IL NOME E IL CAMPO D’INDAGINE
Già in Platone la doxa (credenza, opinione) veniva distinta dall’episteme, cioè dalla conoscenza autentica e dalla scienza. Oggi, secondo il lessico filosofico corrente, epistemologia, nella sua accezione più generale, significa investigazione filosofica sulla natura, la varietà, le origini, gli oggetti e i limiti della conoscenza. [1]
Ma l’area semantica del termine conosce, nel tempo, alcune particolari variazioni e declinazioni.
Nella lingua inglese la parola epistemology compare solo a partire dalla metà del secolo XIX, e denota, per l’appunto, una particolare branca speculativa che sceglie la conoscenza come oggetto delle sue elaborazioni e delle sue indagini.
Con l’avvento e con la diffusione del programma positivista, si individua insomma nell’epistemologia — cioè in un settore specifico della ricerca filosofica — lo spazio per una riflessione sia diacronica che sincronica sui significati, sui fondamenti, sul valore di verità, sui metodi e sulla logica della conoscenza. Al suo interno, un’attenzione privilegiata viene dedicata alla conoscenza scientifica e alle scienze della natura, che già Comte aveva collocato al vertice dei saperi positivi.
Una nuova parola ed un autonomo campo di ricerca emergono dunque nel momento in cui la scienza – attraverso libri, riviste e istituzioni che la promuovono – si sviluppa come attività pubblica, [2] nettamente distinta dagli ambiti professionali della filosofia. In questa congiuntura storica, lo scienziato diventa uno specialistae colloca il suo lavoro all’interno delle diverse discipline, istituzionalmente accreditate e ufficialmente legittimate dall’intera comunità scientifica: se prima era stato riconosciuto come un filosofo della natura, ora viene indicato, più precisamente, come un astronomo, un matematico, un fisico, un chimico, un biologo, eccetera.
Nel mondo anglosassone e nella tradizione della filosofia analitica l’epistemologia è stata, se così si può dire, fedele alle sue matrici positiviste: ha sviluppato, globalmente, una vocazione fondazionale ed un carattere normativo e prescrittivo, costruendo i suoi modelli di razionalità scientifica a partire dal privilegiamento delle discipline fisico-matematiche.
Lo scientismo riduzionista – che presuppone, tra i suoi postulati fondamentali, l’uniformità della natura e l’unità della scienza – affonda le sue radici proprio in questo privilegiamento, già presente nella filosofia positiva di Auguste Comte (anche se Comte, giova ricordarlo, fu avverso a ogni forma di scientismo e alla stessa figura dello scienziato "specialista"). [3]
Nel solco della tradizione analitica, l’epistemologia e la storia della scienza hanno dato un grande rilievo ai cosiddetti saperi "forti": saperi che si sono imposti sia per lo spessore plurisecolare della loro tradizione, sia per il loro livello di formalizzazione e di matematizzazione, sia, infine — come si è già detto – per il loro primato nella scala gerarchica delle scienze prodotta dal positivismo.
Nell’ambito della cosiddetta epistemologia continentale [4] — a partire soprattutto dai lavori di Gaston Bachelard e dalle ricerche di Georges Canguilhem — il canone positivista delle scienze e i suoi presupposti filosofici sono stati definitivamente abbandonati. Due mosse, in questa direzione, si sono rivelate decisive: la messa a fuoco, da parte di Bachelard, delle coupures épistémologiques e la connessa valorizzazione — su cui ha lavorato Canguilhem – delle discontinuità: discontinuità rispetto all’opinione comune, alle credenze, ai pregiudizi, alle concezioni magiche, alle tradizioni scientifiche dominanti, ma anche rispetto alle procedure, ai modi di fare, alle norme ed ai criteri logici che presiedono alla produzione della verità; discontinuità che interrompono verticalmente lo sviluppo lineare e "progressivo" del pensiero scientifico, e che possono anche spezzare orizzontalmente la coesione interna di un singolo apparato teorico. Due mosse decisive, dicevo, che provocano un mutamento radicale nel metodo e negli orizzonti operativi dell’epistemologia. Essa — come ha scritto Foucault in un saggio dedicato a Canguilhem — non è più "la teoria generale di ogni scienza e di ogni enunciato scientifico possibile; è la ricerca della normatività interna alle diverse attività scientifiche, così come esse sono state effettivamente messe in atto". [5]
Individuare la pluralità dei "razionalismi regionali" (Bachelard) significa, di fatto, rinunciare alla vocazione prescrittiva e fondazionale del lavoro epistemologico, studiando — diacronicamente e sincronicamente – l’impianto normativo di ogni singola pratica discorsiva e il tipo di soglia che essa è in grado di superare quando si struttura come verità scientifica condivisa e consolidata. Per riprendere un’efficace ripartizione cara a Michel Foucault, possiamo ricordare almeno quattro soglie che caratterizzano una determinata formazione discorsiva nel momento in cui essa si configura come teoria scientifica dotata di una sua normatività interna: una soglia di positività, una soglia di epistemologizzazione, una soglia di scientificità, una soglia di formalizzazione. [6]
La matematica, come afferma Foucault, è l’unica pratica discorsiva "che abbia superato in un colpo" le quattro soglie citate. Tuttavia, "prendendo l’instaurazione del discorso matematico come prototipo per la nascita e il divenire di tutte la altre scienze, si rischia di omogeneizzare tutte le singole forme di storicità, di ricondurre all’istanza di una sola frattura tutte le diverse soglie che può superare una pratica discorsiva, e di riprodurre all’infinito, per tutti i momenti del tempo, la problematica dell’origine: così verrebbero riproposti i diritti dell’analisi storico-trascendentale. La matematica ha costituito senz’altro un modello per la maggior parte dei discorsi scientifici nel loro sforzo verso il rigore formale e la dimostratività; ma per lo storico che studia il divenire effettivo delle scienze, costituisce un cattivo esempio, o comunque un esempio che non si può assolutamente generalizzare". [7]
In questa prospettiva relativistica ed antiprescrittiva, l’analisi di un’episteme ci consente di individuare, al suo interno, i particolari e diversi modi di produzione della verità: quelli che Foucault definiva "regimi di verità", alla cui formazione concorrono anche fattori influenti di carattere non discorsivo (psicologici, economici, sociali, istituzionali, metafisici, religiosi, eccetera).
Un approccio relativista, una propensione a sottolineare il ruolo decisivo dell’indagine storica ed infine, last but not least, una concezione della razionalità scientifica meno ristretta, e quindi più disponibile a valorizzare fattori extralogici ed extradiscorsivi: questi nuovi orientamenti – ben visibili anche nelle epistemologie postpositivistiche e postempiristiche – possono rappresentare una vera e propria zona franca, destinata a rendere sempre più fluida la linea di confine che ha finora separato, in differenti maniere e con diversa radicalità, il pensiero analitico e il pensiero continentale.
Il nostro sforzo – favorito, come vedremo, dalle pratiche di rete – si muove proprio all’interno di tale orizzonte: uno sforzo mirato alla costruzione di un’epistemologia analitica e storica, che funzioni sia come componente interna alle teorie e alle pratiche scientifiche, sia come capacità di collegarle tra di loro, sia, infine, come consapevolezza critica della loro intrinseca appartenenza ad un contesto più ampio di relazioni.
Entro quest’ottica, sarà necessario — ovviamente non in questa sede — sviluppare un confronto teorico approfondito tra alcuni concetti chiave dell’epistemologia contemporanea, che si muovono al di fuori della gerarchia positivista delle scienze, e quindi dei due postulati fondamentali, già ricordati, che la sottendono (l’uniformità della natura e l’unità delle scienze): il razionalismo regionale di Bachelard, l’episteme di Foucault, il paradigma di Kuhn, il programma di ricerca di Lakatos, la tradizione di ricerca di Laudan, il pluralismo di Feyerabend, lo schema concettuale di Quine e lo stile di ragionamento di Hacking.
Una ricostruzione razionale, variamente argomentata, degli assetti locali e parziali di ogni discorso che si pretende scientificamente vero, è il tratto comune a queste diverse filosofie della scienza. Parlavo, prima, non a caso, di un approccio relativista. Occorre, qui, una breve precisazione, che restituisca spessore e dignità teorica a questa espressione, troppo spesso banalmente distorta o fraintesa. Essere relativisti significa riconoscere — sincronicamente e diacronicamente – la pluralità degli assetti di verità nell’ambito della ricerca scientifica: il che non implica né una deriva nichilista, che metta sullo stesso piano le varie alternative praticabili, né un esito scettico radicale, che tratti ogni singola alternativa come una delle tante e possibili credenze, caratterizzata esclusivamente dalla sua forza persuasiva, dalla sua capacità di imporsi nell’ambito della comunità scientifica e, più in generale, all’interno di un determinato contesto sociale e istituzionale.
L’epistemologo relativista, sempre attento alla configurazione interna ed alla storicità delle teorie, riconosce ed analizza il modo peculiare in cui, entro ogni singolaepisteme, la verità viene prodotta, riprodotta, controllata e garantita. Egli non si pronuncia mai, quindi — in maniera normativa – sul maggiore o minor valore di verità di ogni singola episteme: si limita, come dicevo, a comprenderla dall’interno ed a spiegarla, individuando sia i suoi rapporti (di esclusione, di antagonismo, di prossimità, di estraneità) con altre formazioni discorsive sia i contesti (anche non discorsivi) che la rendono più intelligibile. Ogni valutazione gerarchica e prescrittiva – capace di stabilire quale ha da essere, oggi, il metodo conoscitivo più valido, più "scientifico", più facilmente confermabile o più difficilmente falsificabile – viene quindi abbandonata, a profitto di un’analisi puntuale e ben localizzata della storia, della struttura e dei modi di produzione della verità scientifica.
