di L. CAPPELLARI, Primario Psichiatria, U.O.A. presso O. C. Camposampiero (PD)
Il confronto con l’esordio di una psicosi ci fa vivere inevitabilmente una inquietudine particolare, impregnata di angoscia, lasciando dentro di noi un ricordo profondamente impresso: lo stridente rumore dell’estraneità riempie lo spazio dell’incontro; è in queste occasioni che noi cogliamo fino in fondo l’origine della parola alienato, da alienus (altro da me); infatti se la rottura col mondo che il paziente ci presenta non può essere colta anche da noi e riassunta all’interno della storia del paziente, ecco che noi ci troveremmo subito a dover concludere che questa rottura sancisce una diversità, una incomprensibile distanza tra noi e il paziente.
La storia della psicopatologia fenomenologica è esattamente descrivibile come il tentativo di colmare questo jato, di tentare di comprendere le esperienze interne dell’altro anche quando esse appaiono incomprensibili ad un primo avvicinamento, di dare loro un senso, di cercare di studiare e evidenziare come certe esperienze vengono formandosi nel mondo interno, di ridare cioè in una sola parola il diritto a questi pazienti di essere ascoltati e di condividere con noi un cammino terapeutico. Come scrive Scharfetter, "lo psicopatologo parte dalla convinzione che il paziente non ha sintomi, ma vive delle esperienze".
Quando si parla di psicosi nascente si parla delle fasi iniziali della psicosi, non solo della schizofrenia. L’episodio delirante acuto o bouffée delirante costituisce una piccola parte degli esordi schizofrenici; Laboucarié ha sottolineato in un suo lavoro che il 45% dei casi di b. d. in età giovanile evolvono poi come disturbo bipolare; molti di questi episodi restano l’unico momento di "follia" nella vita di un uomo, contrapponendosi così a quella che H. Ey chiamava la "follia dell’esistenza" (cioè la schizofrenia). Ma qui non voglio occuparmi del prima o del dopo: di ciò che precede l’episodio acuto (la storia premorbosa, gli aspetti di vulnerabilità, tutta la ricerca dei fenomeni di base elaborata dalla scuola di Bonn etc.) e di ciò che lo segue, cioè la prognosi, che interessa relativamente poco allo psicopatologo; sappiamo oramai per lunga esperienza che trarre conclusioni troppo affrettate basandosi su alcuni sintomi o fenomeni o vissuti fa prendere spesso degli abbagli di non poco conto; il patognomonico nel nostro lavoro ha poco spazio.
La storia dell’uso fatto dagli Anglosassoni del concetto schneideriano di sintomi di primo rango insegna ancora … Mi interessa di più soffermarmi su alcuni punti chiave della psicosi iniziale, così come noi possiamo vedere nella nostra attività clinica.
Vorrei parlare di un altro concetto, quello della centralità. Vorrei iniziare partendo dalla esemplare descrizione che K. Conrad (1958) dà della schizofrenia iniziale (il libro a cui mi riferisco, come molti di voi sapranno, è "Die beginnende Schizophrenie"). Conrad, partendo da una base solidamente clinica ["nihil in psicopathologia quod prius in clinica non fuerit" (G. Lantéri-Laura)] arriva a descrivere un percorso-tipo, che è senza dubbio molto utile in senso euristico, anche se, evidentemente , non da assolutizzare. Le fasi di passaggio di questo percorso vi sono ben note: dapprima il TREMA, la fase prodromica in cui "l’intero campo psichico appare come circondato da barriere, la libertà viene sempre più limitata, si è formato uno stato di allarme, che richiede reazioni di allarme.
Contemporaneamente si modifica e si incrementa il livello della affettività di base, prende corpo uno stato di tensione continua, che è vissuto come inquietudine, senso di oppressione, depressione o paura". Con la comparsa della coscienza di significato delirante si ha la fase dell’ APOFANIA: "una fase che talora inizia con la comparsa di una atmosfera delirante, cioè con un cambiamento della fisionomia dell’intero ambito psichico, quale segno di un lento processo di destrutturazione del campo percettivo, nel quale il paziente avverte la fine di ogni sicurezza, tanto che deve mettere tutto in discussione. Il dubbio è alla base dell’umore delirante, non c’è spazio tra i fatti percepiti, non c’è la neutralità dello sfondo, nulla è più indifferente: "il paziente è come un bambino spaventato che cammina in un bosco". (Gozzetti, 1999)
Conrad segnala che la particolarità del dubbio in queste situazioni sta nel fatto che il paziente non è colpito da ciò che la gente fa o dice, ma da ciò che non fa o non dice.
