Percorso: Home 9 Clinica 9 Clinica psicodinamica nel lavoro istituzionale 9 Incontro del 20.01.2000

Incontro del 20.01.2000

10 Ott 12

Di

PRESENTAZIONE DEL CASO
A cura di Francesco Giglio

1) Il contesto

I colloqui con A. si svolgono in un ambito istituzionale privato, e precisamente in un centro diurno per tossicodipendenti. Si tratta di un servizio definito di "bassa soglia" che s'inserisce nell'approccio della "riduzione del danno". Nelle istituzioni così orientate l'astinenza da sostanze psicoattive non è condizione posta come vincolo per l'accesso al trattamento, questa particolarità si traduce nel fatto che sono accolti anche utenti in "terapia metadonica" presso i Sert, così come persone che, almeno per un periodo iniziale, continuano a far uso di sostanze psicotrope. Il primo contatto dell'utente con il centro diurno è stabilito a partire da una pluralità di domande, connesse in modi diversi all'uso di droghe o di alcool; possono giungere al servizio eroinomani ventenni senza fissa dimora, ma anche trenta – quarantenni con alle spalle una carriera poliennale di comunità e di carcere, cocainomani a volte molto giovani e con gravi situazioni giudiziarie, ma anche lavoratori che riescono a conciliare lavoro e cocaina, alcolisti di ogni età, come pure persone con problematiche psichiche diverse, che si dichiarano a vario titolo "tossicodipendenti", e che spesso cercano soprattutto di alleviare in qualche modo la loro condizione di solitudine e d'isolamento, non mancano domande la cui motivazione essenziale è fondata sulla possibilità di poter svolgere un programma alternativo alla detenzione carceraria. Gli utenti possono prendere contatto con il centro diurno autonomamente o anche essere inviati dai Sert territoriali.

La fase iniziale è informativa e valutativa, normalmente si esaurisce in un breve ciclo di incontri con il soggetto, solitamente da due a quattro; a volte questo primo momento è integrato con le informazioni e i risultati dei test diagnostici trasmessi dai Sert. Al termine della fase di valutazione può accadere che sia proposto al richiedente l'inserimento nel centro diurno, oppure l'inserimento in una comunità residenziale, o ancora può accadere che si proponga il contatto con un servizio differente che appare però più adatto ad affrontare i particolari problemi evidenziati dai colloqui preliminari. Il centro diurno è organizzato in modo da proporre diverse attività, che si svolgono tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, dalle nove del mattino alle diciassette del pomeriggio. I programmi di frequenza sono individualizzati e differenziati, l'utente è invitato fin dall'inizio a farsi parte attiva, a partecipare alla costruzione del proprio programma che sarà concordato con un operatore e poi costantemente monitorato. La riunione d'équipe settimanale è l'ambito decisionale cui partecipano tutti gli operatori del servizio.

Dopo la fase valutativa eventuali ulteriori colloqui individuali con lo psicologo sono fatti esclusivamente se richiesti dall'utente.

2) Il caso

Vedo A. a partire dai primi di giugno del 1998, chiede un inserimento nel centro diurno. La domanda d'aiuto poggia su di una difficile fase che A. sta attraversando, mi parla di solitudine, d'isolamento e di una grave ricaduta nell'abuso d'eroina. A. è un uomo di 35 anni, dice che ha iniziato a lavorare a quattordici, a quindici ha incontrato l'eroina, con questa droga ha ormai un rapporto ventennale anche se discontinuo, con poliennali pause di non utilizzo. Vive con il fratello maggiore e con la madre (il fratello è alcolista, il padre non viene neppure citato nel primo incontro, in seguito affermerà che non ne aveva parlato perché è una figura poco importante). E' sieropositivo, l'ha scoperto nel 1997 ed ha ottenuto una pensione che gli consente una certa autonomia economica, si è rivolto al centro diurno spontaneamente. Ha avuto un precedente contatto con il servizio nel novembre 97, quando ha partecipato ad un gruppo di auto aiuto per persone sieropositive condotto da alcune operatrici del centro. Lamenta il fatto che da tre mesi è tornato ad un uso massiccio di eroina dopo che, afferma, la compagna con cui stava da otto anni (C.) lo ha lasciato; la strumentalità dell'abuso di droga da parte di A. salta all'occhio con particolare evidenza da episodi come questo.

