di Andrea Mazzeo* e Paola Ulissi**
*Psichiatra, Dirigente Medico, C.S.M. Lecce
**Psicologa-Psicoterapeuta, Roma
INTRODUZIONE
La sindrome di Capgras è un particolare disturbo mentale noto anche come illusione del sosia.
Nella tradizione del teatro latino, Sosia è il servo di Anfitrione (1); il dio Mercurio, complice delle scappatelle amorose di Giove, assume le sembianze di Sosia per convincere la moglie di Anfitrione ad accogliere nel suo letto Giove (che a sua volta ha assunto le sembianze del marito). All'arrivo del vero Sosia, il dio Mercurio, che sorveglia la casa, aggredisce e scaccia il servo di Anfitrione sostenendo di essere lui il vero Sosia.
Le prime descrizioni di questa sindrome risalgono al 1923 ad opera dello psichiatra francese Capgras; altri AA negli anni successivi hanno descritto casi analoghi.
In precedenza il fenomeno era stato riportato da Janet (1903) e da Sérieux (1911).
Il fenomeno consiste in una "forma complicata di errata identificazione", molto più caratteristica e specifica delle consuete errate identificazioni che si verificano nella schizofrenia (2); le prime descrizioni riferivano esclusivamente casi di donne ma in seguito sono stati descritti anche casi di uomini affetti dal disturbo.
Arieti riporta un caso abbastanza tipico che considera come parte di una sindrome paranoide, ed osserva che "da un esame della letteratura si ha l'impressione che i malati descritti potrebbero essere classificati o come schizofrenici paranoidi o come stati paranoidi" (2); in tal senso la sindrome di Capgras potrebbe essere più propriamente chiamata sintomo di Capgras.
Interessante è anche il dato, riportato dello stesso A., del riscontro di questa sindrome anche in pazienti con psicosi maniaco-depressiva.
L'A. vede la sindrome di Capgras come una forma inconsueta di spostamento psicotico, e conclude ritenendola una di quelle "difficili elaborazioni paranoidi-paranoiche del pensiero che non sono ancora state spiegate pienamente" (2).
Secondo gli studiosi dell'antropoanalisi (analisi dell'esser-ci), nell'esperienza delirante del paziente con la sindrome di Capgras sono in gioco tre persone: il malato, l'alter (la persona nota al paziente) e l'alius (il sosia). Il paziente sposta i suoi affetti (di solito aggressivi) sull'alius mentre all'alter è risparmiato l'odio del paziente.
La persona nota (il coniuge, il padre, la madre) viene scissa nell'alter, che non è più presente nella disponibilità sensoriale del paziente, e nell'alius, che ha preso il posto dell'alter ed è, per questo, odiato dal paziente. La sindrome potrebbe essere vista come una modalità relazionale di colpire l'alter colpendo l'alius; ma colpendo l'alius si colpisce, in realtà, l'alter; una sorta di gioco delle parti, quasi di stampo pirandelliano.
Per Callieri "il disconoscimento di conosciuto si risolve nell'alterazione delirante dell'identificazione di esperienze passate con esperienze attuali: si tratta quindi di una vera e propria integrazione, sul piano percettivo, di un'esperienza delirante paranoide e, forse, anche delirante olotimica" (3).
Pancheri (4) tratta la sindrome di Capgras nel capitolo sui disturbi deliranti, tra le forme cliniche particolari; l'A osserva che il tema "trova una radice culturale nella concezione dell'esistenza di un "doppio" delle cose e delle persone, concezione a diffusione pressoché universale, strutturata nella mente umana fin dai tempi più remoti, come testimoniano le tradizioni folcloristiche, etnologiche e mitologico-religiose delle più svariate culture".
Anche Cazzullo (5) accenna alla sindrome nel capitolo dei disturbi deliranti.
Reda (6) osserva che la sindrome è in genere inglobata in un delirio persecutorio.
In una recente revue, Kimura (7) rileva che la sintomatologia insorge nelle donne in età più avanzata che negli uomini.
CASO CLINICO
D.F., maschio, 20 anni; studente universitario in lettere, militare di leva al settembre '98.
Durante il servizio di leva avrebbe ricevuto delle minacce da un altro militare (corteggiavano la stessa ragazza); cominciò a temere che potessero dargli dei cibi avariati o potessero infettarlo "con le siringhe che usavano per drogarsi".
Manifestò questi timori ai suoi genitori che cercarono di rassicurarlo, e poi ai suoi superiori che lo fecero visitare dai sanitari del C.I.M., i quali ritennero opportuno un ricovero in S.P.D.C. con T.S.O., a febbraio 1999.
Dimesso dopo pochi giorni con la diagnosi di "Disturbo dell'Adattamento" e terapia neurolettica, che interruppe dopo poco; comparvero comportamenti aggressivi nei confronti dei genitori cui seguì un nuovo ricovero con T.S.O. nel medesimo reparto, a marzo 1999.
