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Suicidio come “destino”: Primo Levi e i pericoli dell’introspezione

20 Feb 20

Di Sabino Nanni

1 — Un problema clinico

Alcuni pazienti appaiono dominati, costantemente o nella fase finale della loro vita, da una forza autodistruttiva inesorabile. Essa si manifesta in abitudini nocive, in ricerca attiva di situazioni logoranti o rischiose, in trascuratezza nella cura della propria salute, oppure in veri e propri atti di suicidio. Talora si ha come l’impressione di un "destino" accanito contro cui il paziente stesso tenta di lottare in tutti i modi, invano. Caratteristiche simili si trovano spesso nelle biografie di Artisti: fra i tanti, ricordo Giovanni Segantini e Yukio Mishima (su ciascuno dei quali ho scritto altrove [910]), oltre che Cesare Pavese, Sylvia Plath, Sarah Kofman ecc. Di certo la loro opera offre al clinico preziosi suggerimenti su quanto può essere alla base delle suddette, sconcertanti tendenze. Una domanda, tuttavia, si pone spontanea: che cosa impedì a queste persone di usare le loro notevoli capacità introspettive ed espressive allo scopo di salvarsi? Che cosa, ad esempio, fece sì che un uomo come Primo Levi fosse capace di sopravvivere ad Auschwitz, ma non alle proprie tendenze suicide?

2 — "Com’altrui piacque"

Un preciso accenno al proprio "destino" (anche nell’accezione di questo termine che qui c’interessa) è espresso da Primo Levi in un sorprendente capitolo di "Se questo è un uomo", vale a dire "Il canto di Ulisse". Qui lo scrittore, pur nella situazione tormentosa e abbrutente del campo di concentramento, trova in sé lo spirito di comunicare al compagno di prigionia Pikolo la bellezza della lingua italiana recitandogli a memoria i versi del XXVI canto dello "Inferno". Ricordando solo alcune strofe (anche le omissioni, come vedremo più sotto, sono qui significative), egli giunge al punto in cui Ulisse conclude la narrazione della sua temeraria avventura, di come il "legno" (la nave), travolto da un vortice, venne trascinato in fondo al mare:

"Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque:

alla quarta levar la poppa in suso

e la prora ire in giù, com’altrui piacque

infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso"

Levi così commenta:

"Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo "com’altrui piacque"…[esso contiene] qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…" [4, pag. 145].

Fino a questo punto non è chiaro il motivo per cui quel "com’altrui piacque", oltre al "perché del nostro destino", contenga per Levi anche la ragione dello "essere oggi qui", ad Auschwitz; quel che pare più sicuro è che esso illustra ciò che ce lo farà ritornare di continuo, in un sogno ricorrente e tormentoso che lo accompagnerà anche dopo il rientro a casa:

"Sono a tavola con la famiglia, o con gli amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o bruscamente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, Wstawac" [5, pag. 280, 281].

Qualcosa di spaventoso, di straniero, di "altrui", segna il risveglio in Levi di una parte di lui che vive sempre immersa nella situazione traumatica e di fronte alla quale ogni aspetto rassicurante del presente perde la sua realtà. Gli effetti dei traumi subiti perseguitano lo scrittore perennemente ed ovunque egli vada:

"…l’offesa è insanabile: si protrae nel tempo, e le Erinni, a cui bisogna pur credere, non travagliano solo il tormentatore (…), ma perpetuano l’opera di questo negando la pace al tormentato" [7, pag. 14].

