Il lavoro che segue è l'analisi di un processo avviato quasi un anno fa all'interno del servizio tossicodipendenze dove lavoro. Descriverò, in alcuni dei suoi molteplici aspetti, l'inserimento e l'avviamento di un gruppo terapeutico con pazienti tossicodipendenti all'interno di un sert. Il fatto di considerarlo un processo già determina che lo spazio temporale in cui si svolge va ben oltre il tempo da me preso in considerazione per ragioni pratiche, senza per questo voler dare una connotazione di compiutezza a questa esperienza. L'aspetto sul quale mi soffermerò riguarda il primo colloquio gruppale che si è sviluppato nell'arco di tempo di tre sedute di un'ora e mezza ciascuna. Inoltre cercherò di analizzare come siamo giunti a questo primo colloquio e gli effetti che il gruppo terapeutico ha prodotto nell'equipe del Servizio.
Se vi state chiedendo come mai un primo colloquio sia diventato quasi un punto di arrivo (da cui poter ripartire…)mentre tutti lo sappiamo essere necessario all'inizio dell'intervento clinico (osservazione, diagnosi, trattamento), ebbene in questo lavoro ho cercato di non omettere gli errori, almeno quelli a me consapevoli. Quindi, un primo errore è stato quello di non prevedere un primo colloquio gruppale, limitandomi al colloquio individuale con i singoli pazienti da inviare al gruppo terapeutico. Un secondo errore è stato quello di sottovalutare le ripercussioni dell'attività gruppale a livello istituzionale, in particolare a livello dell'equipe. In questo devo riscontrare la mia responsabilità nel non aver comunicato in modo approfondito all'equipe il modello e la tecnica di lavoro che avrei utilizzato, dando come scontata la conoscenza dei colleghi rispetto alla mia formazione e, soprattutto, il riconoscimento professionale nei miei confronti. Entrambe queste mancanze, però, mi hanno permesso un apprendimento tanto che oggi sono quasi grata loro che, pur con notevole fatica, mi hanno stimolata a ricollocarmi all'interno del servizio dopo un lungo periodo di assenza, in certo modo anche destabilizzante.
Infine, pensare a questa esperienza di gruppo mi ha suggerito la rilettura di alcuni articoli di Freud:
"Una difficoltà della psicoanalisi"
"Il problema dell'analisi condotta da non medici" di Bleger:
"Il gruppo come istituzione e il gruppo nelle istituzioni"
"Il pensare e l'apprendere"
"L'apprendimento come processo all'interno del gruppo"
"Il colloquio psicologico" di Pichon-Riviere:
"Freud: punto di partenza della psicologia sociale"
"Applicazione della psicoterapia di gruppo"
"Transfert e controtransfert nella situazione gruppale" di Juan Carlos De Brasi:
"Alcune considerazioni sulla violenza simbolica e sull'identità come emblema di potere"
"Intorno a un concetto di apprendimento operativo nella relazione gruppo-compito" di Bauleo:
"Effetti del processo gruppale"
"Inconscio individuale/latente istituzionale"
"L'illusione delle moltitudini"
"Psicoanalisi e istituzione"
"Psicoterapia multipla e istituzionale"
La richiesta manifesta di istituire un gruppo con i pazienti è giunta all'equipe da loro stessi, tramite una psicologa che ha lavorato nel Servizio per un certo periodo di tempo, come libera professionista, con il mandato di applicare agli utenti il test Tdeval. Questo compito specifico le ha permesso di mantenere con i soggetti del Servizio (operatori e utenti) una distanza utile a rilevare alcuni elementi e comunicarli all'equipe senza particolari implicazioni di carattere emotivo. Tra queste emergeva la richiesta, da parte di un certo numero di utenti, di lavorare in gruppo e non individualmente sulle loro problematiche. Da parte mia c'era il desiderio di avviare un gruppo terapeutico, dato che fino ad allora avevo organizzato gruppi di apprendimento all'interno di progetti di prevenzione, ma a livello clinico – gruppale la mia esperienza nel Sert era limitata ad alcuni gruppi familiari. Inoltre, avviare un gruppo terapeutico poteva diventare una necessità, dato che per motivi di limitazione di spazio, avevo accesso all'ambulatorio soltanto due, tre giorni alla settimana, cominciavo a vedere qualche paziente anche due volte alla settimana e il tempo a mia disposizione per i pazienti stava diventando limitato.
