Strategie terapeutiche nelle epilessie farmacoresistenti
(Avanzino- Pizzorno)
La SIN 2005 è stata aperta oggi ( sabato 8 ottobre) nella splendida cornice di Villa Erba ( Cernobbio) con il corso di aggiornamento sulle strategie terapeutiche nelle epilessie farmacoresistenti moderato dal prof. Manfredi (Roma) e dal prof. Perucca (Pavia).
La prima relazione è stata tenuta dal prof. De Curtis che ha introdotto l'argomento trattando dei meccanismi di farmacoresistenti. Circa il 30% dei pazienti con epilessia non sono curabili con i farmaci attualmente disponibili. La resistenza alla terapia farmacologica è comunemente riscontrata in specifiche sindromi epilettiche idiopatiche e sintomatiche. Si ritiene che i meccanismi biologici che sottendono la resistenza ai farmaci siano molteplici e complessi. In linea di principio, diverse condizioni possono modificare e ridurre l'efficacia di un farmaco:
– 1 modifiche dell'assorbimento/eliminazione
– 2 alterazioni a livello del sito di azione
– 3 alterazioni strutturali e funzionali del parenchima cerebrale che interferiscono con l'effetto.
I possibili meccanismi che determinano farmacoresistenza sono stati studiati negli ultimi decenni sia in modelli sperimentali animali di epilessia, sia in campioni di tessuto cerebrale umano ottenuto da pazienti affetti da epilessie refrattarie al trattamento farmacologico.
In questi modelli è stato dimostrato un aumento d'espressione delle proteine che regolano l'estrusione dei farmaci dalla regione epilettogena. È stato inoltre dimostrato che l'espressione e la funzione di alcune proteine di membrana che mediano l'effetto dei farmaci antiepilettici (canali ionici e recettori) sono alterate nel tessuto epilettico. Il secondo intervento, di notevole interesse clinico, è stato tenuto dal prof . Perucca (Pavia) ed ha riguardato le strategie farmacologiche nel trattamento dell'epilessia refrattaria.
Sino poco tempo fa, il trattamento farmacologico delle epilessie refrattarie era basato sull'utilizzo di un numero molto ristretto di medicamenti, il cui impiego era facilitato da decenni di esperienza clinica. Questa situazione si è modificata radicalmente con l'introduzione negli ultimi anni di numerosi nuovi farmaci, che hanno virtualmente triplicato l'armamentario terapeutico disponibile. Se da una parte questo comporta per il paziente un miglioramento, peraltro modesto, delle prospettive di ottenere il controllo completo delle crisi, dall'altra l'approccio terapeutico a questa patologia è divenuto molto più complesso e richiede conoscenze aggiornate sulle indicazioni, controindicazioni, requisiti posologici, effetti collaterali e potenziali interazioni farmacologiche di almeno 15 medicamenti diversi. Nella relazione sono stati considerati diversi aspetti, importanti per una gestione corretta di un paziente con epilessia refrattarie, ed in particolare la necessità di un corretto inquadramento diagnostico e pertanto di una prescrizione di trattamenti appropriati., la necessità di una rivalutazione delle terapie praticate (con particolare riferimento non solo al possibile impiego di farmaci inappropriati, ma anche alla possibilità che i diversi medicamenti non siano stati prescritti a posologie sufficienti o con modalità di somministrazione adeguate), ed infine la valutazione critica delle diverse strategie attuabili per modificare in modo ottimale, ove appropriato, il regime terapeutico. Aspetti particolarmente importanti in questo contesto sono l'esigenza di ridurre il carico di effetti collaterali derivante da utilizzo di un numero eccessivo di farmaci, la minimizzazione delle interazioni farmacologiche avverse, ed il ricorso all'impiego preferenziale di combinazioni di farmaci contraddistinti da interazioni farmacodinamiche di tipo favorevole. Gli ultimi due interventi sono stati focalizzati sul trattamento chirurgico di differenti tipi di epilessia farmacoresistente: le epilessie temporali e quelle extratemporali.
Il prof. Quarato ( Pozzilli) ha esposto in maniera molto chiara i risultati riguardanti la sua casistica di pazienti affetti da epilessia del lobo temporale dovuta sia a sclerosi ippocampale che a lesioni a carico del lobo temporale. In particolare ha sottolineato l'importanza di una corretta selezione dei pazienti candidabili all'approccio chirurgico ottenuta grazie all'utilizzo di neuroimmagini (TC e RMN) e dati neurofisiologici ( Video EEGG). Gli eccellenti risultati raggiunti nei loro pazienti sottoposti all'intervento (più del 91% dei pazienti in Classe 1 di Engel e ben l'85% completamente liberi da crisi) confermano come tale protocollo diagnostico sia accurato e affidabile ed inoltre possieda un ottimale rapporto costo/beneficio per il singolo paziente ed il sistema sanitario.
