Trattare dei disturbi del pensiero implica necessariamente di provare innanzitutto a definire cosa s’intenda per "pensiero". Compito arduo. Infatti il pensiero sembra connotarsi come un’attività onnipresente nell’uomo, quasi fosse una sorta di a-priori dell’esperienza, che ordina e rende comprensibile l’esperienza stessa. Tant’è che si usa dire che "non si può non pensare". E forse questo non è proprio vero, per quanto risulti a tutta prima difficile immaginare un "non-pensiero". Cartesio lo identificava addirittura tout court con l’essere stesso nella sua famosa formula "cogito ergo sum", penso dunque sono, che tanto pesantemente ha condizionato la cultura occidentale nello stabilire un fondamentale quanto limitante dualismo fra la mente e ciò a cui la mente si applica, fra le psiche e il corpo per andare più vicini alla nostra disciplina, fra la "res cogitans", cioè la "cosa pensante", ossia la mente, e la "res extensa", vale a dire la "cosa estesa", in senso fisico, e quindi la materia, i corpi che si vedono e si toccano. E’ probabile che anche Cartesio non avesse del tutto ragione. O perlomeno, più laicamente, possiamo dire che è certamente opinabile affermare che il pensiero preceda l’esperienza e che piuttosto non proceda da questa attraverso una successiva elaborazione e un arricchimento autoctono della semplice esperienza. Ma questo richiederebbe di addentrarsi in complessi discorsi epistemologici per i quali non abbiamo certamente competenza e che d’altra parte non sarebbero qui pertinenti. Cos’è dunque il pensiero? Un termine che usiamo spesso, quasi ne avessimo una sorta di cognizione immediata, ma di difficile definizione se non attraverso una descrizione che si avvale di altri termini che a loro volta andrebbero definiti. Allora potremmo dire che il pensare è l’analizzare, il giudicare, il mettere in relazione le cose, il raggiungere conclusioni e soluzioni, il conoscere, ma anche l’immaginare, il fantasticare per rispondere a bisogni emotivi interni e non solo per risolvere problemi. Infatti accanto a un pensiero logico-razionale abbiamo un pensiero immaginativo-fantastico e un pensiero intuitivo. Ci fermiamo qui, sebbene siamo consapevoli del fatto di aver definito il pensiero solo attraverso la sua manifestazione, il pensare. Per il resto ci affidiamo all’esperienza irriducibile che ognuno ha del pensiero e del pensare.
Tralasceremo i disturbi della forma del pensiero, vale a dire quelle alterazioni patologiche del "come" si articola e sviluppa il pensiero nel tempo e nella sua manifestazione patente, il discorso, e ci occuperemo invece dei disturbi del contenuto del pensiero, cioè del "cosa" il pensiero articola o sviluppa o tematizza. E in questo ambito il delirio occupa una posizione predominante, ponendosi come uno dei fenomeni più suggestivi e immediatamente impressionanti della comune concezione della pazzia e, in ambito più specialistico, a volte indicato addirittura come uno dei fondamenti o delle articolazioni espressive più importanti delle psicosi, i disturbi psichici in cui è compromesso quell’esame di realtà che è alla base della condivisione di significati e quindi della comunicazione tra gli individui. Accenniamo però prima brevemente a un altro disturbo del contenuto del pensiero, che non ha necessariamente carattere patologico, che è l’ideazione prevalente, nella quale l’attività di pensiero si concentra su alcuni contenuti, in dipendenza di particolari stati emotivi, in maniera provvisoria o duratura, che dominano su tutti gli altri e tuttavia sono accessibili alla critica e motivati da eventi reali o comunque possibili. Un esempio è il pensiero prevalente di un prossimo esame da parte di uno studente preoccupato, o quello di un attivista politico o religioso intorno al nucleo fondamentale della sua ideologia e della sua fede. Questi due esempi c’introducono alla possibilità che, spostandosi su un versante patologico, l’ideazione prevalente diventi fobia, per esempio la fobia scolastica di uno studente con successivo comportamento evitante (non si presenta più agli esami o non va più a scuola), oppure che, spostandosi su un altro versante, venendo meno la possibilità di sottoporre a critica l’idea, diventi, per l’appunto, delirio (un delirio mistico nell’individuo religioso o per esempio un delirio di riforma in un individuo con velleità politiche). Tolte queste aberrazioni qualitative e quantitative, l’idea prevalente non è di per sé indice di psicopatologia, anche se può essere presente come fenomeno accessorio in disturbi d’ansia e depressivi, con aspetti fobico-ossessivi. Qualitativamente diversa è l’idea ossessiva, nella quale il contenuto mentale che il paziente riconosce come assurdo (per esempio il pensiero incoercibile che possa occorrere senza validi motivi una disgrazia a sé o ad altri e il conseguente sentirsi costretto a recitare una particolare formula per scongiurarne l’eventualità) s’impone tuttavia alla sua coscienza e al suo pensiero con le caratteristiche della coazione, come qualcosa di estraneo eppure insopprimibile. Una sorta di "pensiero-parassita".