A. inizia il programma presso il centro diurno, da subito interrompe l'uso di eroina, e dopo pochi giorni su sua richiesta cominciano i colloqui individuali.

Durante il colloquio parla della sua compagna C., piange, dice che la situazione è insopportabile, che C. (studentessa universitaria, 31 anni, educatrice di strada) lo ha lasciato dopo otto anni. A. racconta: "Mi ha detto che vuole darsi un'altra possibilità, che non vuole più stare con me perché si è innamorata di uno psicologo della LILA, uno che le fa supervisione, adesso dice che è un problema anche il fatto che sono sieropositivo". Descrive la loro relazione che appare logorata dall'uso di eroina, mi parla dei suoi sforzi per smettere e delle più recenti ricadute, con C. accanto sempre più stanca e insofferente. Si descrive unicamente come vittima, sembra mancare qualsiasi sospetto circa una propria parte attiva nelle sue vicende esistenziali, l'aspetto, il tono, l'atteggiamento sono molto dimessi. Due sono le modalità con cui A. tipicamente si propone: da un lato l'atteggiamento estremamente triste di questo colloquio, e dall'altro un modo iperattivo fatto d'azione senza riflessione; la circolarità e l'alternanza fra i due modi di comportarsi di A. attraversano sia i suoi racconti sia la sua partecipazione a tutta la serie dei nostri colloqui.

Nel colloquio successivo mi dice: "Sono uscito sabato con C., mi ha detto che sono la persona più importante della sua vita, però è innamorata dello psicologo della LILA". A. aggiunge che ha fatto richiesta alla LILA per partecipare ai loro gruppi per sieropositivi e che, per accedere a questi gruppi, deve sostenere dei colloqui preliminari proprio con lo psicologo di cui è innamorata C.. Egli si dichiara indeciso sul da farsi e descrive come casuale l'incontro con il suo "antagonista". Ci soffermiamo sulla questione ed emerge il fatto evidente che l'incontro non è per nulla casuale ma fortemente voluto, tanto più che i gruppi di auto aiuto per sieropositivi sono attivi anche nel centro diurno. A. ne ha parlato anche con C. che non lo ha ostacolato: "Non pensare a me e fai il meglio per te" è stato il suo commento. La tonalità emotiva di A. è ancora fortemente depressa; con le lacrime agli occhi si dichiara impotente "io non posso competere con lui", chiama in causa la sua tossicodipendenza e la sua sieropositività, appare talmente determinato a farsi male che mi viene il dubbio che il vero fine, nella richiesta fatta alla LILA, sia quello di farsi umiliare dal suo "avversario". Gli comunico quest'ipotesi e concludo il colloquio.

Lo rivedo la settimana successiva mi dice che ha deciso: andrà all'appuntamento con lo psicologo della LILA, parla di C., lei lo ha lasciato ma si sentono e si vedono molto frequentemente. Dice di aver ripreso a fare un uso massiccio d'eroina quando ha sentito che lei si era allontanata. Insiste sul fatto che fare i colloqui alla LILA è qualcosa che vuole fare per se, così com'è per se che frequenta il centro diurno "Voglio ritrovare nel bene e nel male il vero A" afferma. Ha scoperto di essere sieropositivo nel 1997, su questo punto non si sofferma, sorvola con naturalezza come se fosse completamente irrilevante. Questa assenza di parole sull'argomento AIDS che pure lo tocca così da vicino mi lascia perplesso, mi chiedo se, riguardo a questo aspetto, si possa ipotizzare che siano attive le difese maniacali dell'onnipotenza e della negazione proprie della depressione.

Il 25/8/98 ci vediamo per la prima volta dopo l'interruzione estiva. Appare sereno; mi dice che ha passato del tempo a casa di C. e che in due giorni diversi ha fatto l'amore con lei ma che la seconda volta che è successo lei, poi, ha pianto tutta la notte. C. gli ha ripetuto che non lo ama più, di non contare su di lei e ha anche deciso che è meglio che non si vedano più. A. si dice confuso da questa situazione nella quale, afferma: "C. dice una cosa e poi ne fa un'altra". A. nel frattempo ha anche iniziato a frequentare i gruppi della LILA.