La tesi dell’incommensurabilità dei paradigmi – già affermatasi, con Kuhn e con Quine (per non citare che loro), ed oggi largamente accettata in ambito epistemologico – diventa il supporto fondamentale di ogni approccio relativista. Salta, dentro la tesi dell’incommensurabilità, la tradizionale distinzione tra l’osservazione — già concepita come neutrale rispetto alla teoria – e la teoria medesima, che si affida all’osservazione e al riscontro empirico per essere confermata (Carnap) o falsificata (Popper). Entro tale prospettiva, si pensa che i fatti empirici e i dati osservativi siano sempre intrisi di teoria. Si pensa che non siano mai elementi bruti, immediati, ingenui. L’osservazione insomma, soprattutto in fisica (Duhem), sarebbe sempre theory-laden, cioè carica di teoria.
E’ possibile, oggi, accettare la tesi dell’incommensurabilità — e dell’indeterminatezza della traduzione (Quine) – senza per questo delegittimare ogni ricostruzione razionale e storica delle scelte teoriche? Senza per questo scivolare in un soggettivismo cieco, incapace di mettere a fuoco i modi peculiari, tipici di ogni paradigma, attraverso cui si instaura e si afferma un determinato regime di verità? Senza per questo lasciar spazio a posizioni di stampo oscurantista? [8]
La nostra risposta può essere decisamente affermativa, ma solo a patto di implicare una visione più ampia della razionalità, disposta a considerare come variabiliepistemologicamente rilevanti anche quelle di carattere non strettamente scientifico, ma politico, istituzionale, ideologico, psicologico. Lo stesso Larry Laudan, molto polemico verso le implicazioni scettiche e reazionarie della tesi di incommensurabilità, si muove all’interno di questa nuova e più ampia concezione dellaratio.
"Secondo Laudan — commenta correttamente Franca D’Agostini — il conflitto di tradizioni, i problemi empirici e concettuali, le esigenze di progressività non sono soltanto requisiti del divenire della ‘scienza’ propriamente intesa, ma riguardano ogni tipo di sapere e di pratica culturale, come la politica o la teologia; ed è precisamente il dialogo con i settori ‘extrascientifici’, come la religione, a decidere il percorso della scienza in certe fasi del suo sviluppo. Nell’ipotesi di Laudan opererebbe dunque una visione della razionalità più ampia di quella implicata nelle ipotesi pragmatistiche ed ermeneutiche di Lakatos e Kuhn". [9]
Ma non è tutto. Comprendere la multidimensionalità della ratio significa anche ridefinire radicalmente l’orizzonte del lavoro epistemologico, rendendo attive e deliberatamente influenti le sue valenze di carattere politico. Si tratta allora di riaffermare, con Rorty, la priorità della democrazia sulla filosofia: e di conseguenza — come ha fatto di recente Giulio Giorello, dopo ed oltre Popper, con Feyerabend — la priorità della "società libera" anche sulla scienza.
Ricostruire razionalmente il profilo di un paradigma — la sua peculiare autonomia e il suo eventuale scontro/confronto con altri paradigmi rivali — rimane il compito privilegiato dell’epistemologo, che sarà tuttavia sempre più attento sia ai rapporti di potere che attraversano la vita dei paradigmi sia alla loro modalità di interagire: pronto, dunque, a valutare la forza e l’efficacia di un paradigma anche a partire dalla verifica della sua capacità di accettare lo scontro o di lasciar spazio al confronto, correndo continuamente il rischio di veder falsificati i propri assunti fondamentali. In questa chiave, l’epistemologo — alfiere, come suggerisce Giulio Giorello, di una giusta commistione tra tolleranza e fallibilismo — combatterà attivamente per riconoscere e per comprendere, oltre la barriera dell’incommensurabilità, il territorio degli scontri e dei confronti, ma anche, in ultima analisi, per garantire a questo stesso territorio la massima estensione possibile. Sentiamo.
"In altri termini, se vogliamo ancora parlare di progresso (scientifico), dobbiamo riconoscere che esistono più modi di ‘costruire’ il progresso — il che non è detto che sia un male, almeno per noi che viviamo dopo 1984". E quindi: "l’ingegnosità richiesta nell’opera di traduzione si dispiega nella ‘tensione dei concetti’ che permettono di fatto la comunicazione tra ricercatori che lavorano a programmi di ricerca differenti e/o rivali. Non è affatto necessario che si debbano stabilire ‘equazioni di significato’ fra qualsiasi parola impiegata dai sostenitori del primo programma e qualsiasi parola che ricorre nelle formulazioni pertinenti al programma rivale […]. Come abbiamo visto, non si richiede un vincolo così stretto nel caso, poniamo, della transizione dalla meccanica newtoniana a quella relativistica e nemmeno nella stessa transizione, entro il programma di Einstein, dalla teoria speciale a quella generale. Tuttavia, come riconosce esplicitamente Feyerabend(1987), questo non inibisce il confronto tra i differenti schemi concettuali; anzi, dal momento che i sostenitori dell’uno e dell’altro usano le stesse parole, sarà la reinterpretazione di intere ‘frasi’ a consentire la comunicazione. Questo richiede, ovviamente, che le parti in causa riconoscano una sorta di circolo virtuoso fra traduzione-comprensione e tolleranza, mentre ortodossia e purezza dottrinale sono compagne della stagnazione". [10]
I PRESTIGI DELL’INDUZIONE E LA LEZIONE DELL’ESPERIENZA
L’inferenza induttiva, nonostante le ben note confutazioni popperiane, rimane un procedimento largamente adottato in diversi settori della ricerca scientifica: in particolar modo nelle life sciences e nelle cosiddette scienze dell’uomo, ma anche, va ricordato, nei saperi "forti", come la fisica e la matematica. [11] Non saranno inutili, al proposito, alcuni rinvii ai "classici" dell’induttivismo: da Carl Hempel a Rudolf Carnap. [12]
La verità di una conclusione induttiva, sosteneva Carnap, non è mai certa. Possiamo tutt’al più affermare, a partire da un certo numero di premesse empiricamente fondate, che la conclusione ha un certo grado di probabilità: la logica induttiva ci insegna a determinare il valore di questa probabilità. Una certa regolarità ampiamente ricorrente sta alla base dei processi di concettualizzazione e rende spesso plausibile l’elaborazione di una legge: questa, tuttavia, anche se ben fondata empiricamente, non potrà che poggiare su un numero finito di osservazioni. Sarà sempre possibile, quindi, in un futuro più o meno prossimo, trovare un controesempio. Ed un solo controesempio è sufficiente ad avviare un processo di falsificazione della legge stessa. Per queste ragioni Carnap afferma che non è corretto parlare della verifica di una legge (cioè della "determinazione definitiva della sua verità"), ma solo di una sua conferma. Il "grado di conferma" di una legge è per Carnap la sua "probabilità logica", che egli definisce anche probabilità induttiva. La conferma è significativa quando riusciamo ad osservare un gran numero di casi empirici, di esempi positivi che sottostanno alla legge in questione. Una delle regole metodologiche auree che rendono efficienti i controlli capaci di confermare (o di falsificare) una legge, è quella che Carnap chiama regola metodologica dell’eterogeneità. "Se vogliamo controllare la legge della dilatazione termica, non dobbiamo limitarci a controllare le sostanze solide. Se stiamo controllando la legge secondo la quale tutti i metalli sono buoni conduttori di elettricità, non dobbiamo limitare i nostri controlli a campioni di rame, ma dobbiamo esaminare il comportamento di quanti più metalli è possibile e sotto diverse condizioni, di temperatura, eccetera". [13]
Passando dalla fisica alla psicologia (o alla psichiatria), potrebbe essere utile sostituire alla parola "metalli" la parola "individui" (o "gruppi di individui"), ed all’espressione "diverse condizioni, di temperatura, eccetera", l’espressione "condizioni sociali, ambientali, culturali, eccetera". Questo possibile parallelismo meriterebbe, ovviamente, un adeguato sviluppo argomentativo.
Limitiamoci a menzionare, per ora, i due momenti su cui si fonda il metodo scientifico, secondo la prospettiva induttivistica: l’evidenza fornita dai dati osservativi (o sperimentali) e l’ipotesi (o la legge); è la relazione tra questi due momenti — tra questi due termini – che definisce l’ambito del concetto di probabilità logica, o induttiva. Entro un sistema di logica induttiva, il grado di probabilità — o grado di conferma — di un’ipotesi va inteso come lo studio della relazione logica tra ipotesi ed evidenza.
Falsificare una legge, o un’ipotesi, attraverso un controesempio, è dunque possibile, anche se si tratterà sempre e comunque di una falsificazione non definitiva. Ben altrimenti complesso, invece, è il processo di falsificazione di una teoria scientifica, definita, normalmente, da un insieme di concetti, di leggi e di ipotesi. Non è sufficiente un experimentum crucis (un esperimento cruciale) per decidere circa l’obsolescenza di una teoria rispetto ad una teoria rivale. [14]
"Gli experimenta crucis sono impossibili nella scienza": possono, al massimo, "rivelare che una delle due teorie rivali è seriamente inadeguata", ma non sono sufficienti a confutarla rigorosamente e definitivamente. D’altro canto, la credibilità stessa di una determinata ipotesi, o legge, non sarà mai, in definitiva, assoluta, ed una sua conferma o una sua falsificazione non potranno certo dipendere dall’esito di un singolo esperimento cruciale. [15]
Karl Popper, già nella Logica della scoperta scientifica, rivaluta invece il ruolo falsificante degli esperimenti cruciali, all’interno della sua ben nota teoria del metodo deduttivo dei controlli. Vediamo.
