di Eugenio Borgna
PREMESSA
Ci sono premesse che condizionano il senso di ogni discorso in psichiatria (e di ogni essere-psichiatra) e che è necessario chiarire nelle loro fondazioni metodologiche. Non c'è psichiatra senza una qualche premessa filosofica, o ideologica, che lo proponga. Se così non fosse, non si capirebbe come ci possa essere, o almeno possa essere prospettata, una psichiatria sociale che diventi socio-iatria o una psichiatria naturalistica che si trasformi in encefalo-iatria. Se si fa della socioiatria, o della encefaloiatria, intese come aree antinomiche e assolutizzate, alle quali sacrificare ogni esperienza, ogni conoscenza e anche ogni utopia della psichiatria, ogni discorso di psicopatologia si esaurisce e si nientifica: in questo caso, cioè, discutere di psicopatologia, di autonomia e di realtà della vita psichica, di soggettività e di intersoggettività, di plasmabilità e di interscambiabilità di esperienze tra chi cura e chi è curato, si fa discorso destituito di fondazioni e perduto in astrazioni e orizzonti di insignificanza. Non solo: il modo di essere-psichiatra, e di fare-psichiatria (l'identità dello psichiatra), cambia di conseguenza.
I conflitti delle interpretazioni sulla costituzione epistemologica e sulla natura dell'oggetto (1a vita psichica o la vita biologica) in psichiatria sono, certo, insanabili; ma, al di là di ogni teoria, la psichiatria clinica non può essere negata nella sua realtà e nelle sue articolazioni tematiche, e contestualmente non può essere negata la significazione che in essa assume la psicopatologia come discorso sulle manifestazioni psicopatologiche: sui fenomeni che si muovono nello sfondo della vita psichica considerata, almeno euristicamente come dice Kurt Schneider (1962), come area di esperienza distinta da quella somatica (biologica).
Non c'è, dunque, psichiatria clinica senza psicopatologia che la fondi nelle sue articolazioni diagnostiche e sindromiche. Certo, non c'è nemmeno psichiatria clinica senza una impostazione farmacologica (biologica); ma la cosa essenziale è quella di tenere presente che, nell'una e nell'altra psichiatria, si ha a che fare con una diversa immagine della psichiatria e con una diversa immagine dell'essere-psichiatra.
NEL FARE PSICHIATRIA NON SI PU0’ FARE A MENO DI PSICOPATOLOGIA.
La psichiatria non è la psicopatologia, anche se l'una non può fare a meno dell'altra. La psichiatria e la psicopatologia sono, cioè, due realtà dialetticamente connesse che non possono essere scisse: e in ciascuna di esse si nascondono nuclei problematici e contraddittori. La posizione di Karl Jaspers in ordine alla delimitazione di psichiatria e di psicopatologia è stata la più drastica e la più sferzante nel contrasto della sua celebre Allgmeine Psychopathologie (1959): la psicopatologia è scienza, la psichiatria è scienza applicata (empirica) che si esaurisce nella conciliazione impossibile fra le realtà psicopatologiche e quelle somatologiche. La psichiatria, sosteneva a sua volta Klaus Conrad in quel testo straordinario che è Die beginnende Schizophrenie (1966), non è se non in conoscenza pratica(Kennershaft) che si muove sul piano della intuizione e della sensibilità intuitiva (simpatetica).
L'immagine, che ho della psichiatria e dell'essere-psichiatri in psichiatria, la mia identità di psichiatra, non avrebbe senso se non si confrontasse con la psicopatologia: con la sua realtà e con i suoi metodi. La mia identità di essere-psichiatra, senza di essa, si frantumerebbe in mille pezzi.
L'impostazione dei discorso jaspersiano, così drastico e radicalizzato (quasi manicheo), ha origini cartesiane nella sua separazione assiomatica della vita psichica dalla vita biologica. Al di là dei suoi meriti immensi e rivoluzionari nella fondazione della psicopatologia e nella rivalutazione della soggettività dei paziente (e dei medico) in ogni processo di conoscenza, il pensiero di Karl Jaspers si arena in questa dicotomia epistemologica che, del resto, si è ammorbidita poi nel contesto di quella che è stata la più originale e rigorosa psicopatologia post-jaspersiana; quella di Kurt Schneider (1962), che, aumentando le tensioni e le antinomie teoriche, ha riconsiderato la psicopatologia nei suoi significati e nei suoi orizzonti di disciplina almeno convenzionalmente autonoma nei confronti della psichiatria ma nondimeno profondamente immersa nella realtà clinica.
