Le buone idee sono denaro sonante. Quindi, perché ci sono operatori intelligenti che le danno via gratuitamente? Partecipa al nostro esperimento per scoprirlo, afferma Graham Lawton.
SE SEI STATO ad una esposizione di computer negli ultimi mesi puoi averla vista: una lattina per bibite di argento luccicante con la linguetta con il marchio e le parole "opencola" su un lato. All’interno c’è una bibita frizzante dal gusto molto simile alla Coca-Cola. O è Pepsi?
Tuttavia, c’è qualcosa d’altro scritto sulla lattina, che mette da parte la bibita. Afferma "controlla l’origine presso opencola.com". Vai all’indirizzo Web e vedrai qualcosa che non è disponibile sul sito della Coca-Cola o su quello della Pepsi — la ricetta della cola. Per la prima volta, puoi farla veramente proprio a casa tua.
OpenCola è il primo prodotto mondiale di consumo "opensource". Chiamandola open source, il suo creatore sta affermando che le istruzioni per produrla sono disponibili gratuitamente. Chiunque può preparare la bibita e chiunque può modificare e migliorare la ricetta, purché lasci anche la sua ricetta di dominio pubblico. Come modo di fare affari è piuttosto insolito — la Coca-Cola Company non ha l’abitudine di diffondere segreti commerciali preziosi. Ma questo è il punto.
Pertanto, OpenCola è il segno più evidente che una lunga battaglia tra filosofie rivali nello sviluppo del software si è aperta nel resto del mondo. Ciò che è iniziato come dibattito tecnico sul modo migliore per mettere a punto i programmi del computer, si sta trasformando in una battaglia politica sul possesso della conoscenza e su come viene utilizzata tra coloro che credono nella libera circolazione delle idee e coloro che preferiscono definirla "proprietà intellettuale". Nessuno sa quale sarà il risultato. Ma, in un mondo di opposizione crescente al potere corporativo, i diritti restrittivi di proprietà intellettuale e la globalizzazione, l’open source sta emergendo come un’alternativa possibile, un mezzo potenzialmente potente di lotta. E tu stai contribuendo a valutare il suo valore proprio ora.
Il movimento dell’open source nacque nel 1984, quando l’esperto di computer Richard Stallman lasciò il suo lavoro presso il MIT e fondò la Free Software Foundation. Il suo scopo era di creare un software di alta qualità che fosse disponibile gratuitamente a tutti. La protesta di Stallman era contro le compagnie commerciali che ricoprono i loro software con brevetti e copyrights e tengono il codice sorgente — il programma originale, scritto in un linguaggio di computer come C++ – come un segreto strettamente custodito. Stallman considerò questo un danno. Esso generava software di bassa qualità, a rischio di virus. E peggio, soffocava il libero flusso delle idee. Stallman si inquietò perché se gli esperti di computer non potevano più apprendere dal codice altrui, l’arte del programmare si sarebbe fermata (New Scientist, 12 Dicembre 1998, p. 42).
Il movimento di Stallman risuonò intorno alla comunità scientifica informatica e ora esistono migliaia di progetti simili. La stella del movimento è Linux, un sistema operativo creato dallo studente svedese Linus Torvalds nei primi anni ’90 e installato su 18 milioni di computers nel mondo.
Ciò che rende il software open source lontano dal software commerciale è il fatto che è gratuito, sia in senso politico, sia economico. Se tu vuoi utilizzare un prodotto commerciale come Windows XP o Mac OS X devi pagare una tassa ed essere d’accordo nel sostenere una licenza che ti impedisce di modificare o condividere il software. Ma se vuoi installare Linux o un altro pacchetto open source, lo puoi fare, senza pagare un penny — sebbene numerose società ti venderanno il software legato al servizio di supporto. Puoi anche modificare il software in qualsiasi modo tu scegli, copiarlo e condividerlo, senza restrizioni. Questa libertà agisce come un invito aperto — alcuni la definiscono sfida — ai suoi utilizzatori di effettuare dei miglioramenti. Come risultato, migliaia di volontari stanno lavorando costantemente su Linux, aggiungendo nuove caratteristiche ed eliminando i difetti. I loro contributi sono controllati da un gruppo di esperti ed i migliori vengono aggiunti a Linux. Per i programmatori, il prestigio di un contributo di successo è la propria ricompensa. Il risultato è un sistema stabile, potente, che si adatta rapidamente al cambiamento tecnologico. Linux ha così successo che persino IBM lo installa sui computers che vende.
