Ho letto la tua relazione che condivido pienamente.
Forse sarò noioso, ma sostengo che il principale elemento di disturbo nella cura delle tossicomanie, non sono le metodologie, che in quanto metodi sono portatrici di riduttività, ma la "moralità" che regola le leggi, che regola i modelli e che spesso fa più morti della guerra.
Sono un pò stanco di vedere leader carismatici di ogni razza e religioni con le loro ricette mediche, sociali psicologiche o religiose.
Se non si trova spazio per affrontare attraverso équipe che funzionino e che si supervisionano, la tossicodipendenza sarà difficile "ridurla".
Ma essendo un problema a mio avviso principalmente SOCIALE, se non si arriva a negoziare una condivisione di finalità, continueremo a navigare a mare aperto andando verso la direzione indicata dal vento del momento.
Beh, per adesso ti saluto.
Gianni Casubaldo
Ass. Soc. Ser.T. AUSL n. 3
Foligno (PG)
gio@edisons.it
Debbo dire che l'intervento di Leonardo a mio avviso tocca una corda viva,
l'esigenza di ridefinire la terminologia clinica che definisce la TD.
La riflessione di Leonardo ha sicuramente il limite di essere
spudoratamente a favore di una ipotesi psico-sociologica delle TD e di
svalutare il povero topino che in laboratorio sviluppa una dipendenza da
oppiacei o s'ammazza a furia di somministrarsi cocaina. Se dunque l'aspetto
biologico non pare poter essere messo in secondo piano per quel che
riguarda le TD classiche debbo dire che la cosa non equivale per quelle nuove.
Da tempo studio le nuove dipendenze e in particolare quelle da nuove
tecnologie ove per esempio la sostanza chimica non esiste e ove perciò
l'aspetto biologico pare insignificante. Ciò che dice Leonardo a proposito
di alcuni gruppi famigliari come macchine produttrici di dipendenza è
musica alle mie orecchie, mi permette infatti di dare un grammo di
fondamento all'ipotesi che le persone possano sviluppare forme di
dipendenza ma non da agenti chimici.
Mi piacerebbe trovare qualche interlocutore su questi aspetti così
difficili da studiare ma a mio avviso così concreti. Come psichiatra e
psicoterapeuta debbo dire che trovo di mia competenza ciò che avviene nel
mare magnum delle chat-line, ma ricordo che quando provai a discuterne in
una mailing list non trovai molto consenso.
Infine vorrei spezzare una freccia a favore del superamento della logica
sterile e involutiva che oppone la visione biologica a quella psicologica.
A me piace pensare la TD come fenomeno complesso inquadrabile con la logica
fuzzy e anche in questo caso sarei contento di trovare compagni di viaggio
il primo dei quali è Leonardo
Francesco Bricolo, Psichiatra
Sert di Bolzano
fbricolo@hotmail.com
Ho letto il tuo scritto trovandolo interessante e per buona parte d'accordo
ci sono alcuni punti che meritano un approfondimento.
Innanzitutto al punto 1 del paragrafo "Critica alla tossicodipendenza".
Concordo col fatto che l'offerta incide in maniera determinate sulla
domanda, pero' ho qualche perplessita' che questo dettame divenga un valore
assoluto. Ad esempio, quando abitudini e consumi si protraggono all'interno
di una societa', fino a diventarne tratti caratterizzanti anche la domanda,
in seconda battuta, puo' incidere notevolmente sull'offerta. Nel caso delle
droghe la loro liberalizzazione attuerebbe automaticamente un meccanismo
attraverso il quale verrebbero premiate soltanto le sostanze di migliore
qualita', con un ovvio guadagno da parte di chi ne fa uso (ragionando per
ipotesi). Quando poi dici che la politica di Arlacchi va sostenuta anche
qui' occorre specificare. Se le politiche per sostituire le colture di
oppio, o di coca (che non dimentichiamo essere colture radicate da tempo
nelle tradizioni rurali dei popoli interessati e quindi rappresentati
abitudini socioculturali ormai secolari), vengono attuate attraverso
accordi diretti con i contadini-produttori, nel totale rispetto delle
situazioni eco-ambientali dei paesi, la cosa mi puo' anche star bene. Ma,
quando queste politiche vengono concordate a livello governativo, con
istituzioni che spesso non offrono alcuna garanzia in termini di giustizia
sociale e democrazia come e' successo con i talebani afgani, penso che ci
dobbiamo opporre a priori. Ancora peggio poi tollerare guerre sante come
quelle promosse dalle amministrazioni Regan e Bush che andavano ad
annaffiare le piantagioni in oggetto con i peggiori defolianti, quando non
le invadevano direttamente con il corpo dei marines. Questa e' comunque un
osservazione marginale rispetto al tuo scritto, pero' e' importante nel
senso che il terapeuta in ogni caso quando, inevitabilmente, viene a
contatto con la dimensione politica deve riuscire a vedere tutte le
possibili ricadute a livello sociopolitico e non rimanere soltanto su
quello che e' il suo obbiettivo.
