*Estratto da G. Stanghellini, Disembodied Spirits and Deanimated Bodies. Psychopathology of Common-Sense, Oxford University Press, Oxford 2004
La crisi della psicopatologia e il coraggio della filosofia
La psicopatologia ha perso la sua anima filosofica e il coraggio delle grandi sintesi concettuali? Per buona parte degli psichiatri, la parola ‘filosofico’ è sinonimo di ‘speculativo’ e ‘non empirico’, dunque è impiegata per stigmatizzare affermazioni o teorie astratte, non basate sui fatti, non verificabili e comunque lontane dalla pratica medica. Tutt’al più, la filosofia è tollerata dai più indulgenti in quanto cornice storica o antefatto della psichiatria moderna, così come l’alchimia nei confronti della chimica. In nome dell’empirismo e della facile e rapida comprensibilità dei concetti, la psichiatria clinica ha rinunciato ad una cornice teorica di riferimento coerente, tanto che le parole della psichiatria sono appiattite assai spesso sul loro significato di senso comune. Ne troveremo numerosi esempi nel corso di questo volume. Alcuni di questi sono veramente tragico-comici, come ad esempio la definizione di ‘affetto’, "l’affetto sta all’umore come il tempo sta al clima"; o l’insistenza nel definire le allucinazioni come percezioni senza oggetto, o il delirio come falsa credenza.
E’ facile vedere che, anche sul piano strettamente clinico, si pongono questioni da sempre appannaggio della riflessione filosofica. Il delirio di colpa che affligge i melancolici fa inevitabilmente riferimento ad un giudizio di valore, al tema del bene e del male, dunque al problema della norma in senso sociale e morale; mentre i deliri schizofrenici rimandano alla sfera ontologica, cioè al problema della realtà della realtà, tramite domande quali ‘Cos’è veramente il mondo al di là delle sue manifestazioni?’ e ‘Come apparirebbe il mondo senza la mediazione della mia coscienza?’. Anche le allucinazioni rimandano inesorabilmente al tema della struttura della coscienza, all’enigma della coscienza di sé in quanto unione nella duplicità — ‘Io sono cosciente di me stesso’ — dunque alla possibilità di percepire il proprio pensiero come alieno, come accade nel caso delle allucinazioni uditivo-verbali. Il mondo maniacale proietta verso le aporie della libera libertà. L’intenzione suicidiaria costringe a riflettere sul problema della libera scelta.
A cosa si riduce la cura se si ignorano le aporie etiche ed ontologiche in cui si dibatte (spesso inconsapevolmente) la coscienza umana, o si sottovaluta la portata filosofica di tali domande?
La psicopatologia sembra aver perso di vista la propria natura centaurica — disciplina fondante la comprensione e la cura — e così anche il proprio mandato — elaborare gli strumenti concettuali per fondare una comprensione rigorosa dei fenomeni patologici della soggettività — e si è riciclata in quanto disciplina che seleziona i sintomi utili alle procedure diagnostiche e che li definisce operativamente.
La psicopatologia, invece, è filosofia applicata. La psicopatologia, cioè, ha un’origine e una vocazione filosofica che si esprime nella sua duplice funzione nei riguardi della psichiatria. Essa infatti incarna un’attitudine critica verso i conflitti e i limiti del sapere e del linguaggio psichiatrico e un’aspirazione fondazionale, cioè l’intenzione di rendere coerenti sapere e linguaggio all’interno di una cornice di riferimento esplicita — che per me è quella fenomenologica.
Dimenticando questo connubio tra psicopatologia e filosofia, si è creduto che l’attuale crisi della psichiatria fosse una crisi tecnologica e non invece filosofica. Si crede, cioè, che l’impasse nella ricerca sulle patologie della mente sia conseguenza dell’inadeguatezza delle sonde di rilevazione neuropatologica, e non invece il risultato di inadeguatezze concettuali. Com’è possibile, ad esempio, trovare il substrato biologico delle allucinazioni uditivo-verbali fintanto che queste vengono definite come disturbi senso-percettivi, aggirando la definizione di nozioni come sé, persona, coscienza, ipseità, identità e intersoggettività?
Salvo l’eccezione rappresentata dalla letteratura fenomenologica, per trovare interpretazioni della condizione psicotica organizzate attorno a tali nozioni bisogna ricorrere ai vecchi libri di psichiatria, dove tra l’altro — e non per caso — accanto ai concetti di chiara ed esplicita marca filosofica troviamo fedeli e accurate descrizioni delle esperienze, delle espressioni e dei comportamenti dei pazienti, a dimostrazione che tendere verso le grandi organizzazioni di significato dell’esperienza umana non ostacola l’attenzione alla singolarità delle esperienze.
COMPRENDERE E SCHIZOFRENIA
Ascoltare una persona schizofrenica è un’esperienza sconvolgente per più di una ragione. Se lascio che le sue parole attualizzino in me le esperienze di cui parla, invece di prenderle come sintomi di una malattia, lo scoglio di certezze sul quale si arrocca la mia vita può esserne travolto e sommerso. Il senso di essere iocolui che vede questo foglio, legge queste righe e gira questa pagina; l’esperienza di unità percettiva, l’essere ciò il centro sul quale convergono il mio vedere questo libro, toccare la sua copertina e sentire l’aroma delle sue pagine fresche di stampa; la sensazione che sono proprio io ad avere questa strana ansia che cresce mentre questi pensieri si aprono un varco dentro di me; e ancora che sono io ad essere o meno concorde con ciò che sto pensando; il senso, inoltre, di appartenere ad una comunità di persone, di essere in sintonia con loro e coinvolto in ciò che mi sta accadendo in mezzo a loro. Tutte queste certezze, tutte queste ovvietà su cui si fonda la mia vita quotidiana sono messe a repentaglio. Se consento alle sue parole, se lascio che la sua esperienza, anche solo per un istante, prenda il posto della mia e sbiadisca i lineamenti dell’immagine di me stesso che occupa il centro del quadro della mia memoria; se quest’immagine di soggetto, mitica e divinizzata, scomparisse dal centro della tela, risucchierebbe in un gorgo i contorni e i colori dei paesaggi e delle scene più familiari. Rischierei di pensare che io, come tutti, forse viviamo immersi in un delirio di realtà.
Nonostante i miei sforzi di capire, sospendendo ogni giudizio clinico, mi permettano di vedere nei racconti di queste persone una delle possibili configurazioni della coscienza umana, devo ammettere che c’è qualcosa di incomprensibile e quasi inumano in queste esperienze, qualcosa che mi fa sentire radicalmente diverso dalla persona che sto ascoltando. Cosa ho in comune con qualcuno che dice di percepire i suoi pensieri come oggetti materiali nel cervello? O che sente il proprio corpo, o alcune sue parti, non come qualcosa di cui fa parte, in cui è incarnato, ma come un meccanismo fungente che gli permette di sentire, percepire, agire? O che si sente così disconnesso dagli umani che si è messo alla ricerca di un algoritmo tramite il quale interagire con essi?
Questa supposta incomprensibilità è stata per anni un alibi di ferro per molti di noi ed è stata presa da alcuni come una ragione legittima per abdicare al compito di capire e cercare, invece, cause e spiegazioni. Ciò che sfida, e al tempo stesso contrasta, la mia capacità di capire è che queste esperienze rivelano un tipo speciale di non-comprensione: la prima cosa che deve cercare di comprendere è il mio non comprenderle, il perché non le comprendo. Se cercassi di comprenderle, capirei anche alcuni degli aspetti fondamentali del mio modo di esperire e dare un senso alle mie esperienze, e così facendo mi sentirei spiazzato da ciò che mi radica nella mia vita con il suo sembrare intrinsecamente ovvio e convincente. Le "anomalie" schizofreniche esibiscono le condizioni normalmente celate dell’esperienza quotidiana. Quando ascolto il mio interlocutore schizofrenico, ho l’opportunità di vedere davanti a me ciò di cui non posso essere cosciente quando sono rivolto al mondo della vita nel cosiddetto "atteggiamento naturale". Se cerco di seguirlo, rischio di vedere che la maggior parte (se non tutto) di ciò che considero "naturale" non lo è affatto e può essere messo tra parentesi, sospeso. Se rimuovo il mio sguardo, come fa lui, dal mondo della vita sarò assorbito dal percepire, come oggetti quasi concreti e processi quasi materiali, ciò che era rimasto nascosto al mio vedere quando ero immerso nel mondo della vita in quanto parte di esso. Giungerò a vedere me stesso, il mio corpo e il mondo quasi da altrove. Se, in precedenza, stavo sentendo, percependo e agendo, ora questi sentimenti, percezioni e azioni diventeranno oggetti esterni passibili di essere esplorati.