Torniamo al delirio. Come spesso accade l’etimologia di una parola è un buon punto di partenza per cercare di coglierne il senso. "Delirare" è un verbo latino composto dalla particella "de" (da), indicante allontanamento, e "lira" che significa "solco". In origine dunque voleva dire "uscire dal solco" o, come diremmo oggi, "dal seminato". Quindi, per progressiva astrazione, "uscire dalla via della ragione", "farneticare", "vaneggiare".
Parlando di delirio non possiamo fare a meno di far riferimento a Karl Jaspers, psichiatra e filosofo tedesco del secolo scorso, che ha fissato le basi epistemologiche e cliniche del delirio, in modo ancor oggi vincolante per chiunque si confronti con tale fenomeno, nella sua "Psicopatologia Generale" (1913-1959). Per Jaspers il delirio consiste in una trasformazione profonda ed estensiva della coscienza della realtà che si manifesta secondariamente nei giudizi di realtà, vale a dire in ciò che il delirante giudica ed esprime intorno a quella che egli percepisce come realtà. Quindi il delirio si verifica nell’esperienza e nel pensiero della realtà e si comunica in giudizi di realtà. Ciò equivale a dire che solo laddove si opera con il pensiero e si esprime un giudizio può insorgere il delirio. Alla trasformazione del giudizio di realtà aggiungiamo la perdita dei confini tra realtà interna e realtà esterna come ulteriore elemento caratterizzante il delirio.
In definitiva cos’è che distingue il delirio da qualsiasi altro convincimento o contenuto di pensiero? Jaspers indicò tre "criteri fondamentali": 1)la certezza soggettiva, la straordinaria e impareggiabile convinzione con la quale vengono mantenuti i contenuti deliranti; 2)l’incorreggibilità, il fatto cioè di non essere influenzati dall’esperienza concreta e da confutazioni anche stringenti; 3)l’impossibilità o lafalsità del contenuto.
A un più attento esame dei tre criteri jaspersiani apparirebbe facilmente chiaro che nessuno di essi, preso singolarmente, è sufficiente per distinguere un’ideazione delirante da un’ideazione normale e, d’altro canto, nemmeno la loro combinata e contemporanea considerazione sarebbe in tutti i casi possibili dirimente.
La certezza soggettiva è certamente un criterio piuttosto aspecifico, dato che esistono visioni del mondo di tipo religioso, filosofico o scientifico che non possono essere certamente definite deliranti.
L’incorreggibilità è invece un parametro più specifico e importante. Sembra infatti peculiare dell’esperienza delirante la sua assoluta non modificabilità di fronte ad argomentazioni logiche e all’evidenza. E’ bene dire che anche alcune certezze non deliranti talvolta appaiono incorreggibili nella sostanza e nella pratica, ma almeno in linea teorica o parzialmente sono considerate, da chi le esprime, oggetto di confronto e di potenziale rettifica.
Il criterio dell’impossibilità o della falsità del contenuto del pensiero delirante è di nuovo invece piuttosto problematico e apre la strada a potenziali, infinite disquisizioni sulla relatività di ciò che in un determinato tempo, in un certo luogo, rispetto a certe credenze, può essere valutato come impossibile o falso. E’ per tale motivo che, nella definizione del delirio, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) dell’American Psychiatric Association (APA) sottolinea esplicitamente che il contenuto del convincimento delirante deve discostarsi significativamente dalla cultura o dalla sub-cultura di provenienza dell’individuo che lo esprime (ad esempio la credenza nella "fatture" in società più primitive, a minor sviluppo sociale e tecnologico).
