Percorso: Home 9 Clinica 9 LA RELAZIONE ANALITICA E LE SUE TRASFORMAZIONI: UN CONTRIBUTO CLINICO CON UNA PAZIENTE “BORDERLINE”

LA RELAZIONE ANALITICA E LE SUE TRASFORMAZIONI: UN CONTRIBUTO CLINICO CON UNA PAZIENTE “BORDERLINE”

22 Dic 12

Di Carmelo-Conforto

Introduzione

Quello che descriverò in questo contributo è un pezzo d'analisi, all'incirca sei mesi, condotta con una ragazza di vent'anni, con cui avevo iniziato quattro anni prima il lavoro analitico. Gli avvenimenti che riporterò sono accaduti dieci anni fa e solo ora mi è parso opportuno riprenderli in considerazione e mostrarli ad altri. Mi hanno spinto a lasciar trascorrere un tempo certo non breve il rispetto della riservatezza, resa particolarmente "privata" dal fatto che il materiale che presenterò è costituito non solo da affetti e parole parlate ma, soprattutto, da parole ed affetti scritti, grazie ai quali ha potuto procedere in quei mesi il nostro lavoro.

Inoltre ha avuto il suo peso una sorta di mio particolare pudore nello svelare momenti emotivi che ho vissuto con grande trepidazione, ansia e, spesso, commozione; e il timore che sentimenti della mia paziente, al limite del sopportabile per l'intensità della sofferenza e delicatissimi e coraggiosi potessero in qualche modo essere offesi da una esposizione "scientifica".

Credo che questo sia un problema comune ad ogni analista che espone se stesso ed i propri pazienti ai colleghi e mi rendo sempre più conto che il presentare materiale clinico così intensamente vissuto come è il nostro ci costringa ogni volta ad affrontare un certo tipo di dolore depressivo.

Sappiamo che non è evitabile ed è anzi conveniente alla nostra maturazione di analisti non evitarlo.

Prima di procedere oltre, presenterò brevemente G.

E' secondogenita, una sorella maggiore di un paio d'anni. Madre rigida, apparentemente priva di affetti, esclusa un'angoscia trattenuta da tratti fortemente ossessivi, un'ostilità mai dissimulata verso l'analisi. Il padre, mai conosciuto da me, descritto come uomo di successo a spasso per il mondo, pragmatico, superficiale sul piano degli affetti. G. strana da sempre, isolata, bizzarra, con paure infantili di tale intensità da richiamare nell'età scolare l'attenzione dei maestri. Parlo di fobie assai intense, agorafobia, claustrofobia, crisi di terrore, ipocondria, depressioni inspiegabili che limitarono in maniera sempre più vistosa la sua vita, che si ridusse alla scuola e quasi a nient'altro. Una particolarissima passione per la musica e la danza classica, dopo un paio d'anni di studio in gruppo, venne coltivata nella solitudine della sua stanza e proseguita con costanza negli anni. Venne da me dopo anni di incontri piuttosto saltuari con una neuropsichiatra infantile. Nel primo nostro incontro venne accompagnata dalla madre fino alla porta del mio studio. G. si bloccò qualche secondo sulla soglia e poi si precipitò a nascondersi dietro una poltrona, scarmigliata e terrorizzata. Solo dopo parecchie sedute, avevamo stabilito tre sedute settimanali e ci attenemmo sempre a questo impegno, iniziò con molta cautela a parlarmi di lei e di me e delle così allarmate reazioni che aveva vissuto nella prima seduta.

Durante l'analisi terminò le scuole secondarie e si iscrisse all'università.

L'analisi con me si svolse dai sedici ai ventun'anni.

Nell'ultimo anno e mezzo, poco dopo l'inizio del periodo analitico che presenterò, G. si trasferì con la famiglia in un centro a circa duecento chilometri dal mio studio.

Questo episodio, reso ancora più traumatico dall'insistente suggerimento della madre di troncare la terapia riprendendola eventualmente con uno "psichiatra" in sede, si inserì in una fase molto delicata del nostro rapporto, come chiarirò meglio in seguito. Aggiungo che lo scioglimento del nostro rapporto coincise non con la fine dell'analisi ma con una sufficiente elaborazione del distacco che consentì a G. di proseguire nella sua nuova città, con un collega di cui le avevo fornito il nominativo, l'analisi, che si concluse soddisfacentemente dopo circa cinque anni.

Alcuni problemi e ipotesi mi hanno spinto a presentare questo contributo.

Li elenco:

– L'attenzione di molti analisti sta sempre più spostandosi sull'analizzabilità dei casi cosiddetti "gravi", ovvero patologie narcisistiche, "borderline", a volte francamente psicotiche. Devo precisare che mi sento molto in sintonia con Green (1974) quando, parlando di queste patologie, suggerisce che forse sarebbe meglio usare la definizione di "stato-limite dell'analizzabilità".

In questa categoria rientra credo a buon diritto il percorso terapeutico di G.

– Il lavoro analitico con queste patologie può costringere l'analista ad adattare il setting alle particolari condizioni mentali dei suoi pazienti. Tuttavia è soprattutto sollecitata, in queste situazioni, quella che Meltzer (1967) ha chiamato l'unità fondamentale del setting analitico, cioè lo stato mentale dell'analista, idoneo a ricevere il materiale del paziente, a contenerlo, a meditare sulla situazione di transfert e infine a comunicare la comprensione dell'analista. Riferendosi alla patologia grave infantile la Hoxter (1977) ribadisce che una parte della funzione dell'analista si esplica nel costruire un setting in cui il paziente possa comunicare ed il terapeuta possa svolgere la sua funzione analitica. Sottolinea che: "L'elemento di gran lunga più importante dell'intero setting è rappresentato dalla mente dell'analista" (p. 147 tr. it.). Aggiunge: "L'arte o talento del terapeuta sembra essere connessa alla sua capacità di fornire uno spazio mentale interno al paziente" (p. 148 tr. it.). Questo elemento, il setting interno dell'analista, è stato ampiamente messo alla prova nella relazione che descriverò.