E’ questa l’essenza del "sinistro", dell’unheimlich.
La fase dell’apofania è intimamente connessa all’ ANASTROPHÈ, cioè al vissuto di essere al centro del mondo, che noi prima abbiamo chiamato (riferendoci a molti altri Autori, in primis alla Scuola francese) centralità.
Con intuito straordinario Conrad scrive: "La percezione delirante della psicopatologia classica è percezione delle proprie caratteristiche in luce apofanica". "Parallelamente, in una unità indissolubile, avanza l’anastrophè: il soggetto si trova al centro del mondo, tutto ruota intorno a lui, egli ha perduto la capacità di cambiare, secondo la necessità, il sistema di riferimento o la prospettiva, con la quale è possibile vedersi dall’interno come soggetto fonte della propria percezione o giudizio e, contemporaneamente, dall’esterno nella relatività del vivere, come un piccolo uomo, come parte di un mondo umano condiviso. ….
Nell’anastrophè il paziente non è più in grado di fare la svolta copernicana ed è sistematicamente prigioniero all’interno del punto di vista tolemaico; l’Überstieg (il passaggio, il sorpassamento) non gli è possibile. Non potendo più praticare questo passaggio diviene prigioniero del proprio Io, sul quale, in una sorta di campo riflesso, è costretto a rivolgere di continuo il proprio sguardo mentre tutti gli avvenimenti del mondo girano attorno a lui.
Diviene unico al centro di un mondo nuovo, che è anche il suo vecchio mondo, non essendo altro che la proiezione delle sue qualità interne, delle sue caratteristiche: prigioniero del proprio io e del proprio mondo proiettato (Gozzetti, 1999).
Ancora Binswanger (caso Ilse) attira la nostra attenzione sul fatto che "l’essere al centro" è fenomeno che il paziente subisce: nel momento stesso in cui con lo spegnersi o il ridursi dell’attività dell’io, subentra la passività, si ha il capovolgimento del rapporto con l’altro.
Centralità, dunque, come modo specifico di essere-nel-mondo, come certezza non controvertibile di essere al centro della totalità degli uomini e dunque al centro del mondo.
H. Grivois considera la psicosi nascente come l’emergenza di un fenomeno in seno al quale la singolarità di un soggetto si dissolve al contatto con la comunità dei suoi simili. Così egli definisce la "centralità" e chiarisce che essa racchiude in sé sia il sentimento di essere soli al centro della totalità degli altri, sia la sorpresa nel cogliere costantemente di essere l’oggetto dell’essere generale.
Riassumendo, quindi, per H. Grivois la centralità è:
- Sentimento di essere al centro della totalità degli uomini.
- Esperienza patica di ricoprire un ruolo unico.
- Esperienza di essere uno e tutti allo stesso tempo.
La centralità, continua ancora Grivois, è dovuta ad un crollo della soggettività che deriva dall’incertezza della relazione con l’altro.
Come si vede, questa concettualizzazione di Grivois riprende il concetto conradiano di anastrophè: per questi Autori appare chiaro che l’entrata nella psicosi si caratterizza attraverso la certezza di essere al centro del mondo.
Binswanger, come abbiamo detto, sviluppa, nel caso Ilse, questo concetto di essere "posti in un punto centrale"; egli descrive questo vissuto nella sua emergenza psicotica ricordando che Ilse, nel corso di una lettura pubblica, aveva la sensazione di essere nel mezzo del cerchio formato dalle altre persone e che tutto ciò che accadeva e che veniva detto era diretto a lei.
Grivois, Naudin (et alii) hanno attribuito, in un loro recente lavoro, tanta importanza al fenomeno della centralità da proporre che esso possa costituire una "quarta forma di esistenza mancata".
E’ a tutti ben noto che Binswanger descrive tre forme di esistenza mancata: l’esaltazione fissata, la stramberia, il manierismo.
Proprio all’interno della descrizione della esaltazione fissata Binswanger introduce un concetto fondamentale che è quello della "proporzione antropologica": "l’esistenza umana, non solo si progetta in una dimensione orizzontale, nel senso dell’ampiezza, ma anche procede, sale verso l’alto… Se il rapporto tra l’ascesa e il procedere nel senso dell’ampiezza è felice, può essere definito "proporzione antropologica" (Binswanger, 1956 [trad. it. 1992]).
