvolto da questo (Cargnello,1983).
Ecco che se Ellen West parla dello stato di accerchiamento da cui non riesce a sottrarsi, dichiarandosi al centro di un destino, come se si trovasse su un palcoscenico, vediamo Suzanne Urban muoversi in uno spazio perentoriamente fissato una volta per tutte dall’altro da sé.
Binswanger (1994) propone una comparazione tra il modo di essere "delirante" di Suzanne Urban con quello "non delirante" di Ellen West: "Al contrario (di Ellen) la presenza (di Suzanne) non riesce più a guardare sé stessa da distante, non può più "riattingere sé stessa nell’immagine", come avviene nella similitudine. Caduta nel mondo come scena senza spettatori, la presenza come delirante non apprende più nulla di sé stessa. Ciò che apprende lo coglie (solo) dal suo mondo…Poiché anche nel delirio continua a progettare mondo, essa è ancora ovviamente nella trascendenza, peraltro non riesce più a ritornare dal mondo a sé stessa come sé".
L’esperienza clinica con i pazienti che vivono l’esperienza della centralità nella fase di una psicosi nascente, ci dimostra, di fatto, che se in alcuni casi i soggetti si vivono in uno spazio effettivamente così ristretto, angusto e avverso, all’insegna della più penosa recettività, passività, in altri casi assistiamo invece ancora da parte del soggetto ad una sua qualche possibilità di "movimento", testimonianza di una fondamentale capacità residua di dispiegarsi in tale spazio orientandosi in esso.
Dopo circa tre mesi dalla dimissione dal nostro reparto , dove era stata ricoverata per un episodio psicotico acuto, Liliana si sente meglio ma non dorme ancora bene, i "pensieri" ci sono sempre anche se più distanti: "a volte mi sembra che tutto sia passato, a volte ho ancora dei dubbi e quindi vuol dire che non sono ancora guarita del tutto; se rivivo quello che ho passato vuol dire che li penso ancora, che sono ancora dentro di me, che non sono passati del tutto." "Ero la protagonista di un film, non ero né io né tu ma il lei che ero io, io ero il lei di ogni cosa e in alcuni momenti mi sento ancora quel lei, la protagonista. Per molto tempo sono stata depressa, non ero più in forza, ero in balia degli altri, di tutto ciò che mi stava attorno; subivo tutto, non avevo la capacità di oppormi, vedevo tutto sotto una luce diversa, ovunque mi girassi tutto aveva a che fare con me, era una sensazione angosciante, non avevo più un punto di riferimento. Poi ho sentito che potevo io decidere come far andare le cose, come se fossi diventata la regista del film. Quello che è successo è come un libro scritto, una volta per tutte, è un libro che rimane e sta solo a me decidere se dimenticarlo o meno, o almeno ho questa sensazione. A volte leggo un libro scritto da un altro, altre volte lo sfoglio e so che l’ho scritto io e per questo non può scomparire. A volte subivo tutto, altre volte manovravo io il tutto, ero io la regista del film, l’autrice del libro. Essere la protagonista di un film girato da altri, essere la protagonista di un libro scritto da altri vuol dire non aver più la possibilità di essere me stessa. Quando sento che sono io ad aver girato e scritto tutto…questo vuol dire avere la possibilità di andare in cerca di una verità su di me".
Sembra che per Liliana ci sia stata la possibilità di "salvarsi" da una situazione che l’avrebbe gettata nella più pura angoscia, attraverso la conservazione di una certa "distanza" tra sé e il mondo ostile che la circondava, di un certo spazio (sia pur limitato) proprio, di una certa (sia pur esigua) "libertà": nel senso della costituzione di un mondo, sia pur delirante, che conserva ancora alcuni caratteri dell’ "immaginario", ancora non del tutto "reale", proveniente non solo da uno spazio "esteriore" ma anche da uno spazio proprio, "interiore". Per Liliana, di fatto, è ancora possibile comunicare con il mondo degli altri, sia con i familiari che nel contesto del mondo del lavoro, è ancora possibile raccontarsi prendendo delle distanze critiche da ciò che le è successo. Gli altri, per Liliana, non sono altri-estranei, come invece accade quando il processo di mondificazione è compiuto, ma altri con cui può avere ancora un contatto, sia pur precario.