– Nel lavoro che ho fatto con G. mi sono occupato, naturalmente, di ciò che si ritiene essere (G. Klein, 1976, p. 51 tr. it.) "l'obiettivo fondamentale dell'impresa psicoanalitica, e cioè cogliere i significati che vanno via via rivelandosi". Credo che nella relazione con G., anche nei momenti più travagliati, ho cercato di pensare soprattutto a questo, tentando di riflettere su che cosa effettivamente stavo facendo specie quando mi pareva di non aver proprio altra scelta. Questo ragionare avveniva naturalmente in tempi diversi, fuori dalla seduta, e il mio tentativo di organizzare secondo modelli psicoanalitici noti o che imparavo a conoscere mi ha sostenuto nel mio lavoro.

Oggi, a tanta distanza di tempo, avverto la curiosità di riscoprire il me al lavoro dieci anni fa e di valutare, se possibile, quali modelli consci e quali allora inconsci sono rintracciabili ora nel materiale che esporrò.

 

 

Materiale clinico

 

G. presentò una progressiva, rapida, riduzione delle associazioni verbali, fino a limitarsi a comunicazioni molto povere, elementari, alternate a espressioni del tipo: "Questa terapia è inutile"; "Lei non mi capisce".

Anche l'uso del lettino, che già nel passato aveva presentato varie traversie, venne modificato, nel senso che G. non fu in grado se non di sedersi sul lato estremo, il più distante da me, tenendo lo sguardo sulla parete.

La netta mutazione e del setting e delle modalità di comunicazione si verificarono dopo un periodo di lavoro analitico particolarmente fruttuoso. G. aveva iniziato a modificare il senso della relazione riducendo l'intensità della regressione fusionale e iniziando a manifestare chiari segni di curiosità nei confronti del suo mondo interno, accompagnati da un sorprendente sviluppo delle sue capacità di produrre pensieri.

Ne era risultata una diversa condizione mentale che ci aveva messo in contatto con aspetti molto fragili e bisognosi del Sé.

G. si trovò così, necessariamente, di fronte all'allarmante consapevolezza che ora esisteva una distanza separante me da lei e che di conseguenza avrebbe potuto perdermi, e la perdita di fantasie simbiotico-fusionali sembrava essere terribile, al limite del morire (Tustin, 1990).

L'intensità degli affetti in gioco venne rinforzata oltre misura dall'improvviso trasferimento di G. e la sua famiglia in un centro a due ore di viaggio dal mio studio. G., nonostante gli inviti pressanti della madre a trovare un nuovo "psichiatra" in loco, affrontò da allora un periodo di spostamenti faticosi e laceranti, assalita dalla ripresa di forti fobie, panico, allarme cenestesico, pur mantenendo con straordinaria assiduità l'impegno analitico.

Si modificarono da allora ulteriormente le modalità di rapporto tra noi. Al termine di una seduta di inizio settimana, trascorsa in un silenzio colmo d'angoscia G. raccolse dalla borsa un foglio di carta scritto a penna, lo mostrò di sfuggita a me, poi lo accartocciò e lo gettò per terra. Lo raccolsi e le chiesi se potevo tenerlo. Lei annuì e finì la seduta. Il foglio, che lessi a seduta conclusa, era di una straordinaria composizione. In una prima parte, scritta con un certo tipo d'inchiostro e con calligrafia ordinata, G. elencava quanti alimenti poteva-doveva ingerire. L'elenco iniziava con:

– due cucchiaini colmi di lievito al giorno.

– un litro fra latte e jogurt (se magri presi ai pasti).

– un bicchiere di spremuta d'agrumi.

– altra frutta.

– verdure crude e cotte al vapore, cambiare verdure ogni giorno se possibile.

Seguivano poi altri elementi dietetici che occupavano quasi per intero la prima facciata.

Al termine, senza uno stacco particolare, cambiava solo il tipo d'inchiostro e la grafia si faceva incerta, disordinata, convulsa, lo scritto mutava bruscamente registro.

"Credo di essere arrivata al momento più difficile e di terribile sofferenza della mia vita finora.

Non ho mai avvertito prima in questo modo così profondo, universale, in me il senso di morte e di solitudine così intensa da arrivare fino al mio limite di essere umano. Sono terrorizzata e nello stesso tempo questa sensazione mi è così insopportabile che sento che dovrei urlare, andare a pezzi, perdermi, impazzire: il bambino puzzolente che nessuno vuole tenere in braccio".

Nella seduta successiva G. arrivò puntuale, si accovacciò per terra, senza parlare, il viso semicoperto dai capelli.

Dopo un lungo silenzio le dissi che il bambino puzzolente era forse la lettera accartocciata e G. stessa, ora buttata per terra. Dissi anche che credevo vi fosse un rapporto tra la "bambina puzzolente", e l'angoscia dell'interruzione del rapporto analitico. Aggiunsi che una parte di lei cercava sollievo tentando di allontanarsi dal rapporto con me e costruendo macchinosi controlli su ciò che avrebbe potuto avere accesso dentro di lei.

G. mi interruppe tirando fuori un secondo foglio di carta che gettò per terra. Poi lasciò piangendo lo studio prima che fosse terminato il tempo della seduta.