Sul punto 2, quando parli di dipendenza da metadone vorrei sapere se ci
sono ricerche su chi ha praticato la terapia metadonica su larga scala
sugli esiti finali delle stesse. Io non ho un'esperienza con "tossici",
pero' essendo un sostenitore della riduzione del danno, come forma di
politica nell'immediato, trovo spesso nel mio campo l'esaltazione dell'uso
del metadone, come in altri ambiti la sua totale demonizzazione. Penso che
in questo momento vada fatta chiarazza in merito a livello pubblico (cioe'
spiegare in termini corretti e pacati all'opinione pubblica cosa significhi
realmente somministrare metadone, lo so non e' facile) e credo che questo
compito competa in prima persona a terapeuti e non a chi ne fa un uso
strumentale a livello politico.
Il paragrafo finale merita un approfondimento, ma credo che tu ci abbia
gia' pensato.
A presto
luke
luke@adhoc.net
Il tuo lavoro è chiaro e molto ineteressante: dà importanza alla persona
nella sua totalità e non solo a quella parte di lei identificabile nel
sintomo specifico.
Sono perfettamente d'accordo con te quando sostieni che la dipendenza da
eroina possa essere tranquillamente sostituita da un'altra forma di
dipendenza se non si sia prima risolto il nucleo problematico del
soggetto in questione.
Vorrei porti una domanda: quali sono, secondo la tua esperienza, i
pazienti che maggiormente "vivono nel passato" e come è possibile (come
fai tu, insomma) riportarli nel presente e in seguito proiettrali nel
futuro? Come far loro acquisire la progettualità che hanno sopito a poco
a poco?
Attendo una tua risposta
Un saluto
Barbara Braito
braitoba@tin.it
Caro Leonardo,
carissimi della mailing list, Trovo interessante il tuo lavoro che tuttavia mi lascia perplesso su diversi punti.
Vorrei partire dalle tue conclusioni che trovo contraddittorie: dici che la vostra strategia è la produzione del futuro e non la riduzione del danno. Credo che questo non regga per vari motivi. Anzitutto la riduzione del danno è una tattica, una strategia, che ha ormai sviluppato: da un lato una sua filosofia, dall'altro una complessa rete di politiche di ricerca e di intervento le quali hanno consentito a loro volta non solo ai suoi sostenitori, ma anche a tutte le persone coinvolte un forte recupero sulla qualità e l'efficacia degli interventi.
Ma veniamo al punto.
Secondo molti addetti ai lavori il consumo di eroina è un fenomeno temporaneo anche se lunghissimo nella vita di una persona (ad esempio Barra della Fondazione Villa Maraini lo fissa mediamente intorno ai 12 anni e non credo sia l'unico) durante il quale si sviluppano diverse fasi che fanno lungo un continuom dalla luna di miele all'odio verso la sostanza.
Possiamo considerare buona parte di questo percorso inadatto all'intervento terapeutico in quanto il "paziente" non ne vuole sapere. L'intervento di riduzione del danno si colloca in questo frangente ed ha un fine ben preciso: evitare alla persona danni irreparabili. In questo periodo occorre che la persona non muoia di overdose, non contragga malattie letali o gravissime, non conduca una attività criminale magari finendo in carcere.Per Questo credo che la riduzione del danno sia da rafforzare ed integrare. Non è possibile infatti la "costruzione di un futuro" se nel frattempo tutti i drogati muoiono per le strade. La talpa scava se aiutata quando inizia a sentirne il bisogno o quando ancora non è compromessa.
