I significati, faticosamente conquistati, dovrebbero essere detti, dipinti, danzati, messi in circolazione.
V. Turner
Riassunto
L’autore intende, innazitutto, analizzare le possibilità di rileggere il contesto della comunità terapeutica per tossicomani secondo il modello sistemico-relazionale e, coerentemente con questo, impostare il discorso terapeutico al suo interno. L’ipotesi che emerge è quella che in tali comunità, la psicoterapia debba avere necessariamente una dimensione gruppale, dimensione che sfugge tradizionalmente allÆapproccio sistemico. Malgrado ciò, l’autore sostiene e si impegna a dimostrare che il modello sistemico ha le risorse e la giusta flessibilità per utilizzare al meglio le peculiari potenzialità del contesto gruppale. Confrontandosi anche con i contributi della gruppoanalisi, vengono quindi esposte le linee principali dell’intervento relazionale di gruppo.
Summary.
The author, first of all, intends to revise the therapeutic comunity’s context according to the system model, and coherently, plans out the therapeutic practice.The first hypothesis is that the psycotherapy in the therapeutic comunities for drug’s abuse must have necesserly a group’s perspective, which is unusual for system’s approach. In spite of all, the author mantains that the system model have many means for better utilization of group’s context. Also confronting with group-analisy’s contributions, the author outlines the system-group’s psycotherapy.
Parlare dell’incontro tra comunità terapeutiche e psicoterapia relazionale può sembrare arbitrario, ma citiamo sicuramente di due protagonisti sul fronte della terapia delle tossicomanie.
Le comunità, pur nella loro molteplicità di forme, hanno dato, fin dall’insorgere di questo fenomeno, una risposta concreta, forse discutibile, ma con un’indubbio impatto sul problema; l’approccio relazionale ha avuto, invece, il principale merito di aver fatto uscire la tossicomania dall’alveolo dell’"incurabilità" dell’impossibilità di affrontarla in psicoterapia, riportandola a coordinate teoriche "leggibili" per esperti e non.
In particolare con l’approfondimento degli aspetti psicopatologici delle tossicomanie (Cancrini 1986,1994), si è evidenziata la necessità per le comunità terapeutiche di confrontare ed, eventualmente, integrare i propri interventi con i contributi del modello sistemico-relazionale. Quindi la grande famiglia delle comunità si trova di fronte ad una triplice possibilità di relazionarsi con la psicoterapia: la prima è quella del rifiuto aprioristico di qualunque psicoterapia, scelta putroppo molto frequente. Una seconda possibilità prevede l’"isolamento" della psicoterapia, cioè viene contemplata nel discorso terapeutico, ma è uno spazio del tutto scollegato dal resto della vita comunitaria. La terza strada cerca un’integrazione tra la psicoterapia e l’esperienza comunitaria. L’isolamento, concretamente, permette di evitare un conflitto devastante tra le strategie psicoterapeutiche e gli interventi pedagogici, punitivi e/o gratificanti, che ruotano attorno ad un regolamento comunitario. Si arriva ad una posizione del genere "il lavoro da una parte, tu dall’altra e non interferiamo l’uno con l’altro", che può essere funzionale ad evitare una conflittualità tra psicoterapeuti e operatori ex-tossicomani, ma è molto poco funzionale per l’accolto che può ritrovarsi con messaggi contraddittori da risolvere, dovendo così preferire o l’uno o l’altro.
Meno comoda è la via dell’integrazione che deve far diventare la psicoterapia un momento essenziale della vita comunitaria. Per giungere a tale obiettivo, una prima considerazione da fare è quella che la comunità, nella sua stessa accezione filologica, si propone come un’esperienza gruppale: al suo ingresso, ricordano Costantini e Mazzoni (1984), viene chiesto al singolo di rinunciare al mondo esterno in favore della comunione con il gruppo, intesa come adesione totale. Solo così il gruppo si potrà proporre come unica fonte di soddisfazione dei bisogni individuali. Se questa è una tappa fondamentale per le comunità, la psicoterapia non si può sottrarre alla dimensione gruppale e si deve proporre, a nostro parere, anche e soprattutto come terapia di gruppo. E’ infatti il gruppo il "ponte" tra l’esperienza quotidiana del lavoro, dei pasti, dello sport e lo spazio terapeutico.