"Sto tanto male che credo di dover morire. Forse morire sarebbe per me più facile che darle certe cose o dirle a chiunque o esserle con chiunque. Questo è proprio per lei, dr. C., adesso te lo vomito lì e poi fanne quello che credi. Lei è stato il centro luminoso della mia vita che mi accoglie e accetta sempre e la G. che prova questo è come un'essenza che non ha età o sesso, esiste così e basta.

…questa parte di me che l'ama, dovrò cercare di ucciderla.

Non so che cosa fare di tutto questo. Potrebbe regalarmi un BAULE?".

Rimasi molto colpito da queste righe, in cui il legame così intenso e vivificante con un me idealizzato appariva, nella fantasia di G., tragicamente destinato ad essere strappato via; ed allora a G. non restava che la morte o un'estrema chiusura autistica che era poi la sua morte mentale.

Mi misi a riflettere anche su questo così diverso modo di mantenere il rapporto che G. aveva instaurato, evidentemente l'unico che le consentiva di avvicinarsi a me presentata e protetta dai suoi scritti.

Questa modalità mi permetteva di entrare in contatto con lei in maniera anomala rispetto al modello tecnico-clinico abituale.

In effetti io ero in contatto non solo con la G. silenziosa presente nello studio e che esprimeva assai poco di sé, attraverso il linguaggio del corpo, ma anche con quella G. consegnata e conservata nelle righe scritte e il cui mondo straziato e ricco insieme mi riempiva la mente.

Due cose soprattutto mi colpivano in quello che G. faceva; la capacità di esprimere in maniera così vivida e "pensata" il suo mondo interno, quasi che la "nascita del pensiero" in lei si fosse, in questa evenienza così drammatica, trasformata in una qualità ulteriormente sviluppata e ricca; poi, che questo scrivere avveniva in relazione ad un me-interno con cui riusciva a parlare così vivamente a patto che l'altro-me, quello che non poteva non avvertire provvisto di confini e di "propri" pensieri e sentimenti fosse momentaneamente distante.

Rirresi, nella seduta successiva, i temi che lei mi aveva comunicato; non feci particolari interpretazioni, le cercai di mostrare che sentivo la sua grande disperazione, i suoi impulsi a fuggire, a chiudersi fuori da ogni contatto e che comunque neppure mi nascondevo il fatto che, con le modalità che le erano possibili, lei continuava a mantenere un contatto assai vivo con me.

Nelle sedute seguenti cambia qualcosa di significativo nel modo di G. di proporsi.

G. inizia le sedute in silenzio e dopo non molto mi consegna una lettera, scritta a macchina, in genere la data è del giorno prima; successivamente alcune sono scritte il mattino stesso del suo trasferirsi da me. Io leggo silenziosamente, ripongo la lettera, rifletto e cerco nella stessa seduta di comunicare con lei su quanto ho letto ed eventualmente è accaduto, nel "qui ed ora"; un diverso modo di G. di occupare lo spazio, l'atteggiamento del volto, a volte meno nascosto, qualche sguardo più diretto.

Insomma riprendiamo molto cautamente ad avvicinarci e io sento che G. tollera che io ne parli.

In una seduta mi fa leggere: "…Ora ho due modi di essere, la pienezza della felicità di quando lei mi parla e guarda e la sua voce ed è come essere in una specie di nido di nuvole. L'altro è quello della malattia di morte e separazione e angoscia e panico".

Gli effetti di quelle frasi su di me sono diversi.

Predomina una sorta di commossa partecipazione alla straordinaria fatica che G. sta facendo per mantenere vivo il nostro rapporto e la sua capacità di pensare, (lo stesso percorso, in realtà) e lo stupore per la allagante consapevolezza, mai così emotivamente chiara, dell'enorme attaccamento di G. a me, dell'incidenza, sia positiva che negativa che la mia maniera di condurre questo rapporto così trasformato, avrebbe avuto su di lei, su di noi.

Ero allarmato, certo, per il continuo riferimento di G. alla morte, all'insostenibilità, in alcuni momenti, della sofferenza. Anzi, in realtà ero sempre preoccupato nel vederla uscire dal mio studio, in disordine, pallidissima, tormentata per lo più nell'espressione e con un lungo viaggio da affrontare.

Indubbiamente G. occupava molto spazio nella mia mente, anche quando era assente, voglio dire, ed un modo per tranquillizzarmi divenne quello di cercare di meglio riflettere su quanto stava accadendo tra noi, non trascurando naturalmente ciò che conoscevo della teoria e ciò che ero stimolato ad apprendere.

Ricordo che un concetto che contribuì ad alleviare la mia tensione fu quello di "oggetto idealizzato" inteso come mattone solido su cui si costruisce il "seno buono" introiettato della Klein (1946).

Mi sentivo abbastanza sicuro che G. fosse in possesso di questo oggetto, avesse cioè interiorizzato aspetti suoi e miei sui quali poteva, anche se in piena burrasca, contare e sentirsi, almeno relativamente, protetta.

Ciò che mi colpiva era che l'uso fondamentale che G. faceva di questo me-parziale-introiettato era di sviluppare le sue capacità di pensare ad un livello di competenza, verità e di pregevolezza estetica notevole e che questo fosse il percorso che lei aveva scelto per tentare di affrontare, descrivere, capire e farmi capire la gran tempesta interiore.

In modo che io potessi risponderle.

Molti anni dopo ho trovato nel libro dell'Alvarez (1992) delle parole che allora avrei adottato immediatamente.

Lei dice a proposito delle funzioni dell'"oggetto buono": "Nella posizione schizo-paranoide la sua bontà può anche consistere nell'affidabilità, nelle qualità rassicuranti, nella solidità, nella sostanzialità, vale a dire nelle sue buone intenzioni, le sue qualità protettive" (p. 124 tr. it.).

