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Amare con “anima e corpo”: paura della libertà, empatia e cura

21 Apr 19

Di Sabino Nanni

I — Premessa

Alcuni pazienti si rivelano privi di libertà interiore (soprattutto nella sfera affettiva) al punto da rientrare fra i danteschi "sciaurati che mai non fur vivi": una sorta di panico rende loro impossibile un’autentica e spontanea vita soggettiva. Essi, perciò, corrono il rischio di morire senza essere mai, veramente "nati". Queste persone spesso avvertono, in misura particolarmente accentuata, una contrapposizione o conflitto tra "anima" e corpo: la prima vissuta come la parte di sé veramente "umana", il secondo come parte istintuale, "bestiale", sotto il cui dominio essi possono cadere o ricadere più o meno temporaneamente; oppure essi ripudiano il loro corpo, e, in questo caso, esso viene avvertito come entità estranea e incontrollabile. Nei casi clinici che riporto qui sotto la suddetta frattura era una particolare espressione della paura d’esistere come individuo "intero" e libero; paura cosciente o inconscia, espressione estrema di una dipendenza patologica all’oggetto arcaico e/o ai suoi sostituti.

 

II — Casi Clinici

Parlerò, qui sotto, di due casi clinici che ho seguito a distanza di circa trent’anni l’uno dall’altro. Si tratta di due persone che, al di là delle apparenze, presentano alcune, importanti analogie: un rapporto di dipendenza patologica, la paura d’essere se stessi ed una frattura fra "anima" e corpo. Il confronto fra i due trattamenti illustra quel che l’esperienza ha insegnato al sottoscritto, a proposito di questo tipo di persone, negli ultimi tre decenni. È soprattutto questo aspetto che intendo sviluppare.

– Federico Un uomo di 45 anni, dall’aspetto imponente, ma un po’ curvo, quasi cercasse di annullare la differenza di statura fra lui e la moglie che lo accompagnava: questa è l’immagine che ricordo di Federico quando si presentò nel mio studio, lamentando un’impotenza sessuale totale (per essere — un po’ ossessivamente — esatti: "Disturbo Maschile dell’Erezione, Situazionale, Dovuto a Fattori Psicologici" secondo il DSM-IV-TR [1, pag. 583]); disturbo manifestatosi all’inizio del recente matrimonio e perdurante fino a quel momento. Parlava in modo innaturale: con poche pause e quasi nessun cambiamento d’intonazione, con parole misurate, scelte senza esitazione; parole che, pur comunicando in modo preciso il suo disturbo, non mettevano troppo a nudo la sua vita intima. Aveva tutta l’aria di un discorso accuratamente preparato in precedenza e studiato a memoria. Dagli sguardi che, ad ogni passaggio, Federico lanciava alla consorte, come chiedendo approvazione, fu chiaro che la donna era stata l’autrice principale del discorso e — così sospettavo — l’ispiratrice dell’iniziativa di consultarmi. Ne ebbi conferma al primo colloquio a quattr’occhi che ebbi col paziente: sì, certo — mi disse Federico — l’idea dell’analisi gli era stata suggerita dalla moglie, ma tra loro esisteva un perfetto accordo e le idee della consorte "erano anche le sue". Non pareva, tuttavia, tanto animato dal desiderio di vincere l’inibizione sessuale, quanto, piuttosto, dalla volontà di rendere felice la sua donna.

Presto Federico mi rivelò che la sua non era un’impotenza assoluta: da sempre frequentava prostitute (quello con la moglie, sposata un anno prima, era stato il primo rapporto sentimentale della sua vita) e con queste donne non aveva problemi; ancora adesso le incontrava di tanto in tanto — sembra con il tacito consenso della consorte — più che altro per rassicurarsi "d’essere ancora un uomo". Il nostro paziente sembra rientrare fra i casi definiti da Freud di "impotenza psichica". Essi, tipicamente, "…dove amano non provano desiderio, e dove lo provano non possono amare" [7, pag. 425]. Che questo stato di cose non sia nato col matrimonio, lo testimonia un episodio, di qualche anno prima, che Federico ricorda in modo vivo. Aveva preso a frequentare una prostituta con la quale si trovava particolarmente bene, la incontrava anche più volte in una stessa settimana. In un’occasione, la donna, dopo essersi intrattenuta a lungo con Federico, gli disse che quella sera non lo avrebbe fatto pagare: voleva fargli questo regalo perché aveva capito che si era innamorata di lui. In quel preciso momento, ogni desiderio per questa persona abbandonò, di colpo, il nostro paziente ed egli non la cercò mai più.

Del resto, come già detto più sopra, Federico era arrivato alla mezza età senza conoscere rapporti sentimentali. Fino a quel momento, i suoi affetti si erano diretti verso un’unica donna: la madre, deceduta pochi mesi prima che egli conoscesse l’attuale consorte. La genitrice, fino alla fine dei suoi giorni, era stata sempre presente nella vita di lui e ne aveva condizionato ogni aspetto. Persona decisa, mascolina, priva della capacità d’esprimere sentimenti di tenerezza, la donna aveva rivolto tutta la sua attenzione a Federico, il suo unico figlio. Col padre del paziente, infatti, ella non aveva un buon rapporto: lo disprezzava apertamente, definendolo "non abbastanza uomo", mentre Federico (questo me lo rivelò in una fase avanzata dell’analisi) ammirava segretamente il genitore, apprezzandone la finezza dei sentimenti ed il buon gusto. Il padre costituì, per il paziente, il modello identificativo sulla cui base egli forgiò le prime fantasie sentimentali (sempre molto tenere e mai tradotte in realtà, data la sua estrema timidezza) ed il progetto della prima adolescenza di dedicarsi in futuro ad attività, artistiche o artigianali, che valorizzassero la sua sensibilità per le cose belle. Ma tutto questo abortì sul nascere, data la soverchiante influenza della madre sul paziente. Il padre, infatti, persona debole, la cui salute fu presto minata da una grave cardiopatia, era incapace di tener testa alla consorte e controbilanciarne l’autorità. La donna era solita criticare aspramente qualsiasi, anche minima, traccia di tutto ciò che, nel figlio, contrastasse con il modello di mascolinità che lei gli proponeva; modello che escludeva ogni forma di sentimento e di sensibilità. Le parole "effeminato" e "effeminatezza" avevano, per le orecchie di Federico, un suono terribile: pronunciate dalla madre, significavano la minaccia di privarlo di considerazione e affetto, e renderlo oggetto di disprezzo e sarcasmo, come avveniva per il padre. Tutto questo portò alla brutale repressione di tutto ciò che Federico sentiva appartenergli di più: le fantasie sentimentali cessarono del tutto e, sul piano professionale, il paziente finì per scegliere dapprima il lavoro di commerciante, poi quello d’impiegato (entrambi impostigli dalla madre), attività per le quali non avvertiva alcun interesse. A dispetto del fatto che Federico era consapevole di tale situazione (è da lui che la appresi), egli attribuiva alla madre solo buone qualità: i fatti non erano capaci di modificare l’opinione, i sentimenti e l’estremo bisogno che egli avvertiva per la donna. Su questo argomento, egli spesso si contraddiceva, mentiva palesemente, negava di aver mai espresso dichiarazioni che avevo sentito chiaramente. Erano evidenti, in Federico, l’idealizzazione (quasi)delirante del genitore traumatizzante ed il "doublethink" tipici dei sopravvissuti allo "assassinio dell’anima"[21, pag. 34]