Non c’è molta più incomprensibilità nell’esistenza schizofrenica che nella mente moderna: entrambe sono vittime della stessa attitudine alla spazializzazione ed alla concretizzazione della "vita" per farne un oggetto di conoscenza, come i filosofi e gli psicopatologi hanno dimostrato. La seguente frase di Minkowski chiarifica questo punto, all’incrocio tra filosofia e psicopatologia:
"Intuizione ed intelligenza, ciò che vive e ciò che è morto, ciò che fluisce e ciò che rimane, ciò che diviene e ciò che è, il tempo vissuto e lo spazio, queste sono le diverse espressioni di due principi fondamentali che, con Bergson, governano la nostra vita e la nostra attività. […] Noi siamo riusciti a distinguere due ampi gruppi di fenomeni psicopatologici: il primo è caratterizzato dalla perdita di elementi intuitivi e da una ipertrofia morbosa di elementi razionali; il secondo mostra uno stato delle cose diametralmente opposto".
Se metto tra parentesi l’atteggiamento di senso comune, mi ritroverò ai margini della vita. Questa mossa, e solo questa, mi permette di indagare e conoscere da un punto di vista teorico ciò che in precedenza ho percepito praticamente ed intuitivamente.
Le esperienze di una persona schizofrenica mi ricordano che senso pratico e conoscenza intellettuale sono antitetici. Questo sentimento di destituzione è stato, a torto o a ragione, anche considerato il nucleo dell’"incontro" con lo schizofrenico: un sentimento precoce di alterità che sento di fronte a lui. Infatti, questa destituzione nasconde una struttura molto più complessa. Non è solo una disposizione diagnostica intuitiva e pre-categoriale. Nasconde alcuni dei segreti dell’alterità dell’esistenza schizofrenica che lo sguardo fenomenologico aiuta a rivelare. In primo luogo, ho la sensazione che egli non sia là dove io lo vedo. L’esperienza del qui-e-ora è in gioco. Egli sembra guardare ed ascoltare da un altro posto. Io spero che in questo studio diverrà sempre più chiaro il significato di questa sensazione sconcertante. Per il momento, diciamo che egli non sembra avere una percezione immediata di ciò che sta succedendo, ma che stia avendo una sensazione, stia elaborando questa sensazione, e stia strutturando le sue parti ed il contesto in cui avviene in un tutto significativo:
"Io non gusto la minestra, ma i suoi ingredienti – Sentire il gusto globale della minestra richiede una ricostruzione".
Una persona schizofrenica è qualcosa di simile ad uno spettatore dei singoli passaggi dei propri processi percettivi — natura transcendentaliter spectata (natura guardata da altrove).
Questa esperienza frammentata può anche essere illustrata come ciò che accade allo spettatore di un film quando la pellicola si interrompe: invece di guardare passivamente ed essere assorbito da ciò che viene proiettato sullo schermo, egli prima osserva l’inquadratura con un crescente sentimento di irrealtà riguardo a ciò che è rappresentato in essa, poi volge i suoi occhi verso il raggio di luce e alla fine verso la stanza del cine-proiettore. I racconti che le persone schizofreniche fanno di sé suggeriscono che la distanza tra chi percepisce e ciò che viene percepito diventa in qualche modo manifesta — o, se si preferisce, il processo di percezione diviene spazializzato:
"Qualche volta è come se le mie sensazioni restassero fuori dalla mia testa", "Io non sono sicuro di ciò che ho visto, o del fatto che ero io quello che ha visto quell’oggetto".
Le sensazioni possono rimanere fuori dalla testa, o il sentimento di meità delle sensazioni può mancare. Nella Stanza tatuata abbiamo trovato una icastica raffigurazione di questo fenomeno che unisce un’esperienza di derealizzazione ad una spazializzazione del processo percettivo:
"La vita è un’illusione perché è vista attraverso un cervello".
Questa stessa persona descrive così il diventare consapevole del processo implicito di scansione visiva di un oggetto:
"Quando guardo qualcosa, mi piacerebbe vederla meglio. Mentre guardo, diciamo, un albero, io posso soltanto scannerizzare con il mio occhio il suo profilo e contare le sue parti. Per esempio, un cane è sette parti. Io chiamo questo contare, perché per me ogni cosa in questo modo è riducibile ad un certo numero in base alle sue parti. E’ cominciato come una specie di gioco, poi si è trasformato in un tipo di ossessione. Forse divento consapevole del mio occhio mentre guarda un oggetto".
Descrive se stesso come uno scanner meccanico: guarda se stesso da una prospettiva di terza persona, invece di essere incastonato nella propria esperienza come il soggetto di questa esperienza. Considera se stesso, e specialmente il suo cervello, come un dispositivo computazionale. E’ spostato dal qui-e-ora della percezione e non è direttamente e immediatamente in contatto con cose e persone di questo mondo; li esperisce come oggetti di un processo di percezione ed è più coinvolto nell’ispezione del processo di percezione, che nel fenomeno che gli appare. In termini fenomenologici, l’attenzione si sposta dall’oggetto percepito (noema) al processo percettivo (noesi) Questo tipo di esperienza, che potremmo definire noetica caratterizza nella condizione schizofrenica il decentramento rispetto al proprio processo percettivo. Nell’orientamento noetico dell’esperienza, lo sguardo è volto verso l’interno — guarda, per così dire, l’occhio che guarda. Il trasalimento, l’esperienza disgiuntiva che provo di fronte a lui può essere il risultato del fatto che non sta guardando me, al momento, ma sta guardando il modo in cui mi sta guardando.
Un secondo tipo di smarrimento che provo riguarda la sensazione che manchi qualcosa mentre cerco di entrare in contatto con una persona schizofrenica. E’ come se mancasse il medium della comunicazione. I fenomenologi pensano che le persone schizofreniche mostrino una aumentata attitudine a mettere tra parentesi il senso comune e i significati condivisi. Si suppone che questa sia una delle caratteristiche maggiori della vulnerabilità alla schizofrenia. Come abbiamo già visto, gli schizofrenici possono sospendere l’atteggiamento naturale e volgendosi dall’oggetto percepito al processo percettivo possono avere accesso al modo in cui la loro coscienza si appropria dell’oggetto. Questa, per loro, non è un’impresa che (come per me) richiede uno sforzo e un esercizio, ma per così dire un’esperienza naturale. Laddove per persone non-schizofreniche questa performance richiede un impegno innaturale, per le persone affette da schizofrenia è parte dell’attitudine naturale presente nella vita quotidiana. I significati che abitualmente attribuiamo alle parole subiscono lo stesso trattamento, vengono spontaneamente messi tra parentesi, cosicché spesso nel parlare con uno schizofrenico ci sentiamo privi di un terreno comune per capirci l’un l’altro. Per esempio, si può avere l’impressione che usiamo la stessa parola ma che le attribuiamo significati diversi. Così, ho la sensazione che egli non condivida lo stesso orizzonte di significati che io do per scontato e che credo di condividere con le altre persone con cui abitualmente vengo in contatto. Egli mostra non solo una iper-estensione dell’orizzonte dei significati, che riflette un flusso di libere associazioni fluttuanti. Il problema qui riguarda, soprattutto, la pertinenza situazionale di un significato che potrebbe essere (e invece non è) scelto tra una moltitudine di quelli che sono grammaticalmente corretti. Il reale problema del linguaggio schizofrenico non riguarda la capacità di produrre frasi grammaticalmente corrette, ma la capacità di creare frasi realmente adattate ad un numero infinito di situazioni. Ciò che sembra mancare nella schizofrenia non è solo la capacità cognitiva di selezionare un comportamento verbale grammaticalmente e semanticamente appropriato, ma la capacità di sintonizzazione emotiva tra la persona e la situazione corrente come premessa per la comunicazione. L’obiettivo primario di chi parla non è la comunicazione di un significato, ma per lo più l’espressione di un contenuto di coscienza. E’ un processo linguistico tendenzialmentecriptico che va dall’oggetto alla parola che lo significa, e può anche del tutto ignorare il terzo vertice della comunicazione che è l’ascoltatore:
"Se l’ascoltatore riesce a districare il significato, buon per lui!".