Inoltre i dati neuropsicologici e psichiatrici raccolti nei pazienti sottoposti ad intervento mostrano un chiaro miglioramento di alcune funzioni cognitive tra condizione pre- e post-chirurgica, spesso in rapporto all'emisfero sede della rimozione, nonché di ancor più netti benefici nelle scale di valutazione della qualità della vita. Questi dati, come è intuibile, appaiono ben più solidi in tutti i casi in cui si è assistito alla risoluzione delle crisi. Unica precisazione da fare al riguardo è la necessità di attendere un congruo periodo di follow-up (almeno 12 mesi) prima di poter confidare in condizioni stabilizzate. La bassa incidenza di complicanze permanenti può anche incoraggiare considerazioni e studi prospettici circa l'eventuale revisione dell'attuale concetto di farmaco-resistenza delle epilessie temporali, fino a rendere tale possibilità terapeutica come addirittura affiancabile alla terapia medica.
L'ultimo intervento, tenuto dalla dott.ssa Tassi (Milano) ha riguardato l'approccio chirurgico nelle epilessie extratemporali. La casistica del centro "Claudio Munari" di Milano negli ultimi dieci anni ha raccolto 600 pazienti di cui 300 affetti da epilessia monolobare ( lobo temporale), 124 multilobare ( sempre con coinvolgimento temporale) e 170 affetti da epilessia extratemporale. Tra questi la forma più frequente è l'epilessia frontale ( circa i due terzi dei casi totali). Nei pazienti affetti da epilessia extratemporale in una buona percentuale dei casi il protocollo prechirurgico non si avvale unicamente di tecniche non invasive ( neuroimmagini e videoEEG), ma anche di metodiche invasive come l'impianto di elettrodi intracerebrali.
Report Il processo di epilettogenesi: dai meccanismi molecolari alle implicazioni cliniche.
( Crabbio) Il Simposio è stato preceduto da un prologo tenuto dal prof. F. Benfenati in cui si è sottolineata la necessità della collaborazione tra la SIN e la Società di Neuroscienze alla luce dei recenti accordi intercorsi tra le due società mediche.
I lavori congressuali si sono quindi aperti con una variazione sul programma per l'impossibilità a partecipare al congresso dellaprof.ssa A. Mezzani. Il primo intervento è pertanto stato tenuto dal prof. F Benfenati che ha riferito le recenti osservazioni sul ruolo svolto dalle vescicole sinaptiche nel processo di epilettogenesi. Fino ad ora l'attenzione sui processi di epilettogenesi si è rivolta prevalentemente all'azione svolta dai canali ionici, tuttavia è possibile osservare che in alcune forme di eventi critici si verifica un'alterazione nel processo di fusione delle vescicole sinaptiche con la membrana pre-sinaptica. In tale meccanismo sembrano giocare un ruolo determinante la SINAPSINA I e la proteina SV2. Sono stati condotti esperimenti su ratti resi incapaci di esprimere il gene per la SINAPSINA I osservando una netta riduzione del numero di vescicole adese alla membrana pre-sinaptica e quindi una minor riserva di neurotrasmettitore rilasciato al momento della depolarizzazione. Il meccanismo sembrerebbe interessare sia i neuroni eccitatori che inibitori, ma l'azione sembra più marcata nei secondi, creando così uno squilibrio tra eccitazione ed inibizione a favore di questa seconda. Da ciò ne deriva una maggior eccitabilità neuronale che potrebbe spiegare l'evento epilettico. Il meccanismo fisiopatologico sopradescritto sembra essere presente anche nell'uomo come dimostra la scoperta di una famiglia con diatesi epilettica nella quale si è dimostrata una mutazione per il gene della sinapsina. Dalla discussione che ha seguito la relazione è emerso che la localizzazione principale di queste forme di epilessia interessa l'area temporale.