Per cui il tuo discorso in linea generale mi pare non in antitesi con l'idea di riduzione del danno ma piuttosto complementare ad esso . Inoltre credo che per poter affrontare un discorso di costruzione del futuro occorre uscire dagli schemi medico -psichiatrici – psicoanalitici – psicologici. Non sono certo le strutture sanitarie da sole a potersi occupare di un compito così enorme. Occorre ancora una volta esaltare il ruolo di una comunità che purtroppo è sempre più passiva e restia ad occuparsi dei problemi che la riguardano da vicino. Occorre unire i saperi di base e non contrapporli ricavando una linea di azione politica collettiva. Altro che genetica…. chi propina queste mezze assurdità, estrapolando l'uomo dal suo ambiente, in antitesi con ogni idea di ecologicità della ricerca, di validità sperimentale, dovrebbe tornarsene a scuola, a rileggere le prime pagine dei manuali di metodologia.Oppure dovrebbe scendere nellestrade della mia periferia, dietro gli ammassi di cemento popolare dove le farmacie hanno le inferriate e le case non hanno le finestre.
E in tutto ciò non bisogna avere illusioni, perchè fatto un nuovo futuro si avrà una nuova droga, che potrà essere funzionale a quel futuro ( come il doping oggi, o la cocaina per l'imprenditore, o l'ecstasy per il giovane) o potrà farne sognare altri diversi al prezzo della vita.
Per cui è inutile che qualcuno ci propini ancora la solfa della sostituzione delle coltivazioni, non serve a nulla…..l'approccio filoamericano al problema droga a fatto nascere il crack e droghe sempre più sintetiche; i ragazzini di sedici anni ci insegnano come ricavare sostanze da anestetici o da farmaci, ci dicono dove raccogliere funghi allucinogeni, l'oppio può crescere in serra e su Internet ti vendono i semi per farlo. Siamo nel 2000, cari signori e vendere droga o usarla è il secondo mestiere più vecchio del mondo.
Concludendo credo debba costituirsi una rete sempre più fitta e robusta di saperi, di capacità politiche e quindi di potere contrattuale che soprattutto deve investire l'intera comunità, la cui qualche volta mi sembra essere la vera tossicodipendente.
Uniamo le strategie preventive a quelle di RDD a quelle terapeutiche sulla base dei risultati effettivi (dati introvabili per le ultime) e sulla base della loro efficacia: questo è quello che noi come parte della comunità e come operatori del settore possiamo fare.
Poi come uomini, come esseri politici, muoviamoci per identificare assieme agli altri membri della comunità l'idea di quel futuro che per me è anche difficile immaginare.
Lucio Gamberini
L57 Livello 57 (lucio@psy.unipd.it )
Premetto che mi occupo di comunicazione e non di psicologia o medicina.
Penso che se i tossici da eroina non fossero dediti per abitudine alla piccola criminalità e se gli oppiacei non fossero nei paesi occidentali droghe proibite, non esisterebbero tutte le strutture che esistono, dai SERT a Muccioli. Per l'alcool, droga assai più libera in Occidente, ci sono pochissime strutture e scarso allarme, anche se provoca molti danni a individui, famiglie e società. E' curioso notare come le strutture di intervento sulle dipendenze siano tanto maggiori quanto più è alto il grado di proibizione e percepito l'allarme sociale: negli USA, p.es., ci sono molti più enti dediti ai problemi dell'alcoolismo.
Si può ipotizzare con una certa ragionevolezza che il dipendente viene riconosciuto e vengono attivati interventi sociali (pubblici o privati) in quanto il suo comportamento è problematico per la società, non per lui. Questo rende diversa la medicina della TD dall'altra, nella quale è il paziente il primo a richiedere l'intervento, e la avvicina alla psichiatria. Vi è quindi una domanda sociale di intervento, che porta a stanziare fondi e creare enti di prevenzione e cura, oltre a atti di repressione.
