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PATOFISIOLOGIA E TRATTAMENTO DELLA SCHIZOFRENIA

15 Ott 12

Di FRANCESCO BOLLORINO

M. J. OWEN Cardiff

Molecular genetic studies of schizophrenia

Owen mette in evidenza la complessità degli studi di tipo genetico riguardanti la schizofrenia che attribuisce alla difficoltà di definire il fenotipo (i limiti dello spettro schizofrenico) e alla mancanza di una precisa conoscenza delle basi neurobiologiche della malattia e di validi modelli animali. L'ipotesi attualmente più accreditata è che entrino nel determinismo della malattia diversi geni, forse pochi ma importanti, oppure molti, ognuno con un piccolo effetto; sono promettenti anche le ipotesi relative alla presenza di anomalie cromosomiche suggerite da un recente studio in cui si mette in evidenza la presenza di psicosi nel 30% dei casi di VCFS (Velo-Cardio Facial syndrome), malattia legata ad una delezione interstiziale del cromosoma 22q11. In base ai numerosi studi effettuati fino ad ora (familiari, su gemelli mono e dizigoti, adottati o meno…) appare comunque evidente l'importanza dei fattori genetici che secondo Owen contribuiscono al determinismo della malattia per l'80% circa. A questo proposito precisa (anche su richiesta del pubblico) come ciò non sminuisca l'importanza di quel 20% di pertinenza ambientale comunque necessario per lo sviluppo della patologia, anzi forse proprio l'individuazione e l'abolizione di tali fattori ambientali potrebbe rappresentare la carta vincente nella lotta alla malattia come avviene, ad esempio, nella fenilchetonuria.

 

R. M. MURRAY Londra

Developmental and non-developmental risk factors for schizophrenia

La relazione si rivela di grande interesse, viene seguita con notevole attenzione e sono numerosi i commenti di apprezzamento e di soddisfazione da parte del pubblico, anche dopo il simposio.

Murray propone un modello multifattoriale a cascata per lo sviluppo della schizofrenia prendendo in esame e rielaborando alcuni dati desunti dalla recente letteratura.

Dopo aver ricordato l'importanza della componente genetica, il primo studio citato è quello di Sharma, (Brit. J. Psychiatry 1998) dove si mette in evidenza come alcune alterazioni cerebrali correlate al rischio di schizofrenia, (ventricolo sinistro aumentato di volume, encefalo complessivamente di volume inferiore alla media…già presenti in bambini che successivamente svilupperanno schizofrenia) possano costituire dei caratteri trasmessi geneticamente. Nello studio viene dimostrata la loro presenza anche nel genitore sano, carrier obbligato (ad esempio un genitore sano che abbia il figlio e un fratello malato).

Murray fa poi riferimento allo studio di coorte eseguito a Dunedin in Nuova Zelanda (Poulton, Archives Gen. Psych. 2000) su circa 800 bambini di 11 anni sottoposti ad una breve intervista psichiatrica di 4 domande [1) altre persone hanno mai letto la tua mente? 2) hai mai ricevuto messaggi dalla TV o dalla radio? 3) hai mai pensato di essere spiato o seguito? 4) hai mai sentito voci che nessuno sente?] e rivalutati all'età 26 anni. Il rischio di ammalare di schizofrenia è risultato aumentato di 16 volte nei bambini che avevano risposto affermativamente ad almeno una domanda. Tale rischio è risultato inoltre correlato positivamente anche con un' aumentata frequenza di complicanze ostetriche, neonatali ed ipossia; con problemi nelle prime fasi di sviluppo: disturbi nella comprensione del linguaggio, ritardato sviluppo motorio ed un QI più basso; ed anche con ansietà e problemi interpersonali con conseguente tendenza all'isolamento sociale.

Infine cita uno studio sugli immigrati afro-caraibici a Londra (Hutchison, Brit. J. Psych. 1996) dove il rischio di ammalare di schizofrenia sembra essere correlato all'isolamento sociale. Risulta infatti più elevato nei soggetti che vivono in quartieri con netta prevalenza di popolazione bianca, magari in modo più agiato, ma con una minore possibilità di integrazione.

