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Autodistruzione come “destino”: il caso di Yukio Mishima

6 Feb 13

Di Sabino Nanni

1 Introduzione

Alcuni pazienti appaiono chiaramente dominati da una forza autodistruttiva inesorabile che si manifesta in abitudini nocive o rischiose, in ricerca attiva di situazioni stressanti o logoranti, in trascuratezza nella cura della propria salute, oppure in veri e propri atti di suicidio. Talora si ha come l’impressione di un destino accanito contro cui il terapeuta ed il paziente stesso tentano di lottare in tutti i modi, invano. Quando una di queste persone possiede le capacità introspettive ed espressive di un Artista, la sua opera può fornire al clinico preziosi suggerimenti su quanto può essere alla base di queste sconcertanti tendenze. È il caso dello scrittore giapponese Yukio Mishima, autore di un clamoroso suicidio tramite "harakiri" ("seppuku" è il termine più appropriato), avvenuto in un ambiente circondato da inviati dei giornali e delle emittenti televisive. Il gesto era stato preannunciato ripetutamente e descritto nei minimi particolari in numerose sue opere, anche di parecchi anni precedenti. Ma vediamo, innanzi tutto, sempre con l’aiuto dei suoi scritti (in gran parte autobiografici) alcune notizie sulla vita di questo inquietante personaggio.

 

2 La vita

Poco dopo la nascita, avvenuta nel 1925, il piccolo Kimitake Hiraoka (Yukio Mishima è uno pseudonimo), si trovò subito immerso, più che in un’atmosfera d’amore, nell’insoddisfazione e nei bisogni egoistici di rivalsa che dominavano i suoi familiari, soprattutto la nonna paterna Natsuko. Costei, primogenita di una famiglia aristocratica di antica origine, aveva dovuto prendersi come marito Jotaro, figlio di un ricco agricoltore e semplice "parvenu", costrettavi dalle energiche pressioni dei fratelli. Essi, in rapporto ad un’antica consuetudine, non avrebbero potuto sposarsi finché non l’avesse fatto la sorella maggiore e quindi, per fretta, la indirizzarono alla prima persona disponibile. Pare, tuttavia, che, alla base di questa "mesaillance", vi fosse anche il brutto carattere di Natsuko (scostante, irascibile, dispotica) per cui nessuno della sua classe sociale l’aveva voluta [11, pag. LXVII, LXVIII]. Tutto ciò creò o accentuò nella donna mortificazione, autocommiserazione, disprezzo verso il marito ed un atteggiamento tirannico verso la famiglia. Donna non priva di sensibilità, colta, appassionata di teatro, di letteratura europea, delle lingue francese e tedesca, Natsuko non poté trovare consolazione nel figlio Azusa (padre di Mishima), rivelatosi persona di natura "misogina, fredda" con un’impostazione rigida e "burocratica" dei rapporti interpersonali [11, pag. LXVIII]. Fatalmente, quindi, la sua scelta di qualcuno cui aggrapparsi e su cui riporre le proprie speranze di riscatto e rivalsa ricadde sul figlio primogenito di Azusa: "Quel bambino le sarebbe appartenuto e in lui ella avrebbe rigenerato le nobili ascendenze dei Nagai e cancellato l’umile estrazione sociale degli Hiraoka" [11, pag. LXIX, LXX]. Il futuro scrittore Mishima, appena nato, fu subito oggetto di attese grandiose riguardo al suo avvenire intellettuale, accompagnate da un atteggiamento repressivo e sostanzialmente mortificante riguardo alle esigenze emotive e corporee di lui bambino. Alla nascita gli venne pretenziosamente attribuito il nome Kimitake, lo stesso del barone Furuichi, un amico di famiglia [11, pag. LXVII]. A soli 49 giorni, con il pretesto della pericolosità del secondo piano della casa in cui vivevano i genitori, Kimitake viene "strappato alle cure della mamma" da parte della nonna (con cui rimarrà fino all’età di 12 anni) e "…fatto crescere accanto al suo letto, in una stanza con le finestre costantemente chiuse, in cui l’odore della malattia e della vecchiaia… toglievano il respiro…"[4, pag. 68]. "A Shizue [la madre] è consentito solo l’allattamento del figlio, in una meticolosa scansione di pause e orari, strettamente supervisionata da Natsuko" [11, pag. LXIX, LXX]. Il bambino, rivelatosi cagionevole di salute, viene sottoposto da parte della nonna ad un regime iperprotettivo, repressivo, castrante: a Kimitake non è consentito di giocare fuori casa, non gli è concesso di uscire con la madre prima dei 5 anni "e in ogni caso, mai in giornate ventose", "nei mesi primaverili, gli è imposta la mascherina protettiva". "Poiché Natsuko considera gli altri maschietti pericolosi…, Kimitake può intrattenersi solo con tre cugine di età maggiore". "Nessun gioco rumoroso gli è concesso…" [11, pag. LXIX, LXX]. Nello stesso tempo, le aspettative ambiziose e gli stimoli intellettuali di Natsuko iniziano a produrre i loro frutti: il piccolo Kimitake all’età di cinque anni già legge tantissimo e scrive brevi poesie. Giunto in età scolare, viene indirizzato, su insistenze della nonna, ad una scuola molto prestigiosa ed elitaria; l’esame d’ammissione è piuttosto duro, ma il piccolo Kimitake lo supera brillantemente [11, pag. LXX]. Sottrattosi alle cure esclusive della nonna, nel 1937 egli raggiunge finalmente i genitori ed i fratelli nati nel frattempo. Ma il nuovo ambiente familiare si rivela non molto migliore del precedente: ora Mishima conosce fino in fondo la vera indole del padre, "uomo severo e non imparziale, filonazista, tirannico… in particolare con i due [figli] maschi" [11, pag. LXXI]. "Kimitake… è il suo maggior cruccio: …il ragazzo scopre Wilde, Rilke… Ma Azusa ritiene la letteratura "roba per signorine" e fonte di ogni depravazione e Kimitake, un adolescente introverso dall’aspetto gracile, più si rifugia nella lettura… più suscita la collerica indignazione di suo padre. Più volte i libri, i suoi manoscritti, le sue poesie vengono ridotti in brandelli" da parte del genitore. Solo la madre appoggia il ragazzo, di nascosto dal marito, nei suoi primi cimenti letterari [11, pag. LXXI]. I primi successi dello scrittore arrivarono molto presto, già in età adolescenziale, ma sempre dovendo lottare contro la persecuzione paterna: lo stesso pseudonimo Mishima pare sia stato da lui adottato nel tentativo di tenere il padre all’oscuro della propria attività. Solo nel 1944 quando Kimitake si diploma col massimo dei voti nella sua prestigiosa scuola ricevendo il regalo rituale dell’orologio d’argento dall’Imperatore, i furori paterni iniziano a placarsi, arrivando il genitore, nel 1948, a rassegnarsi ed a consentire al figlio di coltivare la sua vena di scrittore "purché diventi il migliore del paese" [11, pag. LXXIV, LXXVII].