Questi interventi inesorabilmente creano figure sociali, ai due poli: l'operatore e il tossico. Il tossico viene visto dalla società come una figura ambigua: è vittima ma è anche colpevole; è un 'poveretto' ma è anche un delinquente. In genere la famiglia non riceve nessuna responsabilità delle dipendenze dei figli. Anzi, è proprio la famiglia, specie la madre, la ''vittima' al 100%. La mia esperienza personale di non esperto conferma invece quanto Leo mette in luce, e cioè che la personalità dipendente spesso si forma all'interno di una situazione familiare particolare. Credo che gli strumenti della psicologia e della psicoanalisi siano in grado di descriverla meglio del linguaggio comune. A un semplice esame di logica del comportamento mi pare di capire che l'assunzione di sostanze allo scopo di mutare il proprio stato psicologico risponda a uno schema interessante.
Vi è un soggetto (Non necessariamente individuale, può essere anche un gruppo) che percepisce un personale disagio (dalla noia, o la mancanza di divertimento, di eccitazione, di 'accadere': "non accade niente", fino all'angoscia o alla sensazione di fallimento, all'ansia, alla sofferenza sentimentale ecc). La percezione del disagio è quasi sempre cosciente: è raro che qualcuno non esprima un motivo o una causa per l'assunzione di sostanze. Non è come mangiare o dormire.
La caratteristica delle sostanze dette droghe è che, in modi diversi, riducono, alterano o cancellano lo stato di coscienza nel quale viene presa la decisione di assumerle. In questo diverso stato di coscienza il disagio sparisce o si attenua, ma si attenuano anche le caratteristiche tipiche dello stato di coscienza "normale". Il soggetto percepisce per primo lo stato come 'alterato', e in questo stato il sistema di funzioni e di attese è diverso. Responsabilità, doveri, volontà diminuiscono o scompaiono.Tempo, spazio, pensiero, modi di comunicare mutano radicalmente. Da questo stato, percepito come positivo dal soggetto, egli ritorna poi, alla fine dell'effetto della sostanza, allo stato normale, che reputa negativo.
Io credo che la dipendenza non stia nel fatto di voler sperimentare stati di coscienza diversi da quello normale, perché questo desiderio è molto comune e si può soddisfare in modi molto diversi e in quantità diverse. Credo che stia nel contenuto etico-funzionale assegnato ai diversi stati di coscienza. Anche l'orgasmo, che è uno stato di coscienza socialmente ritenuto positivo, può in certi casi assumere connotazioni negative per il soggetto. Così l'ebbrezza bellico-competitiva, ricercata negli sport, può assumere tratti positivi o negativi, a seconda della funzione e della struttura sociale nella quale ha luogo. Anche se sembra un'ovvietà, io credo che la comune valutazione che l'assunzione di "droghe" deriva da una incapacità di situarsi con agio nello stato di coscienza 'normale' associata all'attribuzione di potere magico all'assunzione di sostanze (penso che per esempio sia determinante l'atteggiamento che la famiglia ha nei confronti di medicinali, alcool, atti magici ecc). Insomma, il tossico secondo me è uno che di fronte a un disagio introduce qualcosa dentro di sé per mutare se stesso. La sua metafora è Braccio di Ferro. Perciò sono d'accordo con Leo che il lavoro fondamentale è un lavoro sulla persona, sul futuro, perché è proprio il futuro la parte della coscienza nella quale più spesso si colloca il disagio.
Come comunicatore però credo che sia il momento di iniziare a parlare anche della responsabilità della famiglia. Capisco che in questo modo si va ad attaccare uno dei dogmi più forti della cultura italica: la famiglia, che oggi deve sempre essere considerata fonte di ogni perfezione. Ma è ora di cominciare a fare dei manifesti dove ci sono due genitori e una scritta: "siete sicuri di non aver nessuna responsabilità se vostro figlio è tossicodipendente?"
Giampaolo Proni
Via Caruso 16
47037 Rimini
39/541/938153 – 53737 – Fax 25255
<
gproni@iper.net>
<trickster@cryogen.com>
<http://www.horizons.it/progettofabula/n-gpr.htm>
È fuor di dubbio che in questo scritto del prof. L. Montecchi si ritrovano molte indicazioni assolutamente meritevoli della massima considerazione per quanto riguarda il modo di approcciare situazioni particolarmente delicate come lo stato di tossicodipendenza. Peraltro tali affermazioni mi trovano d'accordo per la quasi totalità.
