Il problema più ustionante, però, non è dato dal dover affrontare e fronteggiare una paziente che entra in relazione portando con sé "l’imago" di terapeuti abbandonati, i motivi di angoscia sono piuttosto alimentati dal trovarsi di fronte, quasi inchiodati, ad uno stallo.Chiedono di stare ma senza procedere, chiedono complicità nel loro disegno di non guarire.Il fondamento di un contratto terapeutico cosi’ definito appare intollerabile eppure ci si sente paralizzati nell’affrontare il pericolo proposto dalla malattia come una sfida alla dimensione più elementare della sopravvivenza; ma non accettare la sfida è la condizione necessaria per la costruzione di uno spazio terapeutico in cui la paziente possa vedere vanificato, forse per la prima volta, il contorto meccanismo di quella disputa interna intorno al paradosso"chi vince perde , chi perde vince".E’ come se si percepisse un’ingiunzione netta e terribile che attraversa, in maniera inequivocabile la loro postazione rispetto all’altro:"vietato l’accesso".
Solo il corpo, deprivato della materia affettiva, scisso dalla psiche con un taglio che non sembra ammettere riparazioni, può essere assunto come cosa da governare.(2) L’imbarazzo per non farsi catturare lo sguardo da quel corpo filiforme che in quanto mortificato acquista una grandissima visibilità, per non farsi toccare da quelle rassicuranti parole"mi sento bene, mangio,è lei che mi vede magra" che testimoniano l’impossibilità di condividere percezioni ed emozioni.Forte è il disagio di non riuscire ad individuare un passaggio nel muro che la paziente frappone tra la propria persona e il terapeuta, mentre si avverte, sulla propria pelle, una glaciale e drammatica solitudine e ci si sente stretti dall’ansia di spingerla oltre il suo domicilio coatto, di fare presto di fronte al fantasma della morte, continuamente evocata da un corpo scheletrico.
Si teme sempre, è come se l’anoressica dovesse o volesse gestire la propria morte in un continuo gioco al limite e si viene trascinati in una lotta per l’esistenza, in quella continua sfida tra la fascinazione della morte e il desiderio della vita e della cura.Qualcosa di indelebile accade nei primi incontri,una miscellanea di emozioni va a costituire una sorta di cornice che accoglierà poi il lavoro di avvicinamento al loro mondo interno per scoprire, dietro la maschera, ragazzine che rincorrono invano il desiderio di essere percepite e considerate.
Saper cogliere, accettare e sostenere quell’antica infelicità diventa il primo passo verso un’ipotetica relazione terapeutica. Quando poi, con estrema gradualità e fatica, la paziente diviene capace di tollerare una qualche forma di reciprocità,(3), cioè nel momento in cui il terapeuta non è più solo depositario delle sue parole ma può divenire altro da sé con cui condividere emozioni e sofferenze, si avverte il pericolo, l’incertezza per la relazione. Ogni apertura , ogni ritrovata disponibilità toccano, per la paziente, un punto terribilmente pericoloso e delicato; un’esposizione del proprio mondo interiore che oltrepassi il confine stabilito dal suo bisogno di dominio e di controllo su di sé e sull’altro, può spaventarla e costringerla alla fuga. Questo stesso timore, forse, aveva allontanato T ,una ragazza di 21 anni,dopo il terzo incontro con me.
Quando T arrivò nell’ambulatorio, con un’impegnativa medica per visita psichiatrica, era accompagnata dal suo ragazzo il quale, molto preoccupato, riferì, con dovizia di particolari, date, circostanze e sintomi( dopo la morte della madre,avvenuta un anno e tre mesi prima, T non mangiava quasi più, quando riusciva a ingoiare qualcosa si chiudeva in bagno per vomitare ; aveva perso più di15kg (forse da 55 a 40 per 1,65m di altezza), il sorriso, la gioia di vivere, il piacere di studiare, di uscire, e di stare in sua compagnia. T, quasi nascosta dentro una giacca troppo grande e troppo pesante, ascoltava con distacco le parole del suo ragazzo senza mai accennare a un dissenso o a un’interruzione.Quando chiesi di rimanere solo con lei, T iniziò a piangere e a raccontare della madre deceduta per una neoplasia mammaria.La descriveva come una donna dolce , forte, affidabile, capace di comprenderla e di proteggerla: le mancava troppo, senza di lei non riusciva a "stare". Dopo la sua morte T tornava raramente a casa dove viveva suo padre da solo ( il fratello di T lavorava in un’altra città) e restava per lunghi periodi a Macerata dove frequentava il secondo anno della facoltà di legge. Schermata dalla lontananza, cercava di occultare i sintomi ai familiari, ma anche gli amici e le ragazze con cui condivideva l’appartamento erano tenuti fuori dal suo disagio.Il suo ragazzo, invece, molto preoccupato delle sue condizioni, aveva iniziato a controllarla in modo ossessivo e a costringerla a sottoporsi ad una visita;"unicamente" per questi motivi si era rivolta a me.