Pedagogia e psicoterapia
E’ indiscutibile che la vita quotidiana di un gruppo, che condivide lo stesso habitat, necessita di una chiara regolamentazione, che possa rappresentare un punto fermo per i problemi che sorgono dalla convivenza 24 ore su 24. Quindi un sistema di premi-punizioni permette anche un controllo del comportamento; una regola che traccia una linea chiara tra il lecito e l’illecito, tra ciò che va in armonia con e ciò che è contrario agli scopi espliciti della comunità, è un’aspetto ineludibile della struttura comunitaria. Questo è il cuore della pedagogia comunitaria, cioè, attraverso il rispetto di alcune norme, si cerca di trasmettere conoscenze, valori e comportamenti alternativi a quelli appresi nella ôstradaö, connessi all’uso di droghe.
Deve essere anche chiaro che l’accettazione della norma, sebbene sia una conditio sine qua non per la terapia, non è di per sè terapeutica, ma può rappresentare una ‘cornice’ utile a far emergere e definire la problematica dell’individuo all’interno di un contesto così particolare. Bateson (1976) ricorda come per gli alcoolisti il punto di partenza per il superamento della dipendenza è l’accettazione di una chiara posizione down rispetto all’alcool; analogamente in comunità l’accettazione e le trasgressioni delle regole rappresentano un "metro per misurare" la persona e "far uscir fuori" il suo problema. Il passo successivo è la ridefinizione della trasgressione in termini di disagio relazionale.
Quello che va sottolineato è il fatto che l’accolto non ne risponde delle trasgressioni ad una mitica autorità, ma al gruppo. In tal senso è evidentemente necessaria l’esistenza di spazi dove mettere in discussione l’accettazione e la tragressione, che, poste sullo stesso piano, attivano le dinamiche relazionali del gruppo. Certo, dare uno spazio per la discussione e l’elaborazione al gruppo non significa necessariamente creare un contesto terapeutico. Per chi ha avuto esperienze con i gruppi gestiti da ex-tossicodipendenti, sa che si tende a creare un contesto colpevolizzante per l’accolto, confuso spesso con una strategia responsabilizzante, con messaggi del tipo "sei un egoista, attaccato al piacere, hai fatto soffrire i tuoi genitori, etc.".
Le trasgressioni dell’accolto vengono collocate in una cornice moralistica e punitiva, ri-creando un’atmosfera orwelliana, in cui i compagni del gruppo si spiano l’un l’altro. In tal modo, non si può interrompere quell’altalena di colpevolizzazioni e giustificazioni che connotano i vissuti di chi è diventato dipendente da droghe. Infatti ad ogni accusa seguirà una sfilza di giustificazioni, si ripete il percorso della ricerca della "causa" della tossicodipendenza: "sono un drogato perchè ho avuto dei cattivi genitori". D’altro canto, Cirillo et. Al. (1995) ricordano che colpevolizzare il tossicomane può portare allo spegnimento depressivo o alla formazione di una struttura rigida e autoritaria di personalitÓ che si muove sulle tracce del "devi soffrire, anche tu, quello che ho sofferto io". Sono tutte strategie che portano alla frammentazione del gruppo che, al contrario, è la più grossa potenzialità della comunità. Il senso di appartenenza, di condivisione, di coesione che si sviluppa infatti al suo interno, a volte così intenso da costituire un legame permanente e fondante dell’esperienza futura.
Per il tossicomane, tra l’altro, questa esperienza è di fondamentale importanza in quanto solo un altro gruppo gli può permettere di abbandonare il mitico gruppo-tossicomane, vissuto come gruppo di iniziati, in favore del gruppo (mistico), quello comunitario, gravido anch’esso di una forte simbologia di rinascita, di rinnovamento. Si sviluppa quello che Turner definisce lo spirito della Communitas e cioè "un rapporto tra individui concreti, storici, particolari… non frazionati in ruoli e status, ma che si trovano gli uni di fronte agli altri in un’incontro diretto, immediato e totale tra identità umane" (1986). La Communitas è corpus unitario che ha un "peso" maggiore dell’insieme degli individui che la costituiscono, l’identità individuale viene soverchiata dall’appartenenza al gruppo; la Communitas è, inoltre, caratterizzata da spontaneità ed immediatezza e soprattutto dall’abbandono dei formalismi della struttura sociale. Questo permette "la liberazione delle potenzialità umane di conoscenza, sentimento, volizione dalle costrizioni normative che impongono di occupare una serie di status sociali" (Turner 1986). L’incontro diretto ed immediato permette di percepire le sorti di ciascuno legate ad un’unico filo (in cui le sorti dei singoli sono indissolubilmente legate), ma decisamente non in senso restrittivo: l’altro viene vissuto come una potenzialità positiva, come sostegno indispensabile. Queste sono caratteristiche tipiche non solo delle comunità terapeutiche, ma di molti di quei fenomeni sociali che, come gli hippy o il movimento francescano, si fanno carico del rinnovamento spirituale e materiale degli uomini (Turner 1976).