Questo sentimento di destituzione nelle relazioni umane mostra un ulteriore livello dell’incontro con una persona schizofrenica. Egli può lamentarsi di aver bisogno di studiare le "regole del gioco sociale" che tutti gli altri conoscono senza aver fatto alcun sforzo per impararle. Non è raro che gli schizofrenici diventino etologi naif o psicologi naif per superare il loro isolamento dal mondo umano e stabilire un sistema simil-matematico di regole-chiave per interagire in modo appropriato con gli altri. Vexata quaestio: questo isolamento è la conseguenza della mancata acquisizione del corpus di "giochi linguistici" in uso nel mondo degli umani; oppure nasce da un difetto di sintonizzazione emotivo-affettivo-volitiva con gli altri?
"Mi pare che gli altri agiscano semplicemente perché è naturale, perché sembrano tutti quanti sapere qualcosa che io non so (…per quale ragione?…), che vivano senza dover creare il mondo e se stessi ogni volta, perché, semplicemente, loro e il mondo esistono. Perché è una datità che non conosco? Come ne fruiscono loro?
Quando ero una bambina, ero solito guardare i miei cuginetti per capire quando era il momento giusto per ridere o come loro riuscivano ad agire senza pensarci prima […] E’ da quando ero bambina che provo a capire come funzionino gli altri, e perciò sono obbligata a giocare al piccolo antropologo".
Ciò che questa giovane donna sta cercando è anche un algoritmo da applicare nelle relazioni umane; ma ciò che le manca è qualcosa di più profondo, qualcosa di diverso da un’enciclopedia di regole di comportamento da applicare nelle interazioni sociali. Ciò che manca è un legame pre-concettuale, un’esperienza intuitiva, pre-cognitiva dell’altro: la percezione diretta della vita emotiva altrui.
LA SCHIZOFRENIA ALLA LUCE DI ARISTOTELE.
KOINE’ AISTHESIS E SENSUS COMMUNIS
Le persone schizofreniche soffrono di un tipo particolare di depersonalizzazione: il corpo che vive diventa un corpo fungente, una cosa simile ad un meccanismo in cui sentimenti, percezioni ed azioni assumono una loro concretezza e vengono localizzati in uno spazio esterno. A questo fenomeno, che potremmo chiamare spazializzazione introspettiva, si aggiunge uno specifico genere di de-socializzazione: il mondo sociale diventa una scena vuota in cui il protagonista non è a conoscenza della trama, ha perso contatto con ruolo che sta recitando ed è incapace di dare senso a ciò che gli altri attori stanno facendo. C’è un’origine comune per questa duplice esperienza di derealizzazione? Questo sentimento di disconnessione che avviene nella sfera dell’esperienza di sé è in qualche modo correlato all’esperienza di disconnessione che si verifica nel mondo sociale? La crisi dell’esperienza del sé fenomenico e quella del sé sociale condividono una radice comune? Queste domande sono di primaria importanza se vogliamo comprendere la schizofrenia non come un agglomerato casuale di sintomi non connessi tra loro, ma come una condizione psicopatologica unitaria. Ciò che segue è solo un modo di raccontare la storia del legame che si è supposto mancante tra esperienza di sé e intersoggetività, ed i loro disturbi. E’ una specie di giallo, uno di quei racconti in cui il fuggiasco cambia nomi ed identità per depistare gli investigatori, ma non riesce a coprire tutte le sue tracce. Come nei migliori thriller, è la prima pagina della storia quella che ci mette sulla giusta traccia e coglie il colpevole in flagrante.
Nel De Anima Aristotele attribuisce alla koiné aisthesis (letteralmente: senso comune) due diverse funzioni: la prima è quella di combinare (koiné dunamis) le diverse modalità sensoriali (aisthesis idia) come l’udito, il tatto, la vista, ecc.; la seconda è quella di accompagnare ogni sensazione con la coscienza della sensazione stessa.
Nel primo senso, la koiné aisthesis è l’origine comune degli altri sensi. L’argomentazione di Aristotele è la seguente: ogni senso identifica una classe di oggetti percepibili; tuttavia, deve verificarsi qualcosa in virtù della quale quando accade che diverse qualità, per esempio colore ed odore, si riuniscono in un unico oggetto percepibile noi siamo consapevoli di entrambe queste qualità contemporaneamente in quanto appartenenti al medesimo oggetto. Esistono, inoltre, sensazioni che percepiamo solo incidentalmente attraverso questo o quel senso specifico; si tratta dei cosiddetti "sensibili comuni" (koiné aistheta), cioè il movimento, l’immobilità, la forma, la dimensione, il numero, l’unità. Queste proprietà del mondo fenomenico non hanno un colore o un odore specifico, ma vengono percepite attraverso una "sensibilità generale".
La seconda funzione della koiné aisthesis è accompagnare ogni sensazione con la coscienza della sensazione stessa. Questa coscienza non può appartenere ad uno specifico organo di senso. Poiché è attraverso i sensi che noi vediamo o ascoltiamo, deve accadere o che diveniamo consapevoli di vedere attraverso la vista, oppure attraverso qualche altro senso diverso dalla vista. Ma il senso che ci dovrebbe dare questa nuova sensazione, cioè la coscienza della sensazione stessa, dovrebbe percepire sia la vista sia il suo oggetto. Per spiegare il fatto che siamo consapevoli di avere una percezione o si ipotizza che (i) esistono due sensi che percepiscono lo stesso oggetto percepibile, oppure che (ii) ciascun senso deve essere percettivo di se stesso. Se ammettessimo che il senso che percepisce la vista è differente dalla vista stessa, cadremmo in un regresso all’infinito, dovendo ammettere che esiste una funzione di terzo ordine capace di percepire questo senso che percepisce la vista, e così via. Alternativamente, dovremmo supporre che esiste da qualche parte un senso che è consapevole di se stesso.
Aristotele ci mette in guardia da ogni reificazione di questa funzione ed asserisce chiaramente che non c’è bisogno di postulare alcun un sesto senso. La soluzione proposta da Aristotele può sembrare a prima vista puerile: sia la facoltà di percepire unitariamente le diverse qualità sensoriali, sia la facoltà che fa sì che ogni sensazione si accompagna alla coscienza della sensazione stessa sono funzioni che Aristotele attribuisce all’anima (psuché) e localizza nel cuore (kardios). Nel cuore hanno sede queste funzioni in quanto esso è l’organo in cui il sangue trasporta tutte le sensazioni, afferenti da differenti modalità, al loro punto di integrazione ed unione.
La prima funzione del koiné aisthesis offre l’esperienza di una percezione unitaria, e la percezione di quelle qualità che appartengono alle modalità di tutti i sensi ("sensibili comuni") e che non appartengono alla modalità di un senso in specifico come la sonorità (udito), la luminosità (vista), la levigatezza (tatto), ecc. La seconda funzione offre l’esperienza di sé come soggetto della propria esperienza percettiva — è cioè l’origine della coscienza di sé. Ciò che noi chiamiamo coscienza di sé è per Aristotele una diretta percezione di sé mentre si percepisce qualcosa, "il potere comune che accompagna tutti i sensi, attraverso cui percepiamo quello che stiamo vedendo e ascoltando". La coscienza di sé è per Aristotele un fenomeno sensoriale, essa
"appartiene al principio animale della facoltà di sentire".
E’ un atto incarnato, un atto immediato che ha luogo nella carne e che Aristotele paragona al tatto. In quanto fenomeno incarnato, la coscienza di sé deve essere distinta dalla consapevolezza di sé noetica, che è disincarnata ed intellettuale. Questo è un punto cruciale sia nella filosofia della mente di Aristotele e, come vedremo, nella fenomenologia della schizofrenia.