Per Grivois e per i suoi collaboratori la centralità rappresenta quindi una forma di sproporzione spaziale della presenza, in quanto essa rappresenta uno squilibrio dell’esperienza dell’intersoggettività.
"La centralità è la situazione in cui tutta la intersoggettività è al centro di un solo Io; … è l’esperienza in cui il sé e l’umanità tutta intera fanno un tutt’uno. Non esiste più allora un orizzonte comune, lo spazio intero è ridotto ad un punto che non è altro che l’infinito.
La centralità può essere indicata come una quarta forma di presenza mancata nella misura in cui essa è nel contempo una caratteristica specifica dell’esperienza psicotica e una possibilità umana.
Per essere un soggetto bisogna avere la possibilità di decentrarsi dalla posizione di centro del mondo.
Questo è l’Überstieg di cui parla Conrad, il passaggio da una posizione ad un’altra, da quella di chi osserva a quella di chi è osservato" (Sirere, Naudin, Grivois, 1999).
Nel momento stesso in cui il paziente non riesce più ad attuare questo passaggio, cambia prepotentemente la sua prospettiva; egli non è più in grado di incontrare gli altri e le cose; ha la sensazione che gli altri e le cose sono lì per lui, precipitandolo in una esperienza di "troppo pieno"; è tutto troppo pieno: le percezioni, le sensazioni, i sentimenti, il mondo delle cose.
Potremmo paragonare questo paziente ad una persona che, cercando di uscire da un labirinto, continua a sbattere contro ogni parete, ogni angolo, ogni ostacolo, senza poterli evitare e, nello stesso tempo, essendo sorpreso della molteplice ridda dei significati rinchiusi nel loro essere lì: non c’è più spazio per il caso, non c’è più alcuno sfondo neutrale in cui le persone possano muoversi, ma vi è l’angosciosa sensazione di un mondo che parla un unico linguaggio: il fisiognomico acquista un’importanza particolare, con costante declinazione paurosa o persecutoria, e i temi deliranti si evidenziano con sempre maggiore chiarezza.
Se tutto (persone e cose) è lì per me, compare imperioso il senso del non potersi sottrarre, dell’essere comunque e in ogni caso legato-a, fino al sentimento penoso dell’essere accerchiato, del non avere via di scampo, dell’essere un bersaglio.
Vorrei sottolineare come tutte queste esperienze abbiano una connotazione di carattere paranoide, intendendo con ciò l’incapacità di tenere il mondo a distanza: non potendo più sottrarsi all’insistente pressione del mondo, il paziente perde anche la propria capacità di intimità.
L’anastrophè rappresenta quindi un importante punto di riferimento nello studio dell’ingresso in psicosi.
Pensando a molti dei pazienti che ho avuto e che ho in cura, mi pare di poter affermare che l’esperienza della centralità connota in modo del tutto peculiare la modalità con cui il paziente conserva dentro di sé il ricordo della crisi psicotica: mentre lo stato d’animo delirante (l’atmosfera delirante, laWahnstimmung [WS]) è ricordato con paura e inquietudine, l’esperienza della anastrophè per molto tempo conserva un così assoluto carattere di realtà da non poter essere separato dal contesto dell’esperienza psicotica.
Nell’anastrophè non c’è più inquietudine o incertezza: c’è l’assoluta certezza di un insieme di percezioni che sommergono il paziente e che gli rivelano sempre di più i mille perché del mondo, delle cose e delle persone.
Nell’anastrophè la passività è un dato fondamentale: il paziente non si chiede, come nella WS, che cosa stia succedendo; non ricerca ansiosamente un significato, non si sente avvolto da una atmosfera ambigua e angosciante; nell’anastrophè noi assistiamo ad una sorta di capovolgimento epocale (non a caso Conrad parla di ritorno al sistema tolemaico) in cui tutto ciò che accade è potenzialmente attribuibile al soggetto e di fatto lo diviene.
Non siamo ancora all’interno della struttura formale della percezione delirante; questa certo è possibile ma non è la costante interpretativa della modalità esperienziale che lega il soggetto al mondo: nell’anastrophè il paziente è incapace di sottrarsi alla certezza imperiosa che il mondo della quotidianità, nelle sue multiformi e più svariate espressioni, possa riguardarlo, senza che noi peraltro possiamo scorgere in questo un fondamento di grandiosità; non c’è nulla di maniacale in tutto ciò; non vi è né euforia, né trionfo, ma un incoercibile, penoso senso di costrizione e di svuotamento di sé con parallela diminuzione della capacità di affrontare un mondo esterno troppo "pieno" (di senso, di riferimenti, di attribuzioni).