Dimesso, questa volta, con la diagnosi di "Disturbo schizofrenico" e terapia con risperidone, proseguita sino a giugno 1999.
Successivamente al 2° ricovero cominciò ad affermare che i suoi genitori non erano in realtà i suoi veri genitori; l'aggressività era discretamente controllata, ma dall'epoca della sospensione della terapia si fece sempre più incontrollabile sino ad un terzo ricovero.
Viene ricoverato con T.S.O. a fine settembre '99, accompagnato da vigili urbani e carabinieri, intervenuti su richiesta dei familiari: convinto che i suoi genitori fossero dei "cloni", il paziente li aveva cacciati di casa e vi si era barricato.
Piuttosto clamoroso all'ingresso, si rese necessaria una sedazione farmacologica relativamente "pesante".
Dai colloqui con il paziente è emerso che la convinzione che i suoi genitori siano dei "sosia" è sostenuta da illusioni visive (li vede modificati nelle caratteristiche somatiche, li vede più bassi, con i lineamenti del viso differenti dal solito; questo fenomeno si sarebbe verificato in realtà dopo il primo ricovero. Riferisce anche di uno "scherzo" fattogli in caserma dai commilitoni i quali gli avrebbero fatto mangiare una "pizza drogata".
È convinto che i suoi veri genitori siano stati "sequestrati dalla mafia, e tenuti nascosti in Aspromonte"; questo perché il commilitone che lo minacciò è di origini calabresi ed è amico di alcuni pregiudicati del suo paese.
Non parla volentieri della sua vita e dei suoi rapporti con i genitori e con il fratello.
Gli esami eseguiti, fra cui la TAC cranio smc, sono nella norma; ha rifiutato di praticare l'EEG.
Ha iniziato il trattamento con clozapina ed ac. valproico; la clozapina per l'ovvia azione antipsicotica, l'ac. valproico per ottenere una sedazione non neurolettica e per l'ipotesi clinica che le illusioni potessero essere degli equivalenti epilettici.
Nel corso della degenza (anche per le modalità del ricovero – T.S.O.) non sono state molte le possibilità di "incontro"; il ricovero è stato vissuto come violenza, il protrarsi della degenza come ulteriore violenza.
Superate le diffidenze iniziali, il paziente ha spiegato le sue turbe percettive, definendole correttamente come "illusioni", localizzandone temporalmente l'esordio al Febbraio '99 e stabilendo il nesso di causalità con lo "scherzo" fattogli in caserma.
Quando siamo passati a parlare delle sue convinzioni deliranti, ha accennato ad un sorriso dicendo "so che sono i miei genitori"; questo, che potrebbe sembrare una critica, era poi contraddetto dal fatto che toccava la madre sulle guance come per assicurarsi che non portasse una maschera, o che qualche volte telefonava a casa chiedendo se avessero "pagato il riscatto" per far tornare a casa i suoi veri genitori.
Abbiamo anche discusso della precedente diagnosi di schizofrenia e del fatto che lui non si sentisse schizofrenico; si sono, quindi, affrontati questi temi anche in presenza dei genitori, ridefinendo il problema del paziente non come quello di uno schizofrenico ma di una persona con un particolare disturbo percettivo.
La maggiore fiducia nel medico ha portato il paziente ad aprirsi sulle difficoltà relazionali con la famiglia e con il contesto ambientale.
Dimesso con la diagnosi di "Sindrome di Capgras. Sospetto per Disturbo Schizofrenico".
Ha proseguito il trattamento con 200 mg/die di clozapina; la posologia dell'ac. valproico è stata gradualmente ridotta con l'ipotesi di sospensione, per eccessiva sedazione.
Ad un controllo ambulatoriale dopo circa un mese, ha rifiutato di continuare ad assumere la clozapina, perché gli provocava impotenza, accettando invece di continuare ad assumere l'acido valproico.
Ha fatto da solo queste valutazioni, confrontando il foglietto illustrativo dei due farmaci con ciò che ha letto in una enciclopedia medica; abbiamo quindi concordato di ritornare al risperidone (già da lui assunto in passato) che non gli provocava impotenza.
È comparso successivamente un aspetto che si potrebbe definire "rivendicativo": la pretesa di una riabilitazione, nel senso della modifica della diagnosi iniziale di schizofrenia da parte del distretto militare e quindi il completamento del servizio militare di leva.
La famiglia ha chiesto consiglio sulla eventuale consultazione di un cattedratico, al quale si è rivolta con lettera d'invio in cui si riassumeva la storia sino a quel momento. Il collega esprimeva i medesimi dubbi sulla diagnosi di schizofrenia, confermando quella del disturbo dell'umore ed identificando un sottostante disturbo ossessivo-compulsivo, per il quale consigliava l'eventuale associazione di un S.S.R.I. (fluoxetina o fluvoxamina) alla corrente terapia con ac. valproico e risperidone.
Il paziente però decideva di sospendere del tutto la terapia, ripresentando manifestazioni aggressive verso i familiari.