Tuttavia non essendo io un chimico o un biologo ne tantomeno un medico, non mi addentrerò in considerazioni tecniche, anche perché ciò che mi ha particolarmente colpito in questo articolo, non sono le teorie o le metodologie in se stesse; bensì l'uso di fondo di una capacità che dovrebbe essere comune a molti ma che, aimè, è in realtà sempre più rara: il buon senso.
Il fatto di considerare l'individuo nella sua interezza, come persona, con una sua storia, una sua dignità è sicuramente l'elemento caratterizzante il lavoro che il prof. Montecchi ha sempre svolto e ciò, in un mondo dominato da superficiali superspecializzati, non può che fargli onore.
Da tempo ormai, all'interno di un ospedale, nella clinica del prof. X o nelle aule universitarie non si parla più del paziente Tal dei Tali o della signora della camera nr.5; ma si ragiona quasi esclusivamente in termini di cistifellee, dell'ernia della 32 o peggio del calcinoma di cui non è stato registrato il ricovero.
Mi torna in mente un discorso del vecchio prof. G. Tonini (psichiatra e farmacologo) che riferendosi ad una situazione che riguardava una nostra comune conoscente, sottolineava come, in quel caso, la preoccupazione del pediatra di fornire anticorpi al neonato attraverso l'allattamento al seno avesse portato dopo molti mesi la madre sull'orlo di un gravissimo esaurimento psicofisico, come se fosse più importante avere qualche anticorpo in più rispetto ad una madre psicologicamente instabile. In realtà il vero problema è che ognuno si occupa esclusivamente del proprio settore, disinteressandosi dell'interezza e questo metodo applicato a degli esseri umani comporta spesso conseguenze deleterie.
Tornando all'oggetto di questo articolo mi preme sottolineare un altro aspetto evidenziato da Leonardo, quello della rinuncia, da parte di questa o forse de tutte le società civili, a tentare di risolvere i problemi.
Vediamo da anni che la politica della riduzione del danno, nata come un metodo per limitare un problema in attesa della sua risoluzione, è diventata il fine ultimo di ogni iniziativa. E questo in ogni campo: si risolve il problema dell'abusivismo edilizio con i condoni, quello del sovraffollamento carcerario depenalizzando i reati; e allora perché non risolvere il problema della droga limitando la visibilità sociale del fenomeno?
Credo che il problema di produrre il futuro riguardi, ben prima del dipendente, coloro che dovrebbero assisterlo e sostenerlo, a tutti i livelli: dalla famiglia alle istituzioni. Portare il dipendente tossico a rinunciare a credere di poter risolvere il suo problema è la cosa peggiore che gli si possa fare.
E poi sperare aiuta ad agire e anche se alla fine non ne usciremo vincitori, perdio, almeno ci avremo provato.
Marco Giulianelli
Riccione
Ya se ha dicho que la idea que tengamos de las cosas determina nuestras acciones. De cómo pensemos un problema dependerá el modo en que organicemos su abordaje. O si queremos decirlo en un lenguaje más politico, estaremos con Luckas al señalar que una diferencia en el plano ideológico debe tener necesariamente una traducción en el nivel organizativo.
Por eso, el titulo del trabajo de L. Montecchi es algo más que un juego de palabras. Nos invita a reflexionar sobre cómo estamos pensando el problema de la, digamos con él, dependencia tóxica: cuáles son los implícitos de los que partimos -más o menos conscientemente-. ¿Dónde está lo tóxico en la problemática de estos pacientes?. Se trata de mirar más allá de lo aparente. Quisiera añadir que quedarse en lo aparente no es nunca "ingenuo": todas las lecturas son interesadas.