A Federico dispiaceva l’insoddisfazione sessuale della moglie, ma per tutto il resto, la sessualità non pareva preoccuparlo eccessivamente. Piuttosto, il suo cruccio era la possibilità che si potesse scatenare in lui una violenza incontrollabile: lo esprimeva nei sogni (sempre piuttosto confusi) ed in vaghe fantasie ad occhi aperti che, tuttavia, non riuscivano a chiarirgli chi egli potesse aggredire e per quale motivo. La violenza apparteneva anche alla vita reale del paziente: fin da giovanissimo aveva praticato gli sport più brutali: rugby, pugilato e, negli anni più recenti, la caccia (soprattutto quella, più pericolosa, al cinghiale), sempre attivamente incoraggiato dalla madre. In queste attività, Federico aveva trovato un modo per rendere la genitrice "fiera di lui" e, nello stesso tempo, per dar sfogo alla rabbia che egli sentiva di "avere in corpo": un’espressione, questa, che egli usava insistentemente. Una volta resa accettabile dalla sottomissione all’autorità dell’arbitro e dal rigoroso rispetto delle regole del gioco, si scatenava nel paziente una furia inaudita che, molto più delle sue dimensioni fisiche o delle qualità tecniche, finiva per sconcertare e spaventare l’avversario. In tutto il resto della sua vita, la "rabbia in corpo" di Federico rimaneva silente, se si prescinde da alcune circostanze eccezionali. Un episodio di qualche anno prima, tornatogli alla mente in una fase avanzata dell’analisi, rese chiaro a chi era diretta l’aggressività che Federico tanto temeva si scatenasse. Il padre era stato appena dimesso dall’unità coronarica, dove era stato ricoverato per un grave infarto. Un giorno suonò alla porta una vicina, molto irritata per una questione di condominio su cui esisteva un conflitto tra lei e la famiglia del nostro paziente. Nell’accesa discussione che ne era nata, la donna finì per augurare al padre di Federico di avere un nuovo infarto e, questa volta, di "crepare". In un istante, il paziente si sentì tutt’uno con la sua furia, solo più un "grumo di rabbia": afferrò la donna e l’aveva già sollevata per scagliarla dalla tromba delle scale. La madre ed un vicino di casa, accorsi, non erano in grado di fermarlo e solo le accorate preghiere del padre riuscirono a calmare Federico, giusto in tempo per evitare il peggio. Sul piano simbolico, l’eccezionalità dell’episodio consiste nel fatto che, mentre abitualmente la sottomissione all’autorità del padre (o dei suoi sostituti: gli arbitri) era servita a Federico per contenere la sua "rabbia in corpo", questa volta il genitore stesso era stato l’oggetto di un violento attacco; era parte in causa nel conflitto, non solo più autorità "super partes" e troppo debole per svolgere tale ruolo. L’aggressività del paziente, perciò, non aveva più freni. Abbiamo visto come il padre avesse costituito, per Federico, il modello identificativo sulla cui base egli aveva forgiato la parte più autentica della sua vita soggettiva; parte autentica e gelosamente tenuta segreta, per proteggerla dall’influenza materna. L’episodio della vicina, perciò, riproponeva, in forma particolarmente violenta, gli attacchi materni al padre e, al tempo stesso, al nucleo più profondo della stessa esistenza del paziente. Era, perciò, la madre (e, con lei, tutte le donne) ad essere l’oggetto originario dell’incontenibile rabbia che Federico tanto temeva.

La vita soggettiva di Federico risultava scissa in due parti: da un lato un sé "maschile" (forgiato in base al modello che la madre gli aveva imposto), in cui confluivano anche una sensualità puramente "fisica" (disgiunta da qualsiasi forma di tenerezza) e la rabbia che il paziente sentiva di avere "in corpo"; un sé, quindi, prevalentemente corporeo, "animalesco", capace di esprimersi solo con azioni materiali. D’altro lato, una vita mentale da cui erano accuratamente escluse non solo sensualità e rabbia, ma anche qualsiasi forma di autentica passione: un falso sé, schiavo della madre (e successivamente della moglie, quale sostituto materno), incapace di intraprendere proprie iniziative, di affermarsi, di nutrire interessi e provare piacere nella vita. La madre, questo è chiaro, sapeva vedere nel figlio maschio solo il "fallo" di cui la natura non l’aveva provveduta; non una persona intera, quindi, dotata di proprie peculiarità, ma una pura espressione delle esigenze narcisistiche di lei. Ne risultò quello "iper-maschio" (in realtà, la caricatura di un uomo), tutto ferocia e sensualità, che Federico effettivamente era in una parte della sua vita. D’altro lato, proprio per la contraddittorietà delle sue sollecitazioni, la madre finì per esercitare sul paziente un’azione sostanzialmente castrante: l’uomo "terribile", di fronte alla genitrice (e successivamente alla moglie), come un soldatino intimorito al cospetto del suo generale, diventava passivo, obbediente, del tutto incapace di esprimere la propria virilità.

A distanza di trent’anni, considero il trattamento di Federico sostanzialmente non riuscito, a dispetto della soddisfazione che il paziente mi espresse (anche a nome della moglie) prima di terminare l’analisi. Un’attenuazione del rapporto di sudditanza di Federico nei confronti della consorte rese effettivamente possibile alla coppia l’inizio di una vita sessuale. Da parte del paziente, tuttavia, si trattava di rapporti faticosi, spesso incompleti, quasi del tutto privi di godimento. Soprattutto, la mia valutazione negativa del trattamento nasce dal fatto che la vita di Federico continuava ad essere divisa in due: da un lato un corpo "animalesco", alimentato da una genuina vita pulsionale, ma del tutto privo di autocoscienza; dall’altro lato una "anima" socialmente adattata, ma inautentica, caratterizzata da obbedienza acritica, conformismo, sostanziale mancanza di gioia di vivere. In nessuno dei due modi d’essere trovava possibilità d’esprimersi la parte più autentica e profonda della vita soggettiva del paziente: quella, "abortita" nella prima adolescenza, del sentimento e della sensibilità per la bellezza. Scindendosi in due, perciò, Federico soffocava il desiderio d’essere veramente se stesso, come a suo tempo gli era stato imposto e come tuttora egli stesso continuava ad imporsi. I motivi del sostanziale insuccesso terapeutico penso siano da ricercarsi nelle vicende del rapporto transferale. Nella relazione terapeutica, seppi riconoscere quasi esclusivamente traslazioni riferibili ad una figura maschile-paterna. Si trattava, il più spesso, di un padre protettivo, sottomettendosi alla cui autorità, Federico teneva a freno la propria rabbia. Altre volte, nei momenti in cui cercavo di discutere il suo rapporto di sudditanza alla figura materna, ero vissuto come il persecutore che "voleva portarlo via alla mamma". In nessun caso seppi vedere accenni alla traslazione del rapporto con la madre, con un’unica eccezione: un episodio di caccia, che Federico mi riportò con intensa emozione, che aveva il carattere di un "acting out". Il giorno prima, il paziente aveva fatto molta fatica ad uccidere una lepre, che gli sfuggiva continuamente. Dopo ripetuti tentativi, riuscì finalmente a colpirla e, in quel momento, fu preso da un accesso di collera: afferrata la preda, la scaraventò più volte a terra imprecando contro la bestia, insultandola; fino a quando, come destandosi da un sogno, s’accorse dell’espressione perplessa con cui lo stavano fissando gli altri cacciatori. Sospettai che Federico stesse alludendo alla collera per un mio atteggiamento sfuggente di fronte a un suo bisogno; ma di cosa si potesse trattare, allora, non riuscii a capirlo.

– Antonella Diversamente andarono le cose, trent’anni dopo, con Antonella. Riporto qui la storia del suo trattamento, di cui ho già parlato in altra sede [16]. Il modo in cui si presentò questa paziente quando, alcuni anni fa, mise piede per la prima volta nel mio studio, non poteva farmi supporre alcuna analogia tra lei e Federico: una donna che pareva dimostrare ben più dei suoi 42 anni, decisamente sovrappeso, ordinata nell’aspetto e nell’abbigliamento ma senza la minima traccia di civetteria, una persona dall’atteggiamento dimesso, come approdata all’ultima spiaggia con la sua terza richiesta di cura. Pareva molto scoraggiata dalle precedenti esperienze terapeutiche: due episodi depressivi (il secondo con caratteristiche di "Episodio Depressivo Maggiore" [1, pag 379]) erano stati trattati da due distinti curanti, rispettivamente, con una psicoterapia "a termine" durata un anno e con un intervento esclusivamente psicofarmacologico durato cinque. In entrambi i casi, la depressione era scomparsa completamente, ma ora la minacciava per la terza volta. A dispetto della povertà delle sue comunicazioni verbali (monotone, polarizzate su fatti della vita quotidiana, con poche, saltuarie osservazioni sui cattivi rapporti con la figlia), Antonella riuscì presto a trasmettermi per via intuitiva un’intensa richiesta d’aiuto. Fu necessario più di un anno di puntualità e regolarità degli incontri, di costante disponibilità ad ascoltarla e mettermi nei suoi panni, perché il nostro rapporto incontrasse una svolta decisiva. In tutto questo lasso di tempo, la paziente pareva lottare, ogni seduta, contro una profonda e tenace sfiducia circa la possibilità d’essere considerata e capita e, quindi, di poter contare su di un altro essere umano. Sembrava le paresse impossibile che il suo modo d’essere potesse suscitare un vero interesse: una vita, come la sua, priva di veri affetti, curiosità, ambizioni, insomma priva di qualsiasi spinta positiva e tutta dedicata a lottare (ricorrendo sempre più spesso ai superalcolici, come presto mi rivelò) contro una tensione per lo più indefinibile. Capii, quindi, che, oltre agli episodi depressivi, era il modo d’essere abituale, la personalità stessa della paziente, ad avere carattere depressivo. Le capacità introspettive e la fantasia di Antonella apparivano piuttosto limitate; divenne, tuttavia, gradualmente chiaro che la povertà e monotonia delle comunicazioni verbali volevano soprattutto trasmettermi quanto lei stessa si sentisse povera e monotona. Questa interpretazione mi fu suggerita soprattutto dall’istintiva simpatia che, fin dall’inizio, avvertii per la paziente: non riuscivo a credere che Antonella fosse veramente così scialba come si presentava e come lei stessa credeva di essere. Le ribadii più volte la mia impressione, soprattutto nei momenti in cui riuscivo a cogliere (ed a farle presente) aspetti della sua vita che, a differenza di quanto lei stessa pensava, erano degni di stima. Quando la mia costante attenzione smentì in misura sufficiente la sua idea su se stessa, Antonella finalmente si decise a rivelarmi il segreto terribile, che sinora aveva tenuto nascosto a tutti e che aveva del tutto segnato la sua vita.