Dunque, l’integrazione tra le diverse modalità sensoriali, e l’integrazione tra sensazioni e consapevolezza sono le funzioni attribuite da Aristotele alla koiné aisthesis. Passando nella civiltà latina, la koiné aisthesis subisce una metamorfosi e questo legame di carne e di sangue tra coscienza di sé e sensibilità sembra perdersi per strada. Inoltre, un significato del tutto diverso è attribuito a partire nel mondo latino e, successivamente, nella tradizione umanistica al concetto disensus communis. Sensus communis — che è la traduzione letterale di koiné aisthesis — significa costume, gusto, giudizio. C’è qui un’apparente discontinuità tra la visione naturalistica aristotelica e quella umanistica che segue alla metamorfosi della koiné aisthesis in sensus communis. Questa apparente discontinuità corre parallelamente all’illusoria discontinuità che osserviamo nella schizofrenia tra disturbi del sé fenomenico (depersonalizzazione) e disturbi del sé sociale (desocializzazione).
Il sensus communis è un tipo di conoscenza di per sé chiara, evidente a tutti e comunemente condivisa – koiné ennoia secondo la tradizione stoica. Ciò corrisponde a quanto oggi potremmo chiamare "cognitività sociale", e come tale il sensus communis è ciò che stabilisce la connessione tra individui e società. Dopo aver subito la trasformazione nel sensus communis, la koiné aisthesis è così diventata un senso sociale.
La koiné aisthesis e il sensus communis sono diverse sfaccettature dello stesso fenomeno. Il senso comune di cui parlano Cicerone, Reid e Vico è lo stesso concetto che troviamo in Aristotele? Condividono una radice concettuale comune? O è forviante cercare analogie tra loro?
KOINE’ AISTHESIS E SINTONIZZAZIONE SOCIALE: LE BASI INCARNATE DELL’INTERSOGGETTIVITA’
Aristotele aveva ragione: fin dai primissimi giorni della nostra vita, sperimentiamo un mondo percettivamente unitario. Per il bambino, il seno toccato e quello odorato sono la stesso seno: la percezione sopramodale è un fenomeno primordiale. Il seno si manifesta come un’esperienza già integrata, globale, e non derivata dalla combinazione post hoc tra la percezione tattile ed olfattiva — come voleva la psicologia associazionista. I neonati sembrano avere una capacità innata di trasformare l’informazione ricevuta da una modalità sensoriale in un’altra modalità sensoriale. Si suppone che le informazioni trascendano una singola modalità ed esistano in qualche forma sopramodale.
Inoltre, i neonati vivono in un mondo le cui caratteristiche basilari, i "mattoni" dell’edificio sociale, sono affini a ciò che Aristotele chiamava "sensibili comuni": non sperimentano visioni, suoni e contatti, ma piuttosto forme, intensità e schemi temporali. Questo tipo di percezione richiama la koiné aisthesis aristotelica. Il mondo sociale, e non solo il mondo fisico, del bambino si costruisce a partire da questa percezione sopramodale della realtà. La psicologia dello sviluppo descrive tre principali fenomeni percettivi a cui è legata la costituzione del mondo interpersonale di un neonato. Questi fenomeni rappresentano gli organizzatori primari del senso emergente di essere un "sé" nella vita di un neonato. Il primo fenomeno percettivo in oggetto è la percezione sopramodale, cioè la capacità di cogliere l’unità di un oggetto attraverso il suo apparire in diverse modalità sensoriali. Il mondo sociale del bambino si forma a partire da un secondo fenomeno percettivo fondamentale, la percezione degli affetti vitali, cioè l’abilità di carpire il carattere dinamico di un’esperienza attraverso le sue caratteristiche spazio-temporali (per esempio uno scoppio d’ira o un crescendo di paura). Infine, la comprensione del mondo sociale si fonda sul fenomeno della percezione fisiognomica, cioè la percezione delle emozioni e degli affetti degli altri basata sulla percezione della fisionomia dell’altro (per esempio l’espressione facciale).
La percezione sopramodale e la percezione degli affetti vitali riflettono il concetto di Aristotele di koiné aisthesis e di koiné aistheta rispettivamente. La percezione fisionomica, in particolare, ha un ruolo preminente nella costituzione dell’intersoggettività. E’ un tipo di percezione sopramodale, pre-concettuale e pre-riflessiva basata sull’imitazione. Questo significa che la comprensione dell’altrui fisionomia è, con ogni probabilità, basata non su uno schema cognitivo o inferenziale, bensì sul trasferimento immediato dello schema corporeo o intercorporeità. Quando il bambino percepisce la faccia felice della madre, egli imita la sua espressione facciale, la voce, i movimenti, e poi sente egli stesso la felicità della madre. E’ attraverso la riproduzione in se stesso dello schema corporeo della madre felice che egli riconosce che i comportamenti della madre "significano" felicità. L’integrazione senso-motoria ha dunque un ruolo fondamentale nel fenomeno dell’intersoggettività. Nella corteccia premotoria della scimmia è stata scoperta una serie di neuroni visuo-motori chiamati "neuroni specchio" (Di Pellegrino et al. 1992, Rizzolati et al. 1996). Come illustrato nel quarto studio, i neuroni specchio si attivano sia quando viene attuata una particolare azione sia quando la stessa azione, fatta da un altro individuo, viene osservata. Si ipotizza che i neuroni specchio operino una simulazione interna delle azioni osservate e come tali siano coinvolti nella comprensione delle azioni. Questo è un allettante modello delle basi neuronali dell’intercorporeità – il riconoscimento intuitivo delle intenzioni e degli stati mentali degli altri attraverso l’identificazione con il corpo dell’altro. Secondo la teoria della simulazione, l’integrazione senso-motoria, appaiando gli stati mentali delle altre persone con stati risonanti propri, gioca un ruolo centrale nella costituzione dell’intersoggettività.
Conseguentemente, la koiné aisthesis aristotelica non è solo la base per la percezione integrata del mondo fisico, ma anche per la attribuzione di significato ai comportamenti altrui — per la percezione significativa del mondo sociale. Il concetto di koiné aisthesis esprime originariamente sia l’essere incarnato della coscienza di sé, sia la sintonizzazione come fondamento dell’essere sociale. Il sé corporeo e quello sociale condividono le stesse fondamenta esperienziali. Lakoiné aisthesis è la base per il fenomeno della sintonizzazione emotivo-affettiva che è il pre-requisito per la costituzione del sé sociale e dell’intersoggettività. E’ il fondamento originario dell’apprendimento dell’immagine del nostro mondo condiviso, che noi assimiliamo durante il nostro sviluppo psicologico e culturale. La sintonizzazione emotivo-affettiva è il pre-requisito non-proposizionale per l’acquisizione del sapere proposizionale rappresentato dal sensus communis. E’ il fondamento naturale della Bildung, cioè di quel processo formativo che si svolge nell’ambito della dialettica tra assimilazione e individuazione.
La relazione tra sintonizzazione sociale e sensus communis è di grande interesse filosofico e psicopatologico. Le osservazioni di Wittgenstein sull’argomento sono illuminanti. Egli confronta il senso comune a un "nido di proposizioni":
"Ciò che perdura solidamente lo fa non perché è intrinsecamente ovvio o convincente; piuttosto, è tenuto fermo da ciò che si trova lì intorno".
Potremmo chiamare questo fenomeno effetto-nido: gli insegnamenti espliciti sono contenuti, tenuti insieme, da ciò che si trova intorno a loro, cioè dallo "sfondo" (der ueberkommene Hintergund) che non è argomento di pubblico ragionamento, o di riflessione, o di dubbio. Esso deve il suo carattere di certezza, che lo rende immune dal dubbio, al suo essere infondato filosoficamente. Altrimenti detto: ciò che diamo per scontato non è fondato in argomentazioni esplicite, e proprio a questo deve il carattere della certezza. Se ciò che diamo per scontato diventa esplicito, ipso facto diventa un oggetto per la riflessione ed il dubbio. L’emergenza dell’implicito come esplicito è la premessa comune sia per la riflessione filosofica, sia per quella forma di iper-riflessività morbosa che è la follia.