La parte più stabile della vita di Mishima è quella dedicata al lavoro, "scandito dalla scrupolosa osservanza di ritmi severi… Egli trascorre le notti a scrivere, dormendo durante il mattino e alzandosi all’ora di pranzo. Le ore di lavoro notturno sono pianificate con meticolosità e spesso suddivise fra quelle destinate a scritti a uso più commerciale e quelle dedicate a lavori che lo coinvolgono maggiormente… La puntualità con cui consegna il materiale suscita nei suoi editori un felice stupore…" [11, pag. LXXIX]. Nel resto della sua esistenza, al contrario, il suo comportamento riconosce clamorosi rovesciamenti in caratteristiche di segno opposto. Il piccolo Mishima è descritto dalla madre come "rassegnato al suo destino, a tal punto introverso da non mostrare la minima ribellione a quell’innaturale stato di cose", vale a dire alle limitazioni ed imposizioni ad opera della nonna [11, pag. LXIX, LXX]. A scuola egli si presenta come "bambino d’indole taciturna e i suoi comportamenti timidi e quasi femminei sono oggetto di derisione da parte dei compagni" [11, pag. LXX]. Anche qui, il piccolo Kimitake non oppone alcuna resistenza alla nonna Natsuko che "…nell’ansia di vigilare sulla cagionevole salute del nipote, gli impedisce di pranzare a scuola e di partecipare alle gite scolastiche". Ancora nei primi anni ’50, già quasi trentenne, pur avendo Mishima iniziato a frequentare anticonformistici circoli e ritrovi di omosessuali, egli mantiene lo stesso riserbo estremo, l’introversione e la timidezza, che avevano sinora caratterizzato il suo comportamento. "Testimoni lo ricordano come un avventore particolare, che fa uso di alcolici con moderazione, incline a non focalizzare l’attenzione su di sé… si direbbe un osservatore che prende appunti e ispirazione per un nuovo lavoro…" [11, pag. LXXIX].

Nel 1948 (lo stesso anno della fine del conflitto col padre) avviene il clamoroso suicidio dello scrittore Osamu Dazai. Costui "a Kimitake non piaceva, ne disapprovava la personalità ostentatamente fragile e lo stile di vita disordinato, dedito all’autodistruzione… Men che meno ne apprezzava quella lacerazione dell’intimo così esibita al lettore…". Tuttavia, appresa la notizia della sua morte, Mishima inizia la stesura di "Confessioni di una maschera" [4], romanzo autobiografico in cui egli presenta, di se stesso, un’immagine identica a quella che aveva descritto ed aspramente criticato nell’altro [11, pag. LXXVII]. Negli anni successivi, gradualmente ma in misura progressivamente crescente, "lacerazioni dell’intimo" e tendenziale "autodistruzione" iniziano a comparire anche nella vita manifesta, pubblica, dello scrittore, insieme ad un esibizionismo apparentemente vacuo, del tutto stonato con il resto della sua personalità. È sempre più evidente, verso la metà degli anni ’50, un suo attivo presenzialismo: egli "focalizza su di sé l’attenzione degli ambienti più eterogenei, evadendo incessantemente dallo stretto ambito letterario… è indicato come personaggio eccentrico, se ne segnalano i comportamenti ostentati e la stravaganza… dell’abbigliamento…. Comincia a dedicarsi al body building e al sollevamento pesi. La divulgazione di scatti fotografici in costume sportivo durante gli allenamenti solletica… l’immaginario collettivo…"[11, pag. LXXXI]. Avendo partecipato come attore ed autore di musiche ad una produzione cinematografica, nella fase promozionale della pellicola Mishima moltiplica le interviste e le apparizioni sui media, e non si nega ad atteggiamenti da star [11, pag. LXXXVI]. La restaurazione del potere militare e dell’autorità dell’Imperatore, da lui venerato ma anche rimproverato per la sua assenza, diviene un’esigenza sempre più assillante per Mishima; dal 1967 in poi, frequenta gruppi universitari neonazionalisti, fonda la "Associazione degli scudi", un gruppo paramilitare; si esercita al combattimento con la spada ed al karatè [11, pag. XCV]. Nell’immagine pubblica che Mishima offre di sé, il professionista geniale e serio che egli era sempre stato e che continuò, in realtà, ad essere (lo scrittore dedito al lavoro, sempre originale eppure preciso e puntuale con gli editori), viene degradata a figura adolescenziale, scioccamente esibizionista, caricaturale. Lo scrittore Mishima, dotato di grandi capacità introspettive e di una sensibilità estrema, femminea, convive in un contrasto lacerante con l’attivista politico Kimitake, maschilista, dedito al culto della forza fisica, frequentatore e fondatore di gruppi "nostalgici" e reazionari.

