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La mia posizione nei confronti della tecnica psicoanalitica

12 Ott 12

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*Traduzione di Paolo Migone

Io ho introdotto gradualmente un numero sempre maggiore di modificazioni nella mia tecnica psicoanalitica in questi ultimi 25 anni, un periodo che ho dedicato esclusivamente al trattamento dei problemi del carattere attraverso lo strumento dell'analisi, con una frequenza minima di 4 sedute alla settimana. Fin dall'inizio della mia attività come psicoanalista, ho cercato di usare il nostro metodo con un vasto spettro di casi, evitando soltanto quei problemi che sarebbero stati troppo pericolosi da gestire fuori dall'ospedale. Inutile dirlo, mi sono presto trovato di fronte a situazioni cliniche che non potevano essere trattate con le tecniche puramente interpretative del metodo psicoanalitico classico. A questo riguardo, l'esperienza mi ha confermato alcune delle conclusioni alle quali erano giunti i pionieri della psicoanalisi delle generazioni precedenti – Ferenczi, Melanie Klein, Kohut e altri – e cioè che molti pazienti soffrono per le sequele di conflitti che sono più arcaici di quelli incontrati da Freud nelle "nevrosi di traslazione", e che quindi richiedono misure adatte per quelle condizioni spesso designate da termini quali "debolezza dell'Io", "arresto dello sviluppo", o "deficit strutturale".

Nella psicoanalisi americana, che quando incominciai la mia carriera era dominata dalla scuola della "Psicologia dell'Io", gli interventi non interpretativi nei casi difficili erano considerati leciti – anzi necessari – se il bisogno di tali interventi da parte dell'analista poteva essere in seguito a sua volta interpretato. Per un certo numero di anni io considerai questa mia modificazione Îad hoc'della tecnica abituale come un uso legittimo di tali "parametri" (termine coniato da Eissler nel 1953 per questi interventi non interpretativi), e constatai che di fatto era sempre possibile in seguito interrompere l'uso di queste misure di emergenza e analizzare i loro effetti sullo sviluppo del transfert. La mia esperienza clinica mi portò a concludere che non procurava mai un danno eccessivo l'errore di introdurre un parametro quando non era strettamente necessario, poiché questo fatto poteva essere compreso abbastanza presto, e l'analisi di tali banali errori si dimostrava sempre abbastanza fruttuosa. Invece, il non intervenire attivamente, a causa della naturale paura di scivolare in una "analisi selvaggia", può portare, nei casi in cui una tecnica interpretativa non sia sufficiente, a complicazioni molto serie – persino all'interruzione del trattamento.

Di conseguenza, gradualmente modificai la impostazione tecnica: nei casi in cui ero in dubbio, incominciai a considerare l'uso più attivo di interventi non interpretativi come l'alternativa più sicura. Allora scoprii che i miei risultati terapeutici miglioravano, che una proporzione maggiore delle analisi che conducevo terminavano in modo soddisfacente e di comune accordo, e che i miei analizzandi non provavano alcuna difficoltà a rivivere nel transfert i problemi sessuali, aggressivi e narcisistici che Freud considerò di cruciale importanza nella genesi delle nevrosi. In collaborazione con Arnold Goldberg formulai allora un complesso schema teorico che cercava di spiegare queste scoperte. Pubblicato nel 1973, il nostro libro Modelli della mente è ora disponibile in varie lingue straniere, compreso l'italiano (Gedo e Goldberg, 1973).