Fiero avversario del metodo induttivo, sia nella sua versione classica che in quella probabilistica, egli constata che il problema dell’induzione è quello di stabilire la verità di asserzioni universali basate sull’esperienza. La verità di tali asserzioni universali, per l’induttivista, viene ridotta alla verità di asserzioni singolari; la verità di queste ultime, a sua volta, è nota per esperienza, e ciò significa che l’asserzione universale è basata sull’inferenza induttiva. Quindi, per giustificare il principio di induzione dobbiamo ricorrere ad inferenze induttive e per giustificare queste ultime dovremmo assumere un principio induttivo di ordine superiore, e così via. Il tentativo di fondare il principio di induzione è perciò fallito, proprio nella misura in cui ci porta, necessariamente, ad un regresso infinito. [16]
L’equivoco di fondo di questa impostazione è determinato, secondo Popper, dal richiamo all’esperienza, e quindi dall’implicita confusione tra una psicologia della conoscenza, che ha a che fare con fatti empirici, ed una logica della conoscenza, che si occupa invece solo di relazioni logiche. Anche nella sua versione probabilistica più sofisticata, il metodo induttivo, secondo Popper, è incorso nello stesso equivoco, scambiando la probabilità degli eventi con la probabilità delle asserzioni. In altri termini, il grado di probabilità di una ipotesi scientifica non è in nessun modo verificabile attraverso l’inferenza induttiva. [17]
Per formulare un giudizio sulla consistenza di una ipotesi occorre invece stabilire la misura in cui essa ha resistito ai tentativi di falsificarla: occorre cioè stabilire il suo grado di corroborazione ("Grad der Bewährung"). In questo contesto argomentativo, l’esperimento cruciale è considerato un esperimento falsificante, che confuta in maniera definitiva una teoria, anche se non riesce a dimostrare la validità di una teoria differente.
Possiamo limitarci, per ora, a questo primo e sintetico approccio al punto di vista popperiano, ponendo particolare attenzione alla concezione generale della scienza che lo ispira. [18]
"La nostra scienza — afferma il filosofo viennese — non è conoscenza"; perciò "non può mai pretendere di aver raggiunto la verità, e neppure un sostituto della verità, come la probabilità". Ed ancora: "Non sappiamo, possiamo solo tirare a indovinare. E i nostri tentativi di indovinare sono guidati dalla fede non scientifica, metafisica […] nelle leggi". "Credo che il progresso della scienza dipenda dalla libera competizione del pensiero, e perciò dalla libertà". La teoria scientifica — entro questo impianto argomentativo — diventa così congettura, ipotesi azzardata, libero gioco del pensiero. L’esperimento cruciale serve a confutare definitivamente un determinato assetto teorico e permette, al tempo stesso, pur senza dimostrarla come vera, l’emergere di qualche teoria nuova e "ben corroborata".
Lo scandaglio epistemologico, partendo da queste premesse, può svilupparsi solo post festum, a cose fatte, senza poter intervenire in maniera costruttiva sulle dinamiche evolutive della teoria scientifica analizzata. In altri termini, una disamina delle pretese di verità di una teoria non passa attraverso la valutazione dei suoi fondamenti storici ed empirici, per la buona ragione che la teoria stessa viene considerata — come si è detto – un’ipotesi azzardata, una congettura, un libero gioco del pensiero, ed il ricorso all’esperienza può servire solo a falsificarla, quando essa ha già costruito un reticolato di concetti, di ipotesi e di leggi.
Senza pretendere, ora, di sviluppare una confutazione articolata e ragionata di queste tesi, possiamo limitarci ad una prima considerazione critica. Scienze come la psichiatria, o la medicina clinica, destinate ad intervenire attivamente sull’uomo, sui suoi disagi e sulle sue patologie, non possono permettersi di ignorare la lezione dell’esperienza, fondando la loro legittimità sociale e la loro solidità teorica su una non meglio definita "libertà del pensiero", oppure su un’altrettanto confusa nozione di "fede metafisica" nelle leggi. Il confronto con l’esperienza — oltre a rappresentare un fortissimo vincolo epistemologico, largamente argomentato in ambito induttivista — è anche un’istanza di carattere etico, difficilmente eludibile nell’ambito di una pratica clinica.
Per cogliere la stretta connessione tra scelte etiche ed assetti epistemologici, è necessario abbandonare la convinzione relativa al valore fondante ed esemplare dei modelli fisico-matematici, dedicando perciò una particolare attenzione a quell’arco disciplinare che va dalle life sciences alle scienze dell’uomo: laddove, cioè, l’orientamento etico-politico manifesta un’incidenza più diretta — o forse solo più facilmente visibile – sulle strutture del paradigma.
Tutta la tradizione dell’empirismo logico, sviluppatasi attorno al privilegiamento dei saperi "forti", ha sempre cercato di distinguere le "questioni fattuali" dalle "questioni di puro valore", ribadendo il "carattere non cognitivo delle affermazioni di valore". [19] Come ha sottolineato Abraham Kaplan, citando il Wittgenstein delTractatus, nell’empirismo logico "non vi possono essere proposizioni etiche", poiché "l’etica" stessa, per definizione, "è trascendentale". Osserva Kaplan: "A causa di questa impostazione, l’empirismo logico si è prestato a qualche considerazione ironica, per il suo insistere sull’importanza della logica in tutti i campi eccetto che nei problemi importanti della vita". [20]
Nell’ambito delle life sciences e delle scienze umane, e in particolar modo nella psichiatria clinica, l’opzione etica può rivelarsi parte integrante e costitutiva dell’episteme, ed ogni schema interpretativo che dicotomizzi rigidamente i due livelli corre il rischio di fornire un’immagine reificata del lavoro scientifico, all’interno della quale il sapere viene ridotto ad una mera trama di enunciati, ad un’astratta correlazione tra le asserzioni (dotate di valore cognitivo), i concetti, le ipotesi e le leggi.
In questa concezione, l’etica viene considerata estranea ai processi di produzione della verità scientifica: rimane confinata in un ambito periferico, epistemologicamente irrilevante, dominato — per dirla ancora alla maniera degli empiristi logici — da asserzioni totalmente prive di valore cognitivo. [21]
Il ricorso all’esperienza – come luogo privilegiato a partire dal quale viene costruito l’edificio teorico, e non come semplice terreno funzionale alla conferma o alla falsificazione di una teoria — rappresenta, come si diceva, un’istanza etica ed al tempo stesso un vincolo epistemologico. In tale prospettiva, una logica induttiva, di tipo probabilistico, andrebbe ripensata criticamente, fuori dall’imperialismo dei modelli fisico-matematici ed all’interno di una sostanziale accettazione della pluralità degli stili di ragionamento che caratterizza lo scenario scientifico contemporaneo. Il ricorso all’esperienza, l’utilizzazione di procedimenti logici di tipo induttivo (studiati, ovviamente, nel loro eventuale e specifico intersecarsi con procedimenti ipotetico-deduttivi), la consapevolezza del valore relativo delle leggi (leggi probabilistiche, per l’appunto, e non leggi assolute): questi gli assi portanti di una nuova concezione post-empiristica della scienza, disposta ad ammettere la complessità ed il significato non convenzionale, non arbitrario, ma relativo, e perciò profondamente storico, delle diverse teorie scientifiche. Tra l’esperienza e la storia si annodano le fila di una continuità essenziale, non ancora sufficientemente tematizzata ed indagata in chiave epistemologica.
Elaborare una teoria, in ambito medico-psichiatrico e psicologico, significa anche assumersi delle responsabilità nei confronti dei soggetti a cui questa teoria viene applicata: gli stessi soggetti che incarnano quella che potrebbe essere definita, con locuzione abusivamente astratta, la base empirica della teoria medesima. L’osservazione – distaccata ma partecipe — influisce sui comportamenti dei soggetti osservati, proprio come nella microfisica, mutatis mutandis, l’atto osservativo modifica il fenomeno osservato. Lo si è detto da più parti: è assai difficile vedere il fatto empirico come un dato bruto, assolutamente indipendente da chi lo seleziona e lo osserva. L’osservazione — secondo Duhem e Quine — sarebbe sempre e comunque carica di teoria: includerebbe dunque, strutturalmente, le teorie, i valori, la mentalità e le tecniche del soggetto osservatore. Chi sottoscrive senza riserva tali conclusioni, arriva necessariamente a mettere in discussione l’efficacia dell’inferenza induttiva, sottolineando così lo scacco di una prospettiva coerentemente empiristica. [22]
Sono convinto che sia oggi necessario, soprattutto in psichiatria, superare questa impasse epistemologica, cercando una via d’accesso al "sostegno osservativo" – non ancora concettualizzato – della conoscenza scientifica: prima che i fatti empirici diventino relazioni logiche; prima che il concettuale e l’empirico si sovrappongano; prima, quindi, che il dato osservativo confluisca nel processo di costruzione dell’oggetto, attraverso il duplice movimento della "classificazione" e della "reificazione". [23]
Occorre sollecitare, nel campo della clinica, un radicale ritorno al primato dell’esperienza immediata, e quindi una possibilità di accedere ai fatti empirici (in questo caso ai comportamenti umani) praticando attivamente una sospensione del giudizio: una forma di epochè, intesa in senso husserliano, oppure, se si preferisce, una forma di vuoto mentale, che potrebbe essere facilitata da un dialogo problematico con la saggezza taoista e con il buddhismo zen, lontano da ogni facile schematismo mimetico. [24]
Si tratta di creare, nella nostra coscienza osservativa, una zona bianca, disponibile ad accogliere la presenza dell’altro: il suo corpo, il suo volto, la sua parola, le sue condotte, la sua domanda di cura, il suo modo di essere nel mondo, il suo mit-sein, il suo modo di vivere la co-presenza. Mettendo tra parentesi i ruoli istituzionali e gli apriori mentali — attività costruttiva tutt’altro che facile e scontata, che presuppone, per noi occidentali, la consapevolezza critica della nostra storicità — ci si predispone all’accoglimento dell’altro: pronti ad accettare l’irruzione e la proliferazione, entro lo spazio vuoto della coscienza, di una varietà e di una eterogeneità di fatti empirici (i nudi fatti, di cui parla Epstein) – anche di quelli che sembrano radicalmente incompatibili con le nostre teorie e con la nostra cultura. Ciò significa porsi di fronte al paziente — o, più generalmente, di fronte all’altro – "senza memoria e senza desideri", come aveva detto Bion, in quel particolare stato di "nuda attenzione senza oggetto", che "permette alle cose di parlare da sole". [25]
Un cammino difficile, certo, che richiede una paziente autoanalisi, un lavoro su se stessi — che la psicoanalisi ha cercato di codificare e di istituzionalizzare – ed una capacità di ripensare criticamente la propria storia, al fine di liberarsene: una sorta di ascesi epistemologica, ma anche una scelta esistenziale, fortemente motivata sul terreno dell’etica relazionale. Un modo di essere, insomma, ed al tempo stesso un modo di pensare: una tecnologia del sé, un "esercizio filosofico", la cui posta in gioco consiste nel "sapere in quale misura il lavoro di pensare la propria storia può liberare il pensiero da ciò che esso pensa silenziosamente e permettergli di pensare in modo diverso". [26]
E’ nostra convinzione che un certo uso della rete sia oggi uno degli strumenti di tale ascesi epistemologica, funzionale alla produzione di un nuovo sguardo sul mondo: libero — perlomeno tendenzialmente — dall’ipoteca delle nostre teorie e dai vincoli dei nostri pre-giudizi.