Il tema del martirio percorre tutta l’opera di Mishima. In due lavori ("Patriottismo" del 1961 e "A briglie sciolte" del 1966) egli anticipa in modo impressionante molti dettagli di quello che sarà il suo suicidio di qualche anno dopo. In "Voci degli spiriti eroici" del 1968, gli spiriti dei congiurati del 1936 e dei kamikaze della seconda guerra mondiale "formulano la loro dolente accusa all’Imperatore, cui hanno consegnato le loro vite, per averli abbandonati all’ignominia e alla condanna della Storia" [11, pag. XCII, XCIII]. Il martirio di S. Sebastiano rappresenta, per lo scrittore giapponese, una vera ossessione: già all’epoca della sua pubertà, come ci racconta in "Confessioni di una maschera", una copia del "Martirio del Santo" di Guido Reni era stata per lui stimolo a conturbanti fantasie masturbatorie nonché ad un breve racconto [4]. Nel 1963 viene pubblicata "Espiazione con le rose", una raccolta fotografica il cui soggetto predominante è lo stesso Mishima per lo più in costume adamitico, con ampi riferimenti ad opere del Rinascimento italiano; tra le immagini dello scrittore, una pare alludere al suddetto dipinto di Reni. Nel 1965 pubblica una traduzione del " Martyre de Saint Sébastien " di Gabriele d’Annunzio. Infine nel novembre 1970, una settimana prima del suicidio, si apre una mostra dedicata a Mishima, e curata da lui stesso, tra le cui immagini troneggia quella dello scrittore nei panni di un S. Sebastiano trafitto e agonizzante: anche qui e per l’ultima volta il suo martirio viene chiaramente preannunciato [11, pag. XCVIII].

La mattina del fatidico 25 novembre 1970, dopo aver sottoscritto le sue ultime volontà, Mishima si reca al quartier generale delle forze armate, dal Generale Masuda Kanetoshi; da questi aveva ottenuto un appuntamento con la scusa di presentargli quattro giovani distintisi nelle esercitazioni del suo gruppo paramilitare. "Nel corso del colloquio [Mishima] si offre di mostrare al Generale la spada che porta con sé, un esemplare raro… Mentre il Generale constata stupito che la lama, in contraddizione con le norme vigenti, è affilata, egli viene immobilizzato e legato a una sedia, mentre gli accessi alla stanza vengono bloccati". Sotto la minaccia di uccisione dell’ostaggio, vengono presentate le richieste di un’adunata di tutti gli uomini di stanza presso la guarnigione e di mezz’ora di silenzio durante la quale Mishima terrà un discorso. "Il piano incontra alcuni intoppi: …i tempi dell’azione si rivelano più lunghi del previsto; presto si odono le sirene, il rumore dei primi elicotteri della polizia, delle stazioni televisive e dei giornali. Mishima… non riesce a parlare per più di cinque minuti. Si rende presto conto che gli ottocento uomini adunati non lo ascoltano. L’appello a seguirlo in un’azione per la salvezza dell’identità nazionale [che comporta il ripristino dell’autorità imperiale] cade nel vuoto della derisione e dell’insulto. Mishima, allora, si accomiata dall’Imperatore, augurandogli lunga vita, e, ritiratosi negli uffici del generale, da inizio al suicidio…" tramite seppuku. L’attendente Morita [l’amante omosessuale di Mishima] dovrebbe fargli da "kaishaku", vale a dire "abbreviare l’agonia del suo comandante, decapitandolo, prima di essere a sua volta decapitato", ma se ne rivela incapace. Ad azione ultimata, i tre studenti superstiti esplodono in un pianto incontrollato, entrano gli ufficiali…[11, pag. XCIX, C].

 

3 L’assassinio dell’anima e "Il Padiglione d’oro"

All’età di soli 49 giorni, Mishima iniziava ad essere fatto oggetto di un vero e proprio "assassinio dell’anima" [910]: un attacco sistematico, condotto principalmente dalla nonna (con la collusione degli altri familiari), volto a sopprimere quanto di spontaneo ed autentico in lui potesse contrastare un’identità a lui imposta e forgiata in base alle esigenze narcisistiche della donna. Una serie di abusi di questo genere, vale a dire di sovrastimolazioni traumatiche precoci, ripetitive, prolungate, combinate a deprivazione di cure empatiche interiorizzabili come strutture di sostegno, crea, in genere, quell’accumulo di tensione priva della qualità di pensiero ("too-muchness" [910]) più facilmente "scaricabile" (in "passaggi all’atto" violenti, in "acting in" somatici) che non esprimibile, capace di segnare il "destino" di una persona [712]. L’opera di Mishima si può considerare come "laboratorio di ricerca" in cui l’Autore, operando nel suo spazio transizionale, passò in rassegna tutti i possibili modi di dare un contenuto mentale, esprimere, trattare o dominare la stessa distruttività primitiva (esito dei traumi precoci) che finì per travolgerlo. Talora lo scrittore riesce a far prevalere transitoriamente ciò che lo lega alla vita; è il caso, ad esempio, de "Il Padiglione d’oro" [5]. Altre volte, come in "Patriottismo" [6], la sua opera descrive il fallimento dei suoi stessi sforzi di sopravvivere.