Il modello proposto è quello di uno sviluppo della malattia, non improvviso, ma a cascata, nel quale sono contemplate sia componenti legate al neurosviluppo, sia fattori che insorgono più avanti, anche in età adulta. Le cause iniziali potrebbero essere di tipo genetico ed ostetrico, con una successiva difficoltà nello sviluppo neurocognitivo (motorio e linguistico), la tendenza all'ansia sociale e all'isolamento, potrebbe seguire l'insorgenza di "idee strane" ed allucinazioni (probabilmente favorite anche dalla fragilità del sistema linguistico) ed un sempre maggior isolamento. La mancanza di un feedback esterno di confronto con la realtà tende a peggiorare la bizzarria, l'isolamento, i comportamenti a rischio (abuso di sostanze) fino allo sviluppo di una franca psicosi.

 

S. GALDERISI Università di Napoli

Neuropsychology of schizophrenia

La Galderisi sottolinea come l'attuale interesse per i disturbi cognitivi nei pazienti schizofrenici sia lagato essenzialmente al loro alto valore predittivo nei riguardi della futura disabilità sociale del paziente; per questo motivo sono considerati target sempre più importanti per gli interventi farmacologici e riabilitativi. I tre domini più frequentemente coinvolti comprendono memoria, attenzione e funzioni esecutive, risulta comunque notevole l'eterogeneità del quadro cognitivo, infatti i deficit appaiono diversi per intensità e tipologia sia in pazienti diversi, che nello stesso paziente in momenti diversi. Le linee di ricerca principali sono due: una volta a correlare diverse tipologie di deficit cognitivi a specifiche dimensioni psicopatologiche (Galderisi, Maj, Int. J. Psychophysiol. 1999), l'altra a distinguere due categorie, DS (deficit schizophrenia) e NDS (non deficit schizophrenia), anche se quest'ultima non è scevra da alterazioni cognitive. Nel complesso i deficit cognitivi sembrano configurare una dimensione non spiegabile completamente dalla psicopatologia.

 

R. S. KAHN Utrecht

Gray matter volume changes in first episode schizophrenia: a one year follow up study

Kahn sottolinea come risulti ancora poco chiaro se andamento delle alterazioni cerebrali nei pazienti schizofrenici sia da considerare progressivo o meno, ci sono comunque evidenze di una correlazione fra la velocità di progressione di tali alterazioni e la gravità della prognosi; a questo proposito cita alcuni studi di tipo longitudinale eseguiti con RMN (Mathalon, 2001; Lieberman, 2001; Rapaport, 1997-1999; Madsen, 1999). Illustra quindi lo studio eseguito dal suo gruppo (W. Cahn, H. E. Hulshoff Pol, E. Lems, N. van Haren, H. G. Schnack, van der Linden, R. S. Khan – Utrecht) su pazienti schizofrenici al primo episodio di malattia. Dopo un anno in tali pazienti si riscontra, all'esame RMN, una significativa riduzione del volume cerebrale totale, della sostanza grigia del cervello e del lobo frontale ed un aumento di volume dei ventricoli laterali, tali dati sembrano deporre per un andamento di tipo progressivo e sono significativamente correlati con un peggior outcome (CAN) e con la quantità cumulativa di farmaci assunti, ma non con la severità della sintomatologia (PANSS).

 

A. C. ALTAMURA Università di Milano

Medium and long-term pharmacological treatment of schizophrenia

Il trattamento della schizofrenia con farmaci antipsicotici è caratterizzato da tre fasi: la terapia acuta, la fase di stabilizzazione (dopo la risposta alla terapia e prima di parlare di una vera e propria profilassi, deve durare 6 mesi) e la fase di mantenimento – prevenzione di lunga durata (5 anni circa, alle dosi terapeutiche e continuativa, non intermittente). Altamura sottolinea come i neurolettici di nuova generazione appaiano migliori nella terapia di stabilizzazione e preventiva; infatti garantiscono un tasso di riospedalizzazione più basso rispetto ai vecchi neurolettici, gli effetti collaterali extrapiramidali sono minori così come i sintomi depressivi, negativi e cognitivi, di conseguenza anche la compliance è migliore. Sono ancora necessari studi controllati a lungo termine (> 1 anno) che ne valutino accuratamente l'efficacia e la sicurezza e mancano le formulazioni depot.
(Altamura, Int. Clin. Psychopharmacol. 1996; Eur. Neuropsychopharmacol. 1999.)

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