Le "Erinni", le furie vendicatrici del matricidio, rimandano a passioni primitive e ad un intero universo di tipo arcaico: in esso, la presenza costante di meccanismi proiettivi/introiettivi e l’indeterminatezza dei confini dell’io, annullano la distinzione tra "tormentatore" e "tormentato"; Levi, infatti, fu sempre afflitto da paradossali sentimenti di colpa. Tra i prodotti delle varie fasi evolutive che, sovrapponendosi l’uno all’altro, coesistono nella struttura della psiche, risulta, qui, danneggiato lo strato più profondo, erede del rapporto con la madre arcaica e della "dedizione" con cui ella sosteneva la "illusione" di un perfetto controllo sulla realtà, base di un sentimento di "intimo rapporto" con la realtà stessa [16]. Il danno coinvolge quella funzione psichica che, in condizioni sane, conferisce ad una situazione oggettivamente favorevole, la qualità soggettiva di "ambiente placido e disteso", come creato per soddisfare chi ci vive. Al contrario, nei "visceri del mondo" oggettivo, come in quello soggettivo di Levi, si annida "come una cancrena, seme di danno futuro" [5, pag. 272]. L’ambiente esterno non può più essere credibilmente "privo di tensione e di pena"; anche nelle circostanze migliori, c’è sempre "una minaccia che incombe": lo straniero persecutore, lo "altrui" ostile che ogni momento minacciano d’irrompere nella situazione. E qui si rivela appieno quanto "la vita è sogno": al di là di una fragile illusione di calma e serenità, c’è sempre il minaccioso Lager, che prima o poi ricaccerà nel caos primitivo, dissolvendole, tutte le tracce di esperienze affettive che hanno reso il mondo vivibile. Il bel sogno è finito: "alzarsi. Wstawac".

 

3 — Lo "assassinio dell’anima" e il suicidio

Nel DSM-IV-TR vengono definiti "traumatici" gli eventi che hanno implicato "morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri"[1, pag. 502]. Non è solo questo, e neppure principalmente questo, che Levi pone in risalto, quale fonte di danni emotivi severi e permanenti, nella sua esperienza traumatica del Lager. Egli sottolinea piuttosto l’importanza della "demolizione dell’uomo", vale a dire di un insieme di condizioni capaci di distruggere la vita soggettiva e l’individualità della persona: dalla perdita della possibilità di farsi capire, delle abitudini quotidiane, dei piccoli oggetti "custodi e suscitatori di memorie", quali sostegni al sentimento di continuità del proprio essere [4, pag. 29], fino ad arrivare a quelle situazioni capaci di confondere di continuo l’individuo (il "regolamento del campo… favolosamente complicato", come pure i riti obbligatori "infiniti e insensati" [4, pag. 38]) e di distruggere la credibilità dei suoi stessi pensieri e sentimenti: "…nei Lager si perde l’abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo più in modo imprevedibile" [4, pag. 216]. Questo luogo sconvolge non solo e non tanto perché "terribile", ma anche e soprattutto perché "indecifrabile" [7, pag. 25]. Ogni tipo di stento, la fame, il freddo, la stanchezza, la paura, opprimono ciascuno nella più completa solitudine: "Qui nessuno ha tempo, nessuno ha pazienza, nessuno ti dà ascolto…" [4, pag. 44, 45]. Il risultato di tale deprivazione di ogni forma di "rapporto d’oggetto-sé" e di risorsa (ivi compreso il linguaggio ed il pensiero) [3] è "un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento" sulla cui sopravvivenza "si potrà decidere a cuor leggero (…) al di fuori di ogni senso di affinità umana" [4, pag. 29, 30]

Affine a quanto descrive Levi è lo "assassinio dell’anima" compiuto in famiglie di bambini esposti a gravi abusi e/o a severa deprivazione affettiva [13]. Qui sovrastimolazioni traumatiche precoci, ripetitive, prolungate, si combinano alla carenza di cure empatiche interiorizzabili come strutture di sostegno [13, pag. 310]. Tutto ciò sprigiona una tensione non del tutto mentalizzabile, definita "too-muchness", capace talora di distruggere completamente l’integrità del sé e comunque di segnare il "destino" della persona [13, pag. 94]. La fantasia persecutoria dello "straniero" (lo "altrui", l’orribile "Wstawac"), quale simbolo di una alterità che irrompe prematuramente e brutalmente, lacerando l’unità madre-bambino, è frutto di una rielaborazione posteriore al trauma primario (o alle esperienze successive capaci di risvegliarlo) e si riferisce al ricordo di esso/e. "Too-muchness", al contrario, definisce la vera e propria esperienza del trauma nel momento in cui esso si verifica. Non c’è altro, qui, che una quantità estrema di tensione, nessuna qualità affettiva individuabile, il che significa perdita completa di ogni capacità d’elaborazione mentale. Si tratta di un’esperienza intollerabile cui seguono, sia nel Lager, sia nelle famiglie patologiche, alcune possibili reazioni. Nel caso di traumi in età adulta (e qui lo sottolineo) a decidere quale particolare risposta si verificherà concorrono, oltre che il caso, anche la costituzione dell’individuo e l’influenza di precedenti eventi traumatici, soprattutto in età precoce. Vediamo le diverse eventualità:

  1. Il crollo della vita soggettiva, del sé. Ne abbiamo un esempio, in "Se questo è un uomo", nella figura di "Null Achtzehn" (zero diciotto), l’uomo senza più nome, chiamato ormai da tutti con il numero tatuato sul suo avambraccio. Egli appare come "vuoto interiormente, nulla più che un involucro (…) Tutto gli è a tal segno indifferente che non si cura più di evitare la fatica e le percosse e di cercare cibo (…) [lavora] finché le forze glielo permettono, poi cede di schianto, senza una parola di avvertimento, senza sollevare dal suolo gli occhi tristi e opachi" [4, pag. 50, 51]. Si tratta della "morte dell’anima" alla base di molti crolli psicotici, eventualità con cui lo psichiatra si confronta spesso anche nella "società civile" ed in tempo di pace.
  2. Il "sequestro" della vita soggettiva, vale a dire l’occupazione di essa da parte del persecutore e l’identificazione con questi: "È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica e morale" [7, pag. 27] La degradazione risparmia solo le persone saldamente caratterizzate nelle ambizioni, nelle attitudini e soprattutto negli ideali che costituiscono il "sé nucleare" [3] e che stanno alla base del sentimento di dignità: il"sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale" è concesso solo a pochi fortunati ed a pochissimi "individui superiori, della stoffa dei martiri e dei santi" [4, pag. 116]. Tutti gli altri, se non crollano, sono soggetti in grado variabile ad "identificazione con l’aggressore". È su questa base emotiva che nascono figure come i "kapò", i "corvi del crematorio" e, in generale, quell’insieme di collaborazionisti e fiancheggiatori che costituiscono la "zona grigia" nella popolazione del Lager [7, pag. 24 e seg.]. In virtù dello stesso meccanismo di difesa, nella famiglia del "child abuse", la vittima può divenire carnefice sui propri fratelli o più tardi sui propri figli. Un "falso sé" forgiato sulle sollecitazioni dei genitori rappresenta spesso un esito di situazioni di questo genere.
  3. Il suicidio. Se le precedenti due reazioni rappresentano una resa agli aggressori, l’autosoppressione, in questi casi estremi, rappresenta un modo di opporsi allo "assassinio dell’anima", talora l’unico modo possibile:

"È fortuna che oggi non tira vento. Strano, in qualche modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda di vivere. Piove, ma non tira vento. Oppure, piove e tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar sera. O ancora, pioggia, vento, e la fame consueta, e allora pensi che se proprio dovessi, se proprio non ti sentissi più altro nel cuore che sofferenza e noia, come a volte succede, che pare veramente di giacere sul fondo; ebbene, anche allora noi pensiamo che se vogliamo, in qualunque momento, possiamo sempre andare a toccare il reticolato elettrico (…) e allora finirebbe di piovere" [4, pag. 165, 166]

Quel "se vogliamo, in qualunque momento" indica che l’atto suicidario rappresenta, qui, l’unico mezzo per recuperare una posizione attiva ed un controllo sulla situazione, ossia la sola forma ancora possibile di sopravvivenza di un sé vitale e combattivo. Il pensiero di esso rappresenta l’estrema risorsa che "trattiene sull’orlo della disperazione e concede di vivere". La possibilità di uccidersi, insomma, aiuta paradossalmente a sopravvivere.