Nella seconda relazione, tenuta dal dr. M. Simonato, si è discussa l'importanza svolta dall'accumulo dendritico di BDNF nel processo di epilettogenesi. Sono stati riferiti dati, sulla base di modelli sperimentali murini, in cui si evidenziava la capacità da parte del neurone di accumulare BDNF solo in alcuni dendriti selezionati, attivando così delle vie preferenziali di comunicazione con altri neuroni. Questo meccanismo è stato dimostrato essere alla base di alcune forme di epilessia temporale sperimentali del ratto. Durante la discussione che ha seguito l'intervento è stato domandato se ci siano mai state evidenze autoptiche su encefalo umano di pazienti epilettici dell'accumulo di BDNF in dendriti di neuroni ippocampali. Tali evidenze non sono mai state trovate ed è stato ipotizzato dal relatore che non si possano avere dati in questo senso in quanto il processo epilettogenico in cui agisce il BDNF giocherebbe un ruolo cruciale nell'induzione dell'evento critico, ma non nel suo mantenimento a lungo termine.
La terza relazione dal titolo "epilessia del lobo temporale e regione paraippocampale" è stata tenuta dal prof. M. De Curtis. In questo intervento è stata messa in rilievo la discrepanza tra i dati anatomici che mettono in evidenza una comunicazione sinaptica tra la corteccia entorinale e peririnale e l'indipendenza di attivazione di queste aree durante l'evento epilettico. E' infatti possibile che l'onda eccitatoria epilettica possa partire dalla corteccia entorinale senza estendersi alla corteccia peririnale. Per dimostrare il meccanismo di attivazione di questi circuiti neuronali si è proceduto nelle cavie all'isolamento dell' encefalo, che è stato mantenuto in vita per alcune ore tramite infusione di sostanze nutrienti dalla arteria basilare. Sul preparato si è potuto così stimolare direttamente le cortecce ippocampale e paraippocampale. Si è così dimostrata l'esistenza di un circuito inibitorio a livello della regione ippocampale che bloccherebbe i neuroni prima che questi vengano stimolati dalla regione paraippocampale. Le conclusioni del lavoro sono che la corteccia entorinale svolge un ruolo fondamentale nella genesi dell'epilessia temporale, che il ruolo svolto dai neuroni di questa regione può indurre modifiche nel circuito ippocampale determinando una "plasticità sinaptica patologica", sembra infine essere dimostrata una transitoria disfunzione delle vie GABAergiche durante la crisi.
L'ultimo intervento è stato tenuto dal Prof R.Mutani che ha parlato delle implicazioni cliniche del processo di epilettogenesi con particolare riferimento all'epilessia che segue i traumi cranici e l'ictus cerebri. Si è posta l'attenzione sulla necessità di cominciare fin dalle prime ore dell'evento patologico una copertura antiepilettica, che tuttavia sembra svolgere un ruolo importante nella prevenzione delle crisi nelle prime giornate dopo l'evento patologico, ma non nel lungo termine. Si è evidenziata la necessità di testare nuovi farmaci che abbiano maggiori possibilità di prevenire il Kinding. Inoltre si è parlato della possibilità di utilizzare altri farmaci (antiossidanti, cortisonici) in associazione ad antiepilettici per prevenire le crisi.
Report Assistenza infermieristica in Neurologia: metodologia scientifica e strumenti operativi
(Guida)
Apre i lavori il Dott.Zito, docente dell'Associazione ANIN, con una relazione sul monitoraggio del paziente con ictus. Vengono ricordati innanzitutto gli aspetti epidemiologici in merito all'incidenza e ai fattori predisponenti dell'ictus; quindi il discorso si focalizza sugli aspetti più pratico-clinici della gestione del malato nella stroke unit.
Le peculiarità del centro ictus, secondo l'esperienza del centro di Genova, riguardano il numero di letti inferiore rispetto ad un reparto normale, la presenza di telecamere a circuito chiuso per controllare e proteggere il paziente, la presenza di monitor cardio/pressori su ogni testata del letto, un reparto neuroradiologico al piano, un laboratorio ematochimico, la possibilità di consulenze rapide e di eseguire esami strumentali come eco-doppler dei tronchi sovra-aortici o EEG ed infine la necessità di mantenere un reparto 'a porte chiuse', cioè limitando le visite dei familiari.
Il rapporto tra infermieri e pazienti è altrettanto peculiare. Abbiamo un rapporto numerico di un infermiere ogni quattro pazienti e il personale dovrebbe essere specializzato nella cura del paziente neurologico. Questa specializzazione al momento è garantita da corsi teorico-pratici organizzati dai vari dipartimenti. Inoltre si è rivelato molto utile organizzare un incontro settimanale multidisciplinare che raccolga le varie figure professionali del reparto.