La psicopatologia diviene in Kurt Schneider, anche, paradigma essenziale per ogni discorso di fondazione e di formazione in psichiatria. Non c'è articolazione diagnostica in psichiatria che possa prescindere, se si vuole salvare la psichiatria nella sua dignità di scienza umana (di scienza dialogica), dalla riflessione sui modi di essere dei fenomeni soggettivi della vita psichica. Nella impostazione fortemente clinica di Kurt Schneider, la psicopatologia costituisce la via regia alla diagnosi; ogni descrizione e ogni analisi psicopatologica sono essenziali anche solo al fine di giungere alla diagnosi. Le configurazioni cliniche in psichiatria (le sue 'malati') sono sostanziate di sintomi (di segni) psicopatologici: che possono essere colti e descritti solo mediante la utilizzazione delle categorie psicopatologiche di discorso e di pensiero.
Questa è una prima radicale considerazione sulla significazione formativa della psicopatologia in psichiatria.
Certo, noccioli concettuali oscuri e inafferrabili si nascondono in ogni psichiatra e in ogni psicopatologia: anche in quella schneideriana così lim-pida e così ancorata alle finalizzazioni cliniche. La psicopatologia illumina il divenire e il tematizzarsi dei fenomeni della vita psichica: ma nella misura in cui si riflette e si ricollega alla somatologia, al discorso sui modi di essere, al- meno presunti, della vita somatica, nascono ambiguità e conflittualità senza fine. Così, nel senso di Kurt Schneider (1960), la psichiatria non è in ultima istanza se non meta-fisica; e questo perché la psichiatria ha a che fare con questo nocciolo di irrazionalità, di insolubilità concettuale che si configura inesorabilmente quando vita psichica e vita somatica, psicopatologica e so- matologica, si confrontano dialetticamente. Il termine di meta-fisica è inteso qui non nel senso di Aristotele ma nel senso di Nicolai Hartmann. Non è estraneo al problema della formazione in psichiatria anche in questo riflettere sulle difficoltà e sulle antinomie fatalmente presenti in psichiatria, e sulla necessità di non rimanere prigionieri di una routine che non abbia a pensare e si abbia a ridurre in una semplice tecnica: la tecnica non pensa come ha drasticamente affermato Martin Heidegger (1976).
L'ESSERE-PSICHIATRA E IL FARE-DIAGNOSI IN PSICHIATRIA
Ma la psicopatologia si fa ancora necessaria a costituire la identità dell'essere-psichiatra nella misura in cui essa consenta di fondare e articolare non diagnosi nosologiche ma diagnosi sindromiche: diagnosi che hanno a che fare con sindromi cliniche e non con malattie in senso medico.
Cosa significa questo discorso di rifunzionalizzazione della diagnosi in psichiatria? Nulla di rivoluzionario, certo, ma solo la riflessione radicale sugli stati di cose che ogni psichiatria dialettica, come quella di Weitbrecht e Glatzel (1979) o quella, incomparabile nella sua originalità, di Ludwig Binswanger (1957), non può non incontrare davanti a sé e non può non tematizzare.