Per mantenere questo stato favorevole di affari, il software open source è coperto da uno strumento legale speciale chiamato General Public License. Invece di limitare l’utilizzo del software, come fa una licenza di un software tradizionale, il GPL — spesso conosciuto come un ‘copyleft’ — garantisce quanta più libertà sia possibile (vedi http://www.fsf.org/licenses/gpl.html). La versione del software rilasciata sotto GPL (o una licenza simile di copyleft) può essere copiata, modificata e distribuita da chiunque, a patto che anche loro la rilascino sotto copyleft. Questa restrizione è decisiva, perché impedisce che il materiale venga annesso, in seguito, a prodotti in esclusiva. Essa rende anche il software open source diverso dai programmi che sono distribuiti semplicemente in modo gratuito. In parole FSF, il GPL "rende gratuito e garantisce che rimanga tale".
L’open source ha fornito una modo assai di successo di scrivere il software. Ma ha anche incarnato un sostegno politico — uno che valorizza la libertà di espressione, non si fida del potere corporativo e non si trova a suo agio con il possesso privato della conoscenza. E’ "un punto di vista ampiamente fautore del libero arbitrio della vera e propria relazione tra gli individui e le istituzioni", secondo il guru dell’open source, Eric Raymond.
Ma non sono proprio le compagnie di software che mettono sotto chiave la conoscenza e la rilasciano solo a quelli disposti a pagare. Ogni volta che acquisti un CD, un libro, una copia di New Scientist, persino una lattina di Coca-Cola, stai pagando per accedere alla proprietà intellettuale di qualcun altro. Il tuo denaro acquista il diritto ad ascoltare, leggere o consumare i contenuti, ma non a modificarli, o fare copie e ridistribuirle. Nessuna sorpresa, allora, che le persone all’interno del movimento dell’open source si siano chiesti se i loro metodi possano funzionare su altri prodotti. Dal momento che, al momento, nessuno ne è sicuro — ma molte persone ci stanno provando.
Prendi OpenCola. Sebbene inizialmente intesa come uno strumento promozionale per spiegare il software open source, la bibita ha assunto una sua vita propria. La compagnia OpenCola, con sede a Toronto, è diventata meglio conosciuta per la bibita, che per il software che si supponeva promuovesse. Laird Brown, lo stratega senior della ditta, attribuisce il suo successo ad un ampio equivoco delle grandi corporazioni e la "natura esclusiva di quasi tutte le cose". Un sito web che vende la sostanza ha spostato 150.000 lattine. Gli studenti politicamente portati negli Stati Uniti hanno iniziato a miscelare la ricetta per i partiti.
OpenCola è un caso felice e non pone alcuna minaccia reale a Coke o Pepsi, ma delle persone, da qualche parte, stanno deliberamene utilizzando il modello open source per sfidare interessi intrecciati. Un obiettivo popolare è l’industria della musica. Come prima linea dell’attacco c’è l’Electronic Frontier Foundation, un gruppo di San Francisco, fondato per difendere le libertà civili nella società digitale. Nell’aprile dell’anno scorso, l’EFF pubblicò un modello di copyleft chiamato Open Audio License (OAL). L’idea è di fare sì che i musicisti traggano beneficio dalla proprietà della musica digitale — facilità di copiare e distribuire — piuttosto che lottare contro di loro. I musicisti che autorizzano la distribuzione della musica sotto un OAL permettono che il loro lavoro venga copiato, rappresentato, modificato e ristampato liberamente, a patto che questi nuovi prodotti siano rilasciati sotto la medesima licenza. Essi possono allora affidarsi ad una "distribuzione virale" per essere ascoltati. "Se alle persone piace la musica, esse sosterranno l’artista per assicurare che egli possa continuare a fare musica", afferma Robin Gross di EFF.
E’ un po’ presto per valutare se OAL catturerà l’immaginazione allo stesso modo di OpenCola. Ma è già chiaro che una parte delle forze del software open source non si applica semplicemente alla musica. Nel computer, il metodo dell’open source consente agli utilizzatori di migliorare il software, eliminando gli errori e le parti inefficienti del codice, ma non è scontato come questo possa accadere con la musica. Infatti, la musica non è affatto effettivamente "open source". I files inviati al sito di musica OAL http://www.openmusicregistry.org finora sono tutti MP3 e Ogg Vorbises — formati che ti permettono di ascoltare, ma non di modificare.