A partire dal colloquio successivo s'introduce una nuova scansione, finora al centro dei suoi pensieri c'era C., ora sembra vi sia più fiducia nei miei confronti ed una maggiore disponibilità a portare ai colloqui anche altre questioni. Mi racconta un frammento di un sogno: "C'è un canalone lungo e stretto pieno di fango e di sangue, mi sento sporco e impaurito, vedo persone nude in particolare tre uomini nudi in fila uno sopra l'altro, uno sono io, stiamo facendo del sesso". Lui è molto colpito dal sogno ed anche a me sembra vi sia qualcosa di molto importante. Gli chiedo di dirmi liberamente ciò che gli viene in mente e lui inizia a parlare di una vicina di casa, di lei ricorda in particolare il baby-doll, afferma che questa lo ha sedotto quando aveva circa dodici anni. Ci soffermiamo sull'episodio ma un altro ricordo più antico e più confuso si fa avanti, collegato alle sensazioni di sporco e di paura: ricorda vagamente che quando aveva meno di sei anni uno zio, forse lo ha violentato, non ne è certo, ricorda confusamente di essere rimasto solo con lui in campagna di aver chiamato aiuto senza che nessuno venisse. In particolare prova del risentimento nei confronti della madre (aspetto questo piuttosto peculiare per la sua risonanza edipica) la ritiene colpevole per non essere accorsa ai suoi richiami. Lo zio oggi è morto. Questi ricordi lo colpiscono e lo sorprendono, sembrano in qualche punto legati ad un senso di colpa inconscio dal quale è solito fuggire utilizzando eroina o alcol, sostanze che "possono produrre….. un congelamento del discorso" (C. Viganò, 1998) e che gli permettono di tenere chiusi in una sorta di frigorifero gli affetti connessi a quei ricordi. Parla anche di continui episodi di botte e maltrattamenti, subiti in particolare dalla madre. In questa parte di vittima sacrificale sembra non essere estranea una presenza di piacere, di godimento mortifero che provoca lo scacco dello stesso A.. E' una veste quella del martire che A. indossa da lungo tempo, e che sembra confezionata dalla famiglia, in particolare dalla madre, su misura per lui; è un ruolo dal quale non può prendere le distanze. Mi sembra non sia assente in tutto ciò un elemento di tipo masochistico, riferibile al fatto che il godimento del corpo nella violenza, benché involontario, è provato dal soggetto, e ciò è inevitabilmente traumatico.

La settimana dopo è ancora vivo l'eco dell'ultimo colloquio, A. torna sull'episodio di seduzione da parte della vicina di casa e aggiunge che in seguito sempre in quel periodo, (aveva circa dodici anni), ha avuto in due distinte occasioni rapporti sessuali con le due sorelle, maggiori di tre e quattro anni. Durante il secondo di questi rapporti, la madre lo ha scoperto insieme alla sorella. A. Rievoca l'umiliazione di quest'episodio, afferma che la madre ha attribuito esclusivamente a lui la responsabilità di ciò che era accaduto, lo ha picchiato duramente: "Mi ha spezzato la cintura sulla schiena" Dice, e da quel momento era stato emarginato dalla famiglia. Per quanto riguarda la sua vita sessuale attuale, si sofferma su un insieme di fantasie che gli appaiono piuttosto incomprensibili: se una donna prende l'iniziativa nei suoi confronti, se come lui dice è una "donna attiva", durante l'atto sessuale si scopre a disprezzarla e non può fare a meno di pensare di lei che è una "troia", se invece è lui a prendere l'iniziativa e lei è compiacente incontra di nuovo il disprezzo misto ad aggressività, in questo caso s'imbatte in un pensiero che descrive come "Finora ho pagato io adesso paghi tu" Ed ancora "Sei una troia". Tutto questo gli appare molto strano "Eppure sono disinibito" Afferma. Il risultato è che l'atto sessuale è per A. sempre connesso ad un'attitudine al disprezzo. Vi è la sovrapposizione di una componente dell'odio (il disprezzo appunto) su un'azione propria dell'amore.