Levi, durante la sua permanenza ad Auschwitz e nei quarantadue anni successivi, non ricorse al "rimedio" estremo del suicidio. La sua risorsa e ragione di vita fu il poter portare la propria testimonianza anche per conto di chi non poteva più farlo. Cerchiamo, ora, di capire come mai questo non fu per lui un modo per sopravvivere, ma solo per rimandare la sua fine.

 

4 — Un "ardore impietoso"

Un altro sogno, ricorrente già ai tempi di Auschwitz, illustra quanto Levi fosse consapevole che solo la perdita o il non recupero di una comprensione empatica altrui delle sue sofferenze le avrebbe rese intollerabili e fatalmente mortifere:

"È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d’altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola. Allora nasce in me una pena desolata, come certi dolori appena ricordati della prima infanzia: è dolore allo stato puro, non temperato dal senso della realtà e dalla intrusione di circostanze estranee, simile a quello per cui i bambini piangono". [4, pag. 74, 75]

Si allude, qui, ad un intenso dolore infantile "puro, non temperato dal senso di realtà", né dalla comprensione empatica dei familiari né, possiamo aggiungere, da un’adeguata capacità di simbolizzare ed elaborare mentalmente i propri affetti. Si tratta di un’antica "pena desolata", che solo l’affettuosa attenzione dei genitori avrebbe potuto lenire, riemersa quale effetto della recente esperienza traumatica; riemersa, soprattutto, in virtù dell’indebolimento delle "strutture autoprotettive difensive e compensatorie" [3] acquisite con la maturazione e della diminuita fiducia nella capacità di pensare, comunicare e farsi capire. Il bambino disperato ridestatosi in Levi rimase, tuttavia, non ascoltato e non considerato non solo dagli altri, ma anche dallo stesso scrittore: nella sua opera, pure prevalentemente autobiografica, non troviamo tentativi di ricostruire gli eventi alla base dei "dolori appena ricordati della prima infanzia" che qui sopra menziona, e neppure una particolare attenzione dell’Autore per quest’epoca della sua vita. Nondimeno esistono forti indizi di una situazione non favorevole nella sua famiglia d’origine: il suicidio del nonno paterno Michele avvenuto con la stessa, identica modalità usata da Primo anni più tardi, il rapporto ambivalente con il padre Cesare, la cui morte suscitò nello scrittore intensi sentimenti di colpa [15, pag. 854, 855 – 2, pag. 768], il gelido buon senso con cui, intuendone l’imbroglio, la madre congedò il latore delle prime notizie su Levi a nove mesi dalla sua deportazione [5, pag. 136, 137], con tutti i dubbi che quest’unico accenno alla genitrice crea sull’effettivo coinvolgimento affettivo della donna, ecc. L’antica situazione traumatica, risvegliata da quella recente, continuò perciò per lungo tempo a produrre i suoi danni senza che le capacità introspettive di Levi la considerassero appieno, chiamandola con il suo nome, e ne potessero contenere gli effetti.

Il modo di esprimersi dello scrittore cambiò notevolmente, nel corso degli anni, parallelamente all’emergere dei vissuti più antichi e sconvolgenti. All’inizio Levi appare come animato dall’illusione di un vero e proprio potere catartico del narrare per iscritto vedendovi, oltre che il modo per portare la propria testimonianza e denuncia, anche il mezzo per distogliersi dall’esperienza orribile e per ritornare "un uomo tra gli altri, né martire, né infame, né santo" [citato in 11, pag. 116, 117]. Riteneva, in questo periodo, che la narrazione dovesse essere chiara, analitica, capace di "dissolvere le ambiguità". Nell’ultima fase della sua vita, tuttavia, accanto a questo "registro" analitico proprio dell’osservatore scientifico distaccato, ne compare uno potentemente espressivo: al saggista-cronista si affianca il poeta. Il potere protettivo che il raccontare aveva esercitato sull’Autore, appare soggetto ad un progressivo logoramento, rivelandosi più al servizio della negazione (una negazione sempre più debole) che di una vera istanza autoterapeutica: questa evoluzione si conclude con il suicidio [11, pag. 117, 118]. Un momento importante di tale processo (secondo alcuni, un vero e proprio punto di svolta [11]) è rappresentato dalla traduzione, compiuta da Levi, de "Il processo" di Franz Kafka. L’impegno di rendere in italiano nel modo più fedele il testo dell’Autore boemo, avvicinò Levi a Kafka come non era mai avvenuto nella sua vita. Egli ne fu sconvolto, al punto di affermare d’aver scoperto, nel corso della traduzione, di avere alcune "difese inconsce" [11, pag. 120]. Così Levi commenta quest’esperienza:

"la sofferenza [di Kafka] ti assale e non t’abbandona: ti senti come uno dei suoi personaggi, condannati da un tribunale abietto, impenetrabile, tentacolare, che invade la città e il mondo… o trasformato in un goffo, ingombrante insetto, malvoluto da tutti, disperatamente solo, ottuso, incapace di comunicare o pensare, capace, a questo punto, solo di soffrire" [citato in 15, pag. 843]

La condanna di se stesso, operata da un tribunale interno "impenetrabile, invadente", al di sotto della quale s’intravedono (pur negate da Levi con il massimo vigore) la vergogna e la rabbia dell’essere abbrutito, "disperatamente solo, ottuso, incapace di comunicare o pensare" e capace "solo di soffrire"; questi stessi sentimenti tormentosi, effettivamente, non abbandonarono più Levi fino alla fine dei suoi giorni. Pur allontanandosi l’esperienza di Auschwitz, essi significativamente si accentuarono sempre più man mano che procedeva l’indagine introspettiva dello scrittore:

"…Indietro, via di qui, gente sommersa,

Andate. Non ho soppiantato nessuno,

Non ho usurpato il pane di nessuno,

Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.

Ritornate alla vostra nebbia.

Non è colpa mia se vivo e respiro

E mangio e bevo e dormo e vesto panni" [6, pag. 76].

Qui Levi, rivolgendosi ai compagni di prigionia che non riuscirono a salvarsi, sembra cercare disperatamente di discolparsi, senza riuscirvi, di fronte ad un tribunale interno implacabile, indecifrabile, che lo condanna senza aver precisato i capi d’accusa e che mette in discussione lo stesso diritto di vivere dello scrittore. Il problema che Levi pone è quello del superstite da Auschwitz, ma l’istanza superegoica arcaica, qui chiaramente in gioco, è la diretta erede della situazione traumatica antica, quella riemersa più chiaramente dopo che il contatto con Kafka gli aveva consentito di superare le "difese inconsce" che ad essa si opponevano.

La presa di coscienza tardiva di Levi che egli non si stava occupando solo dei suoi ricordi del campo di concentramento, ma anche di qualcosa di molto più personale, ossia di un’esperienza traumatica che si collegava strettamente, nel proprio particolare modo di viverla, ai primordi della sua vita; tutto ciò rappresenta un primo punto debole che impedì alla sua indagine introspettiva d’essere autoterapeutica. Una seconda caratteristica dello stesso genere è il suo modo d’esprimersi diretto, in prima persona, senza quella "scissione tra l’io narrante ed un altro personaggio che si assuma la sua sofferenza" che è stata indicata (ad esempio in Autori come Thomas Mann o Dino Campana) come il mezzo di "evitamento del suicidio per via poetica" [12, pag. 333 e seg.]. Al contrario, Levi sembra avvicinarsi sempre più pericolosamente, senza protezione, a sentimenti di tipo primitivo: la colpa inemendabile, la soggiacente vergogna, unita alla "rabbia narcisistica", per aver perso il proprio controllo sugli eventi ed, ancora al di sotto, la travolgente "too-muchness" che non può più essere elaborata mentalmente, ma solo eliminata con un atto autodistruttivo. Sempre sul rapporto tra superstiti e travolti dalla violenza di Auschwitz così scrive Levi:

"Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala (…) sono loro (…) i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale" [7, pag. 64]

"[quello di noi superstiti] è stato un discorso "per conto terzi", il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio (…) I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, avevano già perduto la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi. Parliamo noi in vece loro, per delega. Non saprei dire se (…) lo facciamo per una sorta di obbligo morale verso gli ammutoliti, o non invece per liberarci del loro ricordo; certo lo facciamo per un impulso forte e durevole" [7, pag. 65]

Qui Levi parla come se egli fosse stato, ad Auschwitz, un "passante preso da pietà" [11, pag. 119], un semplice spettatore di "cose viste da vicino, ma non sperimentate in proprio", come se la "morte dell’anima", che descrive così bene nei "sommersi", non l’avesse neppure sfiorato. C’è qui l’evidente esigenza di ordine difensivo di prendere distanza dagli sfortunati compagni. Essa rende l’impulso a parlarne riconducibile non tanto al bisogno di "liberarsi del loro ricordo", quanto piuttosto a quello di rassicurarsi di non essere come loro, gli "ammutoliti"; di essere, al contrario, capace, molto capace di "osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi". L’esigenza d’allontanare l’angoscia della perdita, nella situazione traumatica, delle proprie capacità introspettive ed espressive portò Levi ad un uso compulsivo di queste stesse facoltà. Il "bisogno esasperato di liberarsi della tensione post-traumatica" [15, pag. 853], finì per prevalere sugli scopi autoriparativi e catartici del suo narrare. Ne seguì un viaggio temerario nelle zone più pericolose del proprio mondo interno; viaggio che, a dispetto del suo timore assillante di perdere la comprensione empatica altrui, Levi condusse in completa solitudine. A proposito dell’impulso a parlare dei "sommersi" e della loro "morte dell’anima", Levi così prosegue:

"Non credo che gli psicoanalisti… siano competenti a spiegare questo impulso. La loro sapienza è stata costruita e collaudata "fuori", nel mondo che per semplicità chiamiamo civile (…) I meccanismi mentali degli Häftlinge erano diversi…" [7, pag. 65].

In questo passo, l’Autore sembra dire: "Quanto abbiamo sofferto, noi Häftlinge, o addirittura quali erano i nostri meccanismi mentali, nessuno lo può immaginare. Nulla, nel mondo "civile" è neppure lontanamente paragonabile". Come se, ad esempio, le non infrequenti sofferenze di un bambino che ha subito abusi, maltrattamenti, o una totale deprivazione affettiva, e le relative sequele in età adulta, fossero poi tanto inferiori a quelle dell’internato nel Lager e non paragonabili ad esse. Quest’investimento narcisistico sulla "unicità" della propria esperienza e sulle sue capacità di comprenderla e di raccontarla, portò Levi ad un pericoloso isolamento: egli, restio in generale a chiedere aiuto ad altri, da lui ritenuti "non competenti" a capirlo, cercò sollievo in una terapia psicofarmacologica da lui auto-prescritta, naturalmente fallita. Quando, poi (grazie alle insistenze dell’analista Nissim) si rese conto di aver proprio bisogno d’appoggiarsi ad un suo simile, era ormai troppo tardi: l’analista cui si rivolse si rivelò impotente [15, pag. 848]. Per il resto egli non cercò interlocutori che lo aiutassero; il suo dolente messaggio, come la missiva chiusa nella bottiglia del naufrago, fu lanciato a lettori a lui sconosciuti.