Questo sfondo implicito può essere concepito come un nido di comunicazione non-proposizionale all’interno del quale viene a dischiudersi quel sapere proposizionale che abbiamo chiamato sensus communis. Lo sfondo implicito è un flusso non-proposizionale di comunicazioni. Questo nido è, fuor di metafora, ciò che abbiamo chiamato sintonizzazione sociale, quel flusso di affetti ed emozioni che
"permette di trasmettere ai bambini ciò che è condivisibile, e quali esperienze soggettive sono al di fuori dei limiti della reciproca considerazione e accettazione […] [Questo è] uno dei modi più efficaci in cui un genitore può plasmare lo sviluppo della soggettività e della vita interpersonale di un bambino".
Questa funzione della koiné aisthesis, ora visibile alla luce della psicologia dello sviluppo e della neurobiologia, è il legame con la concezione del sensus communis come la troviamo nella tradizione umanistica e nella filosofia del Settecento.
KOINE’ AISTHESIS, COSCIENZA DI Sé E COSCIENZA SOCIALE: I VINCOLI RECIPROCI TRA INTERSOGGETTIVITA’ E INCARNAZIONE
Possiamo dire, alla luce degli sviluppi della psicologia e della filosofia dell’intersoggettività, che la prima funzione attribuita da Aristotele alla koiné aesthesisconcerne la base corporea dell’intersoggettività, l’altra funzione è correlata alla coscienza di sé. Si tratta ora di essere più precisi sui modi in cui questi due funzioni sono tra loro collegate. Ciò che sappiamo per certo è che le modificazioni di queste due facce della koiné aisthesis sono i domini fondamentali nella fenomenologia delle psicosi schizofreniche: i disturbi del sé fenomenico e quelli del sé sociale. Il fenomeno della coscienza fenomenica non consiste soltanto nell’essere coscienti dell’apparizione di un oggetto esterno, ma anche nell’essere coscienti della propria esperienza di quell’oggetto — della mia esperienza di quell’oggetto come mia propria. Essere coscienti di sé è essere consapevoli delle cose nel mondo, inclusa la mia propria presenza nel mondo. Quando tocco questo tavolo, non sono solo consapevole del tavolo, ma anche della mia mano che lo sta toccando.
"Essere coscienti di sé non è cogliere un sé puro distante dall’esperienza, ma essere informato dell’esperienza nella sua modalità in prima persona, cioè, dall’interno’".
L’integrazione tra percezione e coscienza è la base per diventare un sé, cioè per avere un’esperienza immediata di sé. Questa presenza a se stessi primordiale, non-riflessiva, non-proposizionale, che alla base di qualsivoglia esperienza, è quanto il filosofo M. Henry chiama ipseità o auto-affezione (auto-affection). L’ipseità è un’esperienza, non un fenomeno mediato che nasce dall’introspezione riflessiva. E’ l’essere presenti a se stessi implicitamente e tacitamente: il sentimento di sé. Senza ipseità nessun sé è possibile. Essa è il fondamento non solo del carattere di meità ad un’esperienza, ma anche dell’esperienza di sé come soggettoche sta avendo quell’esperienza. E’ l’accesso diretto al sé come soggetto di esperienza, il senso di essere il fulcro delle proprie esperienze,
"il senso implicito di essere un centro di coscienza".
L’ipseità, per come è intesa da Henry, rappresenta un fenomeno emergente primario, antecedente a qualsiasi esperienza o qualsiasi cosa di cui possiamo divenire consapevoli:
"è la condizione di possibilità di ogni incontro intenzionale con l’ambiente […] non è mediata da alcunché di estraneo o esterno al sé".
Si può dire che nella filosofia di Michel Henry, il fenomeno dell’auto-affezione rappresenta una forma radicale di immanenza: l’ipseità si svilupperebbe come una perla chiusa all’interno di un’ostrica. L’ipseità è
"la possibilità originaria e trascendentale di provare paticamente se stessi in una carne".
In tal senso, l’ipseità svolge gran parte del lavoro che Cartesio ha attribuito al cogito disincarnato: il mio percepire ciò che penso (o i miei sentimenti, o le mie emozioni) è un atto "patico" essenzialmente incarnato, non un atto cognitivo o intellettuale.
In quest’ultimo senso, la nozione di ipseità si avvicina a quella aristotelica di coscienza sensoriale di sé, sebbene con una sostanziale differenza. La differenza consiste nel fatto che la coscienza sensoriale di sé aristotelica, proprio in quanto fenomeno eminentemente legato all’aisthesis, è anche un fenomenocontinuamente rafforzato dalla percezione — dall’esperienza di sé come soggetto delle proprie esperienze percettive. Il plasmarsi del mio nucleare senso di presenza a me stesso è anche basato sulla mia percezione di me stesso mentre percepisco qualcosa. Aristotele si esprime così: percepire che stiamo percependo è percepire che esistiamo.
Si può dire, in maniera succinta, che il fenomeno della coscienza sensoriale di sé è inscritto all’interno di un triangolo i cui vertici sono rappresentati dalla percezione del proprio corpo, dalla percezione dell’altro e dal linguaggio. Vediamo questa triangolazione in dettaglio. La relazione tra l’esperienza di sé e il sé sociale è molto stretta. In primo luogo, bisogna riconoscere il ruolo cruciale del corpo vissuto nel processo che fonda la sintonizzazione. La sintonizzazione sociale è intercorporeità, e come tale non può prescindere da una percezione indisturbata del mio corpo. Per poter percepire le emozioni altrui attraverso un accoppiamento empatico tra il mio corpo e il suo è necessario che la mia percezione del mio corpo non sia turbata, ad esempio da dispercezioni somatiche. C’è un processo circolare che coinvolge l’emergere e il consolidarsi della coscienza di sé e del sé sociale, e al suo centro troviamo il fenomeno della corporeità. Un punto cruciale nella psicopatologia della schizofrenia è che esperienze corporee abnormi sono associate a disturbi dell’intersoggettività, come ad esempio la percezione degli altri come meccanismi privi di significato o come corpi inanimati.
"Non mi sento come gli altri. Io sono vecchio perché il cervello mi si sta avviluppando. Sento pesarmi addosso il fardello di questo corpo inutile e l’unica aspirazione è quella di fermare questo peso con ogni mezzo. Mi gira la testa. Mi gira fortissimo e non sono a cosa dare la colpa.
Ho l’impressione che qualcosa non funzioni nel mio corpo.
Le mie emozioni sono negative, distaccate, fredde. Mi sento come un extraterrestre. Non ha senso la mia vita in mezzo a persone diverse, diversissime… Non posso raggiungerli, ma nemmeno voglio".
Il sé non è semplicemente personale. La coscienza di sé è un fenomeno sociale che ha una struttura interattiva. La sintonizzazione sociale è coinvolta nel dare forma e nel mantenere la coscienza sensoriale di sé e le anomalie della prima implicano disturbi della seconda, come mostrato dai protocolli della "strange situation": quando la sintonizzazione sociale è disturbata, non solo gli altri appaiono enigmatici e l’ambiente sociale strano, non familiare, pauroso; anche il mio senso di me stesso, le percezione del mio corpo ed i confini tra me e gli altri possono diventare confusi. Una sintonizzazione anormale può destrutturare la percezione di sé, ma è vero anche il contrario — la sintonizzazione può aiutare a ristrutturare la propria esperienza di sé, come nel seguente racconto:
"Non riesco più sentire il mio essere. Se non posso sentire me stessa, non posso avere il controllo di un’azione. Se non posso sentire me stessa, non posso sentire. Attraverso la strada, e non me ne rendo conto, e devo attraversarla di nuovo. Mi lavo, e non ne sono consapevole. Mangio, e non percepisco ciò che sto facendo. Non sono cosciente della presenza della mia persona. Ciò di cui manco è la spontaneità. Con la spontaneità, uno si rende conto che ha fatto qualcosa anche senza esserne cosciente. Poiché io manco di spontaneità, allora devo usare la ragione per essere consapevole di qualcosa. E con la ragione, per essere consapevole di qualcosa, uno deve avere coscienza di ciò che sta facendo. Uno deve pensarci. Ma il raziocinio alla fine ti esaspera! Se uno pensa a tutto ciò che sta facendo, cose ed azioni diventano sempre più irreali. Non posso dire ‘io’ in relazione a me stessa, ma solo in relazione agli altri. Ma quando sto parlando qui con lei tutto questo non accade. La presenza di una persona mi aiuta ad essere cosciente delle azioni che compio".