A dare origine a "Il Padiglione d’oro" fu un reale fatto di cronaca: un incendio doloso appiccato al celebre monumento nazionale giapponese da parte di un chierico Zen, ospite della stessa struttura. Costui, in un primo tempo, aveva progettato di uccidersi gettandosi tra le fiamme, poi aveva preferito consegnarsi alle autorità ed espiare in prigione, pur senza pentimento, il suo misfatto. Nell’elaborazione di Mishima, l’autore del gesto incendiario Mizoguchi vive assillato dall’idea del Padiglione d’oro che, fin dalle prime pagine, si presenta come rappresentazione di un oggetto arcaico idealizzato, depositario di ogni bellezza, onnipresente, tale da non lasciare spazio per altro nella sua vita, eppure irraggiungibile: "se in quella costruzione era davvero compendiata e racchiusa tutta la bellezza, allora la mia esistenza non poteva che essere estranea alla bellezza" [5, pag. 24]. Il Tempio gli appare come immagine di bellezza "incorruttibile… superiore… al mondo reale, assolutamente estranea ad ogni genere di caducità" [5, pag. 64]. Solo i pericoli della guerra (di distruzione per bombardamento) conferiscono, agli occhi di Mizoguchi, un carattere più familiare ed accessibile al monumento perché egli riesce a "ridurre il Padiglione al mio livello" e per questo ad "amarlo senza più timore"; nel pericolo che lo accomuna al Tempio, Mizoguchi trova che cosa "poteva legare me stesso alla bellezza". "Il Padiglione aveva un corpo altrettanto combustibile, fragile e brutto del mio" [5, pag. 47, 48]. Tuttavia, terminati gli eventi bellici, ritornano anche la "imperturbabilità" e "superbia" con cui Mizoguchi si sente "guardato" dal monumento. Questo, paradossalmente, coesiste con l’incertezza del protagonista riguardo ai suoi rapporti col Padiglione ed ai suoi confini rispetto ad esso: "ero io che lo possedevo, oppure ne ero posseduto? O piuttosto stava per stabilirsi uno strano equilibrio, una situazione per cui diventava possibile che io fossi il Padiglione e il Padiglione fosse me?" [5, pag. 129]. Il Tempio appare chiaramente legato alla rappresentazione di una madre arcaica (nelle prime pagine viene subito accostato all’immagine del mare, simbolo materno; più avanti e ripetutamente ad una figura femminile), una madre onnipotente e castrante che, con la sua stessa, estrema desiderabilità, rende Mizoguchi "prigioniero della bellezza": frapponendosi il Padiglione "tra lui e la vita" egli non riesce a concedersi un contatto sessuale con una comune mortale [5, pag. 122, 123]. La madre-padiglione è accostata ad una "gigantesca credenza, decorativa ma vuota", priva della possibilità di contenere in modo conveniente qualche suppellettile: proprio perché idealmente posta sull’Olimpo, questa figura materna è incapace di abbassarsi ed ospitare al proprio interno le misere necessità nutritive o, in generale, corporee, del figlio. [5, pag. 64, 65]. Mizoguchi nutre gli stessi sentimenti di estrema ambivalenza anche verso la madre reale: per esprimere la sua ribellione verso di lei, che lo vorrebbe, per meriti di studio, successore dell’abate nel convento cui è annesso il Padiglione, egli trascura gli studi, si abbandona alla deriva e si abbrutisce completamente (una spiegazione dell’auto-degradazione di Mishima nella sua immagine pubblica?). Per uscire dallo sterile dilemma di una prigionia nell’orbita dell’oggetto arcaico oppure di una ribellione auto-degradante, Mizoguchi matura gradualmente una soluzione estrema. Per lungo tempo si tratta solo di una fantasia, ma la preannunciata espulsione dal tempio da parte dell’abate fa precipitare la situazione: ascoltando "la pioggia che non accennava a cessare", guardandosi intorno nella sua minuscola stanza, e pensando a quella "dimora dalla quale fra non molto sarei stato certamente scacciato", Mizoguchi decide di mettere finalmente in atto il suo progetto di dar fuoco al Tempio [5, pag. 203]. L’atto piromane, qui, costituisce chiaramente un matricidio simbolico (espresso prevalentemente in termini sadico-orali attraverso le fiamme "divoranti" [1]) quale modo di annullare retroattivamente l’espulsione, in quanto evocativa della nascita. Anche Mizoguchi, come il piromane del fatto di cronaca reale, in un primo momento aveva intenzione di morire nel rogo, ma preferisce, alla fine, consegnarsi alle Autorità. Il suo Areopago non lo salva assolvendolo, come quello di Oreste, ma condannandolo alla prigione: solo l’Autorità paterna ha la forza di controllare la distruttività primitiva e solo usandola essa può consentire di uscire dalla simbiosi e sopravvivere all’oggetto. Il chierico della realtà, scarcerato dopo aver scontato quattro anni, morirà nel giro di pochi mesi per tubercolosi polmonare. Il romanzo non ci dice quale sarà il futuro di Mizoguchi; termina, tuttavia, con una nota di speranza: la conclusione positiva del suo travaglio interiore, durato per l’intero romanzo è nelle ultime parole che il protagonista pronuncia quasi sulla soglia della prigione: "Volevo vivere".