Non è neanche chiaro perché qualsiasi artista tradizionale non dovrebbe mai scegliere di rilasciare musica sotto un OAL. Molte bande hanno disapprovato il modo in cui i membri di Napster hanno fatto circolare la loro musica alle loro spalle, quindi, perché essi ora permettono una distribuzione senza restrizioni, o consentire agli estranei di armeggiare con la loro musica? Quasi certamente, non è probabile che tu abbia sentito nessuna delle 20 bande che hanno trascritto la musica sulla registrazione. E’ difficile evitare la conclusione che Open Audio vale poco più di un’opportunità per artisti sconosciuti di mettersi in vetrina.
I problemi con la open music, tuttavia, non hanno reso le persone libere di cercare i metodi dell’open source da altre parti. Le enciclopedie, per esempio, sembrano un terreno fertile. Come il software, sono collaborative e modulari, necessitano di aggiornamento regolare e migliorano con la revisione tra pari. Ma il primo tentativo, una consultazione gratuita chiamata Nupedia, non è proprio decollato. Dopo due anni, solo 25 dei suoi 60.000 articoli preventivati sono stati completati. "Nella proporzione attuale, non sarà mai una grande enciclopedia", afferma l’Editore in carica Larry Sanger. Il problema principale è che gli esperti che Sanger vuole reclutare per scrivere gli articoli sono poco incentivati a partecipare. Essi non ottengono punti accademici nello stesso modo in cui fanno gli ingegneri per aggiornare Linux e Nupedia non li può pagare.
E’ un problema che è intrinseco alla maggior parte dei prodotti open source: come fai a fare in modo che le persone partecipino? Sanger afferma che sta valutando modi per guadagnare da Nupedia, salvaguardando, nel contempo, la libertà del suo contenuto. I banner pubblicitari sono una possibilità. Ma la sua speranza maggiore è che gli accademici inizino a citare gli articoli di Nupedia, così che gli autori possano guadagnare credito accademico.
C’è un’altra possibilità: avere fiducia nella buona volontà collettiva della comunità dell’open source. Un anno fa, frustrato dal progresso ingannevole di Nupedia, Sanger incominciò un’altra enciclopedia chiamata Wikipedia (il nome è stato preso dal software open source chiamato WikiWiki, che consente a chiunque di editare le pagine sul Web). E’ molto meno formale di Nupedia: chiunque può scrivere o pubblicare un articolo su qualsiasi argomento, il che, probabilmente, spiega gli ingressi della birra e di Star Trek. Ma spiega anche il suo successo. Wikipedia contiene già 19.000 articoli e ne sta acquisendo molte altre migliaia ogni mese. "Alle persone piace l’idea che la conoscenza possa e debba essere distribuita e sviluppata gratuitamente", sostiene Sanger. Nel tempo, stima che migliaia di dilettanti dovrebbero, gradualmente, sistemare ciascun errore e colmare ogni lacuna negli articoli, finché Wikipedia evolverà in un’enciclopedia autorevole con centinaia di migliaia di voci.
Un altro esperimento che ha dimostrato il suo valore è il progetto OpenLaw presso il Berkman Center for Internet and Society, presso la Harvard Law School. Gli avvocati di Berkman sono specializzati in ciber-legge — pirateria, copyright, crittografia, e così via — ed il centro ha forti legami con l’EFF e la comunità del software open source. Nel 1998 al membro di facoltà Lawrence Lessig, ora presso la Stanford Law School, venne chiesto, dall’editore online Eldritch Press di organizzare una sfida legale alla legge americana del copyrigth. Eldritch prende i libri che hanno ispirato il copyrigth e li pubblica sul Web, ma la nuova legge di estendere il copyrigth da 50 a 70 anni dopo la morte dell’autore stava bloccando l’approvvigionamento di nuovo materiale. Lessig invitò gli studenti di legge presso Harvard e da qualunque altra parte ad aiutarlo a creare argomenti legali che sfidassero la nuova legge su un forum online, che si trasformò in OpenLaw.