In questa auto-descrizione, la mancanza della coscienza di sé ("Non riesco più sentire il mio essere… Non sono cosciente della presenza della mia persona") implica l’iper-riflessività ("Uno deve avere coscienza di ciò che sta facendo"), stabilendo un circolo vizioso ("il raziocinio ti esaspera… cose ed azioni diventano sempre più irreali"). La mancanza della coscienza sensoriale di sé genera anche il disturbo della cerniera senso-motoria ("se non posso sentire me stesso, non posso avere il controllo di un’azione") e la perdita della capacità di avere sensazioni. Non c’è un senso interiore della propria ipseità, ma solo un senso esterno ("Io non posso dire ‘io’ in relazione a me stessa, ma solo in relazione con gli altri"). Solo la sintonizzazione empatica attenua questo circolo vizioso ("Quando sto parlando qui con te tutte questo non accade. La presenza di una persona mi aiuta ad essere cosciente delle azioni che compio").
C’è, infine, una stretta connessione tra l’esperienza di sé e l’orizzonte linguistico (il sensus communis) in cui essa si inscrive, poiché comprendo me stesso attraverso schemi rappresentativi derivati dal data-base dei costrutti di senso comune, come appare evidente nel caso delle sensazioni corporee:
"La percezione del nostro corpo ha costantemente bisogno di una metafora".
Le metafore sono necessarie per dare senso all’esperienza del nostro corpo, per metabolizzare e normalizzare le percezioni corporee. Queste metafore derivano dal sensus communis, ed in questo senso la percezione del nostro corpo è condizionata da simboli sociali, pubblici. Sensazioni corporee anormali (per esempio disturbi cenestopatici) che spesso caratterizzano la fase prodromica delle psicosi schizofreniche, rivelano una discrepanza tra il livello percettivo e quello della capacità linguistica, cioè la condivisione delle categorie linguistiche socialmente condivise. Quando non troviamo (o rifiutiamo di trovare) queste espressioni metaforiche atte a metabolizzare e normalizzare le sensazioni che provengono dal nostro corpo, ci troviamo tra l’incudine e il martello. Da un lato, l’impossibilità di trovare una metafora per normalizzare l’esperienza corporea può implicare il percepire il proprio corpo, completamente o parzialmente, come un oggetto esterno al sé. Da un altro lato, il desiderio di formare nuove parole per spiegare strane sensazioni corporee può implicare la creazione di neologismi, che possono condurre al concretismo ed al delirio somatico — come Schnell 150 anni fa aveva già notato. Il corpo è struttura del vissuto schizofrenico agli esordi, ed è tema del delirio nella cronicità. Rappresenta, cioè, l’emersio di un quid novi perturbante agli inizi dei percorsi schizofrenici; e, successivamente, attraverso una formatio mediata dalla persona schizofrenica che cerca metafore per spiegare il quid novi e in seguito trasforma la metafora in una cosa concreta, il corpo si cristallizza in un meccanismo rotto, o qualche sua parte viene ad ospitare un persecutore incarnato e incapsulato a cui non è più possibile sfuggire.
ARISTOTELE ALLA LUCE DELLA SCHIZOFRENIA
Lo stream of consciousness
La schizofrenia è stata a lungo considerata un disturbo del "senso comune". Ci sono due principali interpretazioni: (i) la schizofrenia è un disturbo della cenestesi, un deterioramento dell’"armonia funzionale" in cui tutte le singole sensazioni sono sintetizzate; (ii) la schizofrenia è un danno della conoscenza pratica, un disturbo del riconoscimento delle "regole del gioco" sociale.
Nella seguente illustrazione, questi due domini della psicopatologia schizofrenica concorrono, sebbene in modo enigmatico per la persona che li sperimenta:
"Mi sento senza vita. Ho questo senso di vaghezza soprattutto all’ora del tramonto. Vedo i colori più brillanti. Tutte le sensazioni sembrano essere diverse dal solito e più lontane. Il mio corpo sta cambiando, ed anche la mia faccia. Mi sento staccato da me stesso, dai miei muscoli, le mie emozioni, le mie sensazioni. Capita che le mie sensazioni diventino "malleabili", come se sbucassero fuori in un altro luogo.
Capita anche che in questo stato mi smarrisco quando sto con gli altri. Ciò che mi manca è il pensiero comune. Io non ho niente da condividere con loro. In questo modo, gli altri diventano incomprensibili e spaventosi".
La prima interpretazione della schizofrenia come un disturbo del senso comune si focalizza sulla nozione di cenestesi
"[la] profonda ma più o meno indefinita consapevolezza che noi abbiamo dei nostri propri corpi e del tono generale dell’attività funzionale".
La cenestesi — un concetto plasmato nella psicopatologia francese agli inizi del 20° secolo che riproduce largamente la teoria di Aristotele della koiné aisthesis— è il carréfour delle singoli modalità sensoriali e in quanto tale è la base del sentimento di esistere, di essere un sé e di essere separato dal mondo esterno. I disturbi cenestopatici, cioè le sensazioni corporee abnormi, sono gli epifenomeni di un disturbo globale del ruolo di sintesi giocato dalla cenestesi. Si ipotizza che le anomalie della cenestesi siano la disfunzione fondamentale nella sindromi psicotiche:
"Un paziente che si scopre gaio, pieno di energie o che dichiara di sentirsi senza speranza e perfino morto è affetto da disturbi cenestopatici".
Soprattutto l’ebefrenia
"è caratterizzata dallo specifico deterioramento di quei sistemi di cellule nervose che governano la sintesi cenestesica e kinestesica e l’attività vitale istintuale".
La seconda interpretazione si focalizza sulla difficoltà che le persone schizofreniche mostrano nel condividere con gli altri gli "assiomi della vita quotidiana". Essi sono affetti da una "crisi globale del senso comune", o (detto in altri termini) da un deficit delle cognizioni sociali. Come si è già sottolineato, questa interpretazione è duplice: da una parte ci sono quelli che enfatizzano la perdita del sensus communis in quanto sapere preposizionale, un sapere che consiste in una serie di regole di inferenza, condivise da un certo gruppo sociale, attraverso cui vengono concettualizzati oggetti, situazioni e comportamenti delle altre persone. Dall’altra parte, la dis-socialità schizofrenica è considerata l’effetto di un disturbo della sintonizzazione sociale, cioè di un tipo di sapere non-proposizionale che consiste nell’abilità affettivo-volitiva di percepire l’esistenza degli altri come simile alla propria, di avere contatti emotivi con loro e di accedere intuitivamente alla loro vita mentale.
Ciò che torna a sorprenderci è che la concezione di Aristotele della koiné aistheisis, sebbene non metta in relazione esplicita l’integrazione sensoriale e la sintonizzazione sociale, rispecchia in nuce entrambe le interpretazioni della psicopatologia della schizofrenia: quella naturalistica, che fonda la patologia schizofrenica in un difetto di integrazione delle sensazioni, e quella umanistica, che focalizza l’assenza di un orizzonte di significati condivisi come origine della condizione schizofrenica. La spiegazione di Aristotele di ciò può suonare strana oggi, malgrado ciò è intrigante: la collocazione del koiné aisthesis è il cuore, l’organo in cui il sangue porta il flusso delle sensazioni dalle diverse modalità sensoriali "al loro punto di integrazione e unione". Aristotele deduce che l’integrazione sensoriale e la consapevolezza di sé sono indissolubili poiché entrambe sono prodotte dal fluire e dal mescolarsi insieme di tutti i sensi (syn-aisthesis, con-scientia). Il cuore, nella fisiologia di Aristotele, è anche responsabile del percepire il tempo ed è la sede dell’immaginazione. Hunt commenta che questa è "una fenomenologia precisa, anche se tacita, e nascosta da tutta questa anatomia errata". Il nucleo della proto-fenomenologia di Aristotele è che il sé origina da un flusso, una corrente che amalgama diverse sensazioni; che la consapevolezza di sé si fonde al confine tra un flusso interno ed uno esterno; che ha sede nel cuore, ed è legata al senso del tempo ed al potere di formare le immagini.