E’ possibile pensare a questa ascesi solo a patto di aver liberato il lavoro epistemologico dalle sue pretese fondazionali e prescrittive. La crisi e "l’accantonamento dell’epistemologia fondazionale", per dirla con Rorty — cioè di una concezione che assegna al filosofo il ruolo di "guardiano della razionalità" — rende matura la costruzione di uno spazio teorico innovativo; uno spazio che lo stesso Rorty definisce ermeneutico, e che noi preferiamo definire epistemologico, cioè relativo ad una nuova epistemologia non fondazionale – al tempo stesso critica e storica – attenta alle possibili connessioni ed al possibile dialogo tra paradigmi diversi, in linea di principio non "commensurabili" tra di loro.
Vale la pena dare la parola a Rorty, precisando fin d’ora che alcune funzioni attribuite dal filosofo americano all’ermeneutica rientrano pienamente nel nostro tentativo di edificare una nuova epistemologia psichiatrica: un’epistemologia post-empiristica, che definiremo provvisoriamente epistemologia della connessione e del dialogo.
Non bisogna confondere "due ruoli possibili del filosofo. Il primo è quello del dilettante informato, del mediatore poliedrico e socratico tra i vari discorsi. Nel suo salotto, per così dire, i pensatori ermetici sono liberati dall’incantesimo delle loro pratiche chiuse in se stesse. Le discordie tra discipline e discorsi vengono composte o superate nel corso della conversazione. Il secondo ruolo è quello del sovrintendente culturale che conosce il terreno comune a tutti — il re-filosofo di Platone che sa quel che tutti gli altri fanno in realtà, lo sappiano essi o non lo sappiano, perché lui conosce il contesto ultimo (le Forme, lo Spirito, il Linguaggio) all’interno del quale essi agiscono. Il primo ruolo è appropriato all’ermeneutica, il secondo all’epistemologia. L’ermeneutica coglie le relazioni tra i vari discorsi, come tra le linee di una possibile conversazione, una conversazione che non presuppone matrici disciplinari comuni ai parlanti, ma che fin che dura mantiene la speranza dell’accordo". [27]
La nostra diversa scelta terminologica dipende da motivazioni teoriche molto precise. Soprattutto in psichiatria, "operare connessioni" — un’attività "ermeneutica" che Rorty non esita a definire "edificatoria" [28] – significa tentare di costruire, all’interno del lavoro clinico, dei legami terapeuticamente produttivi tra paradigmi, tra saperi differenti, a tutto vantaggio del paziente, del suo bisogno di essere preso in carico e curato. Per chiarire il nostro punto di vista, vale la pena ricordare la definizione riservata da Georges Canguilhem alla medicina: somma evolutiva di scienze applicate. Questa stessa definizione, leggermente modificata, potrebbe essere estesa alla psichiatria clinica, rispettando la sua collocazione di frontiera tra life sciences e scienze dell’uomo. Potremmo così parlare, più precisamente, di una somma evolutiva di saperi e di scienze applicate. Ma sentiamo Canguilhem.
"Perché somma? Perché, secondo noi, il termine somma non induce solo l’immagine di un prodotto di addizione, ma anche quello di una unità di operazione. Non si può parlare della fisica o della chimica come di somme. Se ne può parlare per la medicina, nella misura in cui l’oggetto di cui essa sospende, per scelta metodologica, la presenza interrogativa" — cioè il malato, inteso come persona e come "bersaglio di cure"– "è tuttavia sempre presente, dal momento in cui ha assunto forma umana: individuo che vive una vita di cui non è né l’autore né il padrone e che deve talvolta, per vivere, affidarsi a un mediatore. Quale che sia la complessità e l’artificiosità della mediazione, tecnica, scientifica, economica e sociale della medicina contemporanea, quale che sia la durata dell’accantonamento del dialogo tra medico e malato, la decisione di efficacia è fondata su questa modalità della vita rappresentata dall’individualità dell’uomo. Nel subconscio epistemologico del medico è la fragile unità del vivente umano che fa delle applicazioni scientifiche, sempre più mobilitate per servirlo, una reale somma". [29]
La "decisione di efficacia" terapeutica implica dunque "una unità di operazione", che spinge il medico a collegare ed a sommare, dentro l’atto clinico, particolariscienze applicate: cioè particolari paradigmi, valorizzati ed utilizzati nei loro risvolti pratici ed operativi. Non è privo di interesse il fatto che sono stati gli stessi medici, nel XIX secolo, a rivendicare per la loro disciplina il titolo di scienza applicata, nel momento stesso in cui "hanno importato, in terapeutica, determinismi fisici o chimici fatti propri dai fisiologi". [30]
Sarebbe opportuno sviluppare, per la psichiatria, un ragionamento analogo, a cominciare da un’analisi delle denominazioni di alcune importanti e consolidate aree specialistiche: psichiatria biologica, neuropsichiatria, etnopsichiatria, psichiatria fenomenologica, psichiatria dinamica, eccetera. Il rapporto tra la conoscenza psichiatrica e i suoi "oggetti" — ed al tempo stesso l’ideale regolativo di stabilire una connessione tra questi oggetti — si affermano, per così dire, attraverso linee interne, cioè a partire da metodiche scientifiche e cliniche particolari, così come si sono sviluppate ed assestate dentro ogni singolo specialismo.
Operare la connessione, come direbbe Rorty, è dunque un’attività produttiva e clinicamente efficace solo nella misura in cui si sviluppa all’interno di un metodo scientifico effettivamente adottato: poco importa se il soggetto che teorizza questa connessione è lo scienziato, l’epistemologo o il filosofo.
LO PSICONAUTA IN RETE: UN APPROCCIO ANTROPOLOGICO
Nel caso della psichiatria, l’humus favorevole alla connessione non è certo il "salotto" dell’ermeneuta, ma la Lebenswelt husserliana (il mondo della vita), la realtà sociale e territoriale, l’ospedale, il servizio, la comunità, il laboratorio, il setting terapeutico, ed anche — secondo i nostri auspici — la rete. La funzione epistemica, in altri termini, è un’istanza interna alle pratiche della scienza, e non un’attività "ermeneutica" svolta all’esterno dal filosofo: cioè dall’ingegnoso dilettante, dall’abile voyeur, dal consumato mediatore, versato nell’arte della conversazione e addestrato all’esercizio della tolleranza.
Questa funzione epistemica non è più, dunque, il risultato della deduzione dei criteri della scientificità dalle categorie apriori dell’intelletto, operanti nello spazio di determinati saperi "forti", visti come modelli egemoni della conoscenza scientifica: essa emerge piuttosto, in maniera differenziata, dalle problematiche e dallo sviluppo storico concreto delle diverse ontologie regionali.
Lo sviluppo di una funzione epistemica interna può essere facilitato, nel caso della psichiatria, anche dal suo radicamento nella rete: attraverso riviste telematiche, mailing lists, chat-lines, fori di discussione virtuale, o addirittura sperimentazioni di psicoterapia o di consulenza psicoterapica in ambiente virtuale.
A partire dalla nostra personale esperienza di esploratori del cyberspace e dalla nostra partecipazione attiva al dibattito psichiatrico in rete, sarà possibile mettere in evidenza la posta in gioco, di carattere epistemologico, di queste esperienze, che hanno ancora, alle soglie del terzo millennio, un carattere pionieristico e radicalmente innovativo.
Per l’operatore della salute mentale, frequentare la rete può essere una delle attività formative che dilatano il suo sguardo sul sociale, e quindi sui comportamenti umani così come si esprimono fuori dal setting terapeutico ed a prescindere dai circuiti istituzionali dell’assistenza psichiatrica.
Lo si è constatato, in questo stesso volume, a proposito della possibile esplorazione, tramite Internet, delle condotte perverse. Il perverso, come è noto, rifiuta, solitamente, di ricorrere alla psicoterapia; le rare volte in cui l’accetta, si rivela — come si evince da una letteratura oramai vastissima — uno dei soggetti più refrattari al trattamento e più inclini a mobilitare strategie di resistenza spesso insormontabili.
Lo psichiatra-navigatore — per comodità lo chiameremo psiconauta – che frequenta certe chat-lines (quelle, ad esempio, numerosissime, alle quali si accede attraverso il programma IRC), incontra facilmente il soggetto perverso. Difeso dall’anonimato che IRC gli garantisce, potrà facilmente rinunciare a presentarsi nella sua veste professionale. Potrà dialogare con questo soggetto senza la protezione del suo ruolo, mettendo quindi facilmente tra parentesi i suoi percorsi formativi, le sue griglie interpretative, i suoi apriori mentali. Incontrando il perverso in rete, sarà dunque più facile, per lui, fare epochè, come si diceva: fare vuoto, produrre quel livello di nuda attenzione senza oggetto, per dirla ancora con Epstein, che "permette alle cose di parlare da sole". La pratica della rete porta con sé, in questo caso, un duplice vantaggio:
1) Il soggetto perverso è più disponibile a comunicare le sue esperienze e le sue fantasie, senza dover mobilitare strategie di resistenza o di opposizione alla "cura", nella misura in cui non vive il dialogo in rete come esperienza terapeutica. La condotta perversa, in tal modo, viene rappresentata senza remore, con una varietà e una ricchezza di particolari non sempre facilmente disponibili all’interno di un setting terapeutico.