Vi sono momenti in cui sento G. molto vicina, altri in cui non mi è facile capire se mi ascolta per quello che mi illudo sono i significati delle mie parole o se quello che conta è la mia parola come veicolo di emozioni positive, come nutrimento. Si riduce l'ansia dentro di me, mi sento sollevato, ho, in qualche seduta una sorta di eccitata convinzione di essere vicino ad una svolta in positivo. Parlo allora di più di quanto sia abituale per me in seduta, e con toni più intensi, più caricati.

Lei mi frena, mi pone drammaticamente dei limiti, quelli che io avevo infranto in un momento in cui aspetti "maniacali" miei mi proteggevano dall'ansia, mi allontanavano dal responsabile contatto con la verità della mia paziente.

Mi scrive, appena a casa:

"Sono completamente ESAUSTA. Forse tu vuoi davvero uccidermi con tutte queste sedute… O forse portarmi al limite dei limiti e cercare di distruggermi lentamente? Di tutte le cose che mi hai detto stamattina ho come una specie di giostra nella testa e sono completamente assorbita da tutto questo. Ma non mi ricordo quasi niente. Ci sono delle mezze frasi che vanno e vengono".

Sento che G. ora non distingue tra un "me-buono", che cerca di nutrirla, di sviluppare la sua funzione pensante ed un "me-intrusivo", incalzante, che in qualche modo immette la sua ansia, fretta, dentro di lei, facendo si che "buono" e "cattivo" si mescolino in maniera non distinguibile e la confusione ne è il risultato.

E' spaventata e non sa a cosa aggrapparsi, si sente svuotata della presenza benefica, è vuota, teme di non riuscire a trattenere più nulla.

Mi scrive: "E' terribile non riuscire a riempirmi con niente. Sono in panico continuo".

Modifico nuovamente il mio atteggiamento. Ora commento brevemente il mio essermi espresso con eccessiva urgenza, dandole forse l'impressione di non reggere la sua angoscia, "il bambino puzzolente".

Avvengono delle cose, dentro G., io le osservo stupito, le colgo negli scritti che mi consegna: "Ieri, quando sono tornata a casa, ero molto viva e piena di energia. Avevo di nuovo la sensazione della sua presenza dentro di me, che era sparita da tanto tempo". Il tempo esterno corrisponde a pochi giorni, il tempo interno a un'eternità disperata.

G. ha recuperato un senso del sé nel momento in cui ha recuperato il rapporto con un "me-buono", che, rifletto, si è mostrato introiettabile in quanto fallibile e insieme dotato di speranza, dotato insomma (Alvarez, 1992) soprattutto di buone intenzioni.

Alcune sedute dopo:

"Ho una meravigliosa fantasia di G. che attraversa la vita avvolta in una calda e morbida coscienza delle cose e non ha nessuna paura dentro. Può andare in qualsiasi posto e si può addormentare ovunque, anche su una sedia o per terra perché è come un bambino senza paura".

Sento che le parole di G., pur così suggestive, contengono una qualità di eccessiva esaltazione, di diniego di aspetti di fragilità ed angoscia ancora pesantemente presenti.

G. cerca di affrettare i tempi del suo distacco da me, mi scrive di un rapporto affettivo con un ragazzo, il suo primo e di iniziative sessuali che mi sembrano in gran parte coatte, angoscianti. Scrive infatti di tentativi di legami affettivi che non reggono, del suo sentire divorare, distruggere la sua possibilità di amare ed essere amata: "Stasera la sensazione di angoscia, fatta da un senso di morte e di disfacimento totale è sempre più forte. Da ieri sono perseguitata da un terribile desiderio di morte, come una forza che vorrebbe trascinarmi al suicidio. Non credo che lei possa capire l'intensità di tutto questo e la mia sofferenza che è così forte".

G. mi trasmette un senso di tragedia che mi balza addosso dopo un momento di rasserenamento del rapporto. Per alcune sedute viviamo momenti di estrema tragicità, in cui la morte è continuamente incombente su di noi e sembra espressione di una sorta di destino che ci sovrasta, che ci rende impotenti; io, a capire, ad alleviare, lei a sopportare, a resistere.

Temo che quello che io posso dire, offrire a G., siano cose troppo deboli, blande, di fronte all'incalzare della disperazione, della spinta mortifera.

Sento confusamente, con gran fatica e sofferenza, il senso della mia solitudine, mi chiedo quanto questa mia dimensione depressiva entri dentro G. aumentando la sua disperazione.

Mi dico che forse l'unica cosa che ha senso è di permettere a G. di avere delle prove elementari che l'analista è ancora vivo, che, cioè, pensa su di lei e quindi conserva vivo il legame con lei.

Semplifico le comunicazioni, le dico, in più riprese, che ho l'impressione che G. tema che io sia ormai deciso a liberarmi di lei e che G. cerchi di obbedirmi con la stessa fedele disperazione di dieci anni prima, quando i suoi le dissero che per star meglio avrebbe dovuto legarsi ad un'altra persona (la precedente neuropsichiatra infantile) che sei anni dopo l'affidò all'attuale analista e lei si sentì morire pur non riuscendo a non obbedire in tutti e due i casi.

E' possibile che G. abbia iniziato la nuova relazione affettiva come tragico segno di obbedienza ad una virtuale volontà dell'analista, rinnovato segnale di intolleranza, di espulsione.

G. mi risponde con un sogno: "M'incamminavo per un lungo viaggio da sola in un'atmosfera di cose lontane e eterne. Nel sogno intraprendevo più volte questo viaggio finché prendevo una scossa elettrica che mi uccideva. Allora assistevo alla mia sepoltura che avveniva nel giardino della casa della mia infanzia e pensavo che così avrei vissuto tutto il resto della mia vita, senza preoccuparmi del funerale perché era già tutto fatto".

