Per chi si occupa di malattia mentale (non e' il mio caso, e mi scuso dell'improvvisazione), la scrittura non costituisce un sovrappiu', qualcosa che eventualmente si aggiunge al proprio lavoro, ma un elemento costitutivo dell'attivita' stessa. Il problema che si pone su questo terreno e' quello della chiave, o meglio delle chiavi (linguistiche, stilistiche, interpretative) da adottare per dar conto, in forma scritta, del complesso di fattori che operano dentro una storia clinica.
Lo stesso Freud, nel riflettere attorno all'esigenza di mettere in un rapporto di non coincidenza la ricostruzione cronologica della malattia e la sua interpretazione tematica, la storia del caso e quella del trattamento, riconosce (ne L'uomo dei lupi) l'insufficienza di una "redazione di verbali esaustivi di quel che accade durante le sedute" e individua la difficolta' di "inchiodare sulla dimensione piana della descrizione una forma pluridimensionale".
E' appunto questa "forma pluridimensionale" della dimensione analitica che entra in conflitto con le forme correnti (al suo tempo) di documentazione e di elaborazione scritta.
L'ipotesi che intendo proporre qui e' se una ragione multistratificata e reticolare come quella che agisce nell'esperienza clinica non possa trovare riscontro e realizzazione in tecniche di scrittura che, come quelle ipertestuali, si sottraggono alle logiche di chiusura, di autosufficienza, di completezza proprie della scrittura testuale (scientifica e in buona parte anche letterarie).
La scrittura ipertestuale si presta molto bene a rappresentare delle conoscenze incomplete, dentro le quali si lavora a stabilire delle relazioni tra i vari elementi di conoscenza (e di scrittura), senza pretendere di colmare tutte le lacune o collegare tutti i nodi.
Un ambiente ipertestuale e' una sorta di block-notes multidimensionale. Schizzi, schemi , disegni, note, richiami, sigle: tutto è ammesso a pari diritto. Il frammento in attesa di sistemazione ha li' la stessa dignita' della dimostrazione conclusa.
Non basta. Quella ipertestuale non e' una scrittura ingenua o automatica, ma una scrittura parallela, multipla, aperta a diversi esiti. In un ipertesto c'e', necessariamente, un punto di vista. Ma questo punto di vista non e' superiore al testo, come nella scrittura lineare, bensi' interno.
A rigore, non e' la vista il senso che metaforicamente presiede alla lettura, ma piuttosto il tatto o l'udito.
Scrivere una storia clinica significa semieiotizzare (e anche semiotizzare) un'esperienza che non e' mai totalmente semeiotizzabile. Farlo in un ambiente ipertestuale, adottando un block-notes reticolare, potrebbe consentire di considerare questo dato di fatto non gia' come un "limite" ma come una possibile ricchezza.
Domenico Chianese, Costruzioni e campo analitico, Roma, Borla, 1997
Pierre Lévy, Il virtuale, Milano, Raffaello Cortina, 1997
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