2) Lo psiconauta, facendo epochè, può vivere con pienezza, senza barriere difensive, le risonanze psicologiche che il racconto "perverso" produce nella sua coscienza; lo "accoglie" — volendo adottare una griglia freudiana, potremmo dire che egli è in grado di riconoscere i propri nuclei perversi latenti [31] – ed è quindi incline a realizzare un certo grado di empatia all’interno della conversazione virtuale, a tutto vantaggio di una maggior libertà comunicativa. Lo scambio di parole e di emozioni tra il perverso e lo psiconauta non appartiene, ovviamente, ad un regime di verità — ad esempio quello della psichiatria — regolato da principi di esclusione, organizzato da procedure di controllo, legittimato da un determinato supporto istituzionale. [32] Il fatto che poi questo scambio di parole e di emozioni – divenendo materiale empirico da concettualizzare — possa eventualmente confluire nelle articolazioni di un sapere, nulla toglie alla sua fondamentale collocazione extra-disciplinare. Lo scambio di parole e di emozioni, in altri termini, esprime una certa verità della perversione, ma non è ancora, come direbbe Canguilhem, nel vero: cioè non appartiene ancora allo spazio normato e regolato di una disciplina. "E’ sempre possibile — come afferma Foucault portando ad esempio il caso di Mendel — dire il vero nello spazio di una esteriorità selvaggia; ma non si è nel vero se non ottemperando alle regole di una polizia discorsiva",[33] sempre presente e funzionante all’interno dei modi di produzione di una verità scientifica. Ma proprio a tale spazio di esteriorità selvaggia la psichiatria clinica può e deve attingere, per mettere alla prova la pregnanza empirica dei suoi concetti e la latitudine antropologica delle sue teorie.
Vorrei definire questa posizione non terapeutica (o pre-terapeutica) come approccio antropologico-formativo alla rete, funzionale ad un arricchimento esperienziale: e quindi ad un accesso all’esperienza (degli altri e del mondo) prima che questa venga filtrata e concettualizzata a partire da griglie teoriche precostituite. Sarà più facile, in questo modo, allargare la base antropologica del riscontro empirico, utilizzato come strumento di controllo e come stimolo alla costruzione di qualche nuova teoria, adeguata alla qualità e alla varietà dei dati osservativi emergenti.
Un approccio antropologico—formativo alla rete, come si è detto, ci consente di accedere all’altro e al mondo a partire da una messa tra parentesi dei nostri apriorimentali e delle nostre teorie. Ma questa epochè — questa produzione di un vuoto mentale, che ci predispone maggiormente all’accoglimento ed all’ascolto — è l’esito di un lento lavorio su sé stessi. E’ un prodotto, una costruzione, e non è certo una "esperienza originaria", che lascerebbe facilmente emergere una nostra "primaria complicità con il mondo". Una filosofia dell’esperienza originaria così concepita ci allontanerebbe dalla consapevolezza dello specifico itinerario storicoche ci ha portati alla sospensione delle nostre armature categoriali ed allo scacco dell’io concepito come istanza giudicante: la nostra stessa ascesi epistemologica — esito di un processo autocostruttivo e premessa di un ripensamento della psichiatria — verrebbe appiattita sui dati immediati della nostra coscienza, portatori di una sorta di "primitivo riconoscimento" [34] dell’esperienza e perciò assolutamente autosufficienti e del tutto inutilizzabili all’interno dei processi costitutivi di una disciplina scientifica.
Ci sembra che l’epistemologia di una scienza debba farsi carico anche di un’analisi di questa esperienza precategoriale, che funziona, in qualche modo, come misconosciuto fondamento di senso del suo regime di verità. La rete, in tale prospettiva, può diventare una formidabile risorsa conoscitiva.
Non si insisterà mai abbastanza sull’estrema eterogeneità dei dati osservativi accessibili allo psiconauta, purché egli sia in grado di rinunciare alla propria hybrisepistemologica: nonostante l’apparente omologazione connessa all’universalità del linguaggio informatico e delle tecnologie di rete, le realtà individuali e sociali veicolate da Internet sono varie e differenziate. Attraverso i siti interattivi, i MUD (veri e propri salotti della simulazione virtuale), il programma ICQ ed i canali di IRC — dove è facile dialogare, ma anche scambiarsi files di immagini e di foto oppure sequenze filmate tramite videocamere – il navigatore del ciberspazio può accedere a singoli, a gruppi, a comunità virtuali, cementate da motivazioni di carattere culturale, ludico, psicologico, ideologico, sessuale, oppure da interessi etnici, religiosi, politici: gay, lesbiche, coppie trasgressive, feticisti, esibizionisti, sadomasochisti, perversi di vario genere, soggetti dipendenti dalla rete, ma anche filosofi, femministe, anarchici, comunisti, simulatori, hackers, cultori dei cartoons, amanti dei manga, melomani, oppure minoranze oppresse, come i pellerossa, gli aborigeni australiani, i Chiapas, eccetera.
Lo psiconauta, nel momento stesso in cui diventa un nomade della rete, ha senza dubbio accesso a una molteplicità di situazioni sociali e di configurazioni psichiche soggettive, che potranno spingerlo, in un secondo momento, a problematizzare i presupposti teorici e gli schemi categoriali del suo sapere. Ilnomadismo, dentro e fuori dalla rete, è al tempo stesso una scelta esistenziale e un itinerario conoscitivo: esso può contribuire ad allargare la base empirica delle scienze psichiche, ancorandole maggiormente al quotidiano ed agli stili di vita, individuali e collettivi, inizialmente percepibili fuori dai recinti protetti delle discipline.
L’approccio antropologico-formativo alla rete rappresenta dunque, a nostro parere, un formidabile strumento ed una condizione di possibilità di una vera e propriatolleranza fallibilista: una preziosa opportunità di mettere continuamente alla prova concetti e teorie.
CONCETTO ED EVENTO
Le categorie nosografiche della psichiatria — così come quelle della medicina mentis anteriore alla creazione degli asili — emergono direttamente dall’osservazione empirica dei comportamenti. Tra di esse, alcune mantengono, nel tempo, una relativa stabilità, percepibile attraverso la permanenza del nome; la mania e la malinconia, ad esempio, già presenti all’alba della medicina occidentale, continuano tuttora a sopravvivere, anche se con differenti sfumature e declinazioni semantiche. Altre attualmente in uso — come la nevrosi e la psicosi — nascono nel secondo ottocento e rinviano, ovviamente, ai nomi propri dei loro creatori. Altre ancora — come la monomania e la lipemania, legate alla figura di Esquirol e alla nascita della clinica psichiatrica moderna — conoscono un lento ed irreversibile declino nel giro di qualche decennio.
Nonostante il loro indiscutibile ancoraggio ai dati osservativi, le categorie nosografiche — soprattutto quelle che mantengono, nel tempo, una certa stabilità — vengono viste, a volte, come indicatori di una cifra essenziale della condizione umana, considerata nel suo stato normale o patologico. E’ il caso della malinconia, messa a fuoco sia dalla filosofia platonico-aristotelica che dalla medicina greca classica, e trattata, a seconda dei casi, come temperamento o come patologia. Hubertus Tellenbach non ha esitato ad affermare, a questo proposito, che gli autori greci, pur partendo da "un modus di Empiria che è assolutamente inconfondibile con il nostro", si sono concentrati sulle "forme essenziali della condizione umana" e, più in particolare, sulla "forma essenziale dell’essere melancolico". [35] Il medesimo approccio viene riproposto commentando la "risonanza bimillenaria" della teoria aristotelica che collega genialità e malinconia, laddove si dice: "Si può supporre che Aristotele con quest’idea intendesse ben di più di una variazione filosofica su un tema medico; può darsi, anzi, che egli sia pervenuto pure ad un accertamento essenziale dal punto di vista antropologico". [36]
La visione essenzialista di alcuni concetti psichiatrici – radicalmente respinta da chi ritiene che la permanenza del nome sia solo il supporto linguistico di un’incessante mutamento diacronico dei contenuti [37] — mette capo, in ogni caso, sia alla convinzione di aver individuato le costanti antropologiche della condizione umana, sia, di conseguenza, alla pretesa di poter trascurare la radice empirica degli assetti nosografici. Come dire: la loro verificabile relatività culturale e la loro evidente variabilità storica. L’etnopsichiatria e l’etnopsicoanalisi, come è noto, sono nate anche per confutare questa pretesa essenzialista ed universalistica.
Si tratta allora di ripensare i concetti nosografici della psichiatria, mettendo a fuoco la loro dipendenza dal processo osservativo, la loro appartenenza ad una situazione storico-culturale, il loro rapporto con gli avvenimenti contingenti, con un terreno istituzionale e con le pratiche che li rendono operanti. A partire dai concetti visti come vettori relazionali, riusciamo così a individuare le componenti di quello che vorrei definire il loro piano d’immanenza: [38] un livello pre-categoriale e pre-psichiatrico, che rappresenta l’insieme di tali componenti e la condizione di possibilità della creazione concettuale.
Un dibattito psichiatrico in rete — come quello sviluppatosi nelle mailing-lists di "Polit" — può rendere più facilmente accessibile il piano d’immanenza dei concetti: le sue discontinuità, le sue variazioni continue, la sua fisionomia irregolare. Tale piano scandisce la vita stessa dei concetti nosografici: distinto da essi – proprio in quanto orizzonte pre-psichiatrico – appartiene tuttavia alla loro configurazione funzionale, alla loro stessa possibilità di esistere, di orientare la terapia, di produrre significati. L’analisi di un concetto e delle sue relazioni, giova ripeterlo, rende visibili i fattori non concettuali e gli eventi non discorsivi che ne scandiscono l’apparizione: le modalità e i destinatari dell’osservazione empirica, il sottofondo storico-culturale, il contesto degli avvenimenti contingenti, l’operatività delle pratiche, l’inclusione istituzionale.
Scrivono Deleuze e Guattari: "Il non-filosofico si trova nel cuore stesso della filosofia, forse più della filosofia stessa". [39] Cercando di estendere alla psichiatria questa affermazione, diremo allora: il non-psichiatrico si trova nel cuore stesso della psichiatria, forse più della psichiatria stessa. Con una differenza, tutt’altro che trascurabile: il concetto psichiatrico, a differenza del concetto filosofico, implica in maniera ancor più diretta e cogente l’orizzonte delle pratiche e dei contesti istituzionali, anche se la sua formulazione dottrinale, di carattere squisitamente teorico, rischia di occultare il piano d’immanenza che lo instaura e che lo rende operante. La visione essenzialista del concetto già proposta da Tellenbach rappresenta uno dei più potenti e pericolosi fattori che favoriscono questo occultamento.