Un altro aspetto è fondamentale è delineare le competenze del personale non medico nel ricovero d'urgenza. L'infermiere deve valutare alcuni parametri di base come il lato plegico, il grado di comprensione, lo sguardo, i segni di sofferenza cerebrale, lo stato di idratazione e nutrimento, la glicemia, la temperatura.
Superata la fase di urgenza l'infermiere si occupa dell'igiene, della prevenzione delle lesioni da decubito, dell'alimentazione del paziente e del controllo di alvo e diuresi. La cartella infermieristica, che sostituisce il quaderno delle consegne fornisce un quadro generale del paziente e della sua cronistoria patologica; essa va compilata con la massima precisione ed ha valore legale. Il relatore auspica che venga utilizzata anche da fisioterapisti, logopedisti e altri operatori non medici.
In conclusione vengono analizzati i paramentri da monitorare durante la degenza del paziente. L' infermiere deve fare un ECG continuo nelle prime 48 ore, valutando anche la frequenza e il ritmo del battito, deve saper differenziare valori pressori indici di ischemia (>220/120) o di emorragia (>140/90) e gli altri paramentri cardiovascolari allarmanti che richiedono l'intervento del medico. Anche le alterazioni della glicemia, in aumento o in riduzione, possono mettere in pericolo la vita del paziente; mentre per quanto riguarda la temperatura, il 50% dei pazienti con ictus presentano ipertermia entro le prime 48 ore. L'ossigenazione dev'essere approntata quando la saturazione scende sotto il 92%, mentre l'intubazione endotracheale è richiesta quando abbiamo valori di p02 < 50-60 mmHg. Viene invitato al tavolo dei relatori il Prof.Mancardi, da quattro anni alla direzione della SIN, che sottolinea l'importanza della presenza di questi corsi di aggiornamento infermieristici all'interno di convegni medici. Si tratta di una tendenza fortemente voluta dai vertici della SIN e su cui la nuova direzione dell'Associazione dovrà lavorare molto. A tale proposito viene sottolineata la collaborazione con l'ANIN che da tempo organizza corsi di formazione specialistica in neurologia per infermieri professionali.
Prende quindi la parola la Dott.ssa Arancio, infermiere professionale del centro Ictus di Genova, presentando uno studio svolto nel 2004 sulla estrapolazione dei dati dalla scheda assistenziale di riepilogo. In questa scheda vengono inseriti i dati anagrafici del paziente, la data dell'ingresso e dell'ultima TC effettuata, il tipo di alimentazione, il decubito a letto, la minzione, le date di posizionamento/sostituzione/rimozione di cateteri o SNG, l'effettuazione di clisteri evacuativi e ECG. Da questo studio è emersa anche una correlazione tra tipo di nutrizione utilizzata in base alle condizioni generali del paziente e sopravvivenza.
Segue l'intervento della Dott.ssa Banelli, infermiere coordinatore del reparto di Neurologia di Arezzo e delegata ANIN della Regione Toscana, sulle complicanze nell'emorragia cerebrale. Dopo aver riepilogato i fattori di rischio, l'iter diagnostico e il monitoraggio del paziente con emorragia intraparenchimale, vengono focalizzate le principali complicanze: trombosi venosa profonda, ipertensione endocranica, ulcere da pressione, disfagia, iperglicemia, disfunzioni vescicali. Vengono esposti alcuni studi svolti dal personale infermieristico del reparto di Neurologia di Arezzo: una valutazione comparativa del rapporto costo-beneficio tra vari tipi di materassi anti-decubito ed una casistica compilata tra il 1996 e il 2004 che raccoglie dati clinici di 760 pazienti con emorragia. Questi dati comprendono: età (a maggior rischio la fascia tra 70 e 90), il sesso (prevalentemente maschile), lo stato di coscienza, il grado di mobilizzazione, l'utilizzo di materassi anti-decubito, di cateteri e di SNG, l'insorgenza di polmoniti, flebiti, TEP e lesioni da decubito.
Infine viene riepilogato il protocollo terapeutico secondo le linee guida Spread: trovare un accesso venoso periferico, controllare frequentemente stato neurologico e parametri vitali, occuparsi del posizionamento e della mobilizzazione del paziente, dell'igiene di cute e mucose, prevenire lesioni da decubito e trombosi venosa profonda, aspirare le secrezioni, controllare diuresi e deglutizione e effettuare la terapia medica. La Dott.ssa Paradisi affronta poi il tema degli strumenti infermieristici di documentazione nella trombolisi intra-venosa. Dopo l'introduzione dell'RTPA il carico di lavoro svolto dagli infermieri è aumentato notevolmente; questo ha reso necessario la formulazione di una check list in cui l'infermiere segna le procedure diagnostiche effettuate.