Ai sopra accennati criteri "classici" della definizione del delirio ne va dunque affiancato un quarto che sembra essenziale per una sua migliore e ulteriore caratterizzazione: la sua struttura auto-centrica. Con questa espressione si vuole enfatizzare la circostanza per la quale i temi deliranti sono quasi sempre incentrati sul soggetto che li esprime, si situano cioè all’interno di un pressoché costante autoriferimento personale e molto più raramente riguardano visioni del mondo, interpretazioni filosofiche, religiose o scientifiche. Nell’esperienza delirante il paziente è al tempo stesso il soggetto e l’oggetto dei contenuti deliranti: tutto si rivolge costantemente alla sua persona; egli è il centro intorno al quale ruota la sua trasformazione fantastica della realtà. Pensiamo a quei pazienti che si sentono vittime di complotti e di persecuzioni, magari da parte di complesse e grandiose strutture segrete e associazioni che si muovono per e contro di loro con tutto il loro apparato (delirio di persecuzione). Oppure a coloro i quali sono in comunicazione con la divinità e magari ne acquisiscono alcuni poteri e prerogative o una qualche missione da compiere (delirio mistico). O a chi ritiene irriducibilmente di essere amato da un personaggio in vista che magari gli invia anche messaggi d’amore cifrati (delirio erotomanico). E gli esempi potrebbero continuare a lungo, ma non c’è chi non veda in essi la costante autoreferenzialità, il fondamentale movente narcisistico profondo della costruzione delirante. E questo c’introduce al possibile significato esistenziale del delirio che, al di là del riscontro obiettivo delle condizioni formali e contenutistiche suddette, può essere colto nella sua composita interezza solo considerandone anche il valore di tentativo di organizzare e mantenere, benché in maniera aberrante, un contatto col mondo esterno a fronte di una fragilità o di una minaccia di disgregazione proveniente dal mondo interno. Infatti lo stato psicotico può essere visto anche come la soluzione migliore che l’apparato psichico è in grado di trovare in determinate circostanze con le risorse di cui dispone, cioè ha a che fare con la capacità degli individui di adattarsi sacrificando una parte di sé. D’altra parte alcuni scienziati cognitivi sostengono che la mente umana si comporta come una prodigiosa macchina per risolvere problemi e al tempo stesso come un formidabile dispositivo per produrre autoinganni.
Nel delirio autoinganno e sacrificio del Sé sono appunto all’opera. Quando, posto di fronte al mondo, il soggetto è incapace di sostenerlo, perché vulnerato da fattori biologici o biografici, può affrontarlo dopo avere inforcato lenti deformanti. Il delirio può essere quindi considerato da un punto di vista psicologico come un tentativo di ricomporre una soggettività ferita, nel senso più ampio del termine, da situazioni di vita, conflitti consapevoli e inconsci, vulnerabilità biologiche di vario grado. Per reagire a questa ferita che minaccia di renderlo impotente, il soggetto rimbalza, per così dire, verso un’affermazione prepotente di se stesso, riconquistandosi al mondo attraverso una rilettura deformata della realtà. Le modalità di fondo con cui avviene questo processo sono state individuate da tempo dalla psicoanalisi: la "negazione", consistente nel disconoscere che certi contenuti mentali o emozioni appartengano a sé; la "scissione", cioè separazione manichea delle cose, delle emozioni e degli individui (bene-male, giusto-ingiusto, buono-cattivo); la "proiezione", cioè attribuzione agli altri di certe proprie istanze o desideri o impulsi; e infine la già vista "centralità del soggetto" per cui tutto il mondo converge su di lui, guarda lui, si occupa di lui, perseguita lui.
Oltre alle forme di delirio di più frequente riscontro nella pratica clinica cui abbiamo accennato brevemente più sopra (delirio di persecuzione, delirio erotomanico, delirio mistico), ve ne sono di più rari e curiosi. Praticamente ogni area del pensiero umano può essere deformata da questo fenomeno. Alcuni esempi: il delirio di trasformazione corporea, in cui esiste il convincimento abnorme di trasformazione di parti del corpo (per esempio che il cervello sia putrefatto o che un organo sia fatto di vetro); il delirio metempsicosico, consistente nel convincimento di vivere nel corpo di un’altra persona; il delirio palignostico, in cui il paziente è convinto di conoscere o riconoscere persone a lui in realtà completamente estranee. Più frequenti il delirio di gelosia, nel quale si manifesta la certezza irriducibile di un tradimento da parte del partner, il delirio di grandezza, che può avere temi più particolari come la propria genealogia, una riforma, un’invenzione, l’erotomania, tutti comunque accomunati da un’abnorme valutazione di sé e caratteristici degli episodi maniacali del Disturbo Bipolare, e, purtroppo, i deliri depressivi, che possono manifestarsi nella depressione grave, psicotica, del Disturbo Depressivo Maggiore o dell’episodio depressivo del Disturbo Bipolare, riguardanti convincimenti irriducibili di rovina, di colpa e di auto-accusa, d’inguaribilità, di fine del mondo e di morte di tutto (il cosiddetto Delirio di Cotard).