Con il termine evento, inteso nella sua accezione più generale, voglio designare ognuno dei possibili fattori pre-categoriali che definiscono il piano d’immanenza dei concetti. Potremmo dire, più precisamente, che l’insieme di tali fattori è il campo degli eventi di natura non discorsiva che popolano l’orizzonte della psichiatria.
Il vantaggio di un dibattito telematico tra psichiatri — imperniato ad esempio sulle lettere inviate ad una mailing-list specifica – è rappresentato proprio dall’immediatezza comunicativa, distante dalle forme del contributo scientifico e molto più vicina alle modalità della conversazione informale, e quindi alla concretezza dell’evento: cioè all’esperienza quotidiana, alle pratiche ed al vissuto degli operatori e dei pazienti.
Accade spesso che il profilo biografico e "patologico" di un paziente venga presentato in maniera problematica, lasciando volutamente sospesa — ed aperta alla discussione – la sua possibile inerenza ad una certa categoria psichiatrica. Al taglio selettivo e riduzionista della storia clinica — così come emerge frequentemente nelle pubblicazioni scientifiche o nei seminari istituzionali di scuola — subentra uno stile narrativo, più attento ai dettagli esistenziali e meno preoccupato di determinare (o di predeterminare) la loro appartenenza ad uno schema nosografico. Al processo osservativo vengono insomma assegnati ampi margini di autonomia, a prescindere dalla teoria che potrebbe includerlo. La presenza, nella mailing-list, di operatori appartenenti a scuole e a specializzazioni differenti, favorisce questo atteggiamento meno aprioristico e più incline a valorizzare la multidimensionalità del riscontro empirico: il suo essere costitutivamente aperto a differenti elaborazioni teoriche. Una storia di vita, in altre parole, viene "raccontata" nella fase aurorale che precede e rende possibile il movimento della sua concettualizzazione: prima, dunque, che essa venga ridotta ad una storia clinica.
La centralità di questa funzione narrativa, esaltata dalle pratiche di rete, consente allo psichiatra di mettere in discussione la trasformazione del soggetto malato in malattia, concepita come entità naturale ed astratta, in omaggio al dettato dei vari DSM che si sono succeduti nel tempo. Non si racconta una depressione. Si racconta la storia di vita di un depresso, riservandosi solo in un secondo tempo — sempre che lo si ritenga necessario — di stabilire a quale tipologia depressivaappartengano i suoi sintomi ed il suo modo di essere nel mondo. Potrà anche accadere che la storia raccontata non sia del tutto inscrivibile in una tipologia (o in una sola tipologia) già messa a punto dal sapere psichiatrico. In tal caso sarà necessario riformulare o modificare gli apparati nosografici esistenti — oppure ricrearli ex novo – rendendoli maggiormente idonei a concettualizzare i dati osservativi emergenti. A questo livello non possiamo certo seguire Quine, quando ci mostra — per le scienze della natura — la stretta interdipendenza tra i processi diclassificazione e di reificazione dei fenomeni osservati, nel momento in cui essi vengono "costruiti" come oggetti. Si tratta, semmai, di dereificare la classificazione, rendendola uno strumento flessibile, una funzione del tempo storico e dello spazio culturale: capace di continue modulazioni, adeguate alla specificità esistenziale dei soggetti incontrati e raccontati.
Nelle discussioni tra operatori della salute mentale sviluppatesi nella mailing-list, ho spesso osservato un fenomeno particolarmente interessante: il concetto nosografico viene sostituito da quello che Deleuze e Guattari, in ambito filosofico, definiscono il personaggio concettuale, che è, nel nostro caso, qualcosa di più e qualcosa di meno del tipo astratto, che riceve il suo attributo dalle entità patologiche codificate dal sapere psichiatrico (valga per tutti il typus melancholicustematizzato da Tellenbach). Qualcosa di più, dicevo: il personaggio concettuale, infatti, anche se rinvia, in qualche maniera, ad un impianto categoriale già esistente, si impone soprattutto grazie alla centralità dei suoi tratti caratteriali ed alla specificità irriducibile dei suoi contesti e del suo itinerario biografico. Qualcosa di meno: il personaggio concettuale è troppo connotato individualmente, e le sue vicende personali non sono immediatamente traducibili nelle caratteristiche astratte e generalmente ricorrenti del typus.
Esiste ancora, per il personaggio concettuale, un certo scarto tra il piano degli eventi e il piano dei concetti: uno scarto che può rappresentare un ostacolo epistemologico al procedimento astrattivo, ma che funziona anche come stimolo al rinnovamento o alla rifondazione delle categorie. Un’analoga divaricazione, già osservata da Michel Foucault nella Storia della follia, attraversa in profondità l’intera storia della psichiatria moderna: tra la percezione sociale, istituzionale o asilare della follia e la sua percezione medica, supportata dalla continuità plurisecolare di una tradizione nosografica. Nel personaggio concettuale queste due grandezze, sfasate ed asimmetriche — cioè il concetto e l’evento, il livello discorsivo e quello non discorsivo — cercano una difficile coabitazione ed una problematica convergenza, mantenendo tuttavia distinte le loro caratteristiche essenziali.
Potremmo anche dire che il personaggio concettuale rappresenta la mediazione incarnata tra storia di vita e storia clinica: la figura di una prossimità e di una sintesi incompiuta tra il piano d’immanenza dei concetti e la loro coerenza discorsiva.
Quando la mediazione salta — quando la storia di vita irrompe in maniera devastante nell’ordine concettuale della disciplina, e non può essere facilmente trascritta nei termini di una storia clinica — non vi è più spazio per la creazione di un personaggio concettuale. Un esempio per tutti: Augusto Comte, padre fondatore del positivismo e paziente di Esquirol. [40]
Comte viene dimesso dalla casa di cura privata di Esquirol "non guarito": contesta, nei suoi scritti e nelle sue lettere, la diagnosi, e quindi la categoria nosografica mobilitata per giustificare il suo internamento (una forma particolare di monomania: la "megalomania" o "delirio di grandezza"); di più: contesta anche il metodo terapeutico usato (cioè il cosiddetto trattamento morale), smascherandone le valenze coercitive e mettendo in grande evidenza la grave latitanza dell’alienista, che aveva affidato la gestione dei suoi equilibri intellettuali ed affettivi all’azione arbitraria di agenti subalterni e rozzi ("subalternes et grossiers"). Esce dall’asilo, benchè dichiarato "non guéri", e provvede da solo — senza nessun aiuto medico — al suo processo di rigenerazione e di guarigione.
Comte non figura mai, nemmeno in forma criptica ed allusiva, tra i casi clinici che attraversano copiosamente la produzione scritta di Esquirol. Non diventa dunque un personaggio concettuale, proprio nella misura in cui la sua storia di vita rappresenta uno scacco della teoria: uno di quegli "échecs" di cui aveva già parlato Pinel, fondatore della psichiatria moderna e maestro di Esquirol. Lo scacco — figura speculare di un assetto epistemico — viene espulso dall’ordine del discorso, poiché veicola dati osservativi incompatibili con la coerenza interna di una teoria.
Il dibattito tra psichiatri all’interno di una mailing-list, a differenza dei testi "scientifici", propensi a valorizzare riscontri empirici compatibili, mette più volentieri in scena gli scacchi e le figure soggettive che li incarnano, a tutto vantaggio di un possibile ripensamento critico della disciplina. Emergono così, da questo livello informale del dibattito, nuovi personaggi concettuali, o, se si preferisce, personaggi concettuali negativi, capaci di dare un gran risalto alla sfasatura tra le categorie e gli eventi, tra il piano d’immanenza dei concetti e i loro "tratti intensivi". [41]
Il compito di un’epistemologia storica e critica è anche quello di ricostruire il profilo — distorto, cancellato o negletto — delle figure soggettive che popolano un sapere. Un caso esemplare, in questa direzione, è quello di Anna O., famosa paziente isterica di Breuer, considerata da Freud come prototipo della relazione tra l’analista e l’isterica: prima eroina del sapere nascente, Anna O. diventa, negli Studi sull’isteria, il personaggio concettuale per eccellenza della dottrina psicoanalitica. Il paziente lavoro degli storici ha dimostrato che Anna O., al secolo Bertha Pappenheim, non è stata guarita da Breuer: anch’essa, come Comte – dopo l’interruzione della terapia — ha ritrovato da sola il suo equilibrio psichico, attraverso una coraggiosa attività di pubblicista, oltre che di paladina dell’assistenza sociale e dei diritti della donna. [42]
Bertha ci appare oggi come un personaggio concettuale negativo, capace di stimolare una riflessione critica sui fondamenti della psicoanalisi freudiana e sulle procedure riduzioniste che la caratterizzano. L’istanza storico-epistemologica, in questo caso, si è configurata come componente interna di un paradigma, funzionale alla sua conferma, alla sua ristrutturazione o alla sua invalidazione: un’istanza che trova nel dibattito psichiatrico in rete una formidabile occasione per inserirsi in quel luogo cruciale e delicatissimo di ogni disciplina scientifica, dove vengono continuamente messi a confronto l’evento ed i concetti, i privilegi dell’empiria e la strutturazione interna della teoria.
EPILOGO
Il dibattito psichiatrico in rete mette dunque più facilmente a disposizione degli operatori storie di vita non ancora imbrigliate nelle maglie della teoria. In questo modo viene offerto ai paradigmi un terreno concreto su cui è possibile sperimentare una loro possibile connessione, nella prospettiva di una loro effettiva ed efficace integrazione, attualmente all’ordine del giorno in molti settori della ricerca clinica.