Ho difficoltà a parlarle del sogno; ho notato, nei miei appunti, che stetti in silenzio per parecchi minuti, il mio pensiero ottuso, l'ansia viva e incalzante. Riuscii a dirle, prima che finisse la seduta, che G. aveva descritto la sua ennesima delusione; anche Conforto come tutti gli altri prima di lui, mi abbandona per un ennesimo viaggio di solitudine che si concluderà con la morte e la sepoltura di quella parte viva e bambina a cui temo di dover rinunciare per sempre.

Nella seduta successiva leggo:

"Caro dr. C., mi sono svegliata spaventata, come se temessi di perdere il controllo e di essere completamente nelle mani di qualcun'altro e questo mi terrorizza, ho pensato a persone dure e autoritarie come mio padre. Quando un'altra persona entra nella mia essenza più intima è come se avesse il potere di distruggermi, quando ha in mano la mia parte più segreta e delicata".

Siamo giunti al terzo mese di questo nuovo modo di procedere e G. ed io attraversiamo situazioni psicologiche assai diverse, in cui si alternano, in una sorta di estenuante altalena, momenti di maggior integrazione a comunicazioni catastrofiche, a iniziali movimenti di riconoscimento e gratitudine per il mio lavoro.

Scrive:

"Sono in un momento speciale di gestazione e di trasformazione profonda, in cui stanno venendo fuori dal mio intimo cose mai toccate prima… Non ho mai conosciuto un'intensità di vita come adesso, il mio essere completamente tesa in un lavoro che non lascia riposare alcuna parte di me, anima e corpo".

Qualche seduta dopo:

"Qualcosa si sta sciogliendo in me… è come se tutta una rete stradale del mio cervello fosse stata fatta a pezzi e poi la lenta ricostruzione di strade nuove e diverse. Mentre prima sentivo un blocco senza possibilità di discussione verso molte cose, ora il blocco si è sciolto e quelle cose sono possibili almeno nella mia sensazione… sento una profonda gratitudine per quello che mi sta accadendo".

Mentre leggo la lettera la vedo commossa, ha gli occhi rossi, e, finalmente, parla. Dice: "Oggi il viaggio è stato molto faticoso, ho avuto paura, a metà strada volevo scendere".

Le dico che era probabilmente molto emozionata da quello che mi aveva scritto e da come io avrei risposto.

Ho parlato di getto, la voce forse tradiva emozioni intense: sono perplesso, quando è finita la seduta. Mi chiedo se ho restituito a sufficienza a G. ciò che mi ha consegnato: come se fossi io la persona che deve gratitudine.

Mi sono troppo avvicinato, lei si è troppo avvicinata per quanto è ancora in grado di tollerare. Mi scrive, la seduta successiva:

"Ho paura che dando il mio affetto a qualcuno, quella persona possa vantarsene e credere di aver avuto il grande privilegio di essere entrata dentro di me dove non entra nessuno. E io sento che se lascio entrare qualcuno non potrò mai tornare indietro e dire che non è successo e non potrò mai essere quella che ero prima… E' come se dentro avessi una grande stanza degli orrori, nera e orribile che devo tenere segreta e la persona che entrasse veramente in me ne sarebbe rovinata. Ho terrore di essere abbandonata, di essere dimenticata o lasciata, di perdere importanza per qualcuno quando mi sono esposta. Questa possibilità mi spaventa tanto che ho sviluppato potenti meccanismi per impedirmi di espormi".

Riprende tecniche autistiche di difesa, di cui peraltro ormai si rende conto della pesantezza, dell'inanità:

"La mia vita è completamente vuota, oggi. Ho solo il fantasma di me, i bagni caldi, le ore di ginnastica-punizione, le vitamine e tutti i miei intrugli di lievito, carote e germi di grano. Non esiste altro. Mi sono riempita per anni di queste cose e adesso sono diventate vuote di ogni significato, morte".

Mi convinco che nel nuovo ritiro di G. gioca un ruolo importante il tentativo di proteggermi dal contatto con i suoi elementi aggressivo-mortiferi.

Cosicché la tragedia di G. è il conflitto apparentemente irrisolvibile tra il suo desiderio di essere con me, in me, ed il terrore che questo stare insieme distrugga ambedue, come per una maledizione. Già negli anni passati avevamo affrontato questo tema, l'identificazione di G. con una madre che ha terrore dei propri sentimenti d'amore, tanto da considerarli "l'elemento più distruttivo che ha dentro di sé" (Searles, 1965 p. 210 tr. it.). Ritorno su questa ipotesi, ne parlo a G., ma le mie interpretazioni per qualche tempo non sembrano modificare le sue angosce.

E' vero però che ciò che mi scrive dimostra quanto un "me" pensante permanga dentro di lei, a volte a sua insaputa, ed agevoli il modo che G. ha di capirsi.