A questo punto interviene la Dott.ssa Rossi, che lavora nell'UO di Neurologia del S.Martino di Genova, a proposito della relazione comunicativa nella SLA.
In questi pazienti il problema principale non è tanto il dolore fisico, quanto il dolore mentale; infatti in caso di SLA le funzioni intellettive rimangono integre e il paziente è consapevole della fine che si avvicina, inoltre è fortemente limitato dalla progressiva perdita di autonomia. Questi due aspetti concomitanti complicano notevolmente la comunicazione con gli operatori e con i familiari, influenzata anche dalla tendenza del paziente a isolarsi e a reprimere il proprio disagio emotivo. L'operatore sanitario diventa spesso nebuloso e criptico quando deve dare notizia di un peggioramento della malattia, oppure diventa troppo disponibile per il paziente ottenendo un risultato contrario alle aspettative in quanto così facendo riduce ulteriormente la sensazione di autosufficienza e di responsabilità del malato.
L'operatore dovrebbe quindi saper ascoltare il paziente e stabilire con lui una relazione tale da potenziare le risorse interiori e la spinta vitale che seppur ridotte ancora possiede. L'infermiere ha il compito di relazionarsi con questo tipo di paziente con un atteggiamento il più possibile empatico in modo da arginare le sue angosce di morte ed incoraggiarlo a sfruttare le sue capacità residue. Il malato dev'essere aiutato ad accettare l'aiuto degli altri, ad accettare la sua sofferenza e a esprimere le proprie emozioni. Per fare ciò vengono utilizzate tecniche cognitivo-comportamentali rivolte sia ai pazienti che ai loro familiari.
Il Simposio si conclude con un acceso dibattito sull'inserimento del personale di supporto nell'UO Neurologica.
La presenza degli OSS (ex OTA) nei reparti di Neurologia è diventata ormai molto diffusa ed è quindi comprensibile l'iniziale difficoltà nell'inserimento di questa nuova figura soprattutto per quanto riguarda la definizione dei compiti. Da una parte il personale infermieristico riconosce l'utilità di avere degli operatori di supporto per lo svolgimento delle mansioni alberghiere, d'altro canto viene sollevato da più partecipanti il problema dello sconfinamento di competenze da parte degli OSS in ambiti che richiedono una preparazione specifica da loro non posseduta. Alcuni partecipanti lamentano anche l'inserimento di OSS per integrare carenze di organico nel personale infermieristico, provvedimento imposto alle UO dalle Aziende Ospedaliere particolarmente attente al budget. Per far fronte a queste problematiche si propone la formulazione di un protocollo scritto che definisca le diverse competenze di infermieri e OSS per ogni singola UO.
Simposio : IMPORTANZA DI UNA DIAGNOSI PRECOCE NELLA MALATTIA DI PARKINSON
(M. Ossola)
In questo simposio è stata posta l'attenzione ad alcuni degli aspetti più attuali e discussi della malattia di Parkinson come disordine neurodegenerativo: la possibilità di una diagnosi precoce e le strategie neuroprotettive.
Il prof. P. Barone (Napoli), ha discusso della valenza di una diagnosi precoce della Malattia di Parkinson (MP). Attualmente tra l'esordio dei sintomi motori parkinsoniani e il loro inquadramento diagnostico come Malattia di Parkinson trascorre in media un anno. La possibilità di identificare fattori di rischio e segni/sintomi in qualche modo"predittivi", permetterebbe di individuare una popolazione "a rischio" all'interno della quale avviare delle procedure di screening per la diagnosi pre-clinica di malattia e alla quale applicare eventuali strategie neuroprotettive per prevenirne lo sviluppo. In questo modo si tratterebbe non solo ridurre il ritardo diagnostico, ma addirittura di anticipare la diagnosi a prima che i sintomi motori esordiscano, con la possibilità dunque di prevenirli.
Quali dunque i fattori di rischio da prendere in considerazione? Sono stati ipotizzati e studiati i fattori ambientali, quali l'esposizione a tossici, il bere acqua di pozzo, il non fumare e il non bere caffè (questi ultimi due fattori molto discussi anche fra gli ascoltatori�.); i fattori genetici (familiarità di I grado); la preesistenza di una personalità "premorbosa".