 

4 "Patriottismo" e suicidio

Lo stesso asservimento ad una madre arcaica onnipotente e la stessa ricerca di un’autorità paterna cui sottomettersi per poter sopravvivere (ma stavolta con un esito infelice) compaiono in "Patriottismo". Anche questo racconto ebbe la sua origine in un fatto reale: il 26 febbraio del 1936, un gruppo di militari estremisti tentò un colpo di stato assediando il centro di Tokyo, uccidendo o ferendo alcuni appartenenti al mondo politico e alle forze di polizia e richiedendo un nuovo ministero guidato da un generale simpatizzante per la loro causa. Il "golpe" fallì grazie soprattutto alla ferma opposizione dell’Imperatore; fatto, questo, paradossale perché i ribelli dichiaravano la loro totale fedeltà al Sovrano e chiedevano per lui maggiori poteri. Nel racconto, il tenente della guardia imperiale Takeyama Shinji, prevedendo d’essere incaricato di sedare con i suoi uomini la rivolta e non tollerando"l’imminente scontro tra milizie appartenenti allo stesso esercito imperiale"[6, pag. 1671], decide di darsi la morte tramite "seppuku", vale a dire squarciandosi il ventre con la spada d’ordinanza. La giovane moglie Reiko, incaricata dal tenente di assistere come testimone al suicidio rituale, assolto il compito si uccide per seguire il marito. In questa vicenda, la "Patria" è l’oggetto arcaico onnipotente che assorbe tutto l’essere del protagonista, spingendolo all’estremo sacrificio e non dandogli in cambio la benché minima considerazione: "Intorno alle pareti domestiche si stendeva disordinatamente il paese che amava tanto. Per questo paese avrebbe donato se stesso. Non sapeva se questo grande paese per cui era disposto a morire si sarebbe accorto del suo gesto, eppure non importava" [6, pag. 1682]. Quello del tenente Shinji nei confronti della Patria, è, quindi, l’amore sottomesso ed incondizionato di chi non si aspetta e non chiede nulla in cambio del proprio sacrificio. Vengono in mente, a questo proposito, le ultime parole di Winston Smith in "1984" dopo che il "brain washing" cui è stato sottoposto ha distrutto completamente la sua autentica vita soggettiva: "…la lotta era finita. Egli era riuscito vincitore su se medesimo. Amava il Gran Fratello" [8, pag. 327]. Anche la madre patria Giappone, il "Gran Fratello" di Shinji, l’ha indotto a "riuscire vincitore su se medesimo" al punto che persino gli istinti che più che mai dovrebbero legarlo alla vita non entrano più in contrasto con lo "ideale" che lo porta a morire: "Per il tenente il desiderio sessuale e l’amore per il proprio paese non erano in contraddizione, li considerava un tutt’uno" [6, pag. 1680]. Mentre aspetta la moglie, per fare l’amore con lei per l’ultima volta prima di suicidarsi: "Che cosa stava aspettando? La morte o uno sfrenato piacere dei sensi? Sembrava persino che il desiderio sessuale fosse rivolto alla morte stessa" [6, pag. 1682]. Un ideale dell’Io ipertrofico ed anomalo, erede dell’oggetto arcaico idealizzato, ha occupato Shinji in tutto il suo essere, uccidendone l’autenticità e sottomettendolo persino nella sua parte istintuale. Shinji è vittima di un vero e proprio "brain washing" ed egli lo trasmette anche alla moglie: "Quando Reiko aveva espresso la volontà di seguirlo [nella morte], Shinji aveva sentito che quello era il risultato degli insegnamenti che lui le aveva impartito la prima notte di nozze. Reiko doveva dire proprio quelle parole e doveva farlo senza nessuna esitazione. Il tenente ne fu lusingato. Non credeva che si trattasse di parole spontanee dettate dall’amore, non era così romantico." [6, pag. 1678]. Il protagonista di "Patriottismo" non crede allo spontaneo amore della sua sposa; crede piuttosto, e se ne compiace, ai frutti del suo "insegnamento": l’avere imparato la consorte a dire "proprio quelle parole" e "senza esitazione". Si compiace, in ultima analisi, di aver ucciso la spontaneità della donna, vale a dire ogni libera espressione del suo vero essere ed innanzi tutto il naturale desiderio di vivere ed amare. Poco prima del suicidio in nome degli "ideali" del marito, nella coscienza di Reiko compare una fugace rappresentazione del suddetto "brain washing", per cui il suo sé è come stato occupato, sequestrato dall’influenza mortifera dell’oggetto: "Accanto alla radio c’erano alcune piccole ceramiche cinesi: un cane, un coniglio, uno scoiattolo (…) Per un attimo le parve che quegli animaletti di ceramica avessero assunto un’espressione desolata e smarrita. Reiko prese in mano lo scoiattolo e sulla distanza tra ciò che lei stessa era diventata e quegli affetti infantili le apparve brillare come un sole la grandezza degli ideali che il marito impersonava (…) Reiko credeva che il suo essere potesse semplicemente liquefarsi in un frammento di quegli ideali" [6, pag. 1675] Qui la parte infantile e più autentica della donna, desolata e smarrita per la fine imminente, è tenuta a distanza dal resto di lei e soffocata dagli "ideali" del marito in cui il suo essere si è come sciolto, "liquefatto".

In "Patriottismo" la possibilità di sottomettersi all’autorità paterna allo scopo di contenere, con il suo aiuto, la propria distruttività ed uscire dal rapporto di simbiosi, è annientata: "…l’iniziativa militare che era nata come un’azione per restaurare proprio il potere del sovrano era stata svilita dall’etichetta di atto di ribellione" [6, pag. 1676], fatto che Shinji così commenta: "Domani ci verrà comunicato l’ordine dell’imperatore. Li accuseranno di tradimento. Dovrò ordinare ai miei uomini di attaccarli… io non ce la faccio, non posso" [6, pag. 1677]. L’atto di fedeltà e sottomissione al padre-Imperatore da parte degli insorti (con cui il tenente s’identifica) è stato ritenuto dal Sovrano stesso un segno di ribellione e tradimento. Il suo giudizio è insindacabile: i congiurati-figli (e con loro Shinji) sono perduti.