All’età di nove anni, Antonella era stata fatta oggetto di abusi sessuali (ripetuti ma mai arrivati ad un rapporto completo) da parte di uno zio materno. L’esperienza l’aveva fortemente turbata, ma ancor più angosciante fu quando, vincendo un’intensa sensazione di paura e vergogna, provò a farne cenno alla madre: la donna, divenuta fredda e scostante, le rispose recisamente che erano "tutte sue fantasie". Il fatto era particolarmente grave perché sinora Antonella aveva giudicato la madre come l’unica persona della sua famiglia su cui potesse contare: non aveva fratelli, il padre era abitualmente assente dalla vita familiare e, a parte le assillanti attenzioni dello zio materno, tra tutti gli altri parenti regnava una gelida indifferenza nei suoi confronti. Da un esame retrospettivo fu chiaro che la genitrice, dietro una facciata di dolcezza e disponibilità, nutriva sentimenti di disistima per Antonella (pari, probabilmente, a quelli che provava per se stessa e, in generale, per il sesso femminile); le sue rare manifestazioni di fierezza per i successi scolastici della figlia, sempre piuttosto forzate e artificiose, contrastavano con la viva ammirazione che la donna esprimeva in ogni occasione per i membri di sesso maschile della famiglia, soprattutto lo zio. In quel periodo, tuttavia, Antonella aveva bisogno di aggrapparsi alla convinzione priva di basi reali (delirante) della "bontà" della madre. Iniziò, perciò, a dubitare di se stessa, della realtà delle esperienze che l’avevano così dolorosamente allontanata dalla genitrice, arrivando a pensare d’essere "pazza", cosa che per lei significava soprattutto "senza la possibilità di farsi considerare e capire". Fece propria, inoltre, l’opinione negativa che — una parte di lei l’aveva intuito — la madre aveva di lei; era in fondo, la stessa, bassa considerazione che lo zio aveva implicitamente dimostrato, con i suoi gesti, per i sentimenti della bambina. Crebbe, pertanto, in Antonella la convinzione d’essere "di poco valore", "incapace di farsi voler bene", di non potere che apparire "sgradevole, noiosa", di non poter far altro, nella vita, che piegare la propria natura ai suoi doveri. Presto, quindi, per adattarsi alle esigenze della realtà, smise di pensare a se stessa: portò a termine i suoi studi, trovò un lavoro da impiegata, si sposò e mise al mondo una bambina; ma tutto questo senza vera partecipazione emotiva, "usando solo la testa e non il cuore", come mi disse testualmente in un’occasione, e senza che le sue realizzazioni incidessero sulla cattiva opinione che aveva di se stessa.

Il trattamento, dopo aver superato l’iniziale diffidenza di Antonella e dopo la sua rivelazione degli abusi subiti nell’infanzia, dovette affrontare tutte le conseguenze che tali esperienze traumatiche avevano prodotto in lei, soprattutto nei vissuti corporei. Era come se tutta una parte del suo mondo soggettivo continuasse ad essere "sequestrata", occupata dall’esperienza traumatizzante e dalla sua reazione ad essa, e relegata nel corpo, mentre nella mente restavano solo la negazione dei fatti e la cattiva opinione di lei stessa che le avevano trasmesso la madre e lo zio. Ad esempio, si riuscì ad affrontare (anche rivissuta nel transfert) tutta la rabbia che, ora se n’accorgeva, c’era dietro quella tensione fisica "indefinibile" che scacciava con l’alcol, le sigarette e gli eccessi alimentari. Si trattava della rabbia nata coi traumi sessuali e soprattutto col "tradimento" da parte della madre; rabbia cresciuta insieme a lei, "contro tutto e tutti, anche lei stessa". Il ricorso all’alcol ed agli altri abusi, quindi, esprimeva anche e soprattutto il desiderio "rabbioso" di farsi del male. Si arrivò, infine a tentare di sanare, con una "corrective emotional experience", la profonda ferita narcisistica che era alla base della rabbia di Antonella. Esperienza correttiva fatta di contatti con una persona il cui valore poteva fondarsi, anziché su di un’idealizzazione delirante, su una reale disponibilità abbastanza affidabile nei suoi confronti; esperienza fatta, inoltre, di continue conferme e sostegni alla nascente sicurezza e fierezza di sé della paziente. Questo lavoro impegnò Antonella e me per alcuni anni; i frutti di esso furono, abbastanza presto, la cessazione del ricorso all’alcol ed alla nicotina e, successivamente, la faticosa ma decisiva conquista di margini più ampi di vita vissuta pienamente, "con la testa e col cuore"

Le precedenti cure di Antonella (come quella di Federico) non avevano compiuto alcun tentativo d’integrare nella mente il significato emotivo di sensazioni e fenomeni corporei: nella psicoterapia, il corpo fu del tutto escluso dalle comunicazioni tra terapeuta e paziente. Le interpretazioni, pur ricche e tra loro articolate e coerenti, si mantennero ad un livello intellettualistico, acorporeo, freddo. Per questo motivo principalmente, e non tanto per la sua durata relativamente breve (un anno), ritengo si possa ritenere questa cura superficiale e non in grado d’incidere sull’affettività; il che spiega come essa finì per fuorviare e "raffreddare" il sintomo-segnale depressione, dissolvendolo anziché lasciandosi guidare da esso e dalle sensazioni corporee correlate. Non fu considerata, in particolare, la caratteristica che rende riconoscibile l’appropriatezza dell’interpretazione: il "far vibrare" interiormente il malato, vale a dire "toccare" la matrice corporea delle sue autentiche emozioni, producendo le variazioni neurovegetative ad esse correlate.

Lo stesso giudizio negativo, anche se per motivi opposti, si può esprimere riguardo alla pur lunga ed accurata (sul piano delle cure biologiche e sintomatiche) farmacoterapia cui Antonella si sottopose nel corso del successivo episodio di depressione maggiore. Qui il suo corpo fu oggetto di cure intensive, capaci di restituirle serenità in un tempo relativamente breve e di far durare questo stato per circa cinque anni. Tuttavia, come nella precedente psicoterapia, il corpo fu privato della possibilità di arricchire, con le sue tracce del passato, il pensiero e l’affettività di Antonella. Quando poi, dopo essere rimaste silenti per vari anni, le sue sofferenze si risvegliarono, fu proprio il corpo, ancora prima della mente, ad essere colpito: accadde che, dopo una non gravissima ingiustizia subita nell’ambiente di lavoro, Antonella riprese ad assumere quotidianamente superalcolici ed anche il consumo di sigarette ed i disordini alimentari si accentuarono. Fu per il tramite di questi attacchi a se stessa (che Antonella attuava pur senza sentirsi molto depressa), oltre che per una sua costante fragilità somatica, che le condizioni fisiche della paziente peggiorarono: la sua gastrite si riacutizzò, comparvero alcune puntate ipertensive arteriose ed emerse anche una disfunzione tiroidea. Era accaduto che il trattamento psicofarmacologico aveva soltanto mantenuto in stato di parziale compenso, senza correggerla sostanzialmente, la "depressione essenziale" di Antonella. Non poteva succedere diversamente: la rabbia primitiva latente e la fragilità narcisistica di fondo, che caratterizzavano tale stato nella paziente, non potevano certo essere corretti da una semplice assunzione di farmaci. Quando poi il dolore della ferita narcisistica inferta dall’ingiustizia subita superò in intensità l’effetto "consolatorio" del farmaco, quest’evento trovò in Antonella risorse ancora più deboli rispetto a quelle anteriori alla cura. Infatti, il trattamento psicofarmacologico "puro" aveva rafforzato l’addiction della paziente alle sostanze, rendendo quasi atrofiche le altre sue risorse. Perciò, quando i farmaci si rivelarono insufficienti a sedare il proprio tormento interiore, ad Antonella non restò altra possibilità soggettiva che tornare a rivolgersi ad altre sostanze: all’alcol, alla nicotina ed ai cibi assunti in eccesso; abitudini che, del resto, non aveva mai abbandonato del tutto.