Alcuni segni o sintomi non motori possono precedere di anni la comparsa dei sintomi parkinsoniani (strettamente motori), e la loro precoce individuazione potrebbe consentire di identificare soggetti a rischio di sviluppare la malattia di Parkinson. L'ipotensione ortostatica è un sintomo che compare precocemente e, dopo la diagnosi, può essere esacerbato dal trattamento farmacologico. Anche la stitichezza è stata individuata come un altro dei sintomi che può precedere quelli motori; il rischio ad essa associato di sviluppo di MP sembra aumentare quando il disturbo non è responsivo ad alcun trattamento. Fra i disturbi del sonno, i REM Sleep Behavior Disorders (RBD) sono attualmente i più discussi: i pazienti parkinsoniani non presentano l'atonia muscolare caratteristica della fase REM del sonno. Gli RBD sono caratterizzati da movimenti violenti del corpo e degli arti durante il sonno associati al ricordo del sogno da parte del soggetto. La classificazione diagnostica è complessa, a causa della difficoltà a raccogliere dettagliate informazioni anamnestiche che lo distinguano da altri disturbi del sonno (es. se il paziente dorme solo), e nella normale raccolta dell'anamnesi fisiologica sono raramente inclusi quesiti specifici che permettano la loro individuazione. Gli RBD sono presenti in molti pazienti fin da prima della diagnosi, e potrebbero costituire un marcatore precoce dello sviluppo di un parkinsonismo (sono elementi comuni a tutte le alfa-sinucleinopatie). Alterazioni delle funzioni olfattive (alterata discriminazione degli odori e aumento della soglia olfattiva) sono state dimostrate in pazienti parkinsoniani allo stadio iniziale di malattia ed in parenti asintomatici di pazienti con forme sporadiche o familiari di malattia di Parkinson. Ciò suggerisce che uno dei segni precoci della malattia di Parkinson può essere la disfunzione olfattiva. Test per la misura dell'olfatto potrebbero essere utilizzati come indicatori precoci di MP. E' interessante notare che frequentemente gli RBD si associano a disfunzione olfattiva. La depressione, infine, è spesso sintomo d'esordio o antecedente l'esordio della malattia, e molti pazienti prima della diagnosi sono stati trattati con antidepressivi. La depressione sembrerebbe essere un fattore di rischio a tutti gli effetti.
Incrociando i fattori di rischio con i sintomi precoci non motori si potrebbe così identificare una popolazione a rischio di sviluppare Malattia di Parkinson alla quale applicare procedure di screening per la diagnosi pre-clinica (come le tecniche di neuroimaging funzionale). E' a questo livello che si dovrebbe poi intervenire per prevenire il manifestarsi della patologia, mediante un trattamento neuroprotettivo. Le osservazioni cliniche sui sintomi non motori precoci e/o i fattori di rischio stanno fornendo dati utili e promettenti che daranno presto buoni frutti.
L'utilità delle tecniche di imaging PET e SPECT nella diagnosi precoce di MP è stato discusso dal prof. A.Varrone (Napoli). La disfunzione dopaminergica tipica della malattia di Parkinson può essere valutata in vivo utilizzando traccianti che rilevano alterazioni dopaminergiche presinaptiche. Caratteristiche sono l'asimmetria di riduzione della captazione del tracciante e il coinvolgimento del putamen in modo prevalente rispetto agli altri nuclei. E' dimostrato che in particolare la SPECT del DAT (il recettore per la dopamina) ha un'elevata sensibilità nell'identificare, in vivo, la presenza di disfunzione nigrostriatale e dunque potrebbe essere utilizzata nelle fasi iniziali e nel monitoraggio della progressione della malattia. Nell'ambito della diagnosi precoce della MP, la SPECT è certo un'indagine indaginosa e costosa, tuttavia l'imaging della funzionalità dopaminergica presinaptica costituisce un potenziale strumento per valutare l'insorgenza di degenerazione dei neuroni dopaminergici prima della comparsa dei sintomi motori. Abbiamo visto nella relazione precedente che le disfunzioni olfattive (ipoosmia) possono essere associate ad aumentato rischio di sviluppare MP. Un recente studio ha dimostrato che in parenti asintomatici di pazienti con malattia di Parkinson circa il 10% dei soggetti iposmici presentava una riduzione della densità del DAT misurata e sviluppava malattia di Parkinson nell'arco di due anni. In soggetti iposmici la SPECT del DAT potrebbe costituire un marker precoce della degenerazione dei terminali dopaminergici, indirizzando la diagnosi.