Se, per quanto concerne i militari insorti del 1936, possiamo parlare d’ingenuità politica, riguardo a Mishima ed ai suoi commilitoni, che cercarono di creare la stessa situazione ben trentaquattro anni dopo, in un contesto storico ancora più inadatto ad un’azione del genere, si può ravvisare una visione delle cose che sconfina con il delirio. Effettivamente sono qui riconoscibili, benché non in forma acuta, alcuni aspetti di quella "psicosi transitoria" da taluni messa in evidenza in fase pre-suicidale [23]: innanzi tutto un carattere megalomanico della visione di sé e del mondo che sembra prendere sempre più piede nell’opera e nella vita di Mishima, a discapito dell’esame di realtà. Esigenze interiori, proiettate nella realtà esterna, si spostano su oggetti e situazioni sempre più "grandi" e, quindi, più difficili da controllare e prevedere: rispetto a "Il Padiglione d’oro", in "Patriottismo" (e purtroppo anche nel gesto clamoroso con cui Mishima terminò la sua vita), l’oggetto arcaico non è più rappresentato da un tempio — realtà grandiosa quanto si vuole nella sua bellezza, ma pur sempre materialmente circoscritta, un edificio — ma dall’intero Giappone; dell’autorità paterna, cui appellarsi, non è più investito il magistrato di turno incaricato di occuparsi del piromane, ma nientemeno che l’Imperatore Hirohito: inevitabile, quindi, che le cose vadano molto diversamente rispetto a quanto previsto. Parallelamente alla grandiosità (e quindi all’improbabile realizzazione) del progetto d’affrancamento interiore tramite la realtà esterna, cresce in Mishima la vulnerabilità narcisistica: ecco perché il suo solenne "discorso alla nazione" caduto "nel vuoto della derisione e dell’insulto" provoca in lui il crollo finale.

Un secondo aspetto della "psicosi pre-suicidale" di questa persona è quella "dissociazione del sé mentale da quello psicocorporeo" con "oggettificazione" di quest’ultimo, che contraddistingue sia i pazienti che hanno subito abusi nell’infanzia, sia i suicidi [3, pag. 661]. La "oggettificazione", cioè l’attribuzione al corpo del carattere di "non-io", la completa estraniazione da esso, paiono particolarmente evidenti nella scelta del "seppuku", come mezzo per porre fine alla propria vita, da parte del protagonista di "Patriottismo" e dell’Autore stesso del racconto. Il carattere particolarmente doloroso di questo rituale, il suo colpire i visceri, vale a dire la parte del corpo più "bassa", più lontana per sua natura dalla mente, soddisfano in modo particolare quel bisogno di "mortificazione della carne" che aveva sempre reso affascinanti le scene di martirio agli occhi di Mishima. In più, il seppuku, col suo carattere clamoroso e raccapricciante, soddisfa quel bisogno esibizionistico e provocatorio che aveva permeato gran parte della vita dello scrittore giapponese:"…‘Stanotte mi taglierò il ventre’ disse il tenente spalancando gli occhi accesi dall’ardore… e per la prima volta da quando era tornato a casa fissò volutamente lo sguardo sulla moglie…" [6, pag. 1677]. Qui Shinji anticipa, con un’espressione verbale particolarmente cruda, l’esibizione del suo orribile suicidio che imporrà alla moglie. Provocazione, questa, che esprime certamente sadismo verso la donna, ma possiamo escludere altri significati?

Un aspetto particolarmente inquietante di "Patriottismo" è espresso all’inizio della vicenda dove si accenna ad un "infausto presagio" che compare nella "perfetta unione" del protagonista e della moglie: nella foto del loro recente matrimonio, "pareva che gli occhi degli sposi… contemplassero con eguale limpidezza la morte prossima" [6, pag. 1672]. L’accostamento dello "infausto presagio" con la "perfetta" unione coniugale di Shinji e Reiko lascia spazio all’ipotesi che l’amore possa convivere, in entrambi, con la fatale, ingovernabile distruttività che li porta quasi a spingersi reciprocamente alla morte, solo in virtù di una scissione, oltre che del rivolgimento su di sé e del differimento nel tempo dell’atto aggressivo. Il suicidio, inoltre, non è visto come eventualità, bensì come destino ineluttabile, come certezza. La "eroica" determinazione dei due giovani di porre fine alla loro vita, quindi, non può essere conseguenza del conflitto politico del 1936, che all’epoca del matrimonio non avrebbero potuto prevedere, ma era preesistente, come una sorta di "destino" già prefissato.