Se nell’ultimo trattamento Antonella riuscì a trovare nel proprio corpo una fonte rinnovata di piacere e di dolore, intesi come sensazioni emotive e non solo fisiche, il merito spetta principalmente a lei stessa. Al terapeuta (memore degli insuccessi delle precedenti terapie di Antonella e dei propri personali insuccessi) fu sufficiente presentarsi fin dall’inizio come medico sia del corpo, sia della mente; e questo dimostrando, in modo chiaro e per lungo tempo, la sua disponibilità ad ascoltare con pari interesse quanto, nelle comunicazioni della paziente, proveniva dalle sue sensazioni somatiche e quanto era frutto dei suoi pensieri. Questo, in Antonella, facilitò un processo di graduale reintegrazione di aspetti della sua vita soggettiva, legati più o meno direttamente alla situazione traumatica originaria, che sino allora si erano espressi prevalentemente ed isolatamente nei fenomeni neurovegetativi del pallore, del rossore, della tachicardia, ecc.; oppure in sensazioni somatiche, avvertite senza alcuna connotazione emotiva, sul tipo di brividi o pesantezza. Essi, ora, partecipavano più spesso ed in modo spontaneo alle narrazioni di Antonella, specie a quelle più drammatiche sul suo passato, quali correlati delle emozioni di paura, vergogna, rabbia ecc. Naturalmente questo fatto le fu evidenziato ed interpretato più volte, come pure le fu evidenziata ed interpretata la sua grande sensibilità a quello che i suoi interlocutori, soprattutto i terapeuti, si aspettano o si aspettavano da lei: in passato aveva come avvertito che fosse "lecito" parlare solo dei propri pensieri in psicoterapia, oppure successivamente, nel corso della terapia farmacologica, solo delle sensazioni corporee.

Anche ad Antonella, come a Federico, l’essere divisa in due impediva d’essere veramente se stessa: da un lato il suo corpo che conteneva le tracce dell’antica situazione traumatica e delle sue conseguenze (a dispetto dei tentativi di disconoscerla); dall’altro lato, la sua "anima", forgiata sulla base dell’esigenza d’adattarsi al rapporto con la madre; parte di lei portatrice di una profonda auto-disistima, mossa unicamente dal senso del dovere e priva della capacità di partecipare emotivamente alla vita. In nessuno dei due settori trovava spazio la parte più originaria ed autentica di lei: quella che, preesistente al trauma sessuale e alla deprivazione affettivo-empatica da parte della madre, conosceva ancora la gioia di vivere. Solo un’intensa esperienza emotiva sostitutiva, fondata sulla traslazione del rapporto con la madre, le consentì di ricomporre la suddetta frattura; a differenza di quanto avvenuto nel trattamento di Federico.

– Confronto fra i due trattamenti L’analisi, nel rapporto transferale, della relazione con la madre ed un soddisfacimento sostitutivo dei bisogni narcisistici a suo tempo frustrati dalla genitrice, sono d’importanza cruciale in casi come quello di Federico e di Antonella. In entrambi i pazienti, le madri erano "donne nemiche delle donne": patologicamente incapaci d’attribuire valore alle qualità femminili proprie ed altrui, esse tendevano a sopravvalutare quelle maschili. Tale grave carenza narcisistica faceva sì che queste genitrici vedessero, nella loro prole, esclusivamente una possibilità d’essere "completate" con un "fallo", come nel caso di Federico, oppure vedessero una frustrazione di questa stessa esigenza, come in quello di Antonella. Il loro patologico egocentrismo le portò a distruggere nei figli la possibilità di una vita soggettiva separata ed a sostituirla con un prolungamento della propria, ossia a tentare un vero e proprio "assassinio dell’anima" [22, pag. 2]. Nel caso di Antonella, come dicevo poc’anzi, una "corrective emotional experience" terapeutica restituì, in gran parte, alla paziente quella possibilità (e quella fierezza) d’essere se stessa che il rapporto patologico con la madre e quello con lo zio materno le avevano negato. Una nuova esperienza, più sana, di contatto con un sostituto materno si rese possibile utilizzando il potenziale psicoterapeutico delle cure corporee. Esse, infatti, sono capaci d’evocare la situazione, filogeneticamente determinata, delle prime cure materne e si prestano a divenire oggetto di traslazione del rapporto con la genitrice. Antonella, quando parlava dei disturbi fisici legati alla gastrite, o all’ipertensione arteriosa, o all’ipotiroidismo, era sicura d’incontrare, nel terapeuta, interesse, sollecitudine, disponibilità a mettersi in contatto con gli altri specialisti che si occupavano di lei. In tale modo, il corpo della paziente, divenuto parte integrante della cura, fu messo nelle condizioni di "parlare" al sottoscritto. Le sensazioni cenestesiche, i fenomeni neurovegetativi e gran parte dei disturbi somatici, entrati nel rapporto terapeutico, ora potevano acquistare un preciso significato emotivo.

Diversamente, purtroppo, andarono le cose con Federico. Da quanto ho potuto ricostruire, nei mesi precedenti l’episodio di caccia cui ho accennato più sopra, il paziente mi aveva parlato più volte di una sindrome ipertensiva arteriosa che gli era stata diagnosticata in quel periodo. A distanza di trent’anni, ritengo probabile che tale disturbo esprimesse la sofferenza fisica nata da una troppo intensa "rabbia in corpo" che Federico non riusciva a contenere. Il paziente, parlandomene, sollecitava da me un intervento riparativo di tipo materno; nel suo caso, una "corrective emotional experience" fatta di quelle cure materne premurose ed empatiche di cui non aveva mai goduto. Seguendo rigorosamente il canone per cui "l’analista non deve toccare il corpo del paziente" [18], a quel tempo ritenni "corretto" invitare Federico ad affidarsi alle cure degli specialisti in materia e distolsi completamente la mia attenzione dall’argomento. Fu questo, da parte mia, l’atteggiamento sfuggente nei riguardi del quale Federico esprimeva esasperazione e rabbia nell’acting out dell’episodio di caccia. Si trattò, molto probabilmente, di una grossa occasione mancata che avrebbe potuto dare a questo trattamento una svolta decisiva.

 

III — Riflessioni sull’argomento

– Schiavitù ed autodistruttività Ogni forma di dipendenza patologica comporta un certo grado, variabile da caso a caso, di autodistruttività. Antonella era incline a frequenti attacchi al proprio corpo sotto forma di abusi alcolici, tabagismo ed eccessi alimentari; attacchi che le avevano procurato seri disturbi somatici. Il costante atteggiamento auto-denigratorio, inoltre, la danneggiava sul piano psicologico e su quello sociale. Anche Federico, reprimendo ogni forma genuina d’ambizione, interesse o passione nella sua vita coniugale ed in quella sociale, aveva fatto di sé una persona apparentemente incolore, scialba, passiva. Nella sua stessa vita erotica con le prostitute, la "degradazione dell’oggetto" quale condizione per la libera manifestazione della sua sessualità [7, pag. 425], comportava anche la degradazione di se stesso (l’uomo apprezzato non per le sue qualità, ma solo per il suo denaro); e questo nell’ambito di un rapporto spersonalizzato, in cui le peculiarità individuali — sia della partner, sia di lui — scomparivano. L’integrità corporea, messa in pericolo dalle attività sportive violente, era stata anche minata da una probabile somatizzazione. Già di per sé, il concetto stesso di "addiction" comporta autodistruttività: l’annullarsi, il perdersi nel rapporto con l’oggetto di dipendenza patologica. Lo "assassinio dell’anima" che queste persone hanno subìto comporta la distruzione della possibilità d’esistere come individuo separato, intero e fiero di sé [22, pag. 2, 311]. Il risultato di tale crimine perpetrato originariamente da altri, viene reso costante dal soggetto stesso e questo grazie alla "sottomissione masochistica ad un oggetto sadico interiorizzato" [10, pag. 1018] che impone una non esistenza. Ogni accenno ad una volontà di vivere in modo autentico acquista il carattere di "psicoreato": uno degli esiti del divieto tirannico interiorizzato in "1984" [17, pag. 42, 51].