"Mi do le martellate sulle palle non riesco a capire, domenica mi sono ubriacato, ho fatto il matto". Con queste parole apre il colloquio successivo, poi mi racconta l'episodio, dice che C. sta preparando un esame e gli ha detto che non avrebbero potuto vedersi per il fine settimana, lui che solitamente le telefona prima di andare a trovarla questa volta, con una scusa, è andato direttamente a casa sua senza chiamare, lei lo ha messo alla porta e lui sentendosi umiliato è andato ad ubriacarsi. Ci soffermiamo su quest'uso strumentale dell'umiliazione cercata, era qualcosa che era già comparso in precedenza. Tornano anche degli accenni alla questione della cosa sporca, gli faccio notare come questa "cosa sporca" è qualcosa che abbiamo già incontrato, gli torna in mente il confuso episodio dello zio e poi quello delle sorelle, conclude che forse la "cosa sporca" è lui. Sembra riverberarsi un certo godimento masochistico: sono la cosa sporca, sono quello che si dà le "martellate sulle palle", "sono il drogato". Sembra anche presente un aspetto di identificazione negativa connesso all'uso di sostanze.

A questo punto accade nel centro un incidente che mobilita e coinvolge operatori e utenti. M. un utente quarantenne, rompe un certo clima di "omertà" che in quel periodo aveva raggiunto il culmine e pone nei gruppi di auto aiuto, ai quali partecipano tutti gli utenti, una questione rispetto al fatto che alcuni ospiti avevano fatto uso di sostanze all'interno del servizio (uno spinello e una bottiglia di vino). Questa dichiarazione scatena il conflitto fra gli utenti, si susseguono le riunioni, le liti e le discussioni coinvolgono tutti, compreso A. che nel successivo incontro mi dice:

"ho pensato di non venire più, c'è dell'ambiguità nel centro diurno non mi fido, è come a casa mia". Si sofferma a lungo sugli episodi che stanno suscitando conflitti fra gli utenti del centro diurno, conflitti attinenti cosa si può dire pubblicamente, quindi anche agli educatori, e cosa no. In particolare porta un senso di colpa che considera legato alla parte da lui avuta in queste discussioni dentro al centro. Poi lentamente torna a collegare questo senso di colpa a qualcosa di diverso, la madre ostacola la sua scelta di venire al centro, preferirebbe che lui rimanesse a casa "non è cosa per te" gli dice. Lui pensa che la madre lo ostacoli perché ha capito che lui al centro diurno si trova bene. Questo "non è cosa per te" detto dalla madre apre un cassetto di ricordi che riguardano aspetti ed epoche diverse: la sua volontà di continuare gli studi, interrotti con la licenza media, il suo indossare la cravatta ed abiti eleganti nei primi tempi della relazione con C., i suoi abbozzi di tentativi di lasciare la casa dei genitori ed oggi il fatto di frequentare il centro diurno.

Nel colloquio successivo è particolarmente ansioso, mi dice: "Ultimamente sono imbarazzato, sul metrò incontro uomini che mi fissano….. perché mi fissi così?". Parla di M. l'utente che aveva sollevato la questione "sostanze" e racconta che gli incute timore, che è sarcastico nei suoi confronti. Ritorna sul "non è cosa per te" della madre riprendendo gli episodi descritti. Afferma di aver sempre vissuto in un clima di violenza quotidiana subita: "Bastava che mi lamentassi che la pastasciutta era poca e giù cinghiate, da mia madre ma anche da mio padre". Compare il padre descritto come il tipico "padre padrone". Questi lo manda a lavorare a nove anni come aiuto da un fruttivendolo: "Quando finiva la scuola, gli altri bambini andavano a giocare e io dovevo andare a lavorare, mi ha rubato l'infanzia, ma non lo ha fatto perché davvero avevamo bisogno ma solo perché dovevo fare quello che diceva lui, comandava lui".

A. Ha continuato a frequentare i gruppi della LILA dove ha conosciuto una nuova donna, G., con la quale sta nascendo qualcosa. E' euforico e spaventato contemporaneamente, dice di sentirsi in colpa verso C., teme che scopra tutto e se ne vada definitivamente, teme anche di innamorarsi di G. perché anche lei gli ha detto di non vuole impegnarsi in un rapporto serio. C. intanto ha ripreso a cercarlo, "Anche lei ha i suoi problemi e ora va anche lei dallo psicologo" Mi dice A.. Si sente anche ansioso e fa cenno all'episodio della violenza da parte dello zio, in particolare parla del rancore verso la madre "Io chiedevo aiuto e mia madre non rispondeva", Anch'io non sto rispondendo; mi chiedo se il messaggio sia diretto anche a me. Il periodo assume caratteristiche iperattive, c'è un continuo passaggio all'atto con un'azione che arriva sempre prima della ragione. Inizia i colloqui alla LILA per riconquistare C., poi proprio lì incontra G., C. improvvisamente non ha più importanza, poi ne avrà di nuovo, è un continuo procedere per salti con poca riflessione di A. su ciò che vuole.