La varietà di potenziali interventi non interpretativi che possono essere utili nel corso di una psicoanalisi è letteralmente infinita: dall'insistenza a ottenere adeguate cure mediche per problemi fisici intercorrenti, all'incoraggiamento a continuare le associazioni libere nonostante un'ansia crescente, a misure più insolite, quali il prendere l'iniziativa nel confrontare attivamente l'analizzando con i suoi gravi disturbi del pensiero e della comunicazione, o empatiche raccomandazioni a trattenersi da azioni o comportamenti pericolosi che possono interferire con il processo analitico, e così via. Per ridurre questa complessità all'interno di categorie comprensibili, ho classificato queste attività terapeutiche a seconda delle loro finalità tecniche (allo stesso modo con cui la "interpretazione" viene descritta come la traduzione di significati inconsci nel linguaggio del processo secondario). La mia classificazione contiene tre categorie principali: pacificazione, unificazione e disillusione ottimale. Insieme, questi tre tipi di interventi sono necessari per instaurare quello che Winnicott chiamò holding environment, cioè una situazione psicoanalitica che permetta il lavoro interpretativo sui conflitti intrapsichici. 

La "pacificazione" si riferisce a quegli interventi terapeutici volti a correggere le conseguenze di una deficitaria regolazione di tensione.

Sebbene queste carenze di solito si manifestino in circostanze di aumentata tensione, e quindi richiedano una sedazione, occasionalmente incontriamo anche pazienti sottostimolati, come risultato degli stessi problemi di autoregolazione. Voglio ricordare qui che negli anni Î90 Freud cercò di concettualizzare quadri simili chiamandoli "nevrosi attuali". Per "unificazione" io intendo quelle misure che noi adoperiamo per trattare le situazioni di splitting, o scissione, sia che esse siano il risultato di operazioni difensive per evitare conflitti, o la conseguenza di un arresto dello sviluppo. La "disillusione ottimale" si riferisce al padroneggiamento non traumatico di illusioni non realistiche, sia che queste fantasie riguardino il soggetto stesso, o altri oggetti significativi. Va sottolineato che tutti questi interventi terapeutici sono puramente verbali; io li distinguo dalle interpretazioni solo a scopo euristico.

L'esperienza clinica nel condurre analisi seguendo questo schema di modalità terapeutiche mi ha permesso di ottenere risultati positivi molto più frequentemente di quanto non sia riportato nella letteratura psicoanalitica. Di conseguenza, ho gradualmente acquisito sempre più coraggio nell'accettare pazienti in analisi senza considerare gli usuali criteri di analizzabilità. Generalmente ho fallito solo con quei pazienti i cui handicap erano veramente molto gravi, e cioè con coloro che presentavano una combinazione di convinzioni deliranti, ansietà di natura paranoide, e acting out o propensioni delinquenziali. L'analisi di pazienti con severi handicap psicologici nella sfera delle funzioni dell'Io è stata resa possibile dal graduale riconoscimento, fatto per la prima volta dai colleghi della Scuola delle relazioni oggettuali, che l'adattamento di questi individui si stabilizza se essi formano un legame simbiotico nel transfert. Contrariamente alla pratica di molti analisti, io ho trovato che transfert di questo tipo non portano solamente a interpretazioni dinamiche e genetiche. In altre parole, gli sviluppi simbiotici nel transfert non sono pure e semplice ripetizioni di precoci esperienze infantili: essi sono anche la replica di carenze dello sviluppo rappezzati dalle figure genitoriali nel loro tentativo di rispondere ai bisogni simbiotici del bambino.

Conseguentemente, io credo che in analisi il manifestarsi di legami transferali arcaici ci dia una opportunità rara per diagnosticare le specifiche distorsioni dello sviluppo dei nostri pazienti. Se noi riusciamo a renderli consapevoli, senza ferire la loro autostima, della natura di questi deficit – quali disturbi del pensiero o della comunicazione – essi avranno la opportunità di reimparare queste capacità psicologiche (sia all'interno che all'esterno della situazione analitica). Miglioramenti significativi in queste richieste adattive faranno spontaneamente cessare il bisogno del paziente di una assistenza simbiotica. Prestando molta attenzione a questi problemi, precedentemente trascurati dagli psicoanalisti, io ho modificato la mia tecnica psicoanalitica, portandola più vicino all'antico ideale di Freud di fornire una Nacherziehung (rieducazione). I dettagli della mia tecnica attuale sono descritti nel mio ultimo libro, Psychoanalysis and Its Discontents (Gedo, 1984).

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