Il sogno, che in lui era ovviamente certezza assoluta, di Emil Kraepelin di descrivere e di constatare, in psichiatria, unità naturali di malattia, modellate sull'esempio della paralisi progressiva, non si è realizzato: il modello medico non si applica automaticamente alla suddivisione e alla articolare di quelle che sono le 'malattie' psichiche. Ancora il discorso di Kurt Schneider (1962) che, nei suoi lavori, ha continuato ad affermare che, in psichiatria, la diagnosi di schizofrenia e di depressione endogena (ciclotimica), e a maggior ragione quella di esperienza neurotica e di disturbo di personalità, non sono diagnosi nosologiche ma solo diagnosi sindromiche. Non si fa diagnosi di schizofrenia, o di depressione ciclotimica, sulla base di elementi clinici esterni alla soggettività dei pazienti (ci avvicinano, ovviamente, al cuore dei problema che vorrei delineare, qui) e, cioè, sulla base del decorso e della fredda valutazione dei 'sintomi' che non possono essere intesi, e interpretati, come avviene in medicina, nel senso di indici (di indizi) di malattia: secondo essi, invece, estraneamente mutevoli e cangianti nel contesto, anche, di quelle che sono le sollecitazioni interpersonali e ambientali. Non ci sono sintomi lineari e bloccati; e la diagnosi in psichiatria è possibile solo sulla base delle configurazioni sindromiche: della associazione di sintomi accessibili solo alla ricerca psicopatologica.
Il discorso sui sintomi in psicopatologia e in psichiatria, – questa non può prescindere da quella come siamo venuti dicendo -, è essenziale non solo teoricamente ma anche clinicamente (praticamente).
Teoria e prassi, come ha splendidamente dimostrato H.G. Gadamer (1989), sono strettamente legate l'una all'altra; ma questo non significa ovviamente assolutizzare questa affermazione: ogni teoria si deve confrontare con la prassi e deve rimodularsi, ed eventualmente ritematizzarsi sulla scia di quelle che sono le risultanze pratiche che si riverberano fatalmente sulle fondazioni teoriche dei discorso.
In ogni caso, in psichiatria è indispensabile una radicale riflessione metodologica che eviti di dissolvere i dati empirici nel gorgo della teoria. Questo significa che anche una impostazione biologica (naturalistica) non può fare a meno di rispettare i fenomeni psicopatologici (i sintomi) nella loro evidenza e nella loro pregnanza semantica. Mettendo-fra-parentesi ogni concezione teorica, non si può cioè non essere colpiti da questo: dal fatto, appunto, che sintomi in psichiatria rappresentano qualcosa di mobile e di camaleontico che cambia e si trasforma in relazione ai modi con cui ci confrontiamo con i pazienti e in relazione alla radicalità, e alla significanza, con cui riusciamo a fondare un discorso, un incontro, un dialogo autentico: che, come ha sostenuto in pagine straordinarie per profondità e originalità V.E. Gebsattel (1964), è la premessa ad ogni ulteriore articolazione sia diagnostica sia terapeutica: psicoterapeutica. 1 sintomi (i segni) hanno un senso in psicopatologia: non sono un evento destituito di ogni significato a cui sia applicabile solo una farmacoterapia radicale.
LA INTERSOGGETTIVITA’ COME ORIZZONTE DI SENSO DI OGNI ESSERE- PSICHIATRA
La descrizione, e l'analisi, la conoscenza radicale, non sono possibili in psicopatologia senza la partecipazione profonda e permanente della soggettività del medico e della soggettività del paziente. Non c'è conoscenza astratta e oggettiva in psicopatologia che non sia implacabilmente implicata e diversa in una spirale ermeneutica inestirpabile sia dalla soggettività del paziente sia da quella dei medico. Non ci può essere discorso sulla identità dello psichiatra che prescinda da queste riflessioni e da queste prese di coscienza della precarietà e della problematicità del conoscere: dalle sue contraddizioni e dalle sue radicali connessioni con l'arca bruciante e sconvolgente della intersoggettività.
Al di là delle contrapposizioni teoriche che separano la psicopatologia clinica dalle psicopatologie fenomenologiche (queste ultime, a loro volta, diversamente articolate e tematizzate in senso fenomenologico-descrittivo, in senso fenomenologico-eidetico e in senso fenomenologico-trascendentale che rimandano al discorso jaspersiano e a quello binswangeriano in particolare), l'una e le altre, – e rimanderei a questo proposito ad alcuni dei miei lavori (1989, 1990) -, si riconciliano e si riassumono su di un terreno in fondo comune e su di una comune ricerca: che legano insieme, e che confrontano insieme, la nostra soggettività e la soggettività dei pazienti sulla base di quella impostazione conoscitiva (di quella Einstellung conoscitiva) che è la immedesimazione e la intuizione. Non ci è possibile conoscere nulla di ciò che avviene negli abissi delle interiorità, della nostra interiorità e della interiorità dei pazienti, se non abdichiamo ad ogni atteggiamento di distacco e di neutralità: di fredda e gelida scientificità.