Il lavoro del terapeuta non può trascendere dall’utilizzo di questo potenziale del gruppo, che si propone, fin dalle sue basi, come "illuminante" e trasformativo.
L’intervento terapeutico relazionale di gruppo
Nel progettare l’intervento relazionale di gruppo, siamo partiti dalla convinzione che il modello sistemico-relazionale ha la giusta flessibilità per utilizzare al meglio questa peculiare potenzialità del contesto gruppale, forti soprattutto delle riflessioni della seconda cibernetica. In particolare, ci sembra utile ricordare che, negli ultimi anni, all’interno del paradigma della complessità si è insistito sull’impossibilità di assoggettare la "parte" al "tutto" (Morin 1985), di distinguere soggetto-osservatore ed oggetto-osservato (Von Foester 1987). Il decadimento della logica lineare, della logica causa-effetto ha permesso, invece, di cogliere la circolarità esistente tra gli elementi di un sistema, e di cogliere soprattutto i diversi livelli di ricorsività, cioè il ripetersi su piani differenti degli stessi processi. La complessità diventa anche sinonimo di autoreferenzialità, di autonomia dei sistemi, di molteplicità, ovvero della consapevolezza che non abbiamo a che fare con una realtà unica, ma con una serie infinita di modelli, di epistemologie personali, che interagiscono quotidianamente, e in questo incontro si trasformano.
Alla luce della teoria della complessità, possiamo definire la comunità come un sistema prevalentemente chiuso, la cui forte autonomia ed autoreferenzialità assicura quella precisa identità che la separa nettamente dall’esterno, con accenti a volte polemici con la realtà esterna. Si propone altresì come fortemente trasformativo, con l’obiettivo di far nascere ordine dal disordine. In un tale sistema, che organizza i propri elementi in base ad una punteggiatura rigida, si strutturano dei confini molto marcati, si vengono a creare rigide dicotomie, dei confini precisi tra un interno ed un esterno. Propone, in sintesi, una visione decisamente "poco sistemica".
In una visione cibernetica però, la comunità può essere vista sia in opposizione dialettica alla società che all’interno di questa, quale strumento regolatore di un processo più ampio della devianza; può essere vista sia in opposizione alle famiglie d’origine degli accolti, famiglie "patogene", e quindi proporsi come un sostituto "sano", che come un sistema che viene inglobato dalla famiglia, che si può organizzare in base alle stesse premesse disfunzionali. Il gruppo degli accolti può essere percepito in opposizione all’équipe terapeutica o come un unico gruppo che condivide lo stesso contesto, il singolo può essere visto sia nella sua individualità che come elemento indissolubile del gruppo e cos_ìvia. Si può cogliere come l’organizzazione della realtà proposta si basa su nette distinzioni come comunità/società, gruppo comuntario/famiglie d’origine, accolti/équipe terapeutica, singolo accolto/gruppo di accolti, mente/corpo, ma è altrettanto vero che per ogni dicotomia proposta è possibile identificare un livello di ricorsività sui quali è possibile intervenire. La Hoffman sintetizza il suo pensiero affermando che il compito del terapeuta sistemico è individuare i cicli ricorsivi che sono fonte di disagio e su di essi dirigere i propri interventi (in Keeney 1985). In un tale contesto, la dimensione gruppale può essere un’ottica privilegiata per rileggere i processi ricorsi della comunità.
Il gruppo è infatti il vero crogiuolo della trasformazione: si crea al suo interno uno spazio in cui confluiscono le diverse identità, che strutturano allo stesso tempo una particolare ed unica dimensione, storica ed evolutiva, del gruppo: l’individuo non può più essere così scisso dal gruppo. Anche la particolare posizione in cui si trova il terapeuta non gli impedisce di trovarsi immerso in un campo comune di "condivisione emozionale". Il suo punto di vista non è quindi asetticamente distaccato, dal momento che la situazione coinvolge pienamente la sua soggettività. Il lavoro del terapeuta non può quindi prescindere dall’autoreferenzialità, dalla circolarità dell’interazione. Diventa impossibile pensare di osservare il gruppo "tirandosene fuori" in qualità di esperto, o non essere sopraffatti dalle mille storie o dalle cento versioni degli stessi fatti, senza pensare di essere un elemento che contribuirà a costruire la storia.