 

5 Tra "Destino" e "Moira": un caso clinico

L’attrazione verso la morte "eroica" o il "martirio" che Mishima avvertì nel corso di tutta la sua vita, la descrizione minuziosa, presente più volte nelle sue opere, di quello che sarà il suo suicidio ("Patriottismo" ne è un esempio), tutto ciò fa pensare, anche riguardo allo scrittore stesso, ad una sorta di "destino" di autodistruzione. Tuttavia ciò che l’Autore sembra suggerirci, soprattutto ne "Il Padiglione d’oro", è che in casi simili al suo, esistono esperienze emotive particolari che possono modificare il corso degli eventi. Da quanto risulta sinora, alcuni aspetti di un’esperienza emotiva del genere si possono riconoscere nella cura di un mio paziente che chiamerò Emilio. Questa persona, in gran parte della sua personalità e del suo stile di vita apparenti, era o sembrava quanto di più diverso potesse esistere rispetto a Yukio Mishima: riservato e cortese, apparentemente poco passionale, privo di grandi ideali o ambizioni, dotato di modeste capacità introspettive e di scarsa cultura, Emilio, allora trentacinquenne, si presentò alcuni anni fa nel mio studio chiedendomi aiuto per quella che risultò una tendenza autodistruttiva del tutto simile a quella dello scrittore giapponese. In una serie di episodi egli aveva perso pericolosamente il controllo del proprio comportamento; da quando aveva "messo la testa a posto" entrando nell’azienda commerciale paterna, Emilio sentiva il bisogno, di tanto in tanto, di evadere dal dovere e dal lavoro con "qualcosa di diverso": festini con prostitute, organizzati insieme ad un amico, in cui talora si "sniffava" cocaina mentre i superalcolici non mancavano mai. Tutto bene nella maggior parte dei casi, ma talora gli capitava d’esser preso, "come in un vortice", da un’insaziabile voglia di bere, fino al punto di perdere quasi conoscenza. In un paio di queste occasioni, rincasando ancora ebbro in macchina, era andato incontro ad incidenti stradali nell’ultimo dei quali, particolarmente grave (aveva urtato frontalmente un palo a tutta velocità), si era salvato solo "grazie all’interessamento di qualche Santo". La cosa l’aveva spaventato, ma, essendo egli poco incline a prendersi cura di se stesso, e nutrendo la convinzione pessimistica che nessun aiuto avrebbe potuto giovargli, solo le insistenze del fratello maggiore (l’unico tra i familiari ad aver preso sul serio il suo problema) l’avevano convinto a venire da me. I primi colloqui furono dedicati, da parte di Emilio, a commentare la "stranezza" di quanto gli stava capitando. A dire il vero "bevute" irrefrenabili c’erano sempre state in passato, tuttavia, prima d’iniziare l’attuale lavoro, esse erano perfettamente in linea col resto del suo comportamento: allora egli era uno "sbandato" che non era stato neppure capace di terminare gli studi; ora che, invece, il lavoro col padre aveva "messo ordine" nella sua vita, gli eccessi si erano paradossalmente intensificati e moltiplicati. Il paziente presentava ciascuna fase della sua esistenza come dominata da una o più persone, tutte di sesso maschile, da cui era stato influenzato nel bene come nel male. Ma che ci fosse stato del male sapeva dirlo solo a rapporto concluso: finchè l’amico o il parente era la persona "in auge", tutto gli pareva buono. — Al contrario, l’atteggiamento verso il sesso femminile era sfuggente: non era in grado di definire quel che provava per la madre e d’altra parte, con le altre donne, non aveva mai conosciuto esperienze sentimentali, solo rapporti sessuali mercenari. — Per il padre, di nuovo la figura dominante in quel momento (insieme al fratello maggiore), Emilio non aveva che parole di elogio, tuttavia comparvero ben presto grosse contraddizioni, di cui egli non si rendeva conto, nella descrizione che mi portava. Emerse che il genitore, incapace di accettare il trascorrere del tempo, continuava a trattare Emilio come fosse un bambino, non lasciandogli spazio nella direzione dell’azienda e continuando a monopolizzarla, con conseguenze disastrose. Quell’anziano commerciante, infatti, era rimasto all’oscuro delle nuove realtà del mercato, oltre che delle recenti normative che lo regolavano e, di carattere sospettoso e convinto della superiorità della propria esperienza, rifiutava di affidarsi a commercialisti o a consulenti di qualsiasi genere. L’azienda, perciò, stava andando piuttosto male e, per di più, le conseguenze di un eventuale fallimento sarebbero gravate sulle spalle del solo Emilio, essendo egli legalmente l’unico gestore dell’esercizio commerciale. Lo stesso egocentrismo paterno aveva sempre governato la vita familiare, essendo la madre incapace di opporvisi ed il fratello maggiore (di dodici anni più anziano del mio paziente) essendo presto andato ad abitare per proprio conto. Dell’infanzia di Emilio, di cui egli non serba alcun ricordo, gli è stato riferito che il padre, assente per molti anni dalla vita familiare per motivi poco chiari (forse guai con la legge) e privo di risorse economiche, aveva imposto alla madre un lavoro faticoso, che la portava via da casa per gran parte della giornata, mentre il paziente, allora di due anni, era affidato ogni giorno a parenti diversi, che spesso lo ospitavano malvolentieri, e talora era addirittura lasciato solo per ore ed ore. Ad un tale "assassinio dell’anima", Emilio aveva opposto (e tuttora opponeva) la reazione emotiva tipica di questo genere di pazienti: l’incapacità di avvertire sentimenti di ribellione, un’idealizzazione delirante (priva di basi reali) del genitore persecutore (nel caso di Emilio, limitata al padre ed ai suoi sostituti), oltre che una dissociazione della coscienza sul tipo del "doublethink" orwelliano [910]: il paziente si rendeva perfettamente conto dei maltrattamenti subiti nel passato e nel presente, ma era come se, a dispetto di ogni logica, tale conoscenza non influenzasse minimamente la sua buona opinione del genitore ed i sentimenti positivi che gli pareva di avvertire per lui. Quanto all’azienda, Emilio era perfettamente consapevole di come stavano andando le cose, ma opporre qualche obiezione al padre gli pareva una "colpa" che non avrebbe mai potuto commettere. Si riuscì ad "ammorbidire" un poco l’obbedienza coattiva di Emilio alle figure maschili analizzandola nel rapporto transferale: risultò che obbedire ad un sostituto paterno, per quanto imperfetto o addirittura dispotico questi potesse essere, costituiva per lui fonte di sollievo. Come se si trattasse, comunque, di un "male minore", essendo il "male maggiore" qualcosa che aveva a che vedere con la madre e le donne in generale e che non si riuscì a chiarire del tutto. Una situazione, comunque, molto simile a quella, ne "Il Padiglione d’oro", di Mizoguchi per il quale era fonte di sollievo e meno gravoso sottomettersi al magistrato piuttosto che rimanere prigioniero del Tempio. Divenne, viceversa, chiaro che le "bevute" irrefrenabili (divenute gradualmente più rare e seguite solo in un’occasione da un incidente stradale) comparivano in momenti significativi del rapporto col padre o di quello transferale col sottoscritto, mentre sino allora un possibile nesso con le vicende della sua vita affettiva era completamente sfuggito ad Emilio: ciò che egli aveva sempre avvertito era uno stato di "tensione" da cui il bere dava sollievo, così come l’orgasmo "scarica" il desiderio sessuale. Finchè lo spettacolo della sua autodistruzione con l’alcol (seguito talora da quello con l’automobile) era avvenuto di fronte a testimoni cinicamente indifferenti o complici, aveva prevalso un meccanismo asimbolico di "scarica" o "passaggio all’atto" [7 ,12] di un disagio avvertito come tensione priva della qualità di pensiero; meccanismo con ogni probabilità attivato dalla situazione traumatica originaria ed appartenente allo strato antico, "protomentale" o "preconcettuale", della sua organizzazione emotiva [13]; nel momento in cui cominciarono a comparire testimoni capaci di una risposta riparativa (prima il fratello maggiore di Emilio, poi il sottoscritto), lo stesso abuso alcolico iniziò ad entrare a far parte della relazione divenendo esso, oltre che mezzo di "scarica", anche, in misura crescente, strumento d’espressione e di comunicazione di significati emotivi e questo grazie all’attivazione di "strati" o forme d’organizzazione emotiva più evolute. Nel rapporto transferale, l’esibizione al sottoscritto e ad altri dell’attacco al proprio corpo si rivelò dotata di un significato ambiguo e plurideterminato: innanzi tutto modo per comunicare il proprio asservimento all’oggetto arcaico persecutorio, autore dello "assassinio dell’anima" e/o la propria identificazione con l’oggetto stesso. Il corpo, infatti, con le sue caratteristiche costituzionali e istintuali, è la matrice dell’autentico sé di chi lo possiede; esso, quindi è depositario di ciò che, potenzialmente o in atto, si oppone al sequestro del sé da parte di altri. Lo stesso gesto, al tempo stesso, assumeva il significato di provocazione masochistica volta ad ottenere amore ed attenzione; ad ottenere, in particolare, un qualche segno della volontà di fermarlo e quindi del desiderio di tenerlo in vita e dell’affetto verso di lui. Sappiamo che, nelle vittime dello "assassinio dell’anima", provocazioni masochistiche di questo tipo, di fronte ad un oggetto d’amore e dipendenza che rifiuta, possono ripetersi ed esasperarsi, potendosi spingere fino al suicidio. In questi casi, la coazione a ripetere è causata dall’attesa, talora delirante, che "questa volta" il genitore (o il suo sostituto) si rivelerà portatore di una salvezza "magica"[9, pag. 316].