Corpi deanimati e spiriti disincarnati
La teoria di Aristotele della koiné aisthesis fornisce una solida base filosofica (o almeno ne fornisce i principi) per la comprensione fenomenologica delle modificazioni del sé fenomenico e del sé sociale nella schizofrenia. La domanda ora è: il comprendere fenomenologico delle persone affette da schizofrenia può aggiungere qualcosa alla teoria della mente aristotelica?
Le persone schizofreniche fanno esperienza di un mondo in cui la coscienza sensoriale di sé è distrutta. Il senso di essere vivo, il sentimento di essere incarnato in se stesso, l’unità dell’esperienza sono distrutti. Questo implica l’essere proiettati in una forma di esistenza cartesiana in cui la coscienza sensoriale e incarnata di sé è sostituita da una consapevolezza di sé incorporea e intellettuale. Le persone schizofreniche sperimentano un mondo simile a quello delineato nella moderna psicologia cognitiva, in cui sono i cervelli e non le persone che pensano. In realtà, a dispetto degli approcci psicologici oggettivanti, "le persone pensano, non il cervello". Sia nell’esperienza delle persone schizofreniche, sia nelle teorie cognitive della mente, la coscienza sensoriale immediata della meità delle percezioni, delle azioni, e dei pensieri è sostituita da una consapevolezza noetica di secondo ordine, mediata da qualcosa (homunculus) che percepisce ciò che si sta percependo, agendo o pensando. Letteralmente: la vita è vista attraverso un cervello.
Le persone schizofreniche spesso descrivono la loro condizione come quella di un corpo deanimato o uno spirito disincarnato. La perdita della consapevolezza sensoriale di sé implica il sentimento di essere un corpo senza vita (Koerper: il corpo che ho, opposto a Leib: il corpo che sono). Gli psichiatri stessi spesso confondono questa condizione (specialmente nelle fasi precoci dei percorsi schizofrenici) con la depersonalizzazione melanconica. Tuttavia, mentre i melancolici soffrono del sentimento di perdita dei sentimenti ("Io sento che non sento"), le persone schizofreniche riferiscono due esperienze apparentemente contrastanti: la perdita della coscienza sensoriale di sé ("Io non sento ciò che sento") e un tipo particolare di coscienza oggettivata ("Non sono io ciò che sente — esso sente"). Questa modo di esistere come uno zombie, o corpo deanimato, raggiunge la sua apoteosi nello condizione di uno scanner, o spirito disincarnatato, che vive come un semplice spettatore delle percezioni, azioni e pensieri che appaiono nel suo campo di coscienza. Questa condizione patologica non è solo un argomento che conferma la teoria di Aristotele della coscienza di sé in quanto fenomeno sensoriale basato sulla koiné aisthesis, ma rinforza la sua fondamentale distinzione tra coscienza di sé sensoriale e noetica.
"Se la mente è vuota lavora come un plotter o una macchina fotografica, e ritaglia il contorno degli oggetti. Se è piena, deve essere molto più controllata per ottenere lo stesso risultato. Perciò si deve tenere in un giusto equilibrio il vuoto della mente e il pieno delle idee".
In queste frasi c’è, a mio avviso, molto più che una semplice riproduzione della celebrazione obsoleta della mente come una tabula rasa, in quanto condizione ottimale per rispecchiare il mondo nel modo più accurato. Se vogliamo comprendere esattamente il significato di queste frasi, dobbiamo anche mettere in dubbio la supposizione che plotter e ‘macchina fotografica’ siano usati qui come semplici metafore o immagini per rappresentare l’attività della mente senziente. Solo mettendo da parte questo pregiudizio, possiamo congetturare che ciò che è descritto è l’esperienza immediata di una specie particolare di consapevolezza (di un atto percettivo, ma lo stesso varrebbe anche per il movimento e il pensiero). Se la coscienza sensoriale di sé — cioè l’unità tra percezione e percezione di sé — non funziona, allora ciò che chiamiamo ‘io’ si scinde in un io-soggetto contemplante e un io-oggetto contemplato mentre sta compiendo l’atto della percezione. L’atto della percezione in sé non è più un’esperienza vissuta dal suo interno, ma dall’esterno ("attraverso un cervello"). Ciascun atto psichico può diventare un oggetto di coscienza intellettuale, noetica. La fenomenicità di questa esperienza non è più implicitamente incarnata in sé; l’atto della percezione finisce con l’essere un esplicito oggetto intelligibile.
Possiamo allora concludere che le persone schizofreniche, in virtù dell’anomala struttura della loro coscienza di sé, possono diventare consapevoli di taluni aspetti delle normali esperienze quotidiane che generalmente passano inosservate? Se con ciò ci riferiamo alla normale struttura della coscienza di sé, la risposta deve essere no, poiché ciò di cui esse diventano consapevoli – ex hypothesi — non sono le normali esperienze incarnate nella normale coscienza di sé, ma esperienze collocate in un anormale stato di coscienza, cioè calate nella condizione di una coscienza che si rappresenta disincarnata. Si tratta di una condizione caratterizzata da una metamorfosi della coscienza (che segue una frattura interna alla soggettività) la quale, invece che sentire le proprie esperienze come proprie, esamina il loro modo di costituirsi. Non mi pare che le persone schizofreniche dispongano di un accesso privilegiato all’enigma della coscienza di sé, e in tal senso non mi sembrano paragonabili a una specie di Uebermensch, come Cutting sembra suggerire. Sicuramente, hanno un insight privilegiato riguardo alproblema della coscienza, ma non riguardo alla sua soluzione.
Questa esperienza di disconnessione che abbiamo descritto nell’ambito della coscienza di sé condivide un’origine comune con l’esperienza di disconnessione che si realizza nell’ambito della vita sociale delle persone schizofreniche? Questo è stato il Leitmotiv di questo studio e proverò, a questo punto, a riassumere le mie idee. In breve, queste sono le due radici della condizione schizofrenica: (i) disturbi della coscienza di sé, che implicano l’oggettivazione morbosa delle sensazioni e delle emozioni e delle funzioni corporee e mentali, e (ii) disturbi nell’integrazione dei sensi, più esattamente nell’integrazione senso-sensoriale e senso-motoria, che implica disturbi della sintonizzazione (basata sull’accoppiamento tra percezione e simulazione di un’azione), e di conseguenza la dissocialità schizofrenica. Ciò di cui ora abbiamo bisogno è una visione panoramica su questo due fenomeni — esperienza di sé anomala e dissocialità.
Nella sezione dedicata alla koiné aisthesis ed alla sintonizzazione sociale ho tentato di dimostrare, alla luce della psicologia dello sviluppo e della neurobiologia, che la koiné aisthesis aristotelica non è solo la base per la percezione integrata del mondo fisico, ma anche per la percezione significativa dei comportamenti degli altri nel mondo sociale. Infatti, è la base del fenomeno della sintonizzazione emotivo-affettiva che è il prerequisito per la comparsa del sé sociale e dell’intersoggettività.
Nella sezione seguente, sono state sottolineate i rapporti e i vincoli reciproci tra coscienza sensoriale di sé ed intersoggettività, soprattutto nel processo circolare che conduce alla comparsa di un sé sociale. Le anomalie della sintonizzazione possono destrutturare la percezione di sé; ma è anche vero il contrario: un’adeguata sintonizzazione emotivo-affettiva (come ad esempio nel rapporto terapeutico) può aiutare a ricostruire una più efficace coscienza sensoriale di sé. E’ stato suggerito che sensazioni corporee abnormi (cenestopatie), un fenomeno molto comune nelle fasi precoci della schizofrenia, possono intaccare il fenomeno della risonanza inter-corporea (intercorporeità) su cui si basa la sintonizzazione.