Un’importante svolta nel trattamento di Antonella (non verificatasi in quello di Federico) fu segnata da un breve sogno. Si ritrovava a scuola, alle prese con un’insegnante a lei ostile, sempre pronta a denigrarla e ad ostacolare i suoi sforzi. Sentiva, nello stesso tempo, una voce (non capiva se maschile o femminile) di una persona, probabilmente un altro insegnante, che non poteva vedere poiché era dietro di lei. Quest’ultimo(a) la incoraggiava, le confermava i suoi meriti, le diceva che l’insegnante nemica era una persona meschina ed invidiosa cui Antonella non doveva arrendersi. In parte il sogno riflette traslazioni sul rapporto terapeutico in un momento di defaillance, da parte del sottoscritto, nella capacità di sostenere e rincuorare la paziente. L’insegnante ostile riproponeva, evidentemente, l’atteggiamento verso di lei che Antonella percepiva nella madre, al di là dell’apparente dolcezza. La voce amica che le parlava dietro (come il terapeuta nel setting analitico) riproponeva i rari momenti positivi di contatto emotivo con il padre. Nel suo insieme, però, il sogno riflette qualcosa di più importante delle traslazioni di esperienze passate, ossia una "corrective emotional experience" del tutto nuova nella vita di Antonella. Si tratta del rapporto con una madre abbastanza equilibrata e "sufficientemente benevola", capace di riconoscere le proprie, inevitabili imperfezioni; capace, tuttavia, anche di comprendere empaticamente che queste stesse imperfezioni, agli occhi della bambina, appariranno come "tradimenti", oggetto d’aggressività.

Siamo abituati a sentir pronunciare dalla maggior parte delle madri ai loro figli neonati, frasi di questo tipo: "Questa strega di una mamma, che non si è accorta che il suo bimbo aveva fame! Adesso rimedio subito". Tali parole, che ci suonano come semplici, naturali, quasi banali, sono tuttavia in grado di mettere in moto, nel bambino, processi psichici complessi ed altamente positivi. Non sono, ovviamente, le parole di per sé, ma è il tipo di rapporto che le parole segnalano ad essere emotivamente efficace. Al bambino, sostenuto nel suo stato di frustrazione da una madre soccorrevole ed empatica, viene presentata l’esistenza di una "strega" frustrante, l’aggressività verso la quale viene ad essere "legittimata" dalla madre alleata. Il piccolo, perciò, è posto nelle condizioni di percepire due oggetti distinti, l’uno "buono" e l’altro persecutorio; oggetti che, dapprima scissi tra loro, verranno successivamente integrati nella percezione di qualità positive e negative della madre come oggetto intero. Nello stesso tempo, al bambino viene offerta l’opportunità di deflettere all’esterno la propria aggressività e di vedere anch’esse "legittimate" le esigenze, in quel momento frustrate, che sono implicite nel proprio esistere.

Madri come quelle di Federico e Antonella non sono, purtroppo, altrettanto equilibrate. In esse non esistono né consapevolezza delle proprie imperfezioni, né comprensione empatica del bambino in stato di frustrazione. In più, in rapporto ad una "identificazione con l’aggressore", esse ripropongono con i figli quella brutale frustrazione delle esigenze soggettive più profonde (nel caso specifico, la valorizzazione delle qualità femminili) che avevano, a loro volta, subìto nell’infanzia. Si tratta di una sorta di "nonnismo" familiare, ossia di una "rabbia invidiosa" nei confronti della capacità di esprimersi del sé profondo da parte di chi ha dovuto rinunciarvi [13, pag. 169]. Nell’infanzia di questi pazienti non esiste, in caso di frustrazione, una madre soccorrevole ed alleata, esiste solo la "strega". Essa, dato l’insopprimibile bisogno del bambino d’essere "tenuto" da qualcuno ("of being parented" [21, pag. 30, 31]), diviene oggetto di un’idealizzazione (quasi)delirante che comporta la confusione tra qualità "buone" e qualità dannose. Ne nasce un rapporto di "addiction": l’idealizzazione delirante (a differenza di quella sana, fondata su qualità positive reali del genitore, benché accentuate ed isolate da quelle negative) può talora crollare, ma non è in grado né di ridimensionarsi gradualmente, né di evolversi. Inoltre, come in tutte le situazioni traumatizzanti, una parte importante del mondo interiore del paziente vive come "sequestrata" dalla situazione originaria, come se il tempo si fosse fermato. A dispetto delle opportunità che gli offre la situazione presente, il soggetto vive come se non esistessero alternative all’oggetto di addiction, come al tempo del trauma. Dalla confusione tra bisogno di un oggetto "buono" e di un oggetto dannoso e dall’impossibilità di deflettere all’esterno la propria aggressività derivano quelle tendenze autodistruttive che abbiamo visto attive in Federico ed Antonella; tendenze che, in quest’ultima paziente, solo una "corrective emotional experience" ha consentito di superare.

Nelle situazioni patologiche descritte, quale esito dello "assassinio dell’anima" si produce un "falso sé" (o una mente spenta, dominata da "pensée opératoire") in rapporto con l’oggetto di addiction. Nello stesso tempo, il corpo (portatore d’insopprimibili caratteristiche costituzionali ed istintuali e quindi meno soggetto a manipolazione esterna) viene scisso dal resto della persona. Si tratta di un corpo (vissuto) degradato, reso "animalesco" dal mancato incontro con cure materne empatiche, capace solo di "passaggi all’atto" attuati in uno stato privo di autocoscienza; oppure di un corpo represso nelle sue manifestazioni e divenuto estraneo alla mente.

– Anima "umana" e corpo "bestiale" L’evoluzione da un’animalità prevalentemente corporea all’umanità rappresenta un fatto universale per il semplice fatto che tutti noi da bambini quali eravamo, siamo divenuti adulti [8]. Per alcuni (e fra questi, i pazienti di cui stiamo parlando) tale passaggio fu frutto non di cure affettuose, ma di violenti condizionamenti imposti dall’esterno al soggetto e dal soggetto a sé medesimo. Ce ne offre una vivace descrizione il racconto "Una relazione per un'Accademia" di Franz Kafka [9]. Come sempre in questo Autore, troviamo perfettamente fusi l’elemento comico-grottesco e quello tragico: qui uno scimpanzé racconta ad un’accademia scientifica come si sentì costretto, e come costrinse se stesso, a trasformarsi dalla scimmia che era in essere umano. Capiamo, dalle sue parole, che ci sta parlando "un soggetto estraneo a se stesso"[14, pag. 98], nel cui mondo interno si è prodotta un’irreparabile frattura. Strappato alla sua natìa Africa, il protagonista fu imbarcato su una nave, e qui posto in una gabbia, per essere condotto in Europa:

"… la gabbia era troppo bassa per stare diritti e troppo stretta per star seduti (…) non volendo in un primo momento… veder nessuno… stavo rivolto verso la cassa [sul fondo della gabbia], mentre, dietro, le sbarre delle inferriate mi segavano la carne (…) A star sempre contro la parete di quella cassa, sarei certamente crepato. Ma le scimmie… devono stare contro una cassa; ebbene, allora smisi d’essere una scimmia" [9, pag. 268, 269]

La gabbia inabitabile è qui metafora della sensazione di non essere "contenuto" in un’altra mente, ossia di non esser compreso empaticamente e, nello stesso tempo, di non essere "tenuto" ("parented"), di non avere nulla e nessuno che lo accolga ed accetti per quello che è. Non c’è posto per la sua autentica natura; di qui la decisione di rinunciare ad essa, alla propria libertà interiore e ripiegare sull’addiction alla "normalità" degli umani. Tutto questo comporta il passaggio dalla "bestialità" della scimmia ad un modo d’essere "umano" inautentico, ipocrita, privo di gioia di vivere:

"La prima cosa che imparai fu a stringer la mano: la stretta di mano dimostra schiettezza…" [9, pag. 267] "(…) non mi attirava tanto imitare gli uomini; lo facevo perché cercavo una via d’uscita, per nessun’altra ragione" [9, pag. 275]

L’ex-scimpanzè ha subito appreso dagli umani l’arte della mistificazione: la prima cosa che impara, nell’ambito di un comportamento e di un modo d’essere falsi, è un gesto di "schiettezza". L’imitazione, qui, non è fonte né di piacere, né di gioia, ma solo un mezzo per essere "tenuto" dalla collettività umana, per sopravvivere in qualche modo. Al protagonista (come a tanti uomini) è consentito di conservare una vita sessuale "bestiale", parallela a quella umana e scissa da essa:

"… a tarda notte… una piccola scimpanzé, mezza addomesticata, mi attende, ed io me la spasso con lei alla maniera delle scimmie. Di giorno non la voglio vedere perché ha negli occhi lo sguardo spiritato degli animali ammaestrati; io solo me ne accorgo e non lo posso sopportare…" [9, pag. 276, 277]

Nella sessualità la ex-scimmia ritrova qualcosa di più vicino al proprio vero sé animale; ma si tratta di un sé "ammaestrato" ossia abbrutito, corrotto dalle violenze e dai condizionamenti esterni. Egli non può sopportarlo quando lo vede riflesso nella sua piccola scimpanzé. Troviamo, qui, l’esito di un mutamento brutale che il protagonista descrive con un’immagine drammatica:

"… l’immensa porta che la volta celeste forma sopra la terra… si faceva sempre più bassa e stretta, quanto più procedeva veloce, a sferzate, la mia evoluzione… il turbine che mi soffiava dietro dal passato si placò; oggi non è più che un soffio che mi rinfresca i talloni; e lo spiraglio lontano, da cui proviene e da cui una volta passai anch’io, si è fatto così piccolo che se pur mi bastassero le forze e la volontà per tornare a quel punto, mi scorticherei addirittura per passar di lì…" [9, pag. 266]

Il passaggio dall’animalità alla "umanità" è chiaramente descritto come nascita, ossia come evento irreversibile e traumatico. La vera, originaria natura del protagonista si è fatta irraggiungibile, come rimasta dentro al corpo materno; con essa esiste solo più un collegamento indiretto, tenue, quasi insignificante. Questo fatto, che appare ancor più evidente nei nostri pazienti alla luce della vivace descrizione kafkiana, merita un approfondimento.

In un lavoro del 1963, scritto a quattro mani con Seitz [12], Kohut descrive due specifiche aree della mente umana presenti in proporzioni variabili da individuo a individuo. Usando ancora terminologia e concetti hartmaniani, egli le denomina area di "neutralizzazione progressiva" e, rispettivamente, area di "traslazione". Nella prima, quale risultato di una graduale neutralizzazione, si stratificano livelli progressivamente "de-istintualizzati" della mente, per cui si passa senza soluzione di continuità dalla più antica e profonda vita pulsionale "animalesca" al più evoluto settore "autonomo" e "libero da conflitti" dell’io. Si tratta di un continuum sia strutturale (i contenuti più profondi possono liberamente accedere alla coscienza), sia storico (l’evoluzione avviene gradualmente, senza fratture). Nella seconda area, quella della traslazione, la continuità è, invece, interrotta dalla barriera della rimozione e delle altre difese. Qui i contenuti inconsci possono trovare un modo di esprimersi nella coscienza tramite, appunto, la traslazione. Per inciso, Kohut usa il termine "traslazione" (o transfert) nella sua accezione originaria freudiana, ossia come denominazione del fenomeno per cui elementi rimossi si "impadroniscono" di contenuti della coscienza e si esprimono tramite essi. Il sogno, ad esempio, è un fenomeno di traslazione. La traslazione che può avvenire (ma non sempre avviene) nel rapporto terapeutico è solo un caso particolare di questo fenomeno; l’impiego della parola "transfert" per denominare senz’altro la relazione con l’analista rappresenta, per Kohut, un uso improprio del termine. Usando concetti elaborati successivamente da questo stesso Autore, possiamo dire che esistono, nella mente umana, due aree. La prima, caratterizzata da un continuum tra parti più profonde e parti più evolute, è frutto di una serie di "frustrazioni ottimali" sia del soddisfacimento pulsionale, sia delle istanze grandiose che appartengono alle configurazioni narcisistiche originarie; essa è prevalente nelle persone più sane. La seconda area, caratterizzata da discontinuità al suo interno, è frutto di frustrazioni traumatiche. È questa seconda area, esito di cambiamenti brutali, che domina sia nel protagonista del racconto kafkiano, sia nei pazienti di cui si è parlato più sopra. In essi si crea una frattura tra una parte corporea "animalesca" (resa e mantenuta tale dalla mancanza di cure empatiche) ed il resto della personalità. Costoro, perciò, sono incapaci di amare (o odiare) con "anima e corpo", ossia di manifestare affetti non sganciati dalla loro matrice somatica e dai correlati neurovegetativi cui sono naturalmente legati. In altre parole: essi sono incapaci d’esprimere nel modo più genuino la parte più autentica del loro mondo soggettivo. Ciò è, al tempo stesso, effetto e causa di perdita di libertà interiore, d’impossibilità d’essere se stessi.

La creazione di una frattura tra anima "umana" e corpo "bestiale" rientra nei meccanismi repressivi, sia quelli usati da un’autorità tirannica sull’individuo, sia quelli impiegati dall’individuo addicted su se stesso. In "1984" di Orwell [17] (opera da cui Shengold attinge largamente per comprendere i meccanismi con cui si crea lo "assassinio dell’anima" in gruppi familiari patologici [21, pag. 24 e seg.]), si descrive come l’espressione di sentimenti autentici sia l’oggetto della repressione più accanita da parte del governo tirannico di "Oceania". L'amore, qui, è l’atto rivoluzionario per eccellenza. Non si tratta di amore cerebrale, acorporeo: questo può essere facilmente mistificabile e difatti ci pensa una commissione governativa a convincere ciascuno che si "deve" amare una persona piuttosto che un’altra; e neppure si tratta d’amore puramente sessuale: anche qui ci pensa lo stato ad organizzare attivamente pornografia e prostituzione. Al contrario, si rivela rivoluzionario solo l'amore che coinvolge spontaneamente anima e corpo, nessuno dei due escluso, quello, appunto, che prende Julia e Winston (i due protagonisti) e li fa finire nei guai con il potere. Il perché è semplice: un amore di quest'ultimo genere è il sentimento per il quale, più di ogni altro, è impossibile mentire a se stessi. È espressione di quello che si è veramente, al di là di ogni maschera che ci s’impone o che altri impongono. E cosa c’è di più temerariamente rivoluzionario che essere se stessi?

La situazione opposta a quella degli addicted si trova in coloro che, più di tutti, hanno il coraggio d’essere se stessi: gli eroi, le persone creative (i grandi Scienziati e i grandi Artisti) e, quei "rational resisters" (oppositori razionali ai regimi tirannici) in cui l’io forma con le profondità della mente un continuum ininterrotto; qui l’io è guidato dal sé nucleare e ne trae la sua forza. In quest’ultimo gruppo di persone, le forti motivazioni armate di razionalità (e, aggiungerei, corroborate dalla capacità d’amare con "anima e corpo") sono tali da costituire la più grande minaccia ai regimi totalitari [13, pag. 150].

 

IV — Empatia e cura

– Corpo come oggetto d’introspezione Una cura capace di restituire a questi pazienti la possibilità d’esistere ed amare come individui autentici ed "interi", deve necessariamente passare attraverso la reintegrazione reciproca di "anima" e corpo. È quanto riuscì ad ottenere lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld nel corso della cura che praticò su se stesso descritta nella autobiografia [2]; cura che lo portò a sanare, nel suo mondo interno, una frattura del tutto simile a quella che incontriamo nei nostri pazienti. Questa ammirevole e sfortunata persona andò incontro, nell’infanzia, a gravi situazioni traumatiche di fronte alle quali quelle di Federico ed Antonella impallidiscono. Testimone, all’età di sette anni, dell’assassinio della madre, egli fu deportato dalla nativa Romania in Ucraina, in un campo di concentramento. Da questo riuscì a fuggire e all’età di dieci anni percorse tutto solo, tra boschi e zone disabitate, il tragitto dall’Ucraina alle coste italiane (dove s’imbarcò per Israele), cibandosi di frutti selvatici o procurandosi di che sopravvivere con umili servizi. Nella cura, in cui impiegò positivamente le proprie capacità introspettive di Artista, fece oggetto di particolare attenzione la sfera corporea:

"…le palme delle mani, le piante dei piedi, la schiena e le ginocchia ricordano più della memoria…" [2, pag. 8] "…sento quei giorni con tutto il mio corpo. Ogni volta che piove, fa freddo o soffia un forte vento, torno nel ghetto, nel campo di concentramento o nei boschi…" [2, pag. 50]

"Tutto ciò che è accaduto si è impresso nelle cellule del corpo, non nella memoria (…) Per molti anni, dopo la guerra, non fui in grado di camminare in mezzo al marciapiede o in mezzo alla strada: ero sempre attaccato ai muri, sempre nell’ombra e sempre di fretta, come se fuggissi. Non piango facilmente, ma le più banali separazioni mi suscitano un pianto disperato (…) Possono bastare l’odore di un cibo, le scarpe umide o un rumore improvviso a riportarmi nel bel mezzo della guerra, ed allora mi pare che non sia finita, che sia continuata a mia insaputa, e solo ora che mi sono svegliato so che da quando è iniziata non si è mai interrotta" [2pag. 84, 85]

Gran parte del lavoro creativo ed auto-riparativo di Appelfeld consiste nel "far sorgere, dalle profondità del corpo, sensazioni e pensieri assorbiti alla cieca" [4, pag. 1600]. Attraverso di esso, viene riportata in vita, ed integrata al resto della personalità, tutta una parte del suo mondo soggettivo rimasta come immersa nella situazione traumatizzante, "sequestrata" da essa; una parte di lui che si esprime non in pensieri o in ricordi coscienti, ma in sensazioni corporee, in movimenti automatici, in gesti impulsivi. Giunto in Israele, Appelfeld dovette affrontare non solo il compito di superare le sequele post-traumatiche ed elaborare il lutto per il mondo perduto dell’infanzia, ma anche quello, non meno duro per uno scrittore, di rinunciare alla sua lingua madre, il tedesco, non gradito in quel paese, soprattutto negli anni del dopoguerra:

"La lingua di mia madre e mia madre erano diventate un’entità unica, ed ora che la lingua si estingueva dentro di me, avevo la sensazione che mia madre stesse morendo per la seconda volta. Questo dolore penetrava in me come una droga, non solo quando ero sveglio ma anche mentre dormivo. Nel sonno andavo errando con i convogli di profughi, tutti balbuzienti, e solo gli animali, i cavalli, le mucche ed i cani ai lati delle strade parlavano scorrevolmente. L’ordine delle cose pareva essersi confuso…" [2, pag. 103]

In contrasto con gli "animali", i profughi sono diventati "balbuzienti". In essi, a causa dei fatti traumatizzanti cui sono stati esposti, è andato perso il legame con la loro parte "animale", vale a dire con la matrice corporeo-affettiva arcaica e "materna" del linguaggio: la paura ha preso il posto degli altri affetti, anche i più antichi, e le loro parole, di conseguenza, sono divenute incerte e vacillanti. Tutto questo, naturalmente, riflette il mondo interno dello scrittore qual era in quel periodo: la sfera corporea "animalesca" di lui, con tutti gli affetti ed i vissuti antichi cui essa si era legata, si era scissa dall’io, la sede del pensiero cosciente e del linguaggio. Appelfeld, qui, ci descrive come, ponendo il corpo quale oggetto della propria introspezione, egli riuscì a fronteggiare ed a superare un’alexitimia post-traumatica che si stava producendo in lui, ossia la stessa alterazione del pensiero e del linguaggio che troviamo nei pazienti qui considerati.

– Empatia per la mente e per il corpo Heinz Kohut ebbe il grande merito d’aver chiarito il ruolo essenziale dell’introspezione e dell’empatia nella comprensione e nel trattamento del mondo soggettivo. I dati ottenuti dall’impiego di queste due facoltà possono essere corroborati o integrati, ma mai sostituiti, da quelli ottenuti con la "estrospezione" (l’osservazione del mondo oggettivo), se non si vuole sconfinare in altri campi [11]. Tuttavia i concetti d’introspezione e d’introspezione vicariante (o empatia), come li definisce quest’Autore, non si adattano del tutto al trattamento dei pazienti che abbiamo qui considerato. Il limite di Kohut è che egli ignora del tutto il livello "protomentale" [3]. S’intende, con questo termine, quella fase evolutiva in cui la mente non è ancora emersa dalla matrice corporea, così come l’individuo non è ancora emerso dalla matrice parentale; quindi: uno stato psico-fisico indifferenziato e di simbiosi con l’oggetto arcaico. Si tratta di una fase evolutiva antica che, come tutte le altre, coesiste con quelle più recenti ed al di sotto di esse nella struttura della psiche. Trascurando tale livello, Kohut considera tutto ciò che è corporeo come oggetto esclusivo di "estrospezione" e, quindi, al di fuori del campo degli strumenti d’indagine specifici della psicoanalisi; di qui la sua posizione critica nei confronti della Medicina Psicosomatica di Alexander e della concezione freudiana di pulsione come entità biologica. Se, al contrario di Kohut, consideriamo il protomentale quale possibile oggetto d’introspezione e d’introspezione vicariante, possiamo trovare, a questo livello, la componente intuitiva di una comprensione del corpo nostro ed altrui. E non solo del corpo: la percezione della matrice somatica delle emozioni spontanee ed autentiche può consentire di distinguerle da quelle, dichiarate ma non avvertite, che appartengono al "falso sé"; oppure d’individuarle quando soffocate dalla "pensée opératoire". Tale componente intuitiva della comprensione coincide col concetto di "unipatia", proposto recentemente da Fornaro [6], ossia la facoltà originaria, progenitrice dell’empatia, di sentirsi "tutt’uno" con la persona che si sta osservando; "tutt’uno" e non soltanto "all’interno" di lei come soggetto distinto. L’unipatia è, con ogni probabilità, la diretta espressione soggettiva dell’attività dei "neuroni specchio". Sulla base di questa facoltà si sviluppano, corroborate da diversi dati dell’estrospezione, due forme di comprensione empatica: una che riguarda il corpo, e l’altra la mente. Sui motivi per cui questo sdoppiamento assume quasi di regola il carattere di una scissione, ho già trattato altrove, insieme a Romolo Rossi e ad altri Autori [15 – 19]. Esso è riconducibile, oltre che a fattori culturali (il dualismo mente-corpo) anche ad un fatto difensivo, ossia l’isolamento ossessivo del corpo (proprio dei medici del soma) e l’evitamento fobico del corpo stesso (proprio dei terapeuti della mente). Entrambe queste difese consentono di evitare di rivivere il trauma della separazione dall’oggetto primario, vissuta come evento angoscioso, annientante, intollerabile; separazione evocata dal contatto(distacco) col(dal) corpo del paziente [18]. Una comprensione del fatto corporeo priva della capacità di avvertirne il significato emotivo e, rispettivamente, una comprensione "cerebrale" e superficiale del fatto emotivo, priva della capacità di coglierne l’autenticità e l’intensità (attraverso la percezione della matrice e dei correlati somatici): entrambe queste distorsioni sono il frutto della dissociazione difensiva della capacità di comprensione empatica in due forme che non riescono a collegarsi l’una all’altra e ciascuna delle quali spesso nega la validità dell’altra.

La dissociazione suddetta, con il suo scopo difensivo, accomuna terapeuta e paziente ed è espressione della paura della libertà di entrambi; questo sia perché essa consente di preservare, ad un livello profondo, l’illusione inconscia di una persistenza della simbiosi, sia perché mantiene l’incapacità di avvertire pienamente i propri affetti (espressione del nucleo più autentico della propria vita soggettiva) e di amare pienamente, con "anima e corpo"; ossia la possibilità del "vero sé" di realizzarsi liberamente, sganciandosi dall’oggetto arcaico. Si vuole mantenere l’illusione che l’individuo sia come uscito dal ventre materno solo con la "anima" (come la scimmia nel racconto di Kafka citato più sopra): una "anima", in realtà, inconsistente, inautentica, scissa dal corpo.

 

V — Considerazioni conclusive

– La cura integrata Riguardo alla necessità d’impostare la cura in funzione della re-integrazione reciproca di mente e corpo, riporto, qui, quanto scrivevo in un recente lavoro [16]:

"Si è finito per cassare dai testi accreditati il termine "psicosomatica" perché alimentava la falsa convinzione di un gruppo particolare di malattie situato al confine tra quello delle malattie "fisiche" e quello delle affezioni "psichiche"; questo in contrasto con quanto i fondatori stessi di quest’approccio proponevano, vale a dire una considerazione globale della "persona" — fatta comunque di mente e di corpo — in tutte le malattie. Per analogia mi chiedo se non sarebbe il caso di cassare i termini "psicoterapia" e "somatoterapia" intesi non come aspetti parziali di un trattamento psichiatrico, ma come interventi completamente distinti, contrapposti alla terapia "integrata", attuati da tecnici diversi e rivolti a pazienti diversi. In quanto tali, essi sono fonte di una falsa convinzione del tutto simile a quella legata al termine "psicosomatica": quella della distinzione tra persone dotate di cervello e senza mente, contrapposte alle altre dotate di mente e senza cervello; due categorie individuabili in base a "precisi elenchi" di caratteristiche specifiche e ritenute trattabili con due differenti tecniche e da due differenti categorie di tecnici. Questo modo distorto di vedere e di trattare le persone malate, fondato su di una dicotomia mente/corpo che persiste nonostante le più convincenti confutazioni, è causa di numerosi inconvenienti. In particolare, la dissociazione della mente dal corpo e la "guarigione" parziale dell’una o dell’altro rappresentano probabilmente l’eventualità più pericolosa…"

Solo una cura "integrata" nei suoi aspetti somatici e mentali può promuovere, nel paziente, un’analoga integrazione. Essa non può che essere fondata su di una capacità di comprensione empatica che sia libera, flessibile, capace di passare dalla "lunghezza d’onda" somatica a quella psichica (e viceversa) a seconda dell’emergere di nuovi fatti e significati.

– Libertà interiore di terapeuta e paziente Ma può il terapeuta acquisire libertà interiore in misura sufficiente ad aiutare il paziente a fare altrettanto? Come si è visto più sopra, ad esempio, alla libertà d’usare senza limitazioni le capacità di comprensione empatica, s’oppone un problema controtransferale difficilmente superabile: l’angoscia della separazione dall’oggetto arcaico [18]. A ciò si aggiunge un fatto filogeneticamente acquisito: tutto ciò che è corporeo evoca fantasmi di animalità. L’essere umano, nel corso dell’evoluzione, ha rotto i ponti con la propria parte animale, nonostante essa sia insopprimibile nella sfera somatica. Freud, a questo proposito, parla di "rimozione organica", riguardante le aree libidiche abbandonate in rapporto alla "verticalizzazione", come tappa fondamentale dell’umanizzazione [8]. Questo fatto contribuisce a spiegare le tenaci resistenze dell’analista ad occuparsi del corpo [14]; resistenze che limitano la libertà interiore di ogni psicoterapeuta.

Ad accentuare la paura della libertà (del terapeuta non meno che del paziente) contribuiscono anche fattori sociali e culturali. Negli ultimi anni, si è accresciuta enormemente, nella mentalità collettiva, l’intolleranza ai rischi che i rapporti liberi tra le persone possono comportare. Ciò si è tradotto in norme e controlli sempre più rigidi ed ha contribuito alla crescita di centri di potere capaci d’operare una sorveglianza stretta e capillare sulla vita di ciascuno. Tutto questo, a sua volta, ha ulteriormente alimentato la paura della libertà. Anche il rapporto terapeutico appare sempre più "ingabbiato" da norme, protocolli, verifiche. Pertanto l’obiettivo d’aiutare i pazienti a superare le fantasie e i conflitti cui si lega la paura della libertà, diventa sempre più difficilmente perseguibile: essi vi trovano conferma nella cornice istituzionale che condiziona il rapporto con il curante. Come sostiene Romolo Rossi, curare tramite il rapporto terapeutico "… quando sia gli interessi e i conflitti del mondo esterno, sia le proiezioni e gli investimenti di quello interno convergono e colludono, senza aggiustare aspetti strutturali e sociali che continuamente si riproducono… è del tutto utopico" [20, pag. 110]

Occorre, infine, tener conto di una caratteristica connaturata all’essere umano. Dostoevskij la descrive con le parole del Grande Inquisitore dei Karamazov: "… non c’è per l’uomo preoccupazione più ansiosa che di trovar qualcuno a cui affidare al più presto quel dono della libertà, col quale quest’essere infelice viene al mondo" [5, pag. 339]. Sono parole che il Grande Inquisitore pronuncia rivolgendosi a Cristo, ritornato su questa terra, che egli ha fatto arrestare ed imprigionare. Per il prelato non è Gesù, ma il Maligno ad aver capito la reale natura dell’uomo, ossia la sua incapacità d’essere libero. L’inquisitore definisce il Demonio come "…il terribile e ingegnoso spirito, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere" [5, pag. 336]. Vediamo, qui, le stesse caratteristiche dell’oggetto sadico interiorizzato, la sottomissione masochistica al quale spiega le condotte autolesive di alcuni pazienti e, in particolare, la loro auto-imposizione di "non essere", ossia di non esistere come individui compiuti e liberi [10]. Il Grande Inquisitore, tuttavia, non sta parlando di un gruppo particolare di persone, ma dell’intero genere umano. Traducendo la sua affermazione nel nostro linguaggio, egli sostiene che in ciascuno esistano, più profondamente rimosse, le stesse istanze autolimitanti ed autodistruttive che emergono più chiaramente nei pazienti sopra menzionati. Il Grande Inquisitore accusa Cristo d’aver preteso troppo dagli esseri umani offrendo loro la libertà dello spirito. Per argomentare la propria affermazione, egli cita le "tentazioni" con cui il Maligno tentò di corrompere il Salvatore nel deserto, reinterpretandole come "domande". Ciascuna di esse, secondo il prelato, esprime un suggerimento seguendo il quale Cristo avrebbe corretto il suo errore e restituito all’uomo la schiavitù di cui questi ha bisogno. Si tratta delle stesse linee di condotta, passivizzanti ed infantilizzanti, che seguirebbe qualsiasi autorità tirannica o qualsiasi famiglia "soul murderous": acquisire il monopolio nell’elargizione dei "pani" (rendere passivo il soddisfacimento pulsionale, creando una perenne dipendenza infantile), imporsi con "miracolo, mistero ed autorità" (limitare o distruggere le capacità critiche adulte, facendo leva sulla credulità infantile e sul terrore), acquisire il potere temporale (imporsi con la forza); insomma, ridurre i sudditi (o i figli) ad eterni bambini, incoraggiando la loro inclinazione a rimanere tali, ma anche spaventandoli, rendendoli timorosi d’affermarsi ed esistere. Solo a queste condizioni, secondo l’inquisitore, può realizzarsi "… ciò che l’uomo cerca su questa terra, e cioè: dinanzi a chi genuflettersi, a chi affidare la propria coscienza, e in che modo, infine, riunirsi tutti in un indiscusso, comune e concorde formicaio" [5, pag. 343]

Riassumendo, fattori psicologici profondi, fattori culturali e sociali, oltre che caratteristiche innate dell’essere umano, si oppongono all’acquisizione di libertà interiore nel terapeuta e, perciò, gl’impediscono d’aiutare il paziente ad emanciparsi. Si tratta, evidentemente, di una prospettiva molto scoraggiante. Un’unica nota di speranza (o, forse, d’ottimismo) ci è offerta dallo stesso Dostoevskij. Al termine della vicenda:

"… quando l’inquisitore ha terminato [di parlare], rimane per un tratto di tempo in attesa che il Prigioniero gli risponda. Il silenzio di Lui gli riesce gravoso. Ha osservato come finora l’Incatenato sia restato in ascolto, col penetrante e pacato sguardo fisso negli occhi suoi, senza desiderare evidentemente di ribattere nulla. Al vecchio piacerebbe che quello gli dicesse qualche cosa, foss’anche qualche cosa di amaro, di tremendo. Ma Egli, di colpo, in silenzio, si appressa al vecchio e lievemente lo bacia sulle esangui labbra di novantenne. Ecco tutta la risposta. Il vecchio sussulta. Un fremito contrae gli angoli delle sue labbra: si dirige alla porta, l’apre e Gli dice: ‘Va’, e non venire più… non venire più a nessun costo… mai, mai più!’ E lo fa scivolare verso gli oscuri meandri della città. Il Prigioniero dilegua" [5, pag. 349, 350]

Cristo non è stato toccato dalle pur ferree argomentazioni dell’altro. Al contrario, il Suo messaggio senza parole ha profondamente turbato il vecchio prelato. Se quest’ultimo è ispirato dallo "spirito dell’autodistruzione e del non essere", Cristo rappresenta le forze della vita e della libertà d’esistere; forze che non sono state neppure scalfite dal loro opposto. Il gesto del Salvatore sembra significare che la vita, se pienamente vissuta (se animata dall’amore), non ha bisogno d’esprimersi a parole, di trovare o dichiarare una ragione o giustificazione di se stessa: semplicemente c’è, e la sua stessa esistenza annulla il valore di quanto la contrasta. Un solo frammento di questo tipo di vita, trovato in noi stessi e nei nostri pazienti, potrebbe avere lo stesso effetto.

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