Liliana sembra essere in grado di osservare quanto accadutole, di paragonare, di stabilire dei confini, testimoniando il mantenimento di una certa "misura".
Disproporzione spaziale, quindi, tra "mondo proprio", "mondo coesistentivo" (coumano) e "mondo ambientale" che, se nella libera realizzazione del sé si integrano, si dischiudono tra loro in modo ovvio e naturale, nelle fasi iniziali delle psicosi si articolano invece in modo alquanto problematico: il mondo proprio non si "appoggia" più fiduciosamente al mondo circostante e a quello degli altri, ma si contrappone in modo problematico e avverso a queste altre "regioni mondane", soprattutto al mondo coesistentivo.
Se in quella che potremmo chiamare una "giusta proporzione" tra "Sé" e "Mondo", tra affermazione di sé di fronte agli altri e rinuncia a sé per gli altri, tra polo egoico e polo mondano, il sé riesce ad affermare la propria singolarità senza sentirsi travolto dal mondo, nel caso di un fallimento di questo reciproco contrapporsi il sé è costretto ad adottare una modalità difensiva nei confronti di tale minaccia di esistere.
In una prospettiva antropoanalitica ciò che viene identificato dalla clinica come l’inizio della psicosi (nel nostro caso l’esperienza della centralità) in realtà non costituisce affatto un inizio, ma anzi il risultato di un lungo percorso esistenziale caratterizzato da un graduale e più o meno intenso processo fallimentare di affermazione del sé nei confronti del mondo, quale punto di arrivo di un processo, più o meno radicale, di spaesamento, di assorbimento del sé da parte del mondo. La fase della centralità sembra mettere in evidenza modalità e possibilità diverse di vivere il fallito rapporto tra sé e mondo, tra una pressoché completa arresa del sé di fronte al mondo e (come nel caso di Liliana) una parziale capacità da parte del soggetto di recuperare e mantenere una certa distanza osservativa e operativa nei confronti del mondo.
E’ importante ricordare che la fase della centralità non coincide solo con il momento particolare della psicosi nascente, ma la possiamo riscontrare frequentemente anche in altri momenti di un percorso psicotico come "modalità privilegiata di subire il mondo della vita ogni qualvolta si verifichi una situazione conflittuale che il paziente non riesce a gestire" (Cappellari, 2002), come una forma di risposta, di opposizione del soggetto a questo stesso processo di depossessamento del sé.
A me sembra che si possano rilevare fondamentalmente due diverse modalità con cui il soggetto può vivere la fase della centralità ; dirimente, a tal riguardo, è la diversa tonalità affettiva con la quale viene vissuta tale esperienza. Nelle fasi incipienti di una psicosi prevale solitamente (ma non sempre) l’esperienza di terrifico e di una estraneità che tende ad imporre primariamente (non riflessivamente) il suo sigillo in modo assolutamente perentorio. Sembra che tale tipo di esperienza, vissuta radicalmente all’insegna della passività, di un penoso senso di costrizione e di svuotamento del sé, di perdita della possibilità di sintonizzarsi con il mondo degli altri possa anche essere vissuta da altri pazienti, nella fase inaugurale della psicosi così come in altri momenti del percorso psicotico, nel contesto di un’atmosfera meno ambigua e meno angosciante, "ripresa" nei momenti di maggior difficoltà, quale possibile aggancio privilegiato nei confronti di un mondo che tenderebbe altrimenti a riproporre il suo strapotere nei confronti del soggetto.
L’esperienza della centralità può essere intesa come una (quarta) forma di esistenza mancata, nel senso di una disproporzione spaziale (dell’intersoggettività) dell’esistenza, nella misura in cui (in modo complementare alle altre forme di esistenza mancata individuate e descritte da Binswanger) in essa è possibile individuare una modalità "intermedia" di esistere tra l’autentica possibilità di spazializzazione e di storicizzazione della presenza, e il completo aggiogamento e caduta nella astoricità della medesima.