Quindi, sia la psicologia dello sviluppo, sia i rilievi clinico-psicopatologici legittimano l’ipotesi secondo cui un disturbo della koiné aisthesis sia la base comune per le anomalie schizofreniche nell’esperienza di sé e nell’esperienza sociale. Ciò che mi piacerebbe suggerire in queste considerazioni finali è che il modo in cui le persone schizofreniche si mettono in relazione con gli altri condivide, con il modo in cui si relazionano con se stessi, la stessa attitudine oggettivante. Il mondo sociale delle persone schizofreniche è una landa desolata. Se uno sente il proprio sé come un corpo de-animato, allora anche i corpi degli altri sono senza vita per lui. La distruzione della coscienza sensoriale di sé implica l’impossibilità della sintonizzazione, e senza sintonizzazione gli altri sono oggetti senza senso —Koerper. Inoltre, se una persona considera se stesso come uno spirito disincarnato, un’entità che è scissa in uno spirito che guarda il suo corpo come un meccanismo in funzione, allora anche gli altri sono visti come meccanismi. Anche le interazioni sociali sono meccaniche e la loro esecuzione richiede la conoscenza di algoritmi astratti. Se la sintonizzazione empatica fallisce, la ricerca di un tipo di sapere esplicito e proposizionale, adatto a mediare nelle interazioni sociali, prende il suo posto. Come accade nell’esperienza di sé, anche nell’esperienza sociale delle persone schizofreniche troviamo il passaggio da una prospettiva in prima persona a quella in terza persona: il mondo sociale è concepito come un gioco impersonale regolato da norme impersonali. L’esperienza sociale è decifrata dalle persone schizofreniche in tutto e per tutto attraverso elementi concettuali. In un tale mondo, il commento che Walter Benjamin ha indirizzato a Paul Valéry in occasione del suo 65° compleanno appare appropriato:
"Egli si volge ai fatti come se fossero carte nautiche, e, senza essere compiaciuto dalla vista degli "abissi", è solo contento di essere capace di seguire una rotta non pericolosa".
Note
Parnas & Zahavi (2000)
2 Mishara (1994)
3 APA (2000): Affect is to mood as weather is to climate
4 Rossi Monti & Stanghellini (1996). Per un’autorevole critica all’operazionalismo che origina all’interno del paradigma clinico si veda Maj (1998).
5 Cutting (1997).
6 Si veda, tra gli altri, Borgna (1988).
7 Bracken & Thomas (2001 e in stampa).
8 Cfr. il nono studio Le Voci e la Coscienza; inoltre Stephens & Graham (1994 e 2000), Naudin et al. (2000), Stanghellini (2002) e Stanghellini & Cutting (in stampa)
9 Si vedano soprattutto Minkowski (1927), Wyrsch (1949), Laing (1959), Binswanger (1956, 1960), Tellenbach (1961), Blankenburg (1971), Tatossian (1979) e Kimura (1992). Sass ha di recente raccolto in un volume tre approcci classici della psicopatologia fenomenologica (Minkowski, Blankenburg e Kimura) in un numero monografico della rivista Philosophy, Psychiatry & Psychology. Si veda il suo editoriale per una sintesi (Sass, 2001).
10 Ad esempio: Janet (1903), Hesnard (1909), Bleuler (1911), Berze (1914), de Clérambault (1942), Ey (1951), Guiraud (1956).
11 Questo studio, soprattutto la sua prima parte, ripercorre l’argomento da me sviluppato in Stanghellini (2003).
12 Per una discussione aggiornata si veda Eilan. (2000) e Heinimaa (2003).
13 Zahavi & Parnas (1999).
14 Husserl (1959).
15 Sass (1992)
16 Bergson (1927), Gabel (1962), Foucault (1963), Minkowski (1968), Ey (1973), Jonas (1994), Cutting (1999C).
17 Minkowski (1929).
18 Praecox Gefuehl, Ruemke (1941).
19 Cfr. Ballerini & G. Stanghellini (1989 e 1993) e Stanghellini & Ballerini (1992).
20 Blankenburg (1969 e 1971).
21 Stanghellini (1997A, 1997B e 2000A).
22 Calvi (1963).
23 Schwartz et al. (1997).
24 Schutz (1970).
25 Cutting (1999B)
26 Stanghellini & Ballerini (2002).
26 Parnas (2000)
28 De Anima, III, 1, 425a 14.
29 De Anima 425b, 427a.
30 De Somno, 2, 455a 13.
31 De Memoria 450a 10.
32 De Somno 455a 15.
33 Kahn (1992)
34De Somno 455a 22-24
35 Kahn (1966 e 1992).
36 Gadamer (1986).
37 Blankenburg (1969) nota questa discontinuità tra koiné aisthesis e sensus communis e suggerisce la possibilità di "rintracciare una relazione tra le due definizioni". Tuttavia, nel suo contributo seminale sulla psicopatologia del senso comune, si esime esplicitamente dall’analizzare la definizione aristotelica.
38 Stanghellini (2001B).
39 Stern (2000).
40 Hunt (1995), Butterworth (1999), Lagerstee (1999).
41 Stern (2000).
42 Butterworth (1999, 2000).
43 Merleau-Ponty (1945). Cfr. il quarto studio.
44 Merleau-Ponty (1945) nella Fenomenologia della percezione attribuisce un ruolo-chiave alla cerniera tra sensazione e azione.
45 Gallese & Goldman (1998), Gallese (2000), Ramachandran & Hubbard (2001).
46 Gallese & Goldman (1998).
47 Hunt (1995), Sheets-Johnstone (1999).
48 Wittgenstein (1969).
49 Wittgenstein (1969) sembra tentato di oltrepassare, su questo punto, la teoria dei giochi linguistici e optare per una visione non-proposizionale del senso comune; in realtà, non mi pare che compia con decisione questo passo.
50 Stern (2000).
51 Parnas (2000), Stanghellini (2001B).
52 Parnas & Zahavi (1999).
53 Henry (1963 e 2000).
54 Sass (2000).
55 M. Henry (1963).
56 Zahavi (2001).
57 Henry (2000).
58 Kahn (1992)
59 Ethica Nichomachea 1170a. Questo aspetto dialettico (aperto nei due sensi al rapporto percettivo con il mondo: in quanto fondamento della possibilità di ogni esperienza percettiva, e in quanto percezione di sé rafforzata dall’esperienza percettiva stessa) rende la nozione aristotelica, a mio giudizio, più appropriata rispetto al concetto di ipseità all’ambito psicopatologico.
60 Ainsworth et al. (1978)
61 Stanghellini (1994)
62 Ey (1973)
63 de Clérambault (1942); Huber (1957); Parnas (2000), Moeller & Husby (2000).
64 "La nota facoltà del pensiero umano, scoperta dai medici, di sciogliere e distruggere i contrasti profondamente radicati e morbosamente aggrovigliati, che si formano nelle oscure regioni dell’Io, è fondata con ogni probabilità sulla sua essenza sociale, che congiunge il singolo individuo con gli altri uomini e cose; sventuratamente però ciò che dà al pensiero la virtù sanatrice pare sia nel contempo ciò che ne diminuisce il valore personale d’esperienza" (R. Musil, Der Man ohne Eigenschaften).
65 Schnell (1852).
66 Agresti & Ballerini (1965).
67 Guiraud (1950).
68 Blankenburg (1969).
69 Dupré (1913)
70 Guiraud (1950).
71 Dide & Guiraud (1929)
72 Straus (1949).
73 Blankenburg (1971).
74 Bellack et al. (1999), Hogarty et al. (1999)
75 Stern (2000), Parnas & Bovet (1991), Hobson (1994), Stanghellini (2001), Stanghellini & Ballerini (2002).
76 Hunt (1995).
77 Kahn (1966).
78 Hunt (1995).
79 Cfr. Galimberti (1979).
80 Straus (1935).
81 Si veda l’ottavo studio Scanners e Zombies, ultimo paragrafo.
82 Scanners è il titolo di un film di David Cronenberg (1980) in cui si descrivono le vicissitudini di un gruppo di umani mutanti dotati di poteri paranormali come ad esempio la capacità di leggere l’altrui pensiero. L’uso che ne faccio in questi studi è però debitore all’autodescrizione riportata nel Prologo. Devo a Riccardo Dalle Luche l’avermi introdotto alla filmografia di David Cronenberg e ai suoi numerosi rimandi psicopatologici (Dalle Luche & Barontini, 1997).
83 Cutting (2002).
0 commenti