In un soggetto con deficit olfattivo progressivo, familiarità positiva e che inoltre soffre di stitichezza, la probabilità eseguendo una SPECT che questa sia positiva per MP è dunque piuttosto alta, anche se attualmente non ancora quantificabile. Probabilmente non è un unico sintomo "pre-clinico" quello che dovrebbe essere considerato come campanello di allarme, ma un insieme di più sintomi, anche se fossero tutti non motori.
Il prof. U. Bonuccelli (Pisa) ha discusso dell'importanza di iniziare precocemente il trattamento farmacologico dopaminergico. La tempistica e la scelta dei farmaci è materia controversa. I modelli animali attualmente a disposizione per studiare l'effetto a breve e lungo termine dei dopaminergici sono limitati dal fatto che la malattia riproducibile nell'animale non segue un andamento progressivo. La sfida odierna è quella di trovare un trattamento che non sia solo sintomatico ma, agendo su specifici meccanismi patogenetici, permetta una completa "guarigione", oppure un rallentamento della progressione o addirittura una prevenzione del danno alle cellule dopaminergiche (neuroprotettore). L'uso precoce dei dopaminoagonisti potrebbe determinare un effetto sulla progressione della malattia, controllandone contemporaneamente i sintomi. L'attività nuroprotettiva degli agonisti dopaminergici è attualmente principalmente correlata al loro effetto antiossidante e alla capacità di modificare il metabolismo della dopamina. I dati sperimentali fino ad oggi ottenuti, pur abbondanti, non danno la certezza dell'effetto neuroprotettivo in vivo, ed è controversa la decisione di alcuni di "risparmiare"il più possibile levodopa in favore del dopamino agonista motivandola con l'intento di sfruttare le proprietà "protettive" di questi ultimi e di ritardare gli effetti collaterali della terapia a lungo termine con levodopa. La scelta della terapia è comunque inscindibile, ad oggi, dalle necessità del singolo paziente, motorie e non motorie (lavorative, economiche, familiari), e dovrebbe dunque essere adattata individualmente, concordandola con il paziente stesso, che è certamente il più diretto consapevole dei sintomi e dell'"effetto" che desidera ottenere dalla terapia.
Il trattamento farmacologico da impostare nella fase iniziale di MP è stato discusso dal prof. A. Antonini (Milano). Indipendentemente dal tipo di farmaco utilizzato, il trattamento precoce dei sintomi motori e non motori è ad oggi indispensabile per evitare che accanto ad una malattia non trattata si sviluppino complicanze anche di natura non-neurologica (es. ortopediche: flessione del tronco, anchilosi ecc..; disturbi vegetativi; stipsi ecc�) che possono notevolmente ridurre l'autonomia del paziente. L'obiettivo della terapia nella MP è quello di controllare i sintomi motori a lungo termine tenendo conto dei disturbi psichici correlati e della safety a lungo termine. Iniziare il trattamento con un agonista dopaminergico presenta alcuni vantaggi: riduce il rischio di complicanze motorie (fluttuazioni e discinesie), produce benefici simili a quelli della levodopa, ha un'accettabile tollerabilità; inoltre, quando l'aggiunta di levodopa si renda necessaria, essi ne permettono una riduzione dei dosaggi. A volte certo l'efficacia dei dopamino agonisti non è paragonabile a quella di levodopa, e comunque i vantaggi relati al loro utilizo non implicano certo un "divieto" all'impiego di levodopa, della quale molti studi confermano l'efficacia; certamente continuerà ad essere utilizzata.
L'impiego degli agonisti dopaminergici nella terapia di fase iniziale potrebbe però riservare altri vantaggi, oltre a quelli già analizzati. Sappiamo oggi che l'intervallo tra l'inizio della degenerazione a livello nigrico e l'esordio dei sintomi motori vi è un lungo intervallo, dovuto probabilmente all'instaurarsi di meccanismi di compenso che sfruttano le cellule nigriche non ancora degenerate. Iniziare precocemente il trattamento con farmaci dopamino agonisti (più o meno associati a levodopa) significa dunque anche sfruttare le potenzialità neuroprotettive di questa categoria di farmaci. Essi potrebbero infatti potenziare i naturali meccanismi di compenso, e contribuire a recuperare l'integrità funzionale dei neuroni ancora "salvi", interrompendo l'inevitabile progressione della malattia.