Inizia a frequentare entrambe le donne senza decidersi ad una scelta, e mettendosi in situazioni che potrebbero facilmente far si che una scopra l'altra. Dice che dovrebbe scegliere ma non riesce a decidere in un senso o nell'altro. C. si è riavvicinata, lo ha invitato per una settimana al mare a dicembre ma dice di non aver cambiato idea su loro due; D'altro canto G. dice che non è l'uomo adatto a lei, accenna al fatto che lui non guadagna abbastanza per vivere insieme. Neanche qui fa la sua comparsa il desiderio di A. non si sa cosa vuole, non sceglie in nessun senso e si adagia sul desiderio di chi gli sta attorno.

Ben presto però con G. si rompe qualcosa, termina la fase d'iperattività e ritorna quella depressiva. "Domenica ho visto G.", Mi dice, "Dovevamo andare a fare un giro in Brianza, sono andato a casa sua a prenderla e invece era ancora a letto, aveva mal di testa, io lo sapevo che andava a finire così, ma mi sono arrabbiato lo stesso, tutti i sabati sera esce e si ubriaca, lei mi ha detto "e dai mettiti a letto anche tu" ma io ho risposto "no non sono mica venuto fin qui per farmi una scopata". Torna sulla questione della "donna attiva" e rievoca gli episodi di seduzione delle sorelle. Come emergerà poi l'irritazione di A. in questa situazione riguarda in particolar modo lo stile di vita di G.

Salta un colloquio, chiama il centro e lascia detto che non può venire perché sta male. Nel corso dell'incontro successivo racconta: "Mi sono fatto; ho incontrato delle persone che conoscevo in un posto insolito". Descrive quest'episodio come un evento casuale. Nel frattempo ha deciso di chiudere con G. "La G. mi chiama continuamente vuole farmi passare per uno stronzo; ma come dice una cosa, non t'innamorare di me e di qua e di la, poi invece è un'altra. Voglio un rapporto normale". Alla domanda di chiarimento su che cosa intende lui con "un rapporto normale", descrive una situazione estremamente idealizzata: felicità, nessun conflitto, serenità, eccetera; forse anche in questa idealizzazione si può rintracciare la presenza attiva di una difesa maniacale dalla depressione. Nel frattempo anche C. si è rifatta avanti ed è lui che ora l'ha tenuta a distanza: "Non ti appoggiare troppo a me" le ha detto, ed ha continuato "Ci sono tre possibilità: o vuoi davvero provarci con me, o sei solo legata a me perché non hai nessun altro, o ti sei fatta una storia con qualcuno ed è andata male; lei mi ha risposto la terza possibilità puoi escluderla".

Anche nel successivo colloquio A. si sofferma sulla questione G. "Non voglio più sentire G.", Mi dice, "Vorrei che non esistesse, non so perché ma mi da fastidio non vorrei più vederla e neppure incontrarla al gruppo. Martedì mi sono fatto ancora". Gli chiedo di approfondire questa faccenda di G. e lui mi dice che: "Si vantava degli altri uomini con cui era stata, uscivamo beveva fino a "piegarsi", poi mi raccontava che usciva di sera, andava in un locale, si caricava un uomo ogni volta diverso eccetera eccetera, ma a me non dava fastidio, io nella vita ho fatto di peggio, però non l'amo più e non voglio più vederla". Continuando a parlarne la convinzione che quei racconti di G. non erano un problema per lui, si attenua e lascia spazio ad un certo fastidio, emerge anche il fatto che gli amici di G. non mancavano di lanciargli pesanti battute su quest'aspetto. Torna la questione della "donna attiva", questione sulla quale A. ricorda che c'eravamo soffermati prima che ritornasse a farsi.

