INTRODUZIONE
Il SER.T. 2 di Verona è un Servizio ad "alta utenza", che copre una parte del territorio dell'USSL 20, pari ad un bacino di utenza di ca. 220.000 abitanti (al 31/12/96). E' così strutturato: un Responsabile (medico psichiatra), due èquipes territoriali multiprofessionali(potenzialmente composte da due medici psichiatri, un medico internista, due psicologi, due assistenti sociali, tre infermieri), un servizio di accettazione (composto da un educatore, un'assistente sanitaria, un infermiere a rotazione),un medico psichiatra che lavora principalmente per il carcere, un sociologo, un'équipe multiprofessionale nella Comunità Diurna collegata al Servizio (composta da una psicologa, una assistente sociale, alcuni educatori), un ufficio di segreteria. Attualmente le due unità di lavoro territoriali sono, di fatto, costituite da un numero d'operatori inferiore a quello previsto dalla pianta organica regionale, sia per il turnover di colleghi che hanno concretizzato la loro richiesta di trasferimento (in alcuni casi formulata da qualche tempo), sia per l'assenza temporanea di altri per motivi familiari. Le équipe territoriali si dividono l'utenza in base alla residenza dei pazienti. A questi si aggiungono gli utenti residenti in altre USSL, che chiedono un intervento a questo SER.T., i detenuti tossicodipendenti del carcere e i pazienti afferenti alla Comunità Diurna. Complessivamente il numero degli utenti in carico, al 31/12/97, è 868. Quando un paziente si rivolge al Servizio è accolto in accettazione, dove è aperta una cartella clinica. Successivamente, la richiesta formulata dal paziente è portata all'équipe competente per territorio, che si incontra settimanalmente. In quella sede, il caso è assegnato ad un operatore di riferimento, scelto per competenza. L'impostazione del Servizio a carattere prevalentemente sanitario farmacologico, un rapporto pazienti-operatori controtransferalmente sfavorevole rispetto alla possibilità di una presa in carico psicoterapica individuale, l'ipotesi che per pazienti che hanno come paradigma il gruppo dei pari, un gruppo di terapia possa essere un contenitore utile e accettabile: tutto questo ha dato avvio ad un progetto sperimentale di gruppo di psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico della durata di un anno.
Il gruppo
Il setting gruppale prevedeva sedute settimanali (il lunedì alle ore18), della durata di un'ora e un quarto ciascuna, condotto in coterapia dai due psicologi presenti in Servizio, afferenti ad équipe diverse, nella stanza comune di questi due operatori. L'ipotesi di aprire uno spazio terapeutico gruppale da parte nostra, nasceva anche dalla condivisione del tipo di formazione professionale e dal nostro inserimento abbastanza recente all'interno della struttura, caratterizzata, peraltro, da profonde scissioni storicamente determinatesi (anche per antichi conflitti personali) tra équipe diverse, tra professionalità diverse e tra formazioni diverse all'interno della stessa professionalità. Con il consenso del Responsabile, che condivideva l'idea dell'utilità di questo progetto, si prendevano contatti con un esperto in psicoterapia di gruppo nelle istituzioni (Dr. F. Fasolo), divenuto in seguito il nostro Supervisore. Dalla consapevolezza di non essere inseriti in un Servizio orientato in senso gruppale, nascevano alcune preoccupazioni, legate per noi al passaggio da un setting duale, noto e sperimentato, ad un setting gruppale, e al timore del rigetto da parte dei colleghi di fronte ad una proposta che turbava l'omeostasi del Servizio. Gli strumenti che ci siamo dati, con l'obiettivo di integrare il gruppo all'interno del SER.T., sono stati essenzialmente due: la condivisione iniziale con gli altri colleghi della tipologia dei pazienti che sarebbe stato opportuno ed utile inserire all'interno del gruppo, e la predisposizione di uno spazio mensile all'interno delle riunioni d'équipe dove parlare dell'andamento del gruppo stesso. Dopo i colloqui di valutazione, da noi operati, finalizzati anche all'individuazione di obiettivi individuali che motivassero l'ingresso nel gruppo di terapia, nel febbraio di quest'anno sono iniziate le sedute con la partecipazione di otto pazienti. L'avvio del gruppo di terapia, la sua attendibilità, e la conseguente ridefinizione di uno spazio psicologico all'interno del SER.T, ha prodotto alcune conseguenze sia nelle relazioni tra gli operatori delle due équipe, sia nei familiari dei pazienti. Proprio di ridefinizione di uno spazio psicologico si tratta: infatti nel gruppo del lunedì vi è un intervento specifico e delimitato, dove la richiesta degli altri operatori del Servizio o la proposta che viene da loro suggerita ai pazienti, ha per unico obiettivo un trattamento di tipo psicologico. Ciò si differenzia dalle altre richieste, meno specifiche, fatte allo psicologo di intervenire, di solito in situazioni di co-gestione con altri operatori, su pazienti particolarmente complessi o con problematiche di tossicodipendenza correlate con aspetti legali (segnalazioni, programmi alternativi al carcere). Si parlava di conseguenze per quanto riguarda i familiari dei pazienti: c'è sembrato che l'inserimento del figlio/a nel gruppo di terapia, li abbia talvolta allarmati e spaventati. Si è ricavato tale impressione dalle verbalizzazioni dirette (agli operatori che avevano la presa in carico dei genitori) o indirette (cioè riportate all'interno delle sedute di gruppo) espresse dal membro familiare più simbioticamente legato al paziente, che esprimevano sia preoccupazione per l'inserimento, sia la richiesta di tornare ad utilizzare un setting individuale, sia una svalutazione nei confronti del gruppo, sia, infine, un'impossibilità alla cura che, in un caso, una pesante ricaduta (avvenuta al figlio proprio il giorno prima del suo inserimento in gruppo) stava a dimostrare. In questa situazione ci è parso che il timore che un lavoro psicologico potesse consentire un processo di differenziazione del figlio, abbia determinato, un agito di quel paziente. Ci pare di poter dire che tutte le comunicazioni allarmate dei familiari , che in qualche modo riguardano l'inserimento in gruppo, hanno in quella paura la loro origine. Ci si è chiesti se non vi sia la necessità di recuperare uno spazio/ponte tra il Servizio e il gruppo dei genitori, a garanzia dello spazio terapeutico dei figli/pazienti; se tale spazio, inoltre, non possa essere rappresentato da un gruppo di supporto ai genitori (o ai familiari) dei pazienti inseriti in gruppo (tenuto da operatori diversi da noi), o da un collega dove, caso per caso, facciano riferimento i genitori stessi per verbalizzare ed elaborare ansie e paure. Fino ad ora abbiamo scelto la seconda modalità, per il timore di istituzionalizzare il gruppo dei pazienti come un gruppo di bambini. Tuttavia, come abbiamo menzionato in precedenza, non sempre la modalità scelta è riuscita ad impedire fughe dal gruppo di terapia, forse perché tale modalità è sempre stata attivata al bisogno, quando, in qualche modo, le difficoltà si manifestavano, e non preventivamente concordata con il paziente al momento stesso del suo inserimento in gruppo. Così come i genitori degli adolescenti temono che il gruppo dei pari possa diventare un traino negativo per il loro figlio, così ci è parso che questa paura risuonasse con il nostro timore iniziale di contagio psichico, cioè che il gruppo potesse diventare un luogo ove i pazienti si scambiavano reciprocamente droga o dove i pazienti più gravi avrebbero potuto trascinare pazienti più strutturati o drug — free in pericolose ricadute.
Alcuni effetti istituzionali
Per quanto riguarda, invece, gli operatori del SER.T, abbiamo già affermato che il Servizio è organizzato in due equipes di lavoro multiprofessionali. Queste due equipes si sono sempre caratterizzate per la loro impermeabilità di fatto, sia per quanto riguardava le modalità d'intervento sul paziente, sia per il passaggio di comunicazioni su quel paziente che si trovava a dover spostarsi da un'area all'altra (ad es. per un cambiamento di residenza). Tale arroccamento difensivo si palesava, ad es., nella raccolta dei dati sull'attività del Servizio, organizzata in maniera differente dai due gruppi di lavoro e quindi leggibile solo all'interno dell'équipe d'appartenenza: come se anche su questo piano fosse difficile integrare i linguaggi. L'appartenere ad aree di lavoro diverse è stato inizialmente sentito anche da noi come una complicazione e non come una risorsa, poiché ci si chiedeva come sarebbe stato possibile mettere insieme pazienti di équipe diverse e parlare di tutto il gruppo nelle proprie riunioni settimanali di équipe. In questa situazione, sembrava che lo psicologo diventasse il doganiere che consentiva il passaggio d'informazioni da un'équipe all'altra: ma forse si stava creando un ponte. I movimenti , promossi dall'avvio del gruppo di terapia, hanno consentito alle due unità di lavoro di poter parlarsi progressivamente in modo sempre più libero, permettendo una maggiore apertura rispetto alle dinamiche interne di ciascuna équipe, uno scambio più fluido tra operatori con la possibilità di creare legami per affinità anche tra colleghi appartenenti ad équipe diverse. In tal senso, ora alcuni operatori possono addirittura permettersi di pensare di costituire un'unica équipe di lavoro per utilizzare al meglio le risorse di personale esistenti, come si è già affermato al di sotto della pianta organica prevista. In questo momento la richiesta di utilizzare un gruppo di terapia per i nuovi pazienti che afferiscono al SER.T, è pensata e formulata con più naturalezza da parte d'alcuni operatori del Servizio, al punto di immaginare l'avvio, in futuro, di un secondo gruppo. Ci è sembrato che anche i pazienti possano aver giovato della maggiore coesione nel gruppo degli operatori, dato che la maggiore fluidità ha permesso un'elaborazione più comune e meno scissa, oltre ad una maggiore integrazione dei vissuti dei pazienti stessi. Sembra essersi avviato un processo trasformativo che riguarda il concetto di malattia della tossicodipendenza all'interno dell'istituzione, nel senso di poter riconoscere un aspetto relazionale nelle dinamiche che i pazienti portano, dando la possibilità di trovare un senso nella relazione che questi ultimi instaurano con l'operatore, spostando così l'asse della presa in carico. Non possiamo pensare, tuttavia, che tale processo di cambiamento non comporti anche delle resistenze. Ci sembra che la resistenza si esprima nella passività d'alcuni operatori del SER.T, che a fatica ricordano quali sono i pazienti inseriti nel gruppo, come se una parte del Servizio operasse un diniego rispetto all'esistenza del gruppo di terapia. Ci si è chiesti se la scelta dell'orario in cui il gruppo avviene (nel tardo pomeriggio, quando ufficialmente l'orario del Servizio è terminato) pur rispondendo ad una necessità dell'utenza, non favorisca tali meccanismi. In tal senso ci si è chiesti se il gruppo di terapia non sia vissuto da alcuni come un'attività più di supporto al narcisismo degli psicologi che utile ai pazienti. Forse a questo è legata la difficoltà nostra di esplicitare all'interno delle rispettive équipe i momenti di crisi del gruppo. Come se nei momenti di difficoltà l'atteggiamento di passività di una parte degli operatori si trasformasse in una sorta di minaccia muta all'esistenza stessa di questo spazio terapeutico; come se l'appoggio del nostro Responsabile non fosse sufficiente a legittimare questo intervento psicologico all'interno del SER.T. Insomma, come se riportare alle équipe risultati positivi significasse favorire la vita e la crescita del gruppo, ma portare elementi problematici mettesse a repentaglio il riconoscimento della bontà dell'esperienza.Questo ci fa preferire di cercare occasioni individuali di contatto con i colleghi. Non solo: la necessità di mantenere un rapporto con l'operatore inviante in caso di ricaduta di quel paziente, ha operato in modo di farci cercare un collegamento anche con quei colleghi con i quali, in precedenza, il rapporto era piuttosto limitato. Questo anche nel tentativo di collocare la ricaduta all'interno del suo significato gruppale di attacco al legame trasformativo. Di fatto, noi ci siamo messi in una relazione diversa con i colleghi sulla spinta della necessità di tutelare la nascita prima e la sopravvivenza, poi, del gruppo, in una situazione dove sembravano dominare le scissioni e dove la passività di alcuni operatori celava sentimenti ambivalenti (di rispetto e di invidia della competenza) nei confronti di ciò che di psicologico veniva a definirsi. Forse anche noi siamo in una zona — ponte, a metà tra l'individuale e il gruppale. Anche noi sosteniamo il gruppo cercando l'appoggio nelle relazioni individuali, che, migliorandosi, hanno sviluppato una rete intorno e a protezione del gruppo stesso all'interno del Servizio. Forse vi è un movimento isomorfo tra ciò che accade dentro di noi, nel gruppo degli operatori e nel gruppo dei pazienti (dove si alternano momenti d'elaborazione individuale a momenti d'elaborazione gruppale): la metafora del ponte, dunque, riguarda tutte le parti in gioco.
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