La centralità, proprio come forma di esistenza mancata, può perdurare a lungo in pazienti che pure non arrivano mai a quella che Conrad chiamava la fase apocalittica, caratterizzata dall’abnorme permeabilità tra io e mondo, con totale allentamento di ogni nesso associativo: la conseguenza, scrive Conrad, è "una mareggiata di essenze, una asyntaxis completa di immagini che inonda il campo totale, che diventa straordinariamente simile al vissuto del sognatore" (Conrad, 1958).
Molti pazienti superano la fase acuta della psicosi e rientrano in una normalità comportamentale — senz’altro grazie alle terapie ( farmacologiche e non ) da noi oggi utilizzate — che tuttavia non deve essere scambiata per guarigione.
Il seguire questi pazienti in modo continuativo permette di cogliere come la centralità resti una modalità privilegiata di subire il mondo della vita ogniqualvolta si verifichi una situazione conflittuale che il paziente non riesce a gestire.
E’ chiaro, a questo livello, la correlazione con il concetto di proiezione e di identificazione proiettiva.
Binswanger (1965) ha evidenziato i legami dell’anastrophè conradiana con il concetto di proiezione elaborato da Freud nello studio su Schreber. Gozzetti (1999) ha analizzato anche il ruolo del concetto di identificazione proiettiva, che forse riesce di più a caratterizzare, oltre all’elemento proiettivo, la qualità del legame che il soggetto mantiene con le proprie proiezioni, con il tipico ritorno persecutorio.
Se è proponibile, come dicevo, la correlazione con i meccanismi di difesa che noi chiamiamo proiezione e identificazione proiettiva, pur tuttavia la centralità non è riassumibile in questi meccanismi di difesa, proprio perché essa, come abbiamo detto anche dianzi, comporta una sproporzione spaziale del Dasein che è più che un meccanismo di difesa: è un vero e proprio capovolgimento del modo in cui il soggetto si rapporta al mondo; ed è un mondo così vicino, così incapace di essere neutrale da non lasciare respiro, da non permettere la dialettica dell’incontro; la persecutorietà di tutto ciò non è solo nei contenuti, ma nella stessa impossibilità a sottrarsi al confronto con le persone, le cose, le situazioni.
Appare ben chiaro, altresì, che la centralità non può non essere confusa con il delirio di riferimento, il Beziehungswahn di Kretschmer. Non a caso Jaspers classifica il delirio di riferimento sensitivo tra le idee deliroidi: "Vi è una relazione tra il tipo di carattere sensitivo e la trasformazione paranoica delle esperienze vissute. Errori sessuali si trasformano, per la vergogna e per il rimorso, in paura di essere scoperti, in delirio di essere osservati e infine in delirio di persecuzione" (K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie, 1913).
Ballerini e Rossi Monti hanno estesamente ampliato il rapporto tra il vissuto della vergogna e il delirio sensitivo di rapporto e al loro lavoro rimando.
Il vissuto della centralità è chiaramente più complesso e meno ancorato al tema: più complesso perché pone il paziente al centro di tutti i riferimenti che egli può cogliere, e quindi senza alcun vincolo ad un tema preciso; in altre parole, mentre il Beziehungswahn è il risultato di un conflitto che ha quasi costantemente come base di partenza il vissuto dell’onta, cioè di una tensione conflittuale tra l’Io e l’ideale dell’Io ("la vergogna — scrive Binswanger — mostra all’altro proprio ciò che vuole nascondergli"), nella centralità vi è una modificazione radicale: l’Io è prigioniero di un mondo diventato improvvisamente così saturo di significati e di riferimenti da non permettergli più la libertà di scelta; è questa che Binswanger chiama "progressiva sottrazione di libertà".
Di tutto questo non si può non tener conto nel trattamento di questi pazienti; l’approccio psicoterapico alla psicosi acuta consiste forse anche in questa capacità di usare le conoscenze della psicopatologia fenomenologica per non lasciare il paziente solo di fronte alla prepotente emergenza, all’onda d’urto di fenomeni quali la WS, la perplessità, la centralità.
Come scrivono Grivois e Naudin (1999), "parlare al paziente di questo vissuto di essere al centro del mondo, gli permette di mettere in parole un Erlebnis [un vissuto] altrimenti indicibile, permette di non dare dei significati proprio sull’istante ad un’esperienza che appare al paziente come un troppo pieno di senso e allo psichiatra, troppo spesso, come una perdita di senso".
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