La legge tradizionale stabilisce di scrivere argomenti nel modo in cui le aziende di software commerciale scrivono il codice. Gli avvocati discutono un caso a porte chiuse e, sebbene il loro prodotto finale venga rilasciato alla corte, le discussioni, o ‘source code’, che l’hanno prodotto, rimangono segrete. In contrapposizione, OpenLaw forgia le sue argomentazioni in pubblico e le rilascia sotto copyleft. "Noi abbiamo utilizzato deliberatamente il software gratuito come modello", afferma Wendy Selzer, che prese il controllo di OpenLaw, quando Lessig si trasferì a Stanford. Circa 50 studiosi di legge ora lavorano sul caso Eldritch e OpenLaw ha assunto anche altri casi.
"I guadagni sono molto simili a quelli del software", sostiene Selzer. "Centinaia di persone analizzano il codice per i difetti ed espongono suggerimenti per aggiustarli. E le persone prenderanno parti poco sviluppate della questione, ci lavoreranno sopra, poi le metteranno insieme". Armati di argomenti modellati in questo modo, OpenLaw ha assunto il caso Eldritch — giudicato non vincibile, in principio — proprio attraverso il sistema e si sta tentando ora un’udienza alla Corte Suprema.
Tuttavia, ci sono dei lati negativi. Le argomentazioni sono di dominio pubblico fin dall’inizio, così OpenLaw non può fare una sorpresa alla corte. Per lo stesso motivo, non può assumere casi in cui la confidenzialità è importante. Ma, dove c’è un elemento di forte interesse pubblico, l’open sourcing possiede grandi vantaggi. I gruppi di diritti dei cittadini, per esempio, hanno preso parte alle argomentazioni legali di OpenLaw e le hanno utilizzate altrove. "Le persone le utilizzano come letture ai Congressi, o le mettono sugli opuscoli", afferma Selzer.
Il movimento del contenuto aperto è ancora ad uno stadio iniziale ed è difficile predire quanto si diffonderà. "Non sono sicuro che ci siano altre aree in cui l’open source potrebbe funzionare", dice Sanger. "Se ce ne fossero, potremmo averle avviate noi". Anche Eric Raymond ha espresso dei dubbi. Nel suo saggio assai citato del 1997, The Cathedral and the Bazar, ha messo in guardia dall’applicare i metodi dell’open source ad altri prodotti. "La musica e la maggior parte dei libri non sono come il software, perché, in genere, non hanno bisogno di essere corretti o conservati", egli ha scritto. Senza tali necessità, i prodotti ottengono poco dall’esame critico e dalle modifiche altrui, per cui c’è poco beneficio nell’open sourcing. "Non desidero indebolire l’argomento vincente del software open source etichettandolo come un potenziale perdente", egli scrisse.
Ma i punti di vista di Raymond sono stati abilmente esagerati. "Sono più intenzionato ad ammettere che potrei parlare di altre aree, oltre che del software una volta o l’altra", ha affermato a New Scientist. "Ma non ora" Il momento giusto sarà nel momento in cui il software open source avrà vinto la battaglia delle idee, ha affermato. Egli si aspetta che accadrà intorno al 2005.
E così gli esperimenti proseguono. Come contributo ad esso, New Scientist ha acconsentito a pubblicare questo articolo sotto copyleft. Questo significa che puoi copiarlo, ridistribuirlo, ristamparlo tutto o in parte e, generalmente, prenderlo alla leggera, purché anche tu rilascerai la tua versione sotto copyleft e rispetterai gli altri termini e condizioni della licenza. Ti chiediamo anche di informarci di qualsiasi utilizzo farai dell’articolo, scrivendo via e-mail a copyleft@newscientist.com.
Un motivo per fare ciò è che, rilasciandolo sotto copyleft, possiamo stampare la ricetta di OpenCola, senza violare il suo copyleft. Niente altro, ciò dimostra il potere del copyleft per diffondersi. Ma c’è anche un’altra ragione: vedere cosa succede. Per quanto ne so, questo è il primo articolo di una rivista pubblicato sotto copyleft. Chi sa quale sarà il risultato? Forse, l’articolo scomparirà senza lasciare alcuna traccia. Forse, verrà fotocopiato, ridistribuito, ristampato, riscritto, tagliato e incollato in siti web, volantini ed articoli in tutto il mondo. Non so — ma questo è il punto. Non è più affar mio. La decisione appartiene a tutti noi.
*Traduzione dall'originale inglese di Anna Fata; articolo rilasciato in copyleft, pubblicato nella versione inglese sul numero 2328 (2 Febbraio) pp. 34-37 di New Scientist. L'articolo è riproducibile in rete citando la fonte, l'autore e la traduttrice
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