Un esempio emblematico: la discussione, sviluppatasi nella mailing-list, sui risultati terapeutici e sugli effetti collaterali dei neurolettici dell’ultima generazione, a cominciare dalla clozapina. [43]
Sui meccanismi d’azione di questi farmaci si sa ancora troppo poco: la loro azione diretta sulle vie dopaminergiche è considerata responsabile sia degli effetti antipsicotici sia degli effetti collaterali iatrogeni (ad esempio gli effetti extrapiramidali e — per la clozapina — l’agranulocitosi). Per quanto riguarda gli effetti antipsicotici, si è inclini a ritenere che mentre i neurolettici della prima generazione (dalla clorpromazina alla stelazina) agiscono sui sintomi positivi della schizofrenia (allucinazioni, manie, eccetera), quelli più recenti agiscono anche sui sintomi negativi (depressione, ritiro in se stessi, eccetera). [44]
La discussione in rete su tutti questi aspetti diventa anche l’occasione per affrontare almeno due problemi.
- Primo problema. Poiché questi nuovi neurolettici non hanno un effetto prevalentemente sedativo (come quello ottenuto dai neurolettici precedenti, a partire dalla clorpromazina), ma producono – in non pochi pazienti – veri e propri risvegli ed una sorprendente spinta alla vita di relazione, quali dovranno essere gli interventi psicoterapici e riabilitativi adeguati a questa nuova situazione? E soprattutto: come dovrà svolgersi, di conseguenza, la collaborazione tra chi somministra il farmaco e chi segue il paziente "risvegliato" da un punto di vista psicologico e relazionale? Oppure, nel caso in cui le due funzioni, all’interno di un servizio, vengano esercitate dal medesimo terapeuta: in che modo esse potranno accordarsi ed armonizzarsi tra di loro? Ci si confronta, qui, con una problematica che trae origine da situazioni concrete e dalle necessità del lavoro clinico, ma che non si esaurisce dentro il mero orizzonte delle pratiche. Si tratta infatti di accordare tra di loro due linguaggi diversi (quello farmacologico e quello psicoterapico), due paradigmi, due percorsi formativi, due differenti concezioni della cura. In questo caso, una nuova epistemologia della connessione lavorerà a partire da urgenze concrete, da sperimentazioni, da discussioni — tanto più produttive quanto meno imbrigliate in rigidi presupposti teorici — e diventerà un fattore dinamico interno alla teoria: capace di promuoverne lo sviluppo e di collocarla all’altezza delle difficili sfide del prossimo millennio.
- Secondo problema. Non si conoscono ancora le variabili temporali di queste nuove terapie: il soggetto curato dovrà rimanere un paziente "neurolettizzato" per il resto della sua vita? Oppure, in caso contrario, entro quali condizioni — fisiche e psicologiche — il paziente potrà affrontare una eventuale e graduale sospensione del trattamento farmacologico? Ed ancora: con quali modalità sarà possibile ottenere dal paziente un consenso informato relativo alla durata, alla qualità ed agli effetti collaterali della terapia adottata? Ed infine: in quale misura il drammatico incombere di queste sfide richiede una specifica progettazione innovativa dei contenitori istituzionali, sovente inadeguati e proiettati, oggi, verso una filosofia produttivistica ed aziendalistica? Paradigmi a confronto. Creazioni o ristrutturazioni concettuali. Problemi etici ed istituzionali strettamente intrecciati all’orizzonte teorico ed alle sue ricadute nell’ambito della clinica…
Una problematica complessa, come si può facilmente constatare, a cui la rete — favorita dalla velocità dei suoi percorsi comunicativi e dalla loro illimitata latitudine spaziale — può fornire un contributo costruttivo. La rete può dunque rappresentare, per la clinica psichiatrica, un efficace contraltare alle vischiosità istituzionali, alle rigidità paradigmatiche, alle lentezze e alle pastoie burocratiche: capaci, molto spesso, di ostacolare la creatività scientifica e di vanificare ogni impegno terapeutico e riabilitativo.
NOTE
[1] Cfr. la voce epistemologia in: W. F. BYNUM, E. J. BROWNE, R. PORTER (a cura di), Dizionario di storia della scienza, Theoria, Roma 1987, pp.170-171.
[2] Si veda, su questo, I. HACKING, Linguaggio e filosofia, Raffaello Cortina, Milano 1994, pp.198-202.
[3] Sulla matrice comtiana del positivismo europeo e sulla polemica di Comte contro lo scientismo e contro gli "specialismi", cfr. W. M. SIMON, Il positivismo europeo nel XIX secolo, Il Mulino, Bologna 1980, pp. 13-17, pp.267-275 e passim. E’ utile ricordare — volendo identificare il campo dell’epistemologia — che a tutt’oggi, nel mondo universitario anglosassone, coesistono due significati del termine: uno ristretto, che individua come oggetto dell’indagine la conoscenza scientifica (e in particolar modo le scienze della natura), ed uno più allargato, strettamente filosofico, che funziona come sinonimo di teoria della conoscenza. Anche nell’ambito di questo secondo significato, tuttavia, vi è chi definisce l’epistemologia, in termini generali, come teoria della conoscenza e della giustificazione (ad esempio Robert Audi), e chi — come Nicolas Everitt e Alec Fisher — pur muovendosi entro gli ambiti disciplinari della filosofia, privilegia la conoscenza logico-matematica. Cfr. R. AUDI, Epistemology, Routledge, London — New York 1998, e N. EVERITT – A. FISHER, Modern Epistemology, New York 1995.
[4] Sulla distinzione tra pensiero analitico e pensiero continentale, con particolare riferimento all’ambito filosofico-epistemologico, si veda soprattutto l’importante e documentata rassegna critica di F. D’AGOSTINI, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Raffaello Cortina, Milano 1997 (cfr. in particolare, per i problemi qui affrontati, pp. 447-506). Un solo rilievo: in questa esaustiva panoramica, uno studioso come Ian Hacking, che ha cercato di gettare un ponte tra pensiero analitico e pensiero continentale, è stato, a parer mio, troppo trascurato. Per alcune prove di ricerca maturate criticamente nell’ambito della tradizione epistemologica avviata da Bachelard, mi sia consentito il rinvio a: M. GALZIGNA, Conoscenza e dominio. Le scienze del vivente tra filosofia e storia, Bertani, Verona 1984; sul rapporto possibile tra genealogia ed epistemologia, rinvio a M. GALZIGNA, Conoscenza e passione. Proposte di ricerca genealogica, inAA.VV., Effetto Foucault, a cura di P. A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1986. Cfr. anche i miei più recenti contributi al volume di G. GEMBILLO — M. GALZIGNA,Scienziati e nuove immagini del mondo, Marzorati, Milano 1994.
[5] M. FOUCAULT, La vita: l’esperienza e la scienza; il saggio compare come postfazione a: G. CANGUILHEM, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998, pp.269-283. Si tratta di un rimaneggiamento — completato nel 1984, poco prima della morte — della prefazione all’edizione americana (Boston, 1978) del libro di Canguilhem. La sottolineatura — nel brano citato- è mia.
[6] Per una descrizione dettagliata delle quattro soglie e dei diversi tipi di storia delle scienze che le descrivono, rinvio a M. FOUCAULT, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1980, pp. 243-256.
[7] Ivi, p. 246 e p. 247.
[8] Per una efficace presa di posizione "anti-oscurantista" si veda L. LAUDAN, Science and Relativism, University of Chicago Press, Chicago 1990, p. X. Per una ripresa analitica ed argomentata — oltre che supportata da una ricca messe di osservazioni storiche — della tesi dell’incommensurabilità, ritenuta compatibile con le dinamiche di confronto/scontro/rivalità tra programmi antagonisti, cfr. D. GILLIES — G. GIORELLO, La filosofia della scienza nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari 1995 (si veda in particolare G. Giorello, pp. 337 — 391).
[9] F. D’AGOSTINI, op. cit., pp. 463-464.
[10] Cito G. Giorello, da D. GILLIES — G. GIORELLO, op. cit., p. 369. Su fallibilismo e tolleranza si veda l’ultimo capitolo omonimo (pp. 371 — 391), scritto da Giorello. Un punto di vista ancorato alla tradizionale concezione obiettivistica della verità scientifica — e perciò incapace di comprendere la potenza euristica di una visione più ampia (meno "pura") della ratio — lo si ritrova nel saggio/pamphlet di A. SOKAL — J. BRICMONT, Impostures intellectuelles, Editions Odile Jacob, Paris 1997 (cfr, soprattutto pp. 51 — 99).
[11] Rinvio, a questo proposito, alle mie ricerche, già citate nella nota 4 (1984 e 1994). Sul rapporto, ad esempio, tra le concezioni matematiche di Poincaré e il problema dell’induzione, si veda la monografia di U. BOTTAZZINI, Poincaré, il cervello delle scienze razionali, collana "I grandi della scienza" , supplemento alla rivista "Le Scienze", febbraio 1999; su matematica e induzione in Peano cfr. anche E. GIUSTI, Ipotesi sulla natura degli oggetti matematici, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 48 — 49, e L. GALZIGNA, Matematica e biologia. I numeri della vita, UTET Libreria, Torino 1998, pp. 41 — 45 e passim. Una presa di posizione anti-induttivista — mirata ad evidenziare l’incompatibilità logica tra l’approccio probabilistico ed i procedimenti induttivi — in una letter di K. POPPER e D. MILLER (A proof of the impossibility of inductive probability) alla rivista "Nature", 302, 1983, pp. 687-688. Sempre su "Nature" (310, 1984 e 315, 1985) sono comparse risposte e confutazioni — di carattere prevalentemente logico – dell’impostazione popperiana
[12] C. G. HEMPEL, Filosofia delle scienze naturali, Il Mulino, Bologna 1968; R. CARNAP, I fondamenti filosofici della fisica (1966), Il Saggiatore, Milano 1971; cfr. anche, sempre di R. CARNAP, I fondamenti logici della probabilità, Il Saggiatore, Milano 1975: è la traduzione della seconda edizione (University of Chicago Press, Chicago 1962; la prima edizione è del 1950).