Riprendiamo il canto di Ulisse, tanto caro a Levi, cui si accennava poc’anzi. Riportiamo, qui sotto, in colore verde alcuni versi ricordati ed in rosso altri dimenticati dall’Autore nell’occasione che egli ci riferisce:

 

"Né dolcezza di figlio, né la pièta

Del vecchio padre, né l’debito amore

Lo qual dovea Penelope far lieta,

 

Vincer poter dentro da me l’ardore

Ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,

e delli vizi umani e del valore"

 

L’opera della "censura" interna non pare, qui, casuale. Levi, infatti, dimentica il passaggio che descrive una caratteristica pericolosa, comune alla personalità dell’Ulisse dantesco e di lui stesso: lo "ardore a divenire esperto" del mondo umano (nel suo caso, del proprio mondo interno devastato dall’esperienza traumatica); ardore che non si ferma neppure di fronte all’amore ed alla pietà per i familiari, né, potremmo aggiungere, alla pietà per se stesso. L’espressione diretta dei propri vissuti traumatici, l’uso compulsivo delle capacità introspettive ed espressive e la solitudine del viaggio nella sua vita interiore, spinsero Levi in un percorso che lo portò, come Ulisse, nel "vortice" dell’autodistruzione [8]. Questo cammino pare come governato da una sorta di "destino"; da una forza, cioè, che nessuno riuscì a modificare: neppure la sua analista o lo stesso scrittore. Cerchiamo, ora, di capire gl’insegnamenti che chi cura pazienti simili a Levi può trarre dalla vita e dall’opera dello scrittore.

5 — Trattamento

In una precedente occasione [10] ho illustrato il caso di un paziente, Emilio, i cui comportamenti autodistruttivi intermittenti, a differenza di Levi, irrompevano in una vita conformista e priva d’attenzione per il mondo interno; a somiglianza dello scrittore, tuttavia, Emilio procedeva in solitudine verso quella che si prospettava come una fine inevitabile. Nel momento in cui comparvero testimoni capaci di risposte empatiche e riparative (il fratello maggiore di Emilio, cui si affiancò il terapeuta), le stesse condotte pericolose iniziarono ad entrare nei rapporti divenendo esse non più atti impulsivi fini a se stessi (una sorta di "scarica" [14]), ma mezzi d’espressione e di comunicazione di significati emotivi che poterono essere compresi e positivamente modificati. Caratteristiche simili ai comportamenti pericolosi senza testimoni di Emilio avrebbe una narrazione di esperienze traumatiche che, rivolgendosi ad un pubblico distante (come quello anonimo dei lettori di Levi), fosse elaborata ed esposta in condizioni di sostanziale solitudine: essa costituirebbe un pericolo che nessuno potrebbe comprendere empaticamente e modificare. Solo la presenza di un interlocutore empatico, i cui scopi siano riparativi, può consentire alla rievocazione di fatti sconvolgenti d’essere, anziché un’impresa rischiosa, una cura: un fatto traumatico può essere fatale "…non solo se taciuto, ma anche se "mal" detto o "mal" ascoltato o non ascoltato…" [11, pag. 114]. Ad esempio, la distanza di chi narra dagli aspetti più sconvolgenti del fatto evocato può essere influenzata, positivamente o negativamente, dall’atteggiamento di chi ascolta. Se costui è animato unicamente da curiosità per i contenuti, senza riguardo per quanto l’altro può in quel momento sopportare, egli può spingere il narratore, per reazione, ad allontanarsi dagli aspetti essenziali dell’esperienza traumatizzante. All’opposto, l’ottusità o l’indifferenza di chi ascolta potrebbero spingere chi ha bisogno di comprensione a farsi sempre più esplicito, sempre più vicino al momento culminante del ricordo traumatico tanto che, anziché un effetto "catartico", la sua narrazione finirebbe per produrre il risveglio delle stesse, devastanti sensazioni del fatto originario. Una ricostruzione degli aspetti essenziali di ciò che è accaduto che non si spinga a rievocare in modo troppo vivido e concreto lo sconvolgimento di quando ogni possibilità d’elaborazione mentale fu perduta, si pone, a giudizio di chi scrive, alla distanza ottimale da tale "vortice" emotivo. Il raggiungimento di un simile equilibrio rappresenta spesso un compito di estrema difficoltà per il paziente e per il terapeuta che lo aiuta a raccontare: le conseguenze di un parziale "assassinio dell’anima" in bambini sottoposti ad abuso, o le sequele in età adulta dello stesso evento, o di traumi recenti che l’hanno risvegliato, richiedono un working through sempre ai limiti della "too-muchness" emotiva insopportabile [13, pag. 314]. L’analisi di Primo Levi, con ogni probabilità, iniziò quando egli si era ormai troppo avvicinato ad un punto di non ritorno, ossia quasi costantemente oltre la soglia di tali sensazioni travolgenti.