Sempre in quel periodo alcune colleghe mi chiesero se ero disponibile ad organizzare un gruppo con pazienti donne per affrontare — immagino — questioni inerenti alla differenza di genere associate alla tossicodipendenza. Anche quest'ultima richiesta mi sembrava l'emergente di un clima, di un desiderio di gruppalità che proveniva da più parti e che volli sentire coerente o in linea con la mia disposizione. Tutti questi segnali, in seguito, avrebbero agito nei loro aspetti più resistenziali.
Un ulteriore elemento significativo che mi spingeva ad organizzare un gruppo riguardava il fatto che potevo contare sulla presenza, all'interno dell'equipe, di altre due colleghe che avevano terminato la formazione alla scuola Bleger, quindi si poteva partire con un'equipe di lavoro, anche se minima. Non ero più sola e questo già mi sembrava un punto di forza, e sicuramente lo è stato per affrontare i conflitti che si sono presentati.
Altri due elementi che hanno giocato un ruolo determinante al fine di costituire il gruppo terapeutico con i pazienti sono stati l'appoggio al progetto da parte del Responsabile del Sert che ha sostenuto l'equipe coordinatrice anche attraverso la possibilità di lavorare con un supervisore esterno al servizio. Sul ruolo che queste due funzioni hanno svolto nelle dinamiche intergruppali dell'istituzione Sert mi soffermerò più avanti. Per il momento intendo sottolineare che, nella storia del Servizio dove lavoro, erano diversi anni che non veniva introdotta la supervisione clinica e in assoluto la prima volta che l'istituzione riconosceva tale funzione che per altro si svolgeva al di fuori della sede del Sert.
Negli ultimi anni, infatti, l'equipe del Sert aveva lavorato esclusivamente su questioni relative alla organizzazione del Servizio, formazioni e aggiornamenti in linea con le più generali tendenze dell'Azienda USL.
E' il momento di approfondire il modo in cui si è sviluppato il percorso a cui mi sto riferendo, ossia il gruppo terapeutico. Il gruppo è stato avviato in aprile 2000, il setting prevedeva una seduta settimanale di un'ora e mezza con il compito di "parlare dei propri problemi e tutto ciò che veniva in mente", ed è proseguito fino a settembre. A quel punto, per problemi legati ad una forte discontinuità da parte dei partecipanti, l'equipe di coordinazione (un terapeuta e un osservatore) ha deciso di sospenderne l'attività per un tempo di circa due mesi per dare la possibilità all'equipe del servizio di analizzare il lavoro svolto fino a quel momento e verificarne eventuali e possibili sviluppi. Naturalmente è stata sospesa anche l'attività di supervisione, in attesa di una qualche elaborazione da parte dell'equipe del Sert.
Gli integranti del gruppo sono stati convocati individualmente dal coordinatore e dall'osservatore che hanno loro comunicato e motivato tale decisione, oltre che ascoltarne le idee e le motivazioni a continuare. La decisione di sospendere le sedute di gruppo era motivata in parte dalla difficoltà dei pazienti ad aderire alla terapia. Gli aspetti resistenziali, gli attacchi al setting se non addirittura i sabotaggi erano frequenti. Il gruppo aveva adottato la modalità di iniziare, spesso, attraverso uno soltanto degli integranti che doveva, quasi in una sorta di rituale iniziatico, sopportare da solo il peso dell'assenza. Poteva anche rappresentare una sorta di enfatizzazione e attaccamento al setting individuale, rilevatore in questo caso di una resistenza al modello di lavoro proposto, il gruppo. I pazienti che hanno transitato in questo spazio gruppale sono stati diversi, ma alla fine soltanto due, tre persone hanno potuto fermarsi. Infine, i ruoli giocati si erano fatti rigidi e stereotipati: chi iniziava, chi arrivava in ritardo, chi sabotava. Nonostante ciò, quando riuscivano ad esserci, i pazienti cominciavano a individuare quello come un luogo dove depositare alcune parti di sé: quelle più indiscriminate, quelle più sofferenti, ma anche i contenuti onirici.