Mi consegna una delle lettere più intense, più profonde:

"Ti scrivo così mi sento vicina a te e lontana da tutta questa angoscia. Vorrei averti vivo e vibrante in me come quando illuminavi tutto il mio essere ed io ero nella mia piccola estasi privata. Adesso non so cosa stia succedendo ma vai e vieni e il più delle volte non esisti in nessun luogo, non servi, non susciti niente, sei morto. Con te morto muoio anch'io… Prima, quando eri qui dentro ero a casa mia dentro me e c'era sempre un meraviglioso caminetto acceso… e c'era viva la mia bambina e potevo vedere ogni cosa in ogni diverso momento, con umorismo e divertimento, con intensa partecipazione e paura e commuovermi delle cose delicate e sfuggenti. Tu mi hai reso capace di vedere e trovare cose meravigliose dentro di me e non posso vivere senza tutto questo. Non posso seguire l'esempio di papà e chiudere le mie possibilità di spaziare e crescere, non posso mutilarmi neanche per l'illusione che così sarò amata e accettata da lui e forte e vincente come lui mi è sempre sembrato. E per seguirlo sono arrivata quasi a distruggermi del tutto… lo so di essere tutte le cose che mio padre ha mostrato di disprezzare. Io sono forte e fragile e partecipo a tutte le cose e i sentimenti e mi commuovo per le cose vere e belle. Non sono una pietra materialista ed insensibile. Io sono fatta anche di cose pratiche e ragionate ma sono piena di vento e di mistero e di tutte le delicate sfumature dei sentimenti e una forza violentissima a vivere tutte le possibilità senza nascondermi a nulla. Io sono qualcosa ma è tanto debole come un neonato e non sono capace di farlo sopravvivere da sola. Ti prego aiutami a farlo vivere e crescere".

Poi i genitori, la madre, compare in carne ed ossa nella vicenda:

"Mia madre non ha nessuna fiducia nel lavoro che facciamo e nessuna fiducia in te. E' appena tornata da un colloquio con uno psichiatra, senza che io sapessi niente. Vuole che io incominci a lavorare con lui, che non devo neanche parlarne con te. Io credo che sia matta. Ero spaventata a morte. Ad un certo punto mi sono sentita improvvisamente fortissima e adulta e che nessuno deciderà per me ma che farò quel che crederò meglio. Che bella sensazione di libertà è stata questa. So che se posso essere così è perché ho lavorato con te e se sarò in grado di diventare la donna che devo sarà con la tua collaborazione".

Io mi sento ora con le spalle al muro, devo fare i conti con la distruttività di G. e con quella, incontrollabile, della madre che ho avuto modo in passato di conoscere, un muro di freddezza e di apparente pragmatismo, chiede la scomparsa dei sintomi, chiede farmaci, non legami per la figlia.

G. peraltro, così come aveva scritto, non rinuncia al rapporto anche se il tenace filo che la lega a me sembra scosso violentemente, fin quasi a spezzarsi definitivamente. E' la prima volta che si oppone in maniera diretta alla volontà dei suoi e ne è sconvolta.

Fedeltà a chi? mi chiede ed io, credo senza retorica, le suggerisco: a quello che lei sente irrinunciabile, alla se stessa che sta riscoprendo, anche se l'avverte ancora debole come un neonato.

Sono consapevole, e penso che lo sia anche G., che il nostro lavoro ha come obiettivo fondamentale la sopravvivenza di questa nuova identità embrionale, che sta scrollandosi di dosso, per emergere, la corazza del "falso se" precedente, gli incapsulamenti e barriere protettive, le mortifere alleanze con oggetti interni freddi e dittatoriali, incapaci di movimenti empatici, incapaci di pensare emozioni.

Il modello che ho in mente è quello di un fallimento vistoso delle più precoci relazioni d'oggetto di G. nel senso di una mancanza di recettività, da parte dell'oggetto interno, e di conseguente non stimolazione, né crescita ed integrazione di aspetti emotivi relativi a quella che io chiamerei "bisogno di sicurezza estetica". Come se, in altre parole, G. avesse vissuto le prime esperienze relazionali con un oggetto primario avvertito come insensibile e quindi non risponsivo a segnali di scambio contenenti elementi di piacere reciproco. (So peraltro che la madre di G. attraversò durante la gravidanza e per i mesi successivi una seria forma di depressione sviluppata su un carattere rigido-ossessivo).

Mi sono convinto che G. abbia scisso i bisogni di questo tipo, immettendoli in una sorta di contenitore fantastico, un personaggio immaginario con cui forse "delirantemente" colloquiava nel segreto e che mi ha fatto pensare ad una sorta di preconcezione bioniana conservata in G. in questo modo fantastico in attesa di realizzazione, cioè di incontro.

Ritornando all'analisi, ora i viaggi al mio studio sono un incubo, G. ha nuovamente crisi di panico violentissime, un paio di volte è costretta a scendere alla prima fermata del treno, mi telefona per avvertirmi che non ce l'ha fatta, questa volta, ma riproverà.

"Sono arrivata adesso a X e l'angoscia è terribile… Io distruggo tutto ciò che entra in contatto con me e mi sento completamente marcia. Grazie signor Conforto del paziente interessamento ma è tutto inutile, sono più forti di te e di me e di tutto i mostri".

I mostri sono oggetti che cannibalizzano le parti più vive di G., sono forse io stesso vissuto come oggetto rifiutante, allontanante. Cerco di impedire le facili scissioni che il comportamento della madre e la cieca insensibilità del padre sembrano troppo vistosamente incoraggiare in me e in G.; cerco di riportare come posso il dialogo all'interno del nostro legame.

G. mi segue, riesce ad utilizzarmi, come e fin che può:

"Caro C., non mi abbandonare mai, ma sono io che dovrò abbandonare te, sono io che dovrò andare via e mi sento così triste".

Le dico che è ora in grado di essere in contatto con la possibilità che il nostro rapporto abbia un termine, una conclusione, vissuta in termini diversi, tristezza, non morte e catastrofe. Mi chiede che però io sia molto attento a rispettare i suoi tempi, a non imporle i miei.

G. mi risponde:

"Quando penso che non verrò più qui a parlare con lei, che non ci sarà ad occuparsi di me totalmente mi sento tristissima. Mi sembra che tu mi abbia tirata su per la strada e adottata, una specie di figlia e per questa figlia sei stato papà e mamma e tutto quello che serviva perché potessi crescere nel modo migliore. Sento tutto il nutrimento che mi hai dato come io dò il sangue di bue alla mia gardenia e la guardo crescere".