Se da una parte il macabro successo, persino in circostanze molto critiche, connotava T come un’abile e raffinata manipolatrice, dall’altro la sensazione che ne ricevevo, nella direzione controtrasferale, era quella di una di una disperata solitudine. L’inconsapevole complicità che riusciva ad orchestrare attorno alla marcata perdita si peso, faceva si che nessuno le si avvicinasse abbastanza per riconoscere la sua sofferenza. Il padre e il fratello venivano descritte come persone buone, disponibili, ma deboli "non sono come mia madre".Del suo ragazzo parlava poco lasciandolo in una sorte di non definizione che veniva lacerata soltanto per metterne a fuoco e sottolinearne i limiti"è noioso, pessimista, assillante,mi controlla in continuazione e mi ossessiona perché mi curi".Alla fine dell’incontro T chiese di poter tornare, senza domandarmi se lo ritenessi necessario e senza chiedere quale ipotesi diagnostica avessi formulato. La settimana successiva,come stabilito, ritornò,ma da sola. Appariva sicura di sé e determinata a connotare in modo più chiaro la relazione con il suo ragazzo; tuttavia, dopo alcune precisazioni di scarso significato,sembrava in difficoltà a fronteggiare la materia calda degli affetti e fuggiva, spesso, verso un unico riparo, quello fornito dalla razionalizzazione. T non poteva farsi contaminare dai sentimenti e cercava rifugio all’interno di argomentazioni con il terrore che ogni forma di dipendenza emotiva potesse trasformarsi in un asservimento totale.Il suo ragazzo , la vita con lui, l’amore che li aveva legati, tutto sembrava marcato , a priori, da una sorta di impossibilità. Nessun riferimento spontaneo alle sue condizioni fisiche, alla sua marcata magrezza, al suo rapporto con il cibo. Io restavo in ascolto, quando era necessario domandavo ma evitavo di parlare di percorso terapeutico possibile e necessario, sentivo che dovevo limitarmi ad accoglierla. Ciò che mi resta come ricordo più intenso di quel periodo (tre incontri) è la percezione che T stesse tentando di rileggere la sua storia e usasse gli incontri con me, come un insieme di pagine bianche su cui tracciare, ma solo di proprio pugno, il racconto di sé. Rassicurata, forse, dalla mia partecipe distanza, riusciva a consentire che uno sguardo esterno si affacciasse nel suo mondo interiore.
Al termine del terzo incontro, prima che fissassimo un nuovo appuntamento, mi comunicò che desiderava ritornare a casa per restare con suo padre un pò di tempo(circa tre settimane);ci saremmo riviste al suo ritorno se io fossi stata disponibile ad incontrarla.La sua assenza corrispondeva al periodo delle mie ferie, ma io non ne avevo parlato. T mi chiedeva una sorta di permesso a interrompere la relazione, che forse percepiva come pericolosa, e allo stesso tempo mi offriva la rassicurante promessa che tutto sarebbe continuato come prima. Percepivo quest’ambivalenza e temevo che T volesse rifortificare il baluardo interno in cui si era rinchiusa, ma preferii non dirle nulla, ero disposta a rischiare.