La dimensione gruppale infatti concilia l’inconciliabile, o meglio, i diversi livelli a cui si apre l’esperienza gruppale, annulla le classiche dicotomie individuo/società, biologia/appartenenza culturale (familiare), mente/corpo, racconto/drammatizzazione che in genere vengono affrontate in setting separati e con strumenti specifici.
Chiaramente non abbiamo potuto esimerci dal confrontarci con la complessa teorizzazione delle gruppoanalisi, da Foulkes agli sviluppi più recenti. In particolare, ci è sembrato interessante il concetto di matrice: questa può essere visualizzata come una rete dove gli individui sono i punti d’intersezione tra le linee, che invece rappresentano le relazioni tra i membri. Esiste una matrice di base, specifica per il gruppo etnico, la matrice personale che riguarda l’individuo a partire dalla sua esperienza quale componente di un gruppo d’origine, cioè quello della famiglia, di cui ha incorporato l’intero insieme di rapporti. Infine esiste la matrice dinamica che si costituisce ex-novo all’interno della situazione gruppale e riflette l’esperienza peculiare di ogni gruppo. Il setting quindi rappresenta l’incontro tra la matrice personale del singolo con la matrice dinamica specifica del gruppo.
In coerenza a questi concetti, la gruppoanalisi, quale strumento terapeutico, viene intesa come uno spazio mentale condivisibile dove può avvenire una trasformazione. "Le possibilità di cambiamento risiedono primariamente nella relazione e nella dialogicità, e questo in una duplice accezione: l’incontro con l’altro può rappresentare un momento in cui è attuabile il passaggio dalla ripetizione alla creatività il gruppo analitico si propone come spazio non mondano in cui vanno in crisi i vecchi copioni, le coazioni paralizzanti, ma anche costitutive dell’identità del soggetto" (Lo Verso G., Papa M. 1995).
La patologia viene quindi identificata nella saturazione della matrice personale, dove cioè non esiste possibilità di arrichire, complessizzare con diverse esperienze questa mappa interiore, in base alla quale ogni individuo interagisce con il mondo. La mente non è abitata da vari personaggi quanto da modalità di relazione dotate di intenzionalità, di desideri, in virtù delle quali l’individuo agisce, seguendo così schemi più o meno rigidi, in grado o meno di includere il nuovo. Si può affermare un po’ sommariamente che la differenza tra gruppoanalisi e terapia relazionale è innazittutto una differenza di focus: per la gruppoanalisi la relazione è sempre confinata nel fantasmatico, per la terapia relazionale questa ha più di una dimensione, da quella mitica a quella pragmatica. In una comunità residenziale, come possiamo non tenere conto delle diverse dimensioni della relazione nell’esperienza che un individuo fa, convivendo con un gruppo 24 ore su 24 per mesi, a volte anni?
A tal fine, il livello di ricorsività sul quale ci piace focalizzare la nostra attenzione è quella tra la famiglia d’origine e il gruppo comunitario: l’ipotesi su cui lavoriamo è dunque quella che ogni accolto riproduce in comunità quelle modalità relazionali disfunzionali che in famiglia lo hanno portato in una posizione di paziente designato. In altre parole, ogni individuo, portatore dei suoi limiti come dei suoi "sistem coping", riproporrà nel contesto comunitario quei giochi psicologici che sostengono ed alimentano la sua patologia. Un gioco psicologico è rappresentato da un insieme di "mosse" relazionali, aventi una sola finalità, o meglio direzione, che coinvolge almeno tre persone. Possiamo chiamare copione relazionale l’epistemologia personale di un individuo, quel filo rosso che lega i vari giochi, quella trama in particolare che coinvolge e stringe nelle cinghie della patologia e della sofferenza un individuo. L’accolto riproporrà la sua "famiglia interna", ovvero tenderà a muoversi nel gruppo con una mappa relazionale tanto più ristretta quanto più patologico, più rigido era il gioco familiare in cui era incastrato. Questo potrebbe essere un equivalente relazionale della matrice familiare satura proposto dalla gruppoanalisi.
Riproporre il proprio copione si concretizza nella "messa in scena" di complessi drammi, costituiti da piccoli conflitti, furti, acting-out, banali ed inutili discussioni tra gli accolti ed anche con gli operatori; sono le "drammatizzazioni" del copione (Hinshelwood 1989) che avranno il solo scopo di confermare le premesse epistemologiche dei partecipanti. La messa in scena prevede anche la selezione involontaria degli attori che avverrà in base alla risonanza affettiva che ogni individuo troverà nella trama proposta. E’ quindi evidente che abbiamo a che fare con diversi livelli, dall’intrapsichico al pragmatico, ma sempre con esiti molto tangibili.