[13] R. CARNAP, I fondamenti filosofici della fisica, cit., p. 37. Per una discussione aggiornata della "controversia induttivista" e per una rivalutazione dell’inferenza induttiva, vista anche in relazione al dibattito sugli sviluppi dell’intelligenza artificiale, cfr. D. GILLIES, Artificial Intelligence and Scientific Method, Oxford University Press, New York 1999, pp. 1-16, 56-71 e 98-112.
[14] Per la problematica degli esperimenti cruciali — sviluppata a partire dall’esame critico di alcuni assunti fondamentali della biologia molecolare — rinvio agli argomenti svolti in M. GALZIGNA, Conoscenza e dominio (cit., pp. 38 — 51), che qui riprendo.
[15] C. G. HEMPEL, op. cit., p. 49.
[16] K. POPPER, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970, pp. 6-7.
[17] Ivi, pp. 257-311.
[18] Per le citazioni di Popper presenti qui di seguito, nel testo, rinvio a M. GALZIGNA, op.cit., p. 47.
[19] Cfr. R. CARNAP, Autobiografia intellettuale, in: P. A. SCHILPP (a cura di), La filosofia di Rudolf Carnap, 2 volumi, Il Saggiatore, Milano 1974, vol. I, pp. 82 — 83. Nella risposta a Kaplan, Carnap cerca di superare la sua impostazione rigidamente cognitivista: ma questo non certo nella direzione di un riconoscimento della presenza dei "giudizi di valore" nell’ambito del ragionamento scientifico, ma nella direzione di una possibilità, ampiamente riconosciuta, di formalizzare "i significati dei giudizi di valore" — presenti nel linguaggio comune e nel linguaggio filosofico — attraverso il ricorso alle "forme canoniche di un linguaggio artificiale" (Ivi, vol. II, p. 994). In ogni caso, nonostante il riconoscimento di questa possibilità, viene ribadita la netta distinzione tra giudizi di valore ed asserti dotati di valore conoscitivo.
[20] Ivi, vol. II, p. 832.
[21] Altrove ho cercato di dimostrare, in relazione alla biologia molecolare (e alle ricerche di Jacques Monod), la rilevanza epistemologica delle scelte etiche. Cfr.M. GALZIGNA, op. cit., pp. 15-100.
[22] Rinvio, su questo, al mio testo Persona, struttura e storia. Una svolta epistemologica, che compare come capitolo conclusivo a M. GALZIGNA (a cura di), La sfida dell’altro. Le scienze psichiche in una società multiculturale, Marsilio, Venezia 1999.
[23] Cfr. W. V. QUINE, Quidditates. Quasi un dizionario filosofico, Garzanti, Milano 1991, pp. 202 — 204. Nell’epistemologia di Quine, come è noto, viene abbandonata la distinzione tra il concettuale e l’empirico, tra l’analitico e il sintetico, tra il linguaggio e il fatto (o l’oggetto).
[24] Cfr. G. PASQUALOTTO, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia 1992. Ed anche: G: PASQUALOTTO, Antidoti d’Oriente alla malinconia, in "BioLogica", 7, 2000. Per un incontro tra psicoterapia e spiritualità orientale, un’utile introduzione è quella di D. BRAZIER, Terapia Zen, Newton & Compton, Milano 1997 (sul rapporto tra epochè husserliana e dottrine del vuoto mentale, cfr. pp. 39 — 40). Per un incontro tra fenomenologia ed epistemologia — all’interno di una rilettura dell’etica buddhista dell’infondatezza e della compassione — si veda l’importante saggio di F. J. VARELA — E. THOMPSON — E. ROSCH, La via di mezzo della conoscenza.Le scienze cognitive alla prova dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1992. Si veda anche la raccolta di saggi curata da un biochimico che è anche un buddhista praticante: B. P. KIRTHISINGHE (a cura di), Buddhism and Science, Motilal Banarsidass, Delhi 1984. Si vedano inoltre, tra i classici della saggezza orientale leggibili entro la nostra prospettiva e riproposti in edizione francese, LIE ZI, Du vide parfait, a cura di Lisa Bresner, Rivage Poche, Paris 1999, ed anche DÔGEN, La présence du monde, a cura di Vera Linhartova, Gallimard — Le Promeneur, Paris 1999.
[25] Importante il lavoro di M. EPSTEIN, Pensieri senza un pensatore. La psicoterapia e la meditazione buddhista, Ubaldini, Roma 1996, p. 101. Su Bion, visto da Epstein come "l’unico psicoanalista capace di capire questo atteggiamento mentale", cfr. pp. 167 — 168.
[26] M. FOUCAULT, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità.2, Feltrinelli, Milano 1985, p.14.
[27] R. RORTY, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986, p. 241 (per la trattazione di tutta la questione, cfr. pp. 239 — 273).
[28] Ivi, p. 276. Rorty assegna a questa attività un elevato valore etico, pedagogico e formativo: "Il tentativo di edificare (noi stessi o altri) può consistere nell’attività ermeneutica di operare connessioni tra la nostra propria cultura e qualche cultura esotica o un qualche periodo storico, oppure tra la nostra disciplina e un’altra disciplina che sembri perseguire scopi incommensurabili in un vocabolario incommensurabile".
[29] G. CANGUILHEM, Lo statuto epistemologico della medicina, in "BioLogica", 1, 1988, pp. 195 — 209. Per la citazione cfr. p. 208.
[30] Ivi, p. 207.
[31] J. CHASSEGUET-SMIRGEL, Creatività e perversione, Cortina, Milano 1987, p. 1. L’empatia tra psiconauta e perverso non è l’esito di un determinato assetto dottrinale, implicito nell’ espressione da noi scelta per ricordare una delle sue possibili spiegazioni (abbiamo parlato, nel testo, di nuclei perversi latenti, riferendoci all’elaborazione freudiana della Chasseguet-Smirgel); tale empatia ci appare in primo luogo come un vissuto – non elaborato teoricamente — che si sviluppa a partire dallo scambio di parole e dall’impatto emozionale del racconto perverso sulla coscienza dell’ascoltatore, così come emergono nelle pratiche di rete.
[32] Faccio riferimento, qui, ad uno dei testi teorici più densi e più significativi di Michel Foucault, dove vengono analizzati i meccanismi di esclusione ed i sistemi di controllo che presiedono alla produzione del discorso di verità: cfr. M. FOUCAULT, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972 (è il testo della lezione inaugurale al Collège de France, letta il 2 dicembre 1970).
[33] Ivi, p. 28.
[34] Ivi, p. 37. Per Foucault, una filosofia dell’esperienza originaria porta con sé un "diniego" della "realtà specifica del discorso", che ci impedisce di comprenderlo nella materialità della sua costituzione, nel suo rapporto con gli eventi e con le istituzioni, nelle sue procedure di esclusione e di controllo. Pur postulando l’esistenza di una discorsività situata in uno spazio di "esteriorità selvaggia" rispetto alla verità scientifica, Foucault non analizza e non elabora il problema dei luoghi e dei modi specifici entro cui questa discorsività selvaggia si dispiega. Sarebbero, in ogni caso, luoghi esterni ai dispositivi di sapere e di potere capaci di far funzionare i singoli regimi di verità. Proprio in questa prospettiva si situa la nostra proposta di un approccio antropologico-formativo alla rete, visto come una delle vie d’accesso ad un rapporto con l’esperienza che preceda la sua inclusione nei processi di concettualizzazione: prima, come si è già detto, che i fatti empirici diventino relazioni logiche, e quindi prima che il concettuale e l’empirico si sovrappongano.
[35] H. TELLENBACH, Melancolia, Il Pensiero Scientifico, Roma 1975, p. 36. Per una ripresa dei temi di Tellenbach si veda G. GOZZETTI, Tristezza vitale. Psicopatologia e fenomenologia della melancolia, Marsilio, Venezia 1996.
[36] H. TELLENBACH, op. cit., p. 32.
[37] Cfr., per questo, J. STAROBINSKI, Storia del trattamento della malinconia dalle origini al 1900, Guerini e Associati, Milano 1990.
[38] Troviamo questa espressione in G. DELEUZE — F. GUATTARI, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, pp. 25-50. Le definizioni – di "concetto", di "piano d’immanenza" e di "personaggio concettuale" — presenti in questo saggio, potrebbero essere estese, con opportune variazioni ad hoc, alle scienze umane e, in una certa misura, anche alla psichiatria. La recente scomparsa dei due autori ha lasciato aperto l’orizzonte di questa possibile estensione: più in generale, l’orizzonte di un radicale ripensamento filosofico delle discipline.
[39] Ivi, p. 31.
[40] Per la vicenda di Comte paziente di Esquirol, rinvio a M. GALZIGNA, La malattia morale. Alle origini della psichiatria moderna, Marsilio, Venezia 1992, pp. 181 — 193.
[41] G. DELEUZE — F. GUATTARI, op.cit., p. 30.
[42] M. BORCH-JACOBSEN, Ricordi di Anna O. La prima bugia della psicoanalisi, Garzanti, Milano 1996.
[43] Cfr., per una valutazione degli effetti collaterali, J. A. LIEBERMAN, Maximizing clozapine therapy, in "Journal of Clinical Psychiatry", 59, Suppl. 3, 1998, pp. 38-43; in alcuni autori prevale un atteggiamento molto prudente circa la possibilità di valutare in maniera attendibile gli effetti collaterali dei nuovi neurolettici, data la loro recente immissione nel mercato e la conseguente esiguità della casistica disponibile: cfr., al proposito, D.G. DANIEL (et alii), Side effects of risperidone and clozapine, in "American Journal of Psychiatry", 153, 1996, pp. 417-419.
[44] R. GATES, Sulla schizofrenia (1995), in: R. D. BURKE, La musica è finita, a cura di R. Gates e R. Hammond, prefazione di G. B. Cassano, Garzanti, Milano 1999, pp. 271-300. Gates apre così il capitolo dedicato alla cura: "Per la schizofrenia sono state proposte molte cure, ma al presente la scelta più chiara è quella farmacologica combinata a un’oculata struttura e assistenza sociale" (p. 295). Il taglio riduzionista di questa affermazione — tutta interna ad un paradigma "biologico", concepito come struttura epistemologica chiusa ed autosufficiente — si commenta da solo.
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