Nella fase della centralità, che, è importante ricordare, può durare anche molto a lungo, il soggetto sembra talvolta essere in grado di recuperare parzialmente una possibilità di operabilità e di ri-orientamento rispetto ad un mondo che si fa sempre più potente, addosso, minaccioso, affermandosi in esso, sia pur in modo difettuale, senza sprofondare del tutto nell’abisso della paura, senza essere consegnato una volta per tutte ad un mondo persecutorio.
APPENDICE
IL SIMBOLISMO DEL "CENTRO" NEI MITI E NELLE RELIGIONI
Nel mio contributo precedente "Sul concetto di centralità. Una lettura antropofenomenologica" sostenevo l’ipotesi che nelle fasi iniziali di una psicosi, così come in altri possibili momenti di un percorso di vita psicotico, la fase della centralità possa corrispondere (anche) alla possibilità da parte del soggetto di riposizionarsi in senso esistenziale di fronte alla perdita dei confini tra Sé e il Mondo. L’ottica con cui ho affrontato tale discorso è stata di tipo antropo-fenomenologico.
L’esperienza della centralità, intesa nel senso del potersi vivere al centro del mondo, si configura come una possibilità specificamente umana, antropologica, e ciò viene perentoriamente confermato anche dalla storia dei miti e delle religioni: ed è proprio sotto questo aspetto che vorrei ora tentare un ulteriore approfondimento di tale tema, evidenziando inoltre il rapporto che spesso si viene a strutturare tra la psicosi nascente e l’emergenza della dimensione del sacro.
Mutuando il pensiero di Ernesto De Martino (1977), si può dire che il documento psicopatologico della psicosi nascente mette a nudo il "rischio antropologico permanente" inteso come il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile, il perdere la possibilità di farsi presente operativamente al mondo, il restringersi, sino all’annientarsi, di qualsiasi orizzonte di operabilità mondana (si tratta, per De Martino, del crollo dell’"ethos del trascendimento", di quello slancio morale primordiale verso il valore, verso il compiersi di un senso).
Nella crisi psicotica ciò che muta è lo sfondo operativo domestico, che per quanto immerso da una parte nell’abitudinario e dall’altra nell’oscurità dell’inconscio, è altresì depositario della memoria biografica personale e storico-culturale che fondano e mantengono la ovvietà del mondo.
Nel vissuto delirante di mutamento che precede la crisi psicotica questo orizzonte domestico entra in crisi radicale, con la possibilità di oscillare tra due posizioni antitetiche che in fondo, però, si completano a vicenda: da una parte si assiste ad un drammatico spaesamento con la possibilità che gli oggetti diventino deboli, indecisi, arbitrari, opachi, senza significato, sprofondando nel nulla, mentre dall’altra parte gli ambiti percettivi possono, appunto per questo, diventare strani, bizzarri, meccanici, artificiali, assurdi, in un eccesso di semanticità indeterminata, esplosiva che riguarda la propria persona.
L’esperienza della centralità viene vissuta proprio nel contesto di questo eccesso di significazione, è ad esso contestuale. Mi sembra importante ricordare (e non a caso) che è proprio in tale fase che il paziente frequentemente vive esperienze a carattere cosmico, metafisico, mistico: "questa eccedenza di significazione aiuta lo schizofrenico nello sforzo di ricomprendere il mondo così come il mana aveva una funzione semantica nel rendere pieno e legittimo senso alla natura… per questo il tema magico-religioso del delirio si impone come viva esperienza allucinatoria quasi soltanto nelle fasi iniziali o finali di un episodio acuto o nei momenti più produttivi dei processi cronici" (Brazzini, Gemelli, Turci,1985).
Il ritorno alle origini
La storia dei miti mette in evidenza una singolare sensibilità religiosa, una ossessione del Paradiso, un timore di non comprendere in tempo i messaggi divini, con il rischio di morire in una imminente catastrofe cosmica. "I popoli attendono la fine del mondo o un rinnovamento cosmico o l’età dell’oro, specialmente in periodi di profonda crisi; essi annunziano l’imminenza di un Paradiso terrestre per difendersi dalla disperazione provocata dalla estrema miseria, dalla mancanza di libertà e dal crollo dei valori tradizionali…; ad un certo momento della loro storia, molti popoli primitivi credettero che fosse possibile tornare periodicamente ai primi giorni della creazione, che fosse possibile vivere in un mondo aurorale perfetto, com’era avvenuto prima che fosse stato distrutto dal Tempo e dalla Storia" (M. Eliade, 2000). Ciò che questo Autore chiama "la ontologia arcaica", dominata dal terrore della storia, sentita come peccato, consisterebbe nella risoluzione del divenire storico mediante la ripetizione degli archetipi mitici, degli eventi primordiali prodottisi una volta per sempre in "illo tempore", in una parola dell’atto cosmogonico.