Se una drammatizzazione dovesse trovare anche la collusione degli operatori avrà imbrigliato l’intero sistema-comunità nella sua trama perversa e che, soprattutto, produce sofferenza. E’ quindi prioritario non creare un isomorfismo funzionale tra la famiglia d’origine e le relazioni in comunità dell’accolto che lo porteranno a conflittualità, sentimenti di rabbia e di delusione che portano inevitabilmente all’interruzione della terapia.
Strumenti di una terapia relazionale di gruppo
Quindi come può muoversi uno psicoterapeuta sistemico-relazionale in un constesto così particolare? Su quali strumenti può contare? Il terapeuta deve innazitutto avere presente la necessità di creare uno spazio in cui le molteplici dinamiche relazionali possano essere espresse, ridefinite e rielaborate all’interno del gruppo, uscendo dall’epistemologia lineare che ripropone il tossicomane, con la ricerca delle "cause" del suo problema.
Hinshelwood, forte della sua esperienza in comunità terapeutiche per pazienti psichiatrici, sostiene che il fattore terapeutico per neutralizzare le drammatizzazioni, a cui inevitabilmente i pazienti danno vita sia la verbalizzazione. Come prevede l’ortodossia psicoanalitica, viene valorizzata la "pensabilità degli eventi", il disagio viene visto come un’impasse del pensiero nei confronti di qualcosa di non assimilabile e quindi non suscettibile di trasformazione. La gruppoanalisi ha permesso di "riconsiderare il pensiero gruppale come apparato di trasformazione (Bion), e cioè un luogo di passaggio, tramite la sospensione dell’azione (Carli) e dei contatti con il mondano (l’astinenza e l’interpretazione dell’acting)" (Lo Verso G., Papa M. 1995). Vengono così chiamati in causa, come fattori terapeutici, aspetti come la risonanza, il rispecchiamento, la condivisione della sofferenza, l’interpretazione gruppoanalitica, che rimangono fattori legati al piano intrapsichico.
E’ nostra opinione, invece, che la comunità nella sua complessità offra prospettive d’intervento non solo sul piano della pensabilità degli eventi, ma possa sfruttare tutta l’area dell’agito dei pazienti, la "vivibilità dell’esperienza, del cambiamento". L’incontro tra la riattualizzazione del mondo interiore dell’individuo e la rete di relazioni dell’intera comunità avviene anche su un piano molto concreto: la riproposizione dei giochi psicologici deve trovare pronto quindi il terapeuta anche su un piano concreto, fisico, cioè pronto ad anticipare e svalere le mosse successive di un gioco, rimarcare le incongruenze, partecipare e rinforzare i rituali individuali e di gruppo.
Crediamo che il terapeuta relazionale, che non rimane chiuso nella sua stanza, ma partecipa alla vita della comunità, che condivide i pasti e altre attività quotidiane, proprio in virtù del suo ampio bagaglio, possa intervenire concretamente nelle drammatizzazioni, nell’agito dell’accolto. Quindi creare dell’esperienze di cambiamento, che si traducono in modificazioni tangibili delle trame non solo narrate, ma vissute che l’accolto ripropone quotidianamente. Perchè discutere, verbalizzare soltanto il piano delle relazioni quando la comunità permette di agire sulle relazioni?
Von Foester ricorda come la realtà viene costruita non solo dalla narrazione degli eventi (vedi Maturana e Varela), ma anche dall’agito dei singoli individui: "Nella mia teoria gli oggetti sono generati da azioni motorie. Posso cioè dare al mio comportamento che è ‘palleggiare’ il nome che è ‘palla’". Così la palla è creata dal mio fare qualcosa. Per me c’è prima l’azione e poi la nominilizzazione"(Von Foester 1987).
Obiettivo di questa piccola provocazione non è certo il recupero di certe tecniche comportamentistiche centrate sull’individuo, ma, attraverso il recupero della dimensione gruppale, osservare un gruppo che si muove, che interagisce costantemente e che crea costantemente nuove relazioni. Sculture del gruppo, della famiglia d’origine, attivazioni su oggetti metaforici, simulate, ma anche prescrizioni del sintomo, paradossali, confusive, permettono all’accolto di viversi dei contesti relazionali che sfuggono alla sua classificazione, che gli permettono di sperimentarsi in una nuova dimensione. L’agito, così vicino alla vita concreta, fa da specchio a quello che viene discusso: per usare un termine informatico, l’agito e il narrato vengono continuamente interfacciati. Il racconto va agito e l’agito viene ri-narrato, attuando un continuo processo ricorsivo. Il terapeuta relazionale dovrebbe fare suo il motto di V. Turner che affermava che "i significati, faticosamente conquistati dovrebbero essere detti, dipinti, danzati, drammatizzati, messi in circolazione" (Turner 1986).