Arriviamo al Natale momento particolarmente delicato per A., questi riprende alcuni aspetti che già conoscevo ed aggiunge nuovi elementi: "Il Natale è pesante c'è sempre tensione a casa con i miei, è sempre stato pesante; le mie tre sorelle (due sono maggiori una minore) sono sposate, telefonano e basta, mio fratello è sempre ubriaco, mio padre è già ubriaco dalla mattina, ha sempre bevuto. Prima dicevano che le mie sorelle non venivano più a casa per colpa mia, perché io mi facevo; poi però l'hanno capita che non era colpa mia. Io con i miei non mi trovo: preferisco passare il Natale al bar. Mia madre non dorme più con mio padre da due anni, lui parla da solo, urla, bestemmia, è una situazione angosciante. Lui era il classico padre padrone, violento, ora però ha capito che chi comanda è mia madre. Mio padre quando avevo nove anni mi ha mandato a lavorare, mi ha tolto l'infanzia quello che diceva lui era legge poi però mi sono ribellato." Sul punto della ribellione si era già soffermato in precedenza, ma questa presunta ribellione è purtroppo priva di soggettività assorbita com'è dalle sostanze d'abuso che lo portano di fatto, non a ribellarsi per davvero ma a ripercorrere le orme del padre dedito all'alcol. Oggi A. arriva però a dire qualcosa di nuovo: "Io non me ne vado di casa, sarebbe inutile andarsene senza capire cosa mi tiene lì. Voglio prima capire. Io voglio qualcosa da loro (i genitori) anche se non so cos'è, e poi magari scoprirò anche che quella cosa lì non possono darmela. Mi hanno rubato l'infanzia voglio fargliela pagare." Mi sembra di poter individuare qui una nuova scansione connessa ad un ribaltamento che compare nel discorso di A., lui finora si è presentato come vittima ("io devo pagare", "non capisco cos'è che devo pagare") ora emerge una sua implicazione: vive nella casa dei genitori, benché ciò lo fa soffrire, per scelta ("per ottenere qualcosa?", "Per fargliela pagare?"). Avverto il momento come particolarmente delicato decido quindi di rivederlo fra due giorni.

Il giorno dopo A. non viene al centro ma telefona, dice all'educatrice che ha intenzione di andare a farsi. L'educatrice prende tempo, lo invita a venire al centro ed a parlarne, gli ricorda l'appuntamento con me fissato per l'indomani. Riesce a convincerlo ed A. arriva dopo essersi "caricato" con qualche bicchierino.

Nel colloquio seguente torna il tono depresso: "Ieri avevo voglia di farmi non resistevo, poi ho chiamato Clara (l'educatrice) e sono venuto qui ma prima mi sono fermato a bere. Mi sento un fallito dopo tutto quello che ho fatto per smettere sono ancora al punto di partenza." Cerco di valorizzare l'accaduto, è un episodio in cui sotto i nostri occhi si è verificato un cambiamento dentro di lui che lo ha spinto verso l'eroina, gli chiedo chiarimenti su questa voglia improvvisa e incontenibile, arriva alla conclusione che le questioni emerse nell'ultimo colloquio lo hanno messo in difficoltà. In particolare lo disorienta il fatto che benché pensa di voler andar via di casa non riesce a farlo, "Non ho le palle" dice. Ritengo opportuno un intervento rassicurante anche perché non potrò vederlo per quindici giorni. Gli dico che non penso si tratti di un problema di coraggio, che bisogna considerare che ciò che si pensa di volere non sempre è ciò che davvero si desidera, che c'è anche un inconscio che gioca la sua parte con il quale è necessario fare i conti. Lui ripercorre i nostri primi colloqui e ricorda che gli avevo detto che si potevano toccare dei tasti dolorosi, ma dice che forse è più dura di come pensava. Insisto nella rassicurazione, affermando che ritengo lui abbia le risorse per continuare il nostro lavoro e termino il colloquio fissando il prossimo incontro due settimane dopo.

A. viene al colloquio per l'ultima volta. Mi dice che ha ancora fatto uso di eroina, non ricorda nulla degli ultimi colloqui che pure si erano rivelati per lui così dolorosi, mi racconta un frammento di sogno che descrive come una specie di visione "c'era il bosco, c'era il fango e io ero lì aspettavo solo lo spacciatore con la roba, è una situazione che ho vissuto tante volte non era nemmeno un sogno". Era il quindici di Gennaio, A. da quel momento ha sospeso la frequenza al centro diurno mantenendo soltanto sporadici contatti telefonici, ed è tornato ad un uso