Ci soffermeremo brevemente ad illustrare i concetti di Eliade di spazio e tempo sacro (1976, 1999) nell’ipotesi di poter gettare nuova luce sull’argomento in oggetto.
L’uomo prende coscienza del sacro perché esso si manifesta in modi del tutto diversi dal profano. Per tradurre l’atto di questa manifestazione del sacro, Eliade ha scelto il termine "ierofania", che etimologicamente significa "qualcosa di sacro che si mostra". Ogni ierofania è la manifestazione di qualcosa di completamente diverso, di una realtà che non appartiene al nostro mondo "naturale", "profano". Per coloro che hanno un’esperienza religiosa, tutta la Natura, il Cosmo nella loro totalità possono diventare una ierofania. Eliade si è soffermato a lungo ad illustrare quelle che possono essere considerate dimensioni specifiche dell’esperienza religiosa; tra queste meritano di essere riproposti i concetti di spazio e di tempo sacro.
L’esperienza della non-omogeneità dello spazio, di uno spazio sacro, è un’esperienza religiosa elementare, anteriore a qualsiasi riflessione sul mondo, paragonabile a una "fondazione del Mondo". Nel momento in cui il sacro si manifesta attraverso una qualsiasi ierofania, viene interrotta l’omogeneità dello spazio con la contemporanea rivelazione di una realtà assoluta: nella distesa omogenea ed infinita, senza punti di riferimento né possibilità alcuna di orientamento, la ierofania rivela un "punto fisso", l’asse centrale di ogni orientamento futuro, un "Centro". La rivelazione di un luogo sacro ha un chiaro valore esistenziale per l’uomo (religioso) dal momento che nulla può realizzarsi senza la premessa di un orientamento, nessun mondo può nascere dal "caos" della omogeneità e relatività dello spazio profano: la scoperta o la proiezione di un "Centro" equivale alla Creazione del Mondo.
Il Mondo, il Cosmo, inteso come territorio abitato e organizzato, si oppone ad un "altro mondo", spazio straniero, caotico, popolato di larve, demoni, stranieri; la trasformazione del Caos in Cosmo è la ripetizione di un gesto primordiale, la creazione dell’universo per opera degli dei. A livello del Centro, inoltre, i tre livelli cosmici- Terra, Cielo, Inferi- diventano comunicanti tra loro, con la possibilità di un passaggio, ontologico, da un modo di essere all’altro. "L’uomo religioso non può vivere che in un mondo sacro, poiché solo questo partecipa all’essere, esiste realmente….L’uomo religioso è assetato dell’essere. Il terrore di fronte al Caos che circonda il suo mondo abitato, corrisponde al suo terrore di fronte al nulla. Lo spazio sconosciuto esistente al di là del suo mondo, spazio non cosmizzato in quanto non consacrato, distesa amorfa priva di orientamento alcuno e di struttura, questo spazio profano significa per l’uomo religioso il non-essere assoluto. Se per sua disavventura egli vi si inoltra, si sentirà svuotato della sua sostanza "ontica", come se si dissolvesse nel Caos, e finirà per spegnersi. Questa sete ontologica si manifesta in ogni sorta di modi. La più sorprendente…è la volontà dell’uomo religioso di collocarsi nel cuore della realtà, al Centro del mondo….L’esperienza religiosa connessa al simbolismo del Centro sembra essere la seguente: l’uomo aspira a collocarsi in uno spazio con un’apertura verso l’alto, che lo mette in comunicazione con il mondo divino: vivere nei pressi di un "Centro del Mondo equivale, in definitiva, a vivere il più possibile vicino agli dei" (Eliade, 1976).