In ogni caso accade che il gruppo salti la seduta di settembre, la prima dopo la pausa estiva. Un emergente che ci ha segnalato un vuoto che, però, abbiamo cercato di utilizzare e trasformare. Da qui la decisione di sospendere il progetto, ma soprattutto di colmare la distanza, il vuoto appunto, che si era creata col resto dell'equipe. L'introduzione del dispositivo gruppale e del modello operativo, aveva di fatto svelato una parte fortemente regressiva dell'equipe che si manifestava attraverso un'alta conflittualità, scissione, ansia paranoica che si traducevano in un'assoluta mancanza di invii al gruppo. La supervisione e, di conseguenza, il ruolo assunto dal nostro responsabile di servizio sono stati di aiuto all'equipe coordinatrice per collocarsi ad una distanza migliore (non so se ottimale) per poter intervenire sul gruppo degli operatori attraverso la comunicazione e l'interpretazione delle resistenze al cambiamento. Abbiamo forse noi terapeuti del gruppo potuto assumere una posizione più depressiva che ha in qualche modo "aperto" all'equipe una possibilità.
Abbiamo quindi chiesto al responsabile uno spazio di tempo definito all'interno di una riunione d'equipe per comunicare i nostri pensieri e le nostre emozioni, più o meno elaborati. Ne è scaturita una discussione interessante, che si è protratta oltre il tempo concordato, in cui hanno potuto emergere le curiosità dei colleghi, le difficoltà e, da parte nostra, abbiamo potuto in parte colmare quel vuoto comunicativo iniziale fornendo all'equipe alcune specificazioni teoriche e applicative importanti: ad esempio sulla nozione di gruppo, sulle ansie di base e, non ultimo, sulla nostra funzione all'interno del gruppo terapeutico. Infatti, uno degli attacchi da parte del personale medico aveva riguardato il fatto che con me lavorava l'assistente sanitaria alla quale sembrava non venir riconosciuta una formazione specifica, per altro finanziata dal servizio stesso e perciò una risorsa e potenzialità. E d'altronde proprio uno dei medici, pur non avendo una formazione adeguata, aveva iniziato qualche anno prima un gruppo di pazienti, facendo decadere l'esperienza. Ma non del tutto, evidentemente, dato che anche in una seduta del gruppo da noi coordinato era riaffiorata nella memoria dei pazienti quella esperienza. Probabilmente un certo processo era già iniziato… Parallelamente anche nel gruppo terapeutico alcuni pazienti segnalavano la difficoltà di riconoscere all'osservatore una funzione diversa rispetto a quella a cui sono abituati (assistente sanitaria). I ruoli professionali si definiscono così in modo rigido e ciò appare chiaramente come difesa dello stereotipo. Nell'equipe, invece, oltre a ciò potevamo individuare una fantasia che oscillava tra l'onnipotente "tutti possono condurre un gruppo" e il paranoico "il gruppo fa paura, specialmente un gruppo di tossicodipendenti".
Per non divagare troppo, desidero continuare nella elaborazione del lavoro di questo ultimo anno. Di fatto, in seguito a questa ristabilita comunicazione all'interno dell'equipe, i colleghi — soprattutto medici — hanno cominciato a segnalarci diversi pazienti alcuni dei quali, dopo una o due sedute individuali con me, sono stati invitati ad un primo colloquio gruppale con l'obiettivo di verificare la motivazione alla cura e, anche, la compatibilità col setting gruppale e con gli altri integranti. La motivazione apparente nel dedicare così lungo tempo al primo colloquio — tre sedute — è stata quella di dare così più tempo all'equipe inviante. In realtà ciò è servito a noi equipe coordinatrice ad abbassare il livello di ansia che aveva caratterizzato tanto marcatamente il processo fino a quel momento. La nostra sensazione era quella di aver combattuto una battaglia. Ha funzionato analogamente anche per i pazienti inseriti nel gruppo. Nell'arco di queste tre sedute di primo colloquio gruppale, inoltre, come terapeuta ho avuto la possibilità di intervenire spesso, per chiedere, per facilitare la comunicazione, atteggiamento che ha aiutato il gruppo ad abbassare e controllare il livello di ansia persecutoria e le parti più indiscriminate che inevitabilmente il gruppo fa emergere, ma in un gruppo con pazienti tossicodipendenti assume una qualità evidente. Riavviare il processo mediante il primo colloquio ha incluso nuovamente la funzione della supervisione.
I concetti di "inclusione" o "inserimento" e di "mancanza" o "vuoto" hanno giocato continuamente lungo tutto il percorso. Così come hanno giocato in parallelo, direi quasi specularmente, le dinamiche intergruppali nell'istituzione. Certamente la supervisione e il ruolo del responsabile, collocandosi nella posizione di "terzo", hanno contribuito non poco al processo di discriminazione che, almeno inizialmente, si è evidenziato attraverso una scissione e una contrapposizione che, di fatto, hanno svelato le contraddizioni e avviato una qualche possibilità dialettica (politica?).