Ancora bisogna distinguere fra deliri che si manifestano nell’ambito di uno stato di coscienza conservato e che presentano un certo grado di complessità e strutturazione (deliri lucidi), e si ritrovano nei disturbi che ci riguardano più da vicino (schizofrenia, soprattutto paranoide,sindromi schizoaffettive, disturbi dell’umore gravi, con manifestazioni psicotiche, disturbi deliranti cronici), e deliri che si sviluppano invece in corso di stati patologici che comportano anche una compromissione dello stato di coscienza, e perciò meno strutturati, come lo stato confusionale acuto, le sindromi organiche in generale con sintomi psichici, gli stati tossici (deliri confusi). Ma per una più esaustiva e puntuale tassonomia dei deliri si rimanda alle ben più autorevoli trattazioni indicate nella bibliografia.
Quale infine l’atteggiamento da tenere di fronte al delirio? Naturalmente dipenderà anche dal disturbo di base sul quale esso s’innesta, dalle sue modalità di sviluppo acuto o cronico, dall’individuo particolare che lo esprime. In generale bisognerà tenere conto che: per sua struttura e definizione il delirio non è accessibile a critica e nelle condizioni patologiche nelle quali è presente più spesso o sempre non vi è consapevolezza di malattia (carattere, questo, determinante nelle psicosi); esso assolve comunque, come già accennato e sebbene a prezzo di una grande sofferenza soggettiva, per lo più una funzione difensiva di fronte alla minaccia di una frammentazione dell’identità del soggetto ancor più grave di quella già in atto e un tentativo di organizzare un rapporto col mondo, benché abnorme. Ciò è confermato dalla non infrequente evenienza di uno stato depressivo, di una tendenza al ritiro e a una minore partecipazione emotiva alle cose quando il delirio sia scomparso grazie all’utilizzazione dei farmaci antipsicotici.
Nelle sindromi deliranti acute, in cui esso si accompagna spesso a uno stato di coscienza alterato, confuso e simile al sogno, e a un notevole grado d’angoscia, è certamente importante il contenimento dell’angoscia stessa, la rassicurazione, il far sentire al paziente la vicinanza e la presenza umana, anche attraverso l’accudimento del corpo. Questo vale anche per i deliri che si sviluppano nell’ambito di malattie organiche e negli stati confusionali acuti. Nei disturbi deliranti cronici e nella schizofrenia paranoide occorre tener presente che, date l’assenza di consapevolezza e la notevole partecipazione emotiva ai temi deliranti, è sicuramente inutile oltre che improduttivo ingaggiare una battaglia col paziente cercando di confutare ciò che per lui è irrefutabile. D’altro canto però ci si deve guardare dal colludere più o meno implicitamente o esplicitamente col pensiero delirante, riconoscendo invece e convalidando, questo sì, le emozioni, lo stato d’animo che lo accompagnano, ricordando che questi sono assolutamente reali e per lo più spiacevoli. L’esperienza del paziente va cioè in generale accettata, cercando, insieme a tutta l’équipe curante, di costruire un’atmosfera positiva che può portare il paziente, perlomeno in un secondo tempo, per esempio quando la terapia farmacologica abbia prodotto qualche beneficio, a esaminare criticamente possibili alternative. Questo non vuol dire essere insinceri. Richiesti per esempio da parte del paziente di un parere sul suo modo di vedere e di percepire le cose, si può anche rispondergli sinceramente che, al di là di ciò che ne pensiamo noi, quello che ci interessa e che consideriamo assolutamente reale e degno di considerazione è ciò che egli prova di fronte alla sua percezione delle cose e che ne comprendiamo la sofferenza e l’angoscia che ne derivano. Quello che facciamo cioè è, con espressione tecnica, una "convalidazione empatica" del suo vissuto e del suo disagio senza un avallo del contenuto particolare del delirio, tenendo presente quella massima aurea che ci rende consapevoli che, essendo umani, nulla di ciò che si esprime nell’umano ci è alieno. Neanche ciò che si esprime in chi un tempo veniva chiamato appunto "alienato", ma che invece "alieno" non è, ma piuttosto è "altro" da noi, come ognuno lo è per chiunque altro, ma partecipa della stessa, fondamentale natura umana.
0 commenti