Di lei non ebbi notizie per circa quattro mesi. Nel mese di dicembre, una ragazza che divideva l’appartamento con T e che mi conosceva (in passato avevo curato suo padre), mi telefonò dicendosi molto preoccupata per T che da diversi giorni si rifiutava di mangiare, di bere, di scendere dal letto.La invitai a chiederle se fosse stata disposta a parlare con me, ma T si rifiutava con ostinazione.Le consigliai quindi di avvertire i familiari e di tenermi informata ma non ebbi più notizie per altri due mesi. Nel marzo scorso T mi ha telefonato per chiedere un incontro"Dott.ssa la debbo vedere, ho deciso di curarmi"All’appuntamento fissato, ho evitato di domandarle che cosa fosse successo in quel lungo periodo di silenzio, il suo corpo magrissimo e il suo viso tirato e sofferente raccontavano di tutto ciò che lei si ostinava a tacere. Ma quel frutto della solitudine, maturato nella distanza partecipe, nella possibilità di una relazione che poteva essere anche negata, quel"ho deciso di curarmi", andava colto con calma fermezza.Ho spiegato il percorso che avrebbe dovuto intraprendere per accogliere il corpo che portava la parola dell’assente e dell’assenza, ho proposto presenze discrete che l’avrebbero accompagnata verso quel luogo di sé da cui sembrava scaturire la decisione.I colleghi dell’unità multidisciplinare del DSM, in particolare il dottor Petrosino, avrebbero accolto e suggerito a partire da lei e con lei avrebbero scelto intonazioni e parole per poter raccontare a se stessa , prima che agli altri, il suo dolore. La nuova apertura, la disponibilità alla cura non potranno, di certo, garantirci rispetto all’intero percorso terapeutico perché l’esposizione del proprio mondo interiore potrà spaventarla di nuovo e costringerla alla fuga. Con i colleghi dovremo condividere il pericolo di nuovi colpi di scena, delle variabili che più o meno improvvisamente potranno modificare la relazione e minarla;(4) per impedire che ciò accada ciascuno si affiderà alla propria creatività, cioè alla capacità di riconoscere, tra pensieri e oggetti, nuove connessioni che portano a soluzioni inedite e a cambiamenti.(5)
La creatività, tuttavia , non si conquista , magicamente , con semplici intuizioni, con la fuga nell’immaginario ma come scrive Arieti(6) "..in essa c’è solo un 10% di intuizione mentre il 90% è dovuto ad un lavoro vivace e metodico". L’ossimoro suggerito dagli aggettivi "vivace e metodico"caratterizza e conforta il lavoro organizzativo come continua ri-tessitura di una metodologia a fronte delle necessità e modalità dell’altro. Altro inteso non solo come paziente ma anche come collega coinvolto nel contenere emotivamente, configurare immaginativamente, predisporre concretamente "quell’unità" di intenti ed azioni come costruzione continua di una equipe che possa fare da prototipo a quella unità psicofisica che non si dà attraverso il pensare, piuttosto attraverso il vivere. Con queste modalità e finalità, collegialmente condivise, abbiamo strutturato la formazione di un gruppo multidisciplinare per i DCA coordinata e supervisionata dalla professoressa Giovanna Curatola.
Siamo convinti, infatti,che solo la formazione possa funzionare come ancoraggio rispettoall’incertezza che consegue ad ogni ricerca di senso e di un possibile un percorso terapeutico; il prezzo inevitabile da pagare per non rimanere, come le nostre pazienti, congelati dalla neutralità o dalla epistemologia di riferimento. Ogni relazione terapeutica si configura, infatti,come un incontro tra parti che occupano lo stesso campo, uno spazio dinamico che viene modificato dalla presenza e dall’atteggiamento dell’altro.(7) In questa presenza bicorporale se qualcosa succede al di là della parola o prima ancora della parola si può dire che il linguaggio verbale è la materializzazione del processo interpersonale ; ma se la parola non viene articolata con questo processo ,o il corpo come linguaggio viene negato, il messaggio che passa è un messaggio disarticolato che non aiuta la paziente a ricomporre i frammenti e a reintrecciare i fili spezzati tra mente e corpo. Accompagnarla (le) sarà arduo e rischioso, ma se siamo disposti a mobilitare una "partecipazione attiva"(8)(che non è solo una questione di parole ma anche e soprattutto di affetti), se decidiamo di osare di più, allora, forse potremo non solo comprendere e condividere ma anche curare e riscrivere, a più mani, un’inedita(e) storia(e) di vita. Di certo molte altre cose potevano essere dette ma noi abbiamo privilegiato, forse, le questioni più incerte e problematiche evitando di fornire categorie interpretative, riferimenti teorici e strategie d’intervento consolidate o innovative.Probabilmente ci ha guidato il suggestivo titolo del Convegno; l’idea stessa di arcipelago trattiene in sé una maggiore confusione, ma è proprio tale confusione che non volevamo rimuovere o rinnegare. Pur riconoscendo che esistono tratti comuni, strategie comportamentali assimilabili, ciascuna delle pazienti che abbiamo conosciuto ha presentato un percorso così irrepetibilmente individuale da minare la tentazione di edificare categorie certe ed incrollabili. Sapevamo di raccogliere, parlando di una di loro(di T), l’eredità che aveva messo nelle nostre mani,quel groviglio di sentimenti attraversato e segnato da ambivalenza e negazione. Del resto è innegabile che queste giovani pazienti riverberano oltre i confini della clinica e rimandano a quella triste condizione di vita in cui non risuonano più affetti ed emozioni. Al loro ritirarsi rispetto alle parole e ai sentimenti, abbiamo risposto narrando di noi e di loro quasi a testimoniare il grande spazio affettivo e mentale che hanno occupato.
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