Si sono susseguiti altri ricoveri con T.S.O.; attualmente il paziente è in trattamento con zuclopentixolo decanoato ed olanzapina, ma con scarsa compliance.
DISCUSSIONE
Aspetti nosografici
La diagnosi differenziale viene discussa prendendo in esame i criteri diagnostici del DSM-IV per la schizofrenia (8).
A-1) La costruzione delirante è apparsa sin dall'inizio piuttosto "fragile", accessibile alla critica, per niente strutturata: quasi una spiegazione che il paziente si è dato di ciò che "vedeva", e cioè l'aspetto dei suoi genitori modificato.
A-2) Il paziente non ha mai presentato allucinazioni uditive; le dispercezioni visive sembrano più di tipo illusionale che allucinatorio.
A-3) L'eloquio è sempre stato ben organizzato, coerente.
A-4) Il comportamento non è grossolanamente disorganizzato.
A-5) Mostra un certo appiattimento affettivo, un certo grado di abulia, ma non sembrano significativi (potrebbero anche essere visti come una sorta di adattamento psicologico al disturbo, o conseguenza dei neurolettici).
B) È presente una disfunzione scolastica (non ha più frequentato l'Università).
C) Il disturbo dura da più di sei mesi.
D) Il disturbo schizoaffettivo o dell'umore può essere escluso con sufficiente certezza; non sono stati individuati, nel decorso longitudinale, episodi "affettivi" in concomitanza con i sintomi della fase attiva.
E) Vi è il sospetto anamnestico dell'uso di sostanze (riferito dal paziente ma non più verificabile) che ha preceduto l'insorgere delle illusioni visive.
Gli elementi diagnostici ci avrebbero dovuto portare a diagnosticare un Disturbo Psicotico NAS (il criterio A non è del tutto soddisfatto), ma vi è stato un esordio delirante che ha preceduto il disturbo percettivo e sono presenti alcuni sintomi negativi; alla luce di ciò il sospetto di schizofrenia sembra giustificato.
Aspetti psicologici
Il disturbo è, verosimilmente, partito da un'esperienza originaria, e successivamente la sua fenomenologia si è sviluppata nel tentativo di integrare tale vissuto in un contesto "coerente" (9).
Questo punto di vista richiama la questione, posta da Bleuler, sui sintomi fondamentali ed accessori della schizofrenia, e da Schneider, sui sintomi di primo rango e di secondo rango.
Di recente questa ottica ha prodotto la teoria dei sintomi di base, cioè, appunto, delle esperienze originarie dalle quali si sviluppano fenomenologie psicopatologiche che cercano di "integrare il vissuto abnorme in un contesto coerente" (molti deliri sono in effetti questo, a nostro parere).
Queste riflessioni ricordano anche la teoria di Fenichel dei sintomi disintegrativi ed integrativi; il contesto in cui si muoveva Fenichel era di tipo psicanalitico, ma si possono individuare dei punti di contatto tra queste diverse teorie della mente.
Questo ragazzo sembra aver anche bisogno di uno spazio; la difficoltà di gestire lo spazio tempo, ricorda la richiesta, che lui faceva ai suoi genitori, di poter avere una stanza sua, come il fratello maggiore. Non solo uno spazio fisico-reale, ma anche uno spazio mentale, che sembra coincidere con il tempo mentale di elaborazione ed integrazione degli affetti positivi e, soprattutto, negativi.
Colpisce che il paziente tocchi il volto della madre per accertarsi che non possieda una maschera ed, allo stesso tempo, sembra ancora in contatto con la realtà quando afferma di sapere che "sono i miei genitori".
Fa pensare che, forse, anche i genitori, nel tempo, sono cambiati. La malattia del figlio potrebbe averli cambiati negli atteggiamenti, per esempio, nell'espressione dell'affetto e della preoccupazione. Così la realtà si incastra con la fantasia: io sono cambiato, i miei genitori sono cambiati, le cose non sono immutabili, per me è difficile gestire la consapevolezza della non-immutabilità della realtà-relazioni.
Quasi questo ragazzo avesse degli aspetti autistici, che richiedono un'immutabilità dello spazio-tempo perché si percepisce incapace di gestire lo spazio-tempo-affetti-relazioni-frustrazioni-gratificazioni. Insomma tutto ciò che ha a che fare con la nostra quotidianità.
Il servizio militare sembra aver risvegliato in lui, prepotentemente e violentemente, la sua vulnerabilità rispetto ad un mondo duro che stimola emozioni difficili da contenere e, soprattutto, da accettare.
CONCLUSIONE
Il paziente continua ad assumere la terapia neurolettica ed antipsicotica, viene seguito regolarmente dal C.S.M., la compliance farmacologica e psicoterapica rimane molto bassa. Gli episodi di aggressività si sono ridotti, l'ideazione permane delirante, non ha ripreso gli studi, trascorre le giornate in maniera improduttiva, con scarsi rapporti sociali, affettivamente isolato.
Come diagnosi definitiva sentiamo di poterci esprimere per una Schizofrenia Paranoide.
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