Nel momento in cui scrivo, il trattamento di Emilio è ancora in corso; grazie soprattutto ad esso, le "bevute senza fine" sono cessate completamente da circa quattro anni. D’altra parte, tutta la sua vita è profondamente mutata: crollata l’azienda paterna, deceduto il padre stesso, Emilio ha visto ridursi a zero le sue risorse economiche, ma ha retto molto bene sul piano emotivo: non si è perso d’animo, ha trovato un lavoro umile che tuttavia gli procura i mezzi di sussistenza ed anche, pur con una riduzione della frequenza delle sedute (e con sconti e crediti sull’onorario da parte mia), la possibilità di proseguire il trattamento. Si ha l’impressione che interventi direttivi del sottoscritto, regolarmente sollecitati da Emilio stesso, ed interventi sulla sfera corporea (presenti — come complemento psicofarmacoterapico, come accertamenti e come collaborazione con altri specialisti — per tutta la durata del suo trattamento) continuino ad essere fattori essenziali per il mantenimento del suo equilibrio emotivo. Tuttavia quanto di più strettamente analitico è stato possibile operare riguardo alle manifestazioni della sua autodistruttività, sembra sinora abbia avuto il potere di trasformare ciò che pareva un "Destino" infelice, inesorabile perché "forza impersonale senza volto, immagine o significato" [12], in "Moira" dalle sembianze umane e come tale inseribile nelle relazioni umane e correggibile tramite esse. Quello che il povero Yukio Mishima, lanciando "messaggi al vento" con la sua grande opera letteraria e le sue esibizioni puerili o raccapriccianti, ha probabilmente sempre cercato e mai trovato.

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1 commento

  1. manlio.converti

    Quando andai in Giappone,
    Quando andai in Giappone, affascinato dalle tradizioni e dalla tecnologia, scoprii per caso a Kyoto il padiglione d’oro, mentre passeggiavamo nel parco dell’ennesimo tempio meraviglioso.
    I colori al tramonto, nonostante la folla di turisti, comunque silenziosi, tranne noi italiani, non li ho potuti immortalare.
    Il mio sogno rimarrà tale…

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