No es mi campo de trabajo el mismo que el del autor del articulo, pero ello no es obstáculo para que comparta su misma posición. Yo he trabajado mucho el campo de la vejez, y me he encontrado formulándome los mismos interrogantes que el autor: adoptando ante esta problemática una posición similar a la que él señala ante la suya. Por ejemplo, ante las dificultades que para muchas personas representa la jubilación, ¿estamos ante una problemática ligada a la aparición repentina de mucho "tiempo libre", que los jubilados no saben cómo utilizar? Porque si creemos que es esto lo que sucede, actuaremos coherentemente tratando de enseñar a los ancianos a emplear su tiempo, e incluso, como modo de prevención, organizaremos cursos de prejubilación para anticiparnos a este problema futuro. Esta concepción condicionará decisivamente la idea que tengamos de lo que deben ser los Clubs u Hogares de jubilados, sus tareas, su organización, etc., es decir los Centros, las instituciones que se crean para enfrentar esta problemática responderán a la idea que tengamos sobre qué es lo que tenemos que resolver. Y reproducirán, desde esa idea, un tipo de relación con los ancianos que consolide su destino social: la pasividad, la marginación, una exclusión, esto si, lo más entretenida posible.
Pero podemos pensar que la problemática de la jubilación deriva del desarraigo que supone, de la exclusión de la dinámica social que conlleva, lo que tiene que ver con los valores dominantes en nuestra sociedad. El tiempo de ocio se define en contraposición al tiempo de actividad o de trabajo, es decir, quien no trabaja no tiene tiempo libre, sino que es un desocupado, lo que configura una problemática radicalmente diferente a la del "tiempo libre". Es decir, que los jubilados no tienen más tiempo libre que los que trabajan. Casi podemos afirmar exactamente lo contrario, que lo que no tienen es tiempo libre, sino que están desocupados. Así planteado, es esta problemática de la desocupación la que deberían enfrentar los Hogares y Clubs de Pensionistas, y en función de ella replantearse objetivos, tareas… y la necesaria organización para cumplirlos. Los Centros de pensionistas deberían entonces preocuparse no tanto por la cantidad de actividades que se realizan, sino por cómo se realizan éstas, con qué grado de participación, cuánto sirven a los ancianos cara a la realización de ciertas experiencias de cambio, etc. Y entendemos la participación en un sentido duro: participación como un espacio de poder.
Para terminar, pienso, releyendo estas lineas, que he hablado de vejez para comentar un articulo de drogadicción. Me parece que hay algo común en ambas problemáticas que tiene que ver con la producción de futuro, por utilizar los términos de Montecchi. Nos resistimos a concebir la vejez como una espera pasiva de la muerte. Creemos que es una etapa de nuestra vida con un porvenir, limitado. Donde el límite puede ser percibido más próximo, pero donde hay un porvenir. También en este caso debemos pensar y preguntarnos por los vericuetos del deseo, del que seguiremos su curso hasta el fin, que no es otro que el de nuestra propia muerte.
Federico Suárez
Director de area 3 Madrid
fedesuarez@correo.cop.es
Caro Leonardo, rispondo al materiale da Te inviatomi, sebbene con un certo
ritardo, di cui ti prego di scusarmi.
Allorchè venne inaugurata la lista sulle "Dipendenze" apprezzai un tuo
iniziale commento che sostanzialmente prendeva spunto dall'importanza, non
formale, della terminologia usata nell'ambito della medicina psichiatrica.
Era la e-mail del 18/11/97 numero 6.
Il riproporre la domanda originaria nell'articolato intervento che ho
avuto modo di leggere ed apprezzare mi trova concorde nella visione,
unitaria, meno "meccanicistica", trovante espressione nell'interpolazione
terminologica: Dipendenza Tossico in luogo di Tosssicodipendenza.
Il ricondurre uno stato attinente il "Dipendere", rinviante ad un soggetto
così posto, ancorchè prediligere la visione della "Tossicità" asetticamente
posta o per lo meno espressione di una sregolazione organica agente ed
influenzante il malcapitato "tossico", a nucleo centrale del problema da
affrontare restituisce un senso, a mio avviso, all'individualità ( sebbene
qualificata patologica) del soggetto "dipendente" verso cui è necessario
incamminarsi.