La prima conseguenza di questa impostazione diventa l’allargamento del setting, non più limitato a quelle poche ore in cui il gruppo si riunisce, ma a tutti i contesti che la comunità produce.
E’chiaro che, all’interno del setting terapeutico di gruppo, con domande aperte, di differenza, ipotetiche e riflessive, si sfruttano quegli stessi assiomi quali l’ipotizzazione, circolarità e neutralità, generalmente usati con le famiglie. Domande relazionali, basate su ipotesi circolari,che partono dal semplice "come stai? Come ti vivi oggi il gruppo?" e vanno alle più complesse "dopo il confronto di oggi cosa pensi di fare riguardo a questa tua difficoltà? Se fossi al posto del tuo amico, cosa faresti? Cosa ti fa pensare di non poter cambiare? Che fantasie ti sei fatto rispetto a quello che si è detto?" possono tracciare delle piste per nuovi percorsi mentali ed emozionali. Particolare importanza, in fase inoltrata, rivestono le domande ipotetiche sul futuro (Boscolo e Bertrando 1993) che aprono all’accolto la dimensione temporale, precedentemente pietrificata dalla dipendenza dalle droghe. Se infatti la dipendenza da sostanze stupefacenti innesca un tempo circolare scandito dal parametro "drogato-in astinenza", domande sulle potenzialità future permetteranno di percepire il tempo in senso evolutivo, quindi che sfugge alla sua immagine pre-determenata e diventa un individuo con più scelte a disposizione.
Questo significa cercare di condurre gli accolti al cambiamento attraverso la generazione di "nuovi possibili", che trovano terreno di confronto nella co-creazione del gruppo terapeutico. La posizione del terapeuta è quindi differente dall’analista: non è in possesso di alcuna verità sepolta o di ultima verità, ma partecipa, indirizza, ri-costruisce la storia in base a premesse di maggiore complessizzazione.
Le possibilità del genogramma
Se un primo passo è la modificazione delle relazioni tra gli accolti o degli accolti con gli operatori, un aspetto fondamentale di questo processo è la perturbazione della mappa delle relazioni familiari (in gruppoanalisi la chiamerebbero la ‘matrice familiare’). Se infatti, in un primo momento è necessario partire dall’esperienza comunitaria, quindi dalla mappa relazionale che viene proposta in comunità e le sue drammatizzazioni, successivamente diventa inevitabile ripercorrere la storia familiare di ogni membro del gruppo. Un contributo in questa direzione è stato dato da Stefano Cirillo che ha sottolineato l’utilità di ricostruire la storia emotiva della famiglia del tossicomane."Essa restituisce senso al disagio sperimentato dal paziente nel suo percorso di vita, connettendolo ad una reale carenza subita. La famiglia esce così da una convinzione illogica e distorta che considera il paziente irragionevolmente sofferente (magari perchè ‘ha avuto troppo’), nonchè creatore di sofferenze altrui, per giungere alla banale realtà per la quale se si sta male ci saranno delle ragioni ‘ remote e prossime’ che non fanno star bene" (Cirillo et Al. 1995). Questo processo, secondo gli autori, aiuta a ridistribuire le responsabilità dell’accaduto, senza così schiacciare o il paziente o la famiglia.
A tal proposito l’uso del genogramma appare uno strumento ottimale per esteriorizzare, attraverso una rappresentazione grafica, lÆ’ntricata storia familiare. Attraverso il disegno spontaneo del genogramma, secondo il modello proposto da Pazzagli e Montegano (1989), l’accolto inizia la sua narrazione della storia familiare, crea la ‘ballata’ della famiglia, a volte triste e desolata, altre volte epica e drammatica in cui prendono corpo i fantasmi della mente. La funzione del conduttore deve essere quindi quella di prestare attenzione principalmente ai significati, alle premesse epistemologiche, miti e credenze condivise dalla famiglia, al fine di far scaturire dal confronto con il gruppo costrutti semantici alternativi. La ballata o il dramma narrato si arricchiscono di sfumature che rendono più complesso il discorso, al fine di trovare un finale aperto. In sintesi, il gruppo sul genogramma diventa un’esperienza di riflessione e di ipotizzazione comune sulle proprie storie familiari, che porta spesso al desiderio ‘sano’ di appprofondire con i propri genitori, fratelli etc. vissuti, difficoltà, miti e credenze che hanno determinato in passato un forte disagio personale, ma che soprattutto continuano ad esistere nel presente.