Nel trattamento, la difficoltà sopra esposta s’intreccia con quella di superare la diffidenza, tipica di chi ha subito esperienze reali traumatizzanti, nei confronti di chiunque cerchi una qualche vicinanza emotiva. Fu questo, con ogni probabilità, che spinse Levi ad arroccarsi nelle illusioni di un potere catartico del suo narrare, in assurdi tentativi di auto-terapia psicofarmacologica e, nel complesso, in una posizione di sostanziale isolamento. Ma, viene spontaneo chiedersi, come fu possibile che una visione così distorta di chi, in realtà, sarebbe stato disposto ad aiutarlo, coesistesse con le grandi capacità introspettive ed empatiche dello scrittore? Il concetto di "quasi-delirio", elaborato nel contesto del trattamento di gravi stati post-traumatici, ci offre una risposta a quest’interrogativo. Si tratta di una "conoscenza", iper-investita emotivamente, non integrata con il complesso delle altre convinzioni e coesistente con esse grazie ad una scissione [13, pag. 302, 303]. Nel traumatizzato (soprattutto quello in cui l’aggressione fu opera di propri simili ed in massimo grado quando si tratti di un’aggressione in età precoce e ad opera di familiari) domina il "quasi delirio" che solo il peggio è da aspettarsi, anche nella situazione terapeutica [13, pag. 313]. Il superamento di una simile difficoltà può avvenire soltanto con lenta gradualità e richiede la massima pazienza da parte del terapeuta: la seduta deve essere presentata come spazio e tempo su cui il paziente deve sentire di poter contare; al terapeuta si richiede di proporsi come "costante ed affidabile presenza", come "figura genitoriale accettante e non punitiva", impegnata in un "persistente sforzo di comprendere empaticamente" ciò che prova il malato. In tale, favorevole situazione, dopo infinite ripetizioni e "prove", il paziente traumatizzato può giungere a percepire il terapeuta come persona che, benché separata ed "altra" da lui, nondimeno è benevola ed impegnata per il suo benessere. Anche al di fuori di una situazione analitica, una lunga relazione terapeutica che non si risolve in un danno, anche se non è in grado di far prendere coscienza del passato, può produrre il risultato benefico di alleviare gli effetti più oppressivi degli eventi traumatici [13, pag. 313].

È chiaro che per le difficoltà suddette, la terapia dei severi stati post-traumatici (che coincide con il trattamento preventivo del suicidio, frequente in questi casi) richiede d’essere iniziata il più presto possibile e non può che richiedere tempi lunghi. In questi casi, in cui la diagnosi viene spesso formulata nel corso del trattamento, è evidente la necessità di mettere fortemente in discussione le cure concepite fin dall’inizio come "abbreviate", essendo il "time limited setting" il più delle volte imposto da pressioni esterne e non da vere esigenze terapeutiche. Ne discende, inoltre, il necessario superamento della "morale dell’autonomia" per la quale il trattamento dovrebbe spingere prioritariamente il paziente a "cavarsela da solo" il più presto possibile [3]: il superamento del "quasi-delirio" dell’inaffidabilità dei propri simili, dopo situazioni traumatizzanti quali quelle sofferte da Levi, richiede molti anni, talora l’intero arco dell’esistenza. Ed, in ogni modo, il paziente, più che della "autonomia", ha bisogno di ritrovare ragioni che rendano la sua vita ancora vivibile.

Tutte queste condizioni, purtroppo, mancarono nell’analisi intrapresa tardivamente da Primo Levi.

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