Questo, va da sè, non è il passo conclusivo di una "riqualificazione" del
soggetto-dipendente, bensì un nuovo porsi innanzi a lui cercando di
scorgere, nel suo dipendere, una storia, una "erlebnisse" a lui, e a lui
solo, peculiare, sfociante in un comportamento, deviato, apparentemente
uniforme nella molteplicità di quelli caratterizzanti tale disturbo.
Ponendosi poi nella prospettiva di "Produrre il futuro" si lambisce un
territorio a me molto caro: quello della progettualità, realizzata e
realizzantesi quotidianamente nel porre in atto "opere" (lavoro, famiglia,
studio…), quanto, per converso, quello della progettualità mancata di
cui la "sospensione" di vita in cui versa il "di-pendente" è espressione.
Forse la dico grossa e magari, per limiti intrinseci al mio, fin qui,
percorso di studio, non riesco a scorgere con un colpo d'occhio la realtà
del disagio tanto del dipendente-tossico che, per converso, dell'operatore
sanitario: rivaluterei l'uso del termine "educare", ovvero del riuscire a
"portare-fuori"( lat. educere), appunto nel mondo, e non via dal mondo,
un'evasione haimè pagata a caro prezzo, quale approccio alla problematica
del dipendere tossico, e, lasciamelo dire, in genere per tutto quanto
attiene il "dipendere".
Il mio discorso, a questo punto però, si dilungherebbe oltremodo, giacchè
non rispetterei il precetto della brevità quale commento al tuo scritto.
Grazie per tutto.
Renzo Donzelli
renzo@rosenet.it
Sulla produzione del futuro
Il non intravedere l'orizzonte e la mancanza di futuro impediscono un progetto di indipendenza.
Questa frase nella sua essenzialità è di una estrema significatività e racchiude in sé tutta la drammaticità delle problematiche legate alla condizione di dipendenza.
Dipendenza come non evoluzione, dipendenza come incapacità di emancipazione, come vivere continuamente all'ombra, come avere sopra di sé un'altra presenza dalla quale ci si vorrebbe staccare ma i distacchi producono angoscia e allora ci si stringe più di prima. La dipendenza può essere una situazione di comodo, di quiete , di assenza di problemi, può essere un caldo grembo, un contenitore ovattato ma può diventare una gabbia di acciaio all'interno della quale si scatenano conflitti e lotte tremende.
Bellissima anche l'immagine che scaturisce della "gabbia" e di questa "coazione a ripetere" .
E' un circolo vizioso che viene alimentato continuamente e produce sempre più dipendenza.
E' un vortice che trasporta sempre più all'interno e fa perdere al soggetto la capacità di vedere l'orizzonte, è come avere davanti agli occhi un albero che impedisce di vedere l'intera foresta, è un continuo annientarsi e logorarsi.
Direi che è una incessante ricerca del benessere che produce inesorabilmente angoscia.
Difficile uscire da questa situazione se non si va alle radici del problema esaminandolo nella sua interezza , nel suo contesto e cercando di capire le dinamiche che producono ed alimentano questo "stato" .
Non si può ragionare soltanto in un ottica della "riduzione del danno", è limitativo , vuol dire partire già con l'idea di essere dei perdenti, vuol dire che non si può fare altro che certe situazioni non si modificano, non hanno soluzione, vuol dire che si può curare ma non guarire
Invece nella "PRODUZIONE DEL FUTURO" si delinea la strategia vincente che apre uno spiraglio, un orizzonte che partendo dalle ceneri getta le basi per fare riappropriare il soggetto della propria dimensione interiore e favorire la rinascita.
Produrre il futuro significa poi considerare l'uomo intero inserito in un contesto e significa attivarsi, sforzarsi, mettere in campo tutte le energie possibili e convogliarle verso un fine comune, verso un progetto che certamente nel suo realizzarsi produrrà il mutamento
La dipendenza è immobilismo, è involuzione, è buio, è regressione, l'autonomia è azione, è luce, è avere una prospettiva del domani, è l'acquisizione della capacità di saper scegliere.
Ecco l'ambizione di questa prospettiva che ha in sé una forte tensione positiva, una forza vitale rigeneratrice che dovrebbe risvegliare il mondo interno e la comunità dallo stato di torpore.
Montefiore Conca 24/ 9/ 1998
Pietro Cipriani
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