Ma vivere il più possibile vicino agli dei significa anche diventare "contemporanei degli dei", reintegrare il Tempo sacro originario, e questo attraverso la riattualizzazione del rito cosmogonico. Il Tempo sacro ha le caratteristiche di essere un Tempo circolare, reversibile e recuperabile, una specie di eterno presente mitico reintegrato periodicamente attraverso i riti. Con la ripetizione della cosmogonia il Tempo si rigenera, ricomincia in quanto Tempo sacro, coincidendo con l’illud tempus nel quale per la prima volta sorse il mondo; inoltre, partecipando ritualmente alla "fine del Mondo" e alla sua "ricreazione", l’uomo nasce nuovamente, iniziando una nuova vita con le forze che aveva al momento della sua nascita. Scrive testualmente Eliade (1976): "Si tratta di un ritorno al Tempo originale, il cui salutare scopo è quello di ricominciare da capo l’esistenza, di nascere (simbolicamente) un’altra volta. La concezione che sta alla base di questi riti di guarigione potrebbe essere la seguente: la Vita non si può accomodare, si può solo ricreare con la ripetizione simbolica della cosmogonia, essendo quest’ultima il modello esemplare di ogni creazione".
La riattualizzazione di un mito cosmogonico permette all’individuo, così come allo schizofrenico, di entrare in unione con il mondo cosmico, che psicologicamente si può interpretare come un superamento del microcosmo personale e un aprirsi alla vita universale, un entrare in relazione con la totalità della vita, il che si può anche esprimere dicendo che si è in relazione con Dio ( Marie-Louise von Franz, 1984).
Adattando alla psicopatologia le tesi di Eliade sul pensiero mitico, già Brazzini, Gemelli e Turci (1985) scrivevano che anche "il delirante ha lo scopo di ricreare un mondo: la sua lotta contro i persecutori che lo aggrediscono, contro le influenze che lo minacciano, è una continua ripetizione dell’atto cosmogonico che converte il Caos in Mondo; negando il trauma della propria storia individuale, egli rifiuta la categoria del tempo profano compiendone la sacralizzazione". Ma il delirante non si ferma all’abolizione del tempo profano, compiendo anche la sacralizzazione dello spazio profano: "il vissuto di riferimento che porta come reciproco della persecuzione subita l’assunzione della capacità magica permette allo schizofrenico di recuperare un margine di operabilità disponendosi al Centro dell’universo: oltre ad essere la sua mente sede di potenza decisionale che dall’io si estende al mondo, il suo corpo diventa il luogo di attuazione di questi magici svolgimenti. Così esso diventa lo spazio sacro che, nella storia delle religioni, Eliade ritiene simboleggiato dal mito del Centro (l’axis mundi, incontro di cielo, terra e inferno) sottratto alle trasformazioni dovute allo scorrere del tempo" (ibidem).
La fase della centralità psicotica non deve essere quindi concepita, da un punto di vista simbolico, come una "posizione" che il soggetto subisce in senso semplicemente statico, passivo. Semmai, come un "privilegiato" punto di vista che lo psicotico assume nei momenti di profonda crisi, punto di congiunzione dinamica tra le potenze che lo sovrastano e le proprie possibilità di affrontamento delle stesse. Il centro diventa il simbolo di una legge organizzatrice, in esso si percepisce l’opposizione dinamica tra mondo disorganizzato e mondo organizzato.
Se a noi è data la possibilità di comprendere i simboli del nostro inconscio, allargando il contesto del loro significato, rifacendoci ai miti, alla storia delle religioni, all’antropologia, allora molte di quelle che vengono considerate bizzarrie dei nostri pazienti psicotici non apparirebbero più come tali; o meglio la "bizzarria" e l’"incomprensibilità" potrebbero rimanere tali rispetto al perché della loro insorgenza, ma non nei confronti del loro contenuto. Il paziente psicotico può essere così aiutato a dar voce, a descrivere le proprie esperienze interne e a contenere queste pericolose esperienze emotive nel quadro di un fenomeno comprensibile simbolicamente e psicologicamente, perché profondamente radicato nell’essere uomo.
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