Compito del terapista è guidare l’accolto alla ricerca di un ‘filo rosso’ dell’intera storia, rintracciare un copione di vita, per usare un’espressione di Berne. La definizione di un copione permette di ri-organizzare le esperienze vissute, attribuire un significato all’apparente caos e confusione che caratterizzava il racconto dell’accolto. L’uso del concetto di copione è diverso da quello fatto in analisi transazionale, infatti non crediamo affatto che il copione sia una ‘verità ultima’, che l’i’ndividuo ‘abbia’ un copione; piuttosto siamo convinti che il copione sia innazitutto una costruzione del gruppo familiare e, successivamente, una co-costruzione del gruppo terapeutico, che diventa terapeutico quando trova un finale aperto. Infatti la scoperta che la propria esperienza è una costruzione e, successivamente, la consapevolezza di poter ri-costruire il proprio copione permette all’individuo di sfuggire a quel senso di determinismo rigido del tipo ‘ho avuto un’infanzia difficile, quindi ho dei problemi’. Più ricco e complesso risulterà il copione, più ampie saranno le possibilità di scelta nel futuro. Il copione diventa così un punto di partenza per nuovi percorsi esperenziali e semantici, stimolati dalla pluralità delle voci del gruppo ed elaborati dal singolo.
Questo processo di co-costruzione in comunità non è solo un gioco linguistico, un’alterazione della struttura semantica, ma si impone anche a livello di esperienza, in quanto il copione familiare viene sempre interfacciato, confrontato con il copione drammatizzato in comunià.. Se sarà in grado di sperimentarsi in comunità con modalità differenti, sarà anche in grado di alterare la sua mappa relazionale in famiglia. Nuove modalità di relazione, nuovi percorsi sperimentati con il gruppo rappresentano l’indice di un reale cambiamento.
Il caso di Marco V.
Quando entrò in comunità all’età di 24 anni, Marco si presentava come un ragazzo minuto, con un fisico fragile, taciturno le cui apparenze tutto facevano pensare tranne che alla sua drammatica storia di tossicomane. Si definiva una persona introversa, schiva, non si confidava con nessuno, e ben presto gli fu affibbiato il soprannome di ‘vecchio’, perchè non si lasciava andare neanche nelle circostanze più divertenti. Questo atteggiamento serioso era giustificato ai suoi occhi dalla triste storia che aveva alla spalle: all’età di quattro anni, fu abbandonato dalla madre, come gli altri tre fratelli più grandi, insieme al padre, alcoolizzato e violento. Marco ha raccontato sempre con pudore la sua triste infanzia, fatta di poco affetto e di una grande paura per questo padre collerico e violento, e continuava a sostenere che qualunque cosa avesse fatto, nulla giustificava l’abbandono della madre.
All’inizio dell’adolescenza, Marco trovò prontamente risposta ai suoi problemi abusando senza limiti di tutte le droghe conosciute. La madre che nel frattempo, in modo clandestino, aveva ripreso contatto con i figli, raccolse presto il messaggio che Marco le lanciava; così ella lo convinse a trasferirsi a casa sua. Da allora la tossicomania di Marco divenne ancora pi¨ùdrammatica, decisamente provocatoria, palese negli usi ed abusi delle droghe: in parole povere, un timido ed impacciato ragazzino era diventato un tossicomane da strada, dedito al furto, che in più di una occasione aveva sfiorato la morte con un’overdose.
Il copione che proponeva in fondo era quello di una povera vittima delle angherie del padre e delle carenze affettive della madre. Si proponeva come inguaribile ed era ben disposto a far fallire anche questo ennesimo tentativo di salvarlo della madre, mandandolo in comunità. La storia ebbe un effetto di grande commozione e di paralisi sul gruppo, che decise di trattare con rispetto il ‘vecchio’. Attraverso gli incontri con la famiglia, a cui il padre ha sempre rifiutato esplicitamente di partecipare, emerse lentamente il gioco psicotico di tipo istigatorio in cui era invischiato Marco: Marco infatti metteva in atto una dinamica vendicativa del padre contro la madre, fomentata fin da tenera età, ma che aveva avuto un risvolto all’età di dodici anni. Infatti il padre che lo aveva sempre preferito agli altri fratelli, improvvisamente lo abbandonò per trovarsi un’altra donna. Quella fu la molla che innescò quella vendetta, da tanto tempo aspettata, sulla madre, sia per eseguire questo compito delegatogli dal padre, sia per ritornare nelle grazie paterne. Le enormi frustrazioni della madre (la cui storia personale tralasciamo per ragioni di brevità) alle prese con il figlio ‘drogato’ era nettare per le orecchie del padre che, coerentemente, non mosse un dito per aiutare Marco.
Diventava chiaro come Marco riproponesse in comunità lo stesso gioco che faceva con la famiglia: frustrava con un classico ‘mi sforzo, ma non ce la faccio’, a tal punto le persone che gli dimostravano affetto e comprensione che alla fine lo abbandonavano tra improperi e definizioni del tipo ‘non sei buono a niente’. Si riconquistava l’interesse degli amici con piccoli dispettucci o smaccate complicità, puntualmente scoperte e redarguite. Tutto ciò non faceva altro che confermare le sue premesse epistemologiche, o meglio il suo copione, di una persona immeritevole dell’affetto, e non attraverso il suo sacrificio.
Lo spostamento semantico da ‘povera vittima’ a ‘torturatore’ per delega del padre, illuminò il gruppo e turbò Marco per diverso tempo. La rilettura della sua storia familiare permise non solo agli operatori, ma anche a tutti i ragazzi della comunità di guardare con occhi diversi il comportamento di Marco e di smantellare, pezzo dopo pezzo, tutte le collusioni che si erano create. La crisi che seguì lo portò ad avere diversi incontri con il padre, adesso felicemente risposato, con cui non parlava da quando aveva quindici anni, del divorzio con la madre, del suo vissuto in quei momenti e con la droga.
Oggi Marco vive con un fratello più grande, va a trovare regolarmente sia la madre che il padre, che si sono ricreati rispettivamente altri nuclei familiari, e quando viene in comunità fa divertire tutti i ragazzi raccontando le sue disavventure sentimentali.
La trama dei giochi è stata chiaramente esposta per somme linee, a scapito della reale complessità, ma ci premeva sottolineare piuttosto il suo riproporsi nel contesto comunitario e come da qui si sia potuto modificare quello che accadeva in famiglia. Il genogramma diventa così un tappa alla quale non si può sottrarre nessun accolto, in quanto restituisce alla storia la sua giusta complessità, con i suoi spazi incompresi, inesplorati, con le potenzialità inespresse. Ci teniamo a sottolineare l’aspetto grafico, perchè si è rilevato un elemento fondamentale, quasi come se la visibilità delle relazioni aprisse uno spazio per la pensabilità, che contrasta con la preponderante attitudine del tossicomane all’agito.
In conclusione, appare chiaro che la dimensione gruppale della terapia non intende soppiantare i setting terapeutici tradizionali, quali la terapia familiare o quella individuale, con i quali è opportuno che si intrecci indissolubilmente, ma può essere vista oggi come una tappa e, soprattutto, una diversa possibilità di un percorso terapeutico complesso, necessario per alcune problematiche come la tossicomania.
Quindi, programmare anche una serie di incontri di terapia familiare rappresenta la possibilità di verificare le ipotesi emerse durante il lavoro di gruppo. Altrettanto utile, in fase avanzata della terapia, può essere un breve periodo da trascorrere a casa, con prescrizioni terapeutiche precise. Se il lavoro di gruppo è stato ben fatto, diventerà una primaria necessità per l’accolto approfondire certe tematiche, chiarire episodi oscuri, avvolti dalle nuvole del mito. Così l’individuo si può riappropriare della storia familiare, pur dovendosi scontrare con la riproposizione di vecchie dinamiche.
Keeney (1985) ha affermato che "nell’ottica dell’epistemologia cibernetica la grandezza dell’unità sociale non deve avere nulla a che fare con la definizione di un sistema cibernetico. Di per sè il fatto di vedere e curare coppie, famiglie, vicini o intere culture non contraddistingue il terapeuta orientato ciberneticamente. La cibernetica prescrive semplicemente di vedere gli eventi come organizzati dal processo ricorsivo di retroazione". In tal senso, crediamo che il terapeuta relazionale non debba spaventarsi di fronte alla complessità dei contesti i cui lavora, ma attraverso un’attenta analisi delle risorse, agire in coerenza con la propria epistemologia senza preconcetti che limitano la sua libertà.
*Dall'edizione on line de "ILVASO DI PANDORA"
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