Il mio discorso problematico, ovviamente, intende tematizzare e delimitare le aree di una psicopatologia radicale ed essenziale ad ogni psichiatra, e intende svolgere qualche riflessione metodologica: senza entrare negli spinosi contesti delle diverse articolazioni concrete con cui ogni singola Einstellung (fenomenologico-soggettiva, fenomenologico-obiettiva o psicodina- mica), decifrabile e unificabile come ermeneutica e, cioè, come votata al senso, si viene confrontando con ogni esperienza psicotica o neurotica.
In psicopatologia si configura come piattaforma conoscitiva preliminare ad ogni ulteriore specificazione metodologica: clinica o fenomenologica o psicodinamica, appunto; ma non si dà psicopatologia senza immedesimazione e senza intuizione, senza Einfühkung e senza intersoggettività. La psicopatologia, così intesa e considerata, non si limita ad analizzare e a descrivere, a riordinare e a strutturare, i fenomeni soggettivi della vita psichica, non si limita cioè a fare della fenomenologia diacronica che ricostituisce la storia della vita, non solo la storia clinica ovviamente (che è solo una pallida immagine della storia della vita), al fine di cogliere gli snodi essenziali di ciascuna esistenza psicotica o neurotica.
Solo in questo modo, del resto, è possibile, partendo dalle esperienze vissute dai pazienti e mettendoci dalla parte dei pazienti, cogliere ed isolare ogni singolo fenomeno (ogni singolo sintomo) costituito da questa, o quella esperienza psicotica o neurotica: differenziando ciascuna di esse nella sua significazione psicopatologica e, poi, nella sua evidenza clinica. Solo in que- sto modo, ancora, è possibile distinguere gli elementi costitutivi di una esperienza delirante e di una esperienza allucinatoria, e cogliere quanto ci sia in questa e in quella di strutturale (di immediatamente conseguente al disturbo psichico) e quanto, invece, di sovrastrutturale (di qualcosa che è indirettamente collegato al disturbo psichico e che rappresenta la risposta della personalità). Una modalità di considerazione psicopatologica consente, cioè, di analizzare il senso di ogni esperienza psicotica, o neurotica, al di là della semplice e magmatica dimensione clinica.
Questo discorso di elisione di ciò che non è essenziale in una configurazione psicopatologica, e di ciò che ha in sé una significazione radicale, assume una importanza ancora più fondamentale quando ci confrontiamo con i sintomi psicopatologici (i segni come è meglio chiamarli nel senso di Kurt Schneider) che sono stati definiti, e rivelati nella loro radicale fenomenologia, da Karl Jaspers (1959) come disturbi della coscienza dell'io. L'esperienza comune e abituale, che ciascuno di noi ha della propria unità del qui-e-ora e della propria identità storica, della propria delimitazione nel confronti dei mondo-circostante (della Umwelt) e del mondo-della-intersoggettività (della Mitwelt), e della propria esistenza associata alla meità degli atti psichici, è profondamente disturbata in ogni esperienza schizofrenica; e su questa esperienza (alterata) è possibile rifondare una psicopatologia: come ha fatto acutamente Christian Scharfetter (1983) che ha ricostruito la fenomenologia e la genesi di senso delle esperienze deliranti e allucinatorie a partire da questo disturbo della coscienza dell'io che Kurt Schneider (1962) ha chiamato disturbi della esperienza dell'Io: ma con una uguale indicazione funzionale.
Non c'è enfasi, e non c'è trionfalizzazione, in questo discorso sulla significazione e sull'area di applicazione della psicopatologia: finalizzata alla conoscenza dei modi di essere costitutivi di ogni esistenza psicotica (schizofrenica ma anche depressiva); ma solo una riconsiderazione, e una attualizzazione (una storicizzazione); di tesi e di concezioni che sono scaturite nel contesto della grande psichiatria post-jaspersiana: passata indenne, fra l'altro, dalle mode e dalle alte e basse marce delle teorie.