Simposio: PROCESSI DI PLASTICITA' NEURONALE IN RIABILITAZIONE
(A. Repetto)
Il simposio si è aperto con l'intervento del prof. P. Manganotti (università di Verona) che ha sviluppato il discorso sui processi di plasticità neuronale nella riabilitazione del paziente con lesione cerebrovascolare. Ha ricordato che i fattori predittivi clinici nel paziente ictato, come la gravità del deficit motorio, la responsività diversa degli arti superiori e degli inferiori, ed altri ancora sono estremamamente importanti ai fini del recupero funzionale; quindi l'aspetto clinico occupa un posto di rilievo, accanto all'inquadramento dell'area lesionata, della sua estensione e della sua gravità.
Sono stati, inoltre, citati i meccanismi base della plasticità, tra cui il modello della penombra ischemica, la ridondanza dei sistemi, la sincronizzazione, la neoangiogenesi e lo sprouting.
Il professore si è poi soffermato sulle tecniche diagnostiche più attuali che permettono un buono studio della plasticità neuronale. Questi sono la PET, la stimolazione magnetica corticale e la risonanza magnetica funzionale(fMRI).
In particolare la stimolazione magnetica corticale permette il mappaggio delle aree motorie, lo studio delle vie ipsilaterali ed è quindi un indicatore predittivo dell'outcome funzionale.
La MRI funzionale è un esame non invasivo che permette lo studio del pattern motorio, pur lasciando spazio a bias, come per esempio nel caso di pazienti con sincinesie. Ulteriori applicazioni sono le coregistrazioni dei pazienti con più tecniche, come l'associazione di EMG e fMRI per un inquadramento più completo del pattern motorio.
Il prof. M. Molinari (Università di Roma) ha, in seguito, presentato le basi biologiche dell'intervento riabilitativo, partendo da un excursus storico. Ha ricordato la "colorazione nera" di Golgi e la rete neuronale scoperta casualmente da Cajal nel 1928, il quale, per altro, credeva che il sistema nervoso non fosse in grado di modificarsi. Negli anni 70, poi, sono stati introdotti nuovi termini come ridondanza, plasticità sinaptica e sono, quindi, state date etichette a fenomeni specifici che avvengono all'interno delle cellule nervose. L'omunculus motorio è stato rivalutato, da statico a dinamico e studi sperimentali, condotti su animali, hanno mostrato che l'ambiente, se arricchito, agisce da stimolante facendo creare nuove connessioni nervose.
E' interessante ricordare come l'attività motoria influenza l'organizzazione delle cellule cerebrali, sia in condizioni fisiologiche che patologiche, ad esempio a seconda di come si muove un arto si attiva una zona cerebrale piuttosto che un'altra, e questo è quindi importante per l'intervento riabilitativo.
La plasticità neuronale è di competenza sia della corteccia cerebrale che del midollo spinale e bisogna considerare il tempo che intercorre dalla lesione il quale influenza l'entità della riorganizzazione funzionale. L'ultimo intervento è stato quello del prof. G. Abbruzzese (Università di Genova) che ha trattato i presupposti neurofisiologici di efficacia dell'intervento riabilitativo, sottolineando da subito, come la riorganizzazione delle aree cerebrali stia alla base del recupero post-lesionale.
Di nuovo sono state richiamate all'attenzione le indagini strumentali più recenti come la fMRI e la PET che, tramite radioisotopi, rivela il flusso cerebrale regionale, quale indicatore dell'attività sinaptica. L'obiettivo di questi approcci è analizzare la risposta "adattativi" dei circuiti nervosi ad una lesione acuta focale o un processo patologico e studiare la correlazione con il recupero funzionale.
Nel recupero motorio dopo stroke esiste una relativa iperattivazione di aree secondarie non colpite o addirittura controlaterali. Il significato di questo non è ancora del tutto chiarito; in un gruppo di pazienti studiati si è visto come l'attivazione dell'emisfero controlaterale sia positiva, ma è ancora aperta la discussione riguardo alla utilità delle proiezioni ipsilaterali nel recupero motorio.
Infine si è discusso del Motor Imagery che consiste in uno stato cognitivo caratterizzato dalla capacità di simulare mentalmente un'attività motoria senza eseguirla realmente. In tal modo si attivano dei circuiti nervosi simili a quelli attivati durante un movimento reale. Il Motor Imagery può essere utilizzato nella riabilitazione dell'ictus e migliorare le funzioni motorie, ma ugualmente, può essere compromesso in lesioni focali cerebrali.
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