A queste comunicazioni che contengono un tenue sapore di idealizzazione difensiva, che sembra coprire angosce più intense e possibili movimenti aggressivi, seguono messaggi nuovamente più drammatici:

"Non mi va di perdere la tua presenza, né sono convinta che là fuori ci sarà qualcosa di meglio o che sarò capace di costruire qualcosa di meglio. Tutto quello che riguarda abbandoni mi fa sentire un disastro, sto ancora facendo di tutto in ogni momento per evitare di sentirmi rifiutata o lasciata anche nelle cose più impercettibili".

Ora in seduta riesce a parlare più a lungo; mi racconta del nuovo rapporto affettivo con F., è stupita dalla tensione sessuale che sente salire dentro di sé e che non la sconvolge; mi dice: "Le mie fantasie sessuali sono cambiate. Sono molto belle e sono finalmente complete di organi genitali."

Mi scrive:

"Sono molto presa dalla sensazione di dovermi separare da te. Vivo questa cosa con molta tragedia, anche oggi ho avuto la mia sessione di pianto disperato al riguardo. La disperazione di lasciarti è forte quanto la consapevolezza che non posso non lasciarti".

"La depressione e tutto lo stato di profonda sofferenza in cui sono adesso sono dovuti al mio affrontare per la prima volta fino in fondo il diventare maledettamente adulta e l'eventualità di lasciarti per andare fuori nel mondo indipendente".

Ora le sedute, sono trascorsi cinque mesi, stanno riprendendo un assetto più abituale.

G. accetta il lettino, per qualche seduta e per qualche decina di minuti, poi si siede, mi guarda; parla.

Non rinuncia ancora del tutto a scrivere, non tutte le volte però.

Ho l'impressione che le lettere corrispondano ora maggiormente ad un momento di elaborazione, la prosecuzione della seduta, non un'alternativa al rapporto più diretto con me. Insomma G. ha meno bisogno di difendersi dall'intimità con me.

"Voglio avere in me, stabile e permanente, il caminetto acceso e la sensazione di solidità della mia persona. Non voglio usare gli altri come stampelle per tutta la vita. Io voglio andare incontro agli altri e poter interagire con loro con me stessa definita e senza fratture".

Capita che ogni tanto G. scherzi, ora, sulle sue lettere, mi dice se le conservo o se me ne sono disfatto, soffocato dalla carta. Sorride, dicendolo, anche se intuisco il suo timore che io possa adesso disfarmi delle sue parole scritte, cacciarle via, come, concluso il nostro rapporto, mi libererò di lei, fisicamente e mentalmente, dimenticandola.

Le dico queste cose, lei mi dice: "Tenga lei le mie lettere. Le usi come crede".

In una delle ultime mi fa capire come è la gratitudine:

"Caro C., grazie di essere vivo, di essere stato presente nella mia vita nel profondo di me come nessun'altra persona. Grazie di essere sempre stato morbido e dolce e forte in ogni diverso momento e di aver capito le mie smorfie e le mie sfumature. Grazie di avermi amata dalla testa ai piedi senza se e senza ma anche quando ero talmente orribile da non potermi sopportare io stessa. Grazie di aver ascoltato e imparato il mio linguaggio per poter arrivare alla mia anima e di aver trattato con delicatezza le cose che hai trovato quando ci sei entrato. Grazie di avermi raccolta tutta impaurita e selvaggia nel mezzo del buio e del vuoto e di aver usato tutta la tua pazienza e dolcezza per convincermi a credere almeno in te. Grazie di aver portato il calore e l'intimità dentro di me quando ero all'inferno nel paese delle luci abbaglianti e delle correnti elettriche. Di non avermi abbandonato anche quando cercavo di esasperarti più di quanto lo fossi io stessa.

Grazie di tutto quello che mi hai resa capace di vedere, sentire e comprendere e tante grazie del sostegno di adesso che sono in una tempesta tropicale".

Lavoriamo ancora un anno prima di concludere il nostro rapporto.

 

 

Alcune considerazioni

 

Ho descritto una relazione psicoanalitica che ho vissuto come modello di situazione "limite".

Per "situazione limite" ho inteso una relazione psicoanalitica che si è avvicinata pericolosamente alla sua morte ed è riuscita ad evitarla attraverso l'invenzione di una nuova modalità di contatto in seduta che ha preso il posto di quella più abituale, che utilizzava il percorso delle libere associazioni.

Questa modificazione dei modi di comunicazione di G. ha costituito, anche se non esplicitata, una modificazione del setting, questa volta proposto da G., e da me condiviso.

Riflettendo su questo percorso mi è tornato in mente il lavoro di Winnicott (1967), in cui egli divide in alcune categorie psicologiche le persone. Ho pensato che la mia paziente poteva avvicinarsi a coloro i quali si portano dentro un'angoscia non pensabile e in certo modo colgono delle occasioni per avvicinarsi al crollo (breakdown) onde riavvicinarsi a quella "terribile, impensabile angoscia" (p. 89 tr. it.). G. con la gestualità della lettera stropicciata e buttata via, per terra, mi ha comunicato il terrore dell'essere "lasciata cadere". Contemporaneamente mi ha espresso la speranza di "essere raccolta" e, una volta raccolta, la lettera-paziente è stata in grado di comunicarmi dei "pensieri" su questo terrore.

Mi sono chiesto se il mio atto di raccogliere il pensiero stropicciato di G. e di entrarne così in contatto non si possa interpretare come un processo trasformativo di coppia di elementi "beta", emozioni psichicamente indigerite, in un iniziale aggregato di elementi "alfa".

Ho anche pensato quanto l'atto del raccogliere e conservare la stropicciata lettera-paziente possa confermare l'idea di Winnicott che il breakdown necessita, per non travolgere il paziente, di un sostegno (holding) la cui realizzazione da parte del terapeuta mi pare attinga in maniera specifica alla sua funzione empatica.

Ad essa è necessario aggiungere, quando sarà possibile, una funzione altra dell'analista, che si assume specificatamente il compito della pensabilità delle emozioni della coppia, e qui il modello di rêverie bioniana mi pare particolarmente utilizzabile.

Winnicott sostiene che per certi gravi pazienti la madre è morta, ad un certo momento dello sviluppo, come presenza psichica, evidentemente, e qui si è prodotto, commenta Green (1977) il vuoto (blankness) psichico. Green distingue, tra perdita e assenza, dando alla prima parola il senso di una negatività negativa; sterile, mortifera. L'assenza è al contrario una negatività positiva, feconda, creatrice di pensiero simbolico.

Credo che G. nella sua analisi abbia attraversato momenti in cui la perdita è apparsa come terrore cieco, panico, senso di morte: ho pensato che non ne sia "morta" come individuo capace di mantenere comunque il rapporto, il contatto, perché proprietaria di un "seno idealizzato" interiorizzato che è sopravvissuto e le ha permesso, e ci ha permesso, di sopravvivere e di riprendere a pensare.

Indubbiamente devo pormi altre domande: quali aspetti di G., in contatto con "il seno idealizzato" hanno mantenuto in vita il rapporto? E poi, quali avvenimenti, condizioni, sviluppi dentro di me hanno contribuito a rendere possibile questo svolgimento?

Descriverò quello che penso con maggior chiarezza oggi rispetto ad allora, con l'aiuto di modelli che ora ho reso consci e che ritengo possibile che allora fossero in me presenti, assai meno strutturati, a livello preconscio.

E' un po' il discorso che fa Sandler (1983) quando afferma che noi lavoriamo sempre anche sulla base di una struttura concettuale preconscia che cammina parallela al modello conscio e che emergerà poi nel tempo come corpo teorico consapevole.

Penso che il mio acconsentire a che G. scrivesse invece di parlare abbia espresso un mio percepire (preconsciamente) le strutture difensive di G., i suoi meccanismi di difesa, non solo come aspetti regressivi, allarmanti e per me colpevolizzanti, ma anche espressioni di una dimensione diversa, cioè l'estremo tentativo di mantenere il contatto con la mia immagine idealizzata e di comunicare a G. quindi, emotivamente almeno, rispetto e valore.

G. riusciva a scrivermi quando la mia presenza fisica non la rimandava con eccessiva violenza ad un me deteriorato, forse danneggiato irreparabilmente, inevitabilmente prossimo a scomparire. Credo che la mia assenza fisica le abbia permesso di ritrovarmi come presenza interna positiva, con cui dialogare, pensare. Nella lotta così accanita tra distruttività e vitalità che abbiamo attraversato ritengo abbia giocato un ruolo rilevante un altro aspetto assai particolare, che ho preso in considerazione solo ora. Mi riferisco ad una corrente di piacere estetico che io ho sempre provato, mescolato a sentimenti altri, nell'entrare in contatto con le descrizioni che G. mi forniva attraverso le parole scritte e che credo di averle trasmesso. Mi sono tornate in mente alcune considerazioni di Meltzer (1988) quando afferma che il mondo psicoanalitico ha prodotto "una certa timidezza" (p. 44 tr. it.) nell'affrontare temi di questo tipo "per paura di apparire sentimentali o di colludere nella coperta aggressione del transfert erotico" (p. 44 tr. it.). E' possibile che io abbia allora per lo più allontanato, "scisso", queste emozioni controtransferali per timori di questo tipo. Oppure, nei momenti in cui non mi era possibile ignorarne la presenza, ne trascuravo il valore relazionale. Oggi sono convinto che hanno avuto grande importanza e trovo che le parole di Meltzer illustrino quello che penso: "…quando ci imbattiamo in qualcosa che cattura il nostro interesse, quando lo vediamo come un frammento o un'istanza, o un esempio della bellezza del mondo, desideriamo… conoscerlo in profondità. In quel momento incontriamo il cuore del (suo) mistero, oltre ai forti limiti delle nostre capacità di conoscenza. Entriamo nei regni della scienza e dell'arte, la cattedrale della mente nascosta nella foresta del mondo" (p. 168 tr. it.). Ritengo cioè che la mia paziente sia riuscita, pur nelle condizioni di maggior chiusura e ritiro, ad immettere in me, al di là del significato "letterale" delle sue comunicazioni scritte, una funzione di richiamo di attenzione, di spinta conoscitiva attraverso l'elemento estetico. Ed io, a mia volta, penso di averle restituito la sensazione di essere da lei "stimolato" a conoscerla, a conservarla in me, e di aver con questa risposta contribuito ad "animarla" quando l'angoscia di morte tentava di riempire e soffocare la sua anima.

Ho capito anche che il peggior nemico della mia funzione terapeutica, almeno in questo rapporto, è stata l'inconscia utilizzazione di una mia difesa di ordine maniacale che mi ha trascinato a investire G. di eccitazione malata.

Fortunatamente è stata lei a farmi capire che la stavo distruggendo e mi ha fermato e fatto riflettere.

Loading

Autore

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Caffè & Psichiatria

Ogni mattina alle 8 e 30, in collaborazione con la Società Italiana di Psichiatria in diretta sul Canale Tematico YouTube di Psychiatry on line Italia