Non solo la schizofrenia, ma anche la depressione ciclotimica (endogena) può essere colta e descritta nelle sue stratificate dimensioni di una indagine psicopatologica che, rifacendosi come sempre ai vissuti dei pazienti, consente di distinguere la tristezza psichica dalla tristezza vitale, la tristezza che si vitalizza dalla tristezza spirituale nel senso di Max Scheler (1966). La realtà apparentemente magmatica e indistinta della depressione, come Gestalt clinica, si disaggrega e si scompone, così, in alcuni dei suoi casi essenziali ed emblematici momenti costitutivi che non hanno una mera significazione psicopatologica (teorica) ma anche una profonda significazione terapeutica: nel senso che ciascuna di queste diverse articolazioni della tristezza (della tristezza psichica e della tristezza vitale in particolare) si riflettono anche in diverse strategie farmacoterapeutiche. Cosa, questa, che vale anche nel con-testo differenziale delle depressioni endogene (ciciotimiche) che abbiano in sé esperienze deliranti di colpa, o ipocondriache, o esperienze di indigenza (di catastrofe finanziaria), e che hanno bisogno di strategie farmacoterapeutiche ugualmente differenziate.
In questo, la condizione umana e clinica dello psichiatra si differenzia radicalmente da ogni altra condizione professionale (anche medica, ovviamente) e si costituisce nella sua assoluta specificità: nella sua identità nel corso del tempo e della storia.
LA DIVERSITA’ DELLO PSICHIATRA, E LA SUA IDENTITA’, SONO MEDIATE DALLE CATEGORIE SPAZIOTEMPORALI
La psicopatologia jaspersiana ha, dunque, riconsegnato scientificità alla interiorità dei pazienti, alla loro soggettività, e alla esigenza di ascoltare i pazienti nella loro autoanalisi (nelle loro autodescrizioni) che, nella psichiatria precedente e parallela a quella jaspersiana, venivano radicalmente e intenzionalmente ignorate e sottovalutate: considerate, come emblematicamente in Kraepelin, del tutto inattendibili e inutili. Con una metanoia copernicana, della quale non si finisce di essere ancora ammirati, la fonte della conoscenza di sposta in Karl Jaspers (1959) dalla osservazione e dalla descrizione dei modi di essere esteriori (dei modi di essere comportamentali) dei pazienti alla immedesimazione e alla immersione nei vissuti dei pazienti: e l'essere-psichiatra (la psichiatria) si emblematizza nella suadiversità.
Dalla interiorità dei pazienti, e dalla analisi e dalla descrizione di ciò che avviene e si svolge in essi, sono scaturiti, e continuano a scaturire, modi di esperienza che, normali o anormali, patologici o solo quantitativamente diversi, assumono una radicale significazione conoscitiva e, in fondo, anche diagnostica.
In questo senso, non solo le manifestazioni della coscienza dell'Io, che, nella soggettività nostra e in quella dei pazienti si rivelano e si possono rivelare nella loro evidenza fenomenologica e clinica, ma anche le esperienze del tempo e dello spazio sono realtà che hanno dimensioni soggettive e sono accessibili alla intuizione e alla immedesimazione. Non è discorso astratto e velleitario, nemmeno questo, ma è cammino conoscitivo che, confrontandosi anche con le categorie del tempo e dello spazio, dilata e approfondisce la conoscenza delle strutture costitutive delle esistenze psicotiche e neurotiche: con le conseguenti implicazioni anche terapeutiche.
La mia diversità, e insieme la mia identità, di psichiatra sono, cioè, sigillate dal senso del tempo e dello spazio: dalla riflessione su queste categorie essenziali della condizione umana.
Come ci si confronta con un paziente, in quella esperienza decisiva che è il primo colloquio, come ci si confronta con l'esperienza che egli ha dello spazio e del tempo (così diversa, talora, da quella che si ha nella condizione umana 'normale'), come ci si confronta con il suo volto e il suo sguardo (Lain-Entralgo 1980): son questioni che non interessano solo il discorso di fondazione psicoterapeutica (psicoanalitica) ma anche il discorso clinico: il discorso che si svolge nelle diverse sequenze di una psichiatria territoriale e degenziale: ed è un discorso, questo, di radicale significazione formativa e terapeutica.
La mia angolazione clinica e la mia esperienza sono indirizzate essenzialmente alle realtà dilemmatiche e conflittuali delle psicosi: delle schizofrenie e delle depressioni endogene (delle depressioni psicotiche). In queste aree cliniche, il problema della distanza e della vicinanza, il problema dello spazio vissuto come è stato genialmente tematizzato da Eugène Minkoswki (1966), si costituisce come premessa (come scacco e come realizzazione) di ogni incontro clinico e terapeutico. Non c'è clinica, del resto, se non finalizzata ai luoghi della cura: della psicoterapia e della socioterapia e non solo della farmacoterapia. Solo apparentemente, e in ogni caso contingentemente, i confini, che circondano e separano l'esperienza psicotica dal mondo e dagli altri-da-sé, sono impenetrabili e impermeabili: lo sono nella misura in cui essi testimoniano di quella disperata aspirazione alla vicinanza (spaziale) e contemporaneamente di quella straziata esigenza di solitudine e di separatezza che si intravedono in ogni esperienza psicotica (depressiva e schizofrenica, o maniacale). La stessa condizione autistica, del resto, non è in sé se non questa metafora di uno spazio vissuto che isola e allontana le esperienze, e le persone, che siano vissute come portatrici di sopraffazione e di ambiguità (di invasione).
Il problema della distanza vissuta (dello spazio vissuto), che si è tematizzato nell'area della riflessione psicopatologica sulle esperienze e sulla soggettività dei pazienti, non è aleatorio e non è reciproco, dunque: ma è radicato nel cuore di ogni psichiatra e di ogni incontro con il paziente: al di là di ogni impostazione teorica e ideologica.
Ma la psicopatologia ha riscoperto il senso del tempo (del tempo soggettivo e del tempo vissuto) che è un'altra cosa, ovviamente, dal tempo obiettivo: dal tempo delle lancette dell'orologio. Quando incontriamo un paziente, la riuscita, o il fallimento dell'incontro si gioca anche sulla valutazione e sulla decifrazione dei modi con cui il tempo è ri-vissuto dal paziente.
Certo, il tempo del paziente non è il tempo dei medico: come ha limpidamente sostenuto F. Hartmann (1984, 1987). La clessidra misura il tempo del mondo (il tempo obiettivo), e non ci sono strumenti che consentano di calcolare il tempo dell'Io (tempo soggettivo). Non ci sono, anche qui, se non la intuizione e la immedesimazione che ci consentano di intravedere questa, o quella, condizione psicotica o neurotica. Un problema non è quello di conciliare le esigenze del tempo, le reciproche esigenze del tempo (dell'orologio), del paziente e del medico, che pure sono importanti, ma il problema lacerante è soprattutto quello di conoscere, e di dialettizzare (di conciliare), il tempo soggettivo di chi viva una esperienza psicotica e il tempo di chi, il medico in questo caso, ne sia fuori.
Siamo, ovviamente, sempre sulla linea di quella psicopatologia soggettiva inaugurata da Karl Jaspers e poi ritrasformata dalla Daseinsanalyse binswangeriana.
IL TEMPO VISSUTO NELLE ESPERIENZE PSICOTICHE COME PARADIGMA DI OGNI ESPERIENZA IN PSICHIATRIA
La psicopatologia e la psichiatria non possono evitare, del resto, la confrontazione con la filosofia: anche se mantenendo campi di ricerca rigorosamente autonomi. Nel tematizzare il problema del tempo in psicopatologia non si può rinunciare alla celebre interrogazione di Agostino: 'Che cos'è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so: se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. E tuttavia io affermo tranquillamente di sapere che se nulla passasse non ci sarebbe un passato, e se nulla avvenisse non ci sarebbe un avvenire, e se nulla esistesse non ci sarebbe un presente'.
Sia pure euristicamente, è così possibile distinguere, nel tempo, il presente, il passato e il futuro come sue dimensioni radicali che, nella condizione di vita 'normale', sono intrecciate e assimilate l'una nell'altra; mentre nelle esperienze neurotiche e soprattutto in quelle psicotiche queste dimensioni si disaggregano e si frantumano in alcune situazioni-limite. Non posso non ricordare come nella depressione si abbia una modificazione del tempo vissuto così profonda da tagliare (da perdere) la dimensione del futuro: non sopravvivere se non in un presente (il presente del presente in senso agostiniano) che viene a mano a mano divorato e risucchiato dal passato (dal presente del passato) sempre più dilagante e inarrestabile. Nella dissolvenza del futuro (del presente del futuro) si inabissa la speranza e l'orizzonte precipita in uno scenario delle tenebre a cui viene meno ogni scheggia di luce. La perdita della speranza è considerata da Weitbrecht e Giatzel (1979) come il sintomo essenziale di ogni depressione; e questa perdita si fonda nella sua genesi di senso proprio in questa dissolvenza della dimensione dell'avvenire dalla quale la temporalità si destituisce (Borgna 1992).
Non ha senso (psicopatologico e clinico) confrontarsi con una esistenza depressiva senza tenere presenti queste modificazioni profonde del tempo.
Le modificazioni del tempo, che si osservano nel contesto della mania (della esperienza maniacale) analizzata nella sua fondazione psicopatologica, sono profondamente diverse da quelle che si hanno nella depressione; e ancora più sconvolgenti.
Nella mania il tempo si lacera e si frantuma: non solo il futuro ma anche il passato finisce inghiottito dal presente (dal presente del presente) che diviene la sola dimensione temporale galleggiante nella metamorfosi temporale ed esistenziale della mania. Sulla base di questa dissolvenza assoluta della temporalità si capisce come, nella mania, ogni incontro interpersonale sia estremamente inerziale e, quasi, impossibile: ogni esperienza, ogni memoria del passato e del futuro, si consuma istantaneamente nel momento stesso in cui è vissuta.
Nella schizofrenia le modificazioni del tempo sono ancor più problematiche ma non raggiungono in ogni caso la radicalità e la frantumazione di quelle che si osservano nella mano. Nella metamorfosi schizofrenica della temporalità il presente si configura come la dimensione reale ma senza la monetizzazione maniacale: il presente mantiene alcune sue labili relazioni con il passato e il futuro; ed è questa, forse, una delle ragioni che consentono di comprendere come la condizione autistica schizofrenica sia, in fondo, meno impenetrabile che non quella maniacale: bruciata, appunto, in questa girandola vorticosa di esperienze che si nientificano: senza lasciare tracce nell'Erleben dei pazienti.
Anche la psicopatologia del tempo riassume, direi, una sua significazione conoscitiva ed esistenziale: quando ci si avvicini a queste esistenze psicotiche così altre e così dotate di senso, del resto.
CONCLUSIONI
La psichiatria, che non tenga conto delle fondazioni psicopatologiche del discorso in psichiatria e che la riduca ad una semplice disciplina medica, perde la sua identità, e la sua significazione storica. Certo, identità della psichiatria e identità dello psichiatra sono strettamente collegate l'una con l'altra. Nel confrontarsi con il suo oggetto-soggetto nel contesto di una semplice farmacopsichiatria, sia lo psichiatra sia la psichiatria si frantumano nella loro identità.
Senza cadere in trionfalizzazioni inutili e inaccettabili, la diversità dell’essere-psichiatra si salva, e si costruisce fino in fondo, solo se la psichiatria viene intesa in questa complessa articolazione di radici psicopatologiche. Solo se l'essere-psichiatra e il fare-psichiatria si riducono ad essere semplici prescrizioni di farmaci, come ha scritto a suo tempo in un suo folgorante racconto Franz Kafka, allora la psichiatria si trasforma in una radicale disciplina medica: trascinando con sé la cancellazione di ogni sua specificità e di ogni sua identità. Non c'è certo, una sola psichiatria, ma ci sono diverse psichiatrie. Non c'è un solo modo di realizzare la propria identità di psichiatra, ma ci sono modi diversi. Questo mio discorso ha voluto solo indicare, e proporre, uno di questi modi: forse il più radicale.
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