Credo che istituire un gruppo terapeutico all'interno del sert abbia funzionato come strumento discriminante sull'equipe degli operatori. Un chiarimento importante, ad esempio, è stato relativo alla differenziazione tra ruolo professionale e funzione, sottolineando che la formazione personale è un plusvalore che necessita riconoscimento.
Inserire il dispositivo gruppale nella clinica di un servizio in cui tradizionalmente si è sempre lavorato con una cultura "individuale" implica la problematica di come trasmettere un sapere che coinvolga l'inconscio soggettivo e istituzionale. Istituire lo spazio fisico del gruppo ci ha costretto a fronteggiare i due opposti: da una parte il vuoto apparente del gruppo (con le sue assenze), dall'altra il pieno apparente dei colloqui individuali. Uso il termine "apparente" perché in realtà il gruppo diventa un luogo a tutti visibile — tutti gli operatori sanno che il tal giorno alla tal' ora c'è la seduta di gruppo — mentre la relazione individuale tra operatore e singolo utente può rimanere "privata". L'inserimento di un gruppo all'interno di una istituzione che, per sua definizione, è un sistema formato da un certo numero di gruppi, produce la rottura di una precedente omeostasi; detto in altri termini produce una distorsione della Gestalt, immagine-sfondo da cui emergono nuovi particolari. In qualche modo l'istituzione di un gruppo ha come effetto quello di far emergere, con una qualità rinnovata, il Sistema Istituzione come sistema intergruppale e ciò implica necessariamente la possibilità di ripensare l'organizzazione. Il lavoro sul gruppo ci ha permesso, quindi, di pensare all'attività oltre che fornire un modello di lavoro gruppale e di coconduzione terapeutica.
E' possibile anche che il gruppo dei pazienti abbia funzionato come una sorta di elemento perturbante per l'equipe che si è improvvisamente sentita scoperta in questa sua curiosità verso un oggetto — il gruppo — che non può, per sua natura, rimanere nascosto. L'elemento comune, credo, a molti Servizi è che, a un livello manifesto le attività di gruppo vengono sollecitate, accolte, anche organizzate, ma raramente c'è la possibilità di cogliere gli effetti che queste, inevitabilmente, hanno sull'istituzione. Se manca questa capacità, data soltanto da una buona formazione, questi gruppi, di qualunque tipo siano, abortiscono, non producono qualcosa di vitale, rischiando di trascinare nel tempo fantasmi anche angoscianti. In questo senso, credo che il processo di inserimento del modello operativo non possa che essere un'azione anche politica. Come dice Bauleo: "è come se si socchiudesse la porta tra il privato e il pubblico; tra scienza e politica". Ma questo, sappiamo tutti, non è privo di ostacoli nel momento in cui lo si pensa come strategia in un servizio, anche se "pubblico".
A questo punto della mia relazione diventa necessario entrare nello specifico delle tre sedute del primo colloquio gruppale. I pazienti che hanno risposto alle nostre indicazioni terapeutiche sono stati nove. Il compito del gruppo era quello di "verificare reciprocamente la possibilità di iniziare un gruppo terapeutico".
Ciò che emerge nella prima seduta è relativo alla paura/difficoltà di accettare la novità del gruppo. Per questo la situazione attuale viene immediatamente associata a quella di una comunità terapeutica e all'invasività della famiglia (attraverso il racconto di come i familiari sono venuti a conoscenza della tossicodipendenza e hanno esercitato il giudizio). Tutto ciò segnala il tentativo da parte del gruppo di mettere dentro ciò che è esterno e viceversa, evitando così l'ansia prodotta dalla novità. Dice Bleger che: "la paura dello sconosciuto o della situazione nuova, è la paura che si produce di fronte allo sconosciuto che ogni persona porta con sé in forma di non-persona e in forma di non-identità (o di io sincretico)." In effetti nel gruppo, già nelle sue prime battute, emerge questa problematica, attraverso il mito dell'uguaglianza, ossia che le comunità terapeutiche sarebbero tutte uguali, i gruppi sarebbero tutti uguali, i tossici e le loro famiglie sarebbero tutti uguali, ecc. In realtà ciò che spaventa riguarda proprio quella parte di identità non (ri)conosciuta tanto quanto l'identità tossicodipendente. Sta forse qui un primo inevitabile contatto del gruppo con le sue parti più indiscriminate. Wallon la definisce anche "socialità incontinente", ben espressa da un integrante che, verso la fine della prima seduta, si lamenta così:
"ora mi sento bene, ma continuo lo stesso e non riesco a capire, farei un mutuo per uscirne ma non riesco, mi alzo la mattina dicendo non ci vado, poi mi scappa di andarci".
Nella prima parte della seduta, invece, un primo tentativo del gruppo di uscire dalla confusione generata dall'ansia persecutoria sta nell'individuare la contrapposizione fra la condizione coatta, chiusa, della comunità terapeutica e quella libera, esterna, di questo gruppo:
"è diverso, in comunità ti scontri con i problemi della comunità, qui esci e puoi dimenticarti"
"quando sei libero ognuno ha esigenze diverse"
"in comunità la situazione è coatta, qui bisogna scegliere se venire"
"è anche la difficoltà del presente, in comunità sei fuori da tutto"
"a pensarci bene ci sono molte cose che cambiano da qui alla comunità terapeutica".
Potremmo tradurre dicendo che qui la contrapposizione tra mondo interno e mondo esterno appare priva di quella fluidità dinamica che il processo terapeutico potrà sviluppare.
Queste prime battute del gruppo, oltre a segnalare questo gioco tra dentro e fuori a cui ho accennato prima, introducono la questione della libertà, della scelta, della decisione che apparirà in tutta la sua dimensione angosciante. Questa "libertà" di cui parla il gruppo, la possiamo leggere come ansietà di base che diventa funzionale soltanto se contenuta. Probabilmente, in questo momento, la parte di libertà che il gruppo sente come innocua è quella relativa al non giudizio. Possono parlare senza sentirsi sotto processo.
Alla seconda seduta del gruppo sono presenti sei integranti. L'assenza di alcuni e il ritardo di altri diventano emergenti della possibilità o meno di stringere un vincolo col compito. Nella prima parte della seduta appare il legame "insostituibile" con l'eroina:
"mi è sempre rimasto il dubbio, io ho cercato altre cose quando non avevo l'eroina, ma nulla la può sostituire"
"sono tutti innamorati dell'eroina".
Ciò nasconde, però, l'ansia generata dal poter pensare ad altro, cioè a quelle parti dell'identità non così conosciute come quella tossicodipendente. Fino a questo momento il gruppo si è presentato esclusivamente attraverso la sua parte tossica, cioè diventa prioritario sapere quanto si è tossici piuttosto che altro, ad esempio anche semplicemente il nome delle singole persone:
"ogni tanto penso a come poteva essere la mia vita senza la roba"
"se succede che mi passa la voglia di farmi e, per esempio, mia moglie se ne va in settimana bianca, io cosa faccio?"
In questo momento la resistenza del gruppo a pensare ad un possibile legame con il compito si evidenzia attraverso il chiedersi individuale sul come potersi slegare da qualcosa o da qualcuno. Come poter affrontare un nuovo legame? Chi è assente, oggi, forse ha già deciso, ma questa assenza non passa inosservata nel gruppo. Emerge attraverso il distacco che ognuno degli integranti ha sentito tra la prima e la seconda seduta (sono trascorsi quindici giorni). Per qualcuno "sembra sempre la prima volta, ho sentito il distacco". In questa seduta appare comunque anche il piacere del vincolo gruppale:
"per me deve essere un piacere, sennò mi scoccio, se deve essere solo per la tossicodipendenza è riduttivo, io spero che diventi: vado e vedo i ragazzi"
"non dimentichiamoci che è anche un lavoro, anche se non ho chiaro il concetto"
"se riusciamo a dialogare tra di noi è un bene, non capisco perché in piazza ci si espone così tanto, poi è un problema farlo qui"
Il gruppo sta iniziando a lavorare su una possibile identità, per il momento attraverso la definizione di cosa esso non è: non è comunità terapeutica, non è piazza, non è famiglia, ecc. Il gruppo inizia a penetrare il compito chiedendosi intorno alle motivazioni, di che cosa parlare, fantasticando su quali legami lì dentro… Inevitabilmente sopraggiunge l'interrogativo se il gruppo potrà essere un contenitore sufficientemente buono. L'identità "altra" (non-identità) evoca il sogno, in quanto realtà "altra" (onirica):
"i sogni per i tossicodipendenti sono degli incubi"
Sarà possibile nel gruppo trasformare questi incubi?
Lavorare per una trasformazione era stato anche l'obiettivo di noi coordinatori nell'analizzare le diverse dinamiche intraistituzionali che funzionavano con continue e massicce identificazioni proiettive. Il processo che stavamo osservando percorreva parallelamente il gruppo dei pazienti e il gruppo dell'equipe del Servizio. In questo senso, la supervisione ha funzionato anche come elemento discriminante per rompere l'isolamento: l'isolamento dei coordinatori dal resto dell'equipe; dell'attività del gruppo dal sert (inizialmente ci era stato chiesto di svolgere le sedute nella biblioteca del poliambulatorio, ossia in un luogo esterno, non appartenente al sert); del Servizio stesso nei confronti dell'esterno. Probabilmente la supervisione ha pure funzionato in termini terapeutici nei confronti dell'istituzione permettendo, almeno a noi coordinatori, di individuare le due parti in quel momento contrapposte: una che spingeva alla riproduzione, l'altra che spingeva alla conservazione. Non di minore importanza è stato il ruolo assunto dal responsabile del servizio che, attraverso l'autorizzazione alla supervisione, ci ha riconosciuto identità professionale, andando a minare nei fatti il mito ugualitario presente nell'equipe.
Arriviamo, ormai, alla terza seduta di questo anomalo primo colloquio. Sono presenti sei integranti, uno dei quali per la prima volta. Ciò determina la messa in evidenza di un elemento chiave: l'ignoranza. Il non conoscere una parte del gruppo, quindi una parte di sé che è strettamente connessa al compito del gruppo, e cioè decidere se approfondire la conoscenza. Ciò che fino a quel momento era apparso come scontato — il curarsi per poter smettere con la droga — può così trasformarsi in qualcosa di diverso, può aprire ad altre possibilità:
"passato il primo momento mi chiedo cosa dovrò dire, cosa succederà, come possono gli altri dirmi qualche cosa di me"
"io ho pensato che può essere una questione di tempo, tempo fa avevo perso la misura di tutto, ora leggo, cosa che non facevo più, quando mi faccio non leggo per quattro, cinque giorni, chissà se un giorno dirò basta, se mia moglie si arrabbierà, se arrivassi a stancarmi sarebbe bello".
Il gruppo funziona anche da specchio, gli altri rimandano l'immagine di sé, come in un vincolo primitivo tra madre e bambino. Se si accettasse la depressione forse si smetterebbe con la droga. C'è qui la fantasia di cosa potrà essere possibile apprendere, rendere consapevole, e un'altra rappresentazione che il gruppo produce rispetto a ciò è l'idea del "corso di psicoterapia". Sicuramente questo riguarda i molteplici interrogativi e l'illusione di ricevere delle risposte da noi terapeuti; è relativo anche al processo di apprendimento e di comunicazione nel gruppo, tra loro non si conoscono; infine, si lega a una fantasia di come organizzare quel tempo e quello spazio a loro disposizione. Come disporre di una libertà sentita forse come fobica? In questa seduta "abusano" di un termine: mi scende la catena. Può essere la paura di svelare il meccanismo che tiene insieme i vari pezzi. Il timore che possano crollare certi vincoli costrittivi, la fobia della libertà, appunto. Rispetto a tutto questo è piuttosto netta la sensazione che aver dato al gruppo un tempo così lungo sia stata una buona scelta per permettere una decisione in un clima di ansia contenuta. E' stato un tempo necessario al gruppo per elaborare che c'è uno spazio di parola e uno spazio di ascolto; perché gli integranti si chiedessero se poteva essere utile il parlare e se fossero davvero capaci di ascoltare. Nel passato con chi avevano loro parlato e chi li aveva realmente ascoltati? C'è in loro uno spazio mentale libero per poter ascoltare?
Questo era lo stesso interrogativo che, alcuni mesi prima, noi coordinatori del gruppo avevamo rivolto all'equipe del Sert.
Un effetto prodotto dal lavoro che qui ho descritto riguarda un elemento istituzionale non secondario nell'organizzazione del Servizio in questione. L'equipe, infatti, ha deciso di modificare il setting del primo colloquio con l'utente che si rivolge al Sert. Da un setting di tipo individuale si è passati ad un colloquio condotto da due figure professionali differenti (nel nostro caso: un medico e un educatore professionale) in un'ottica di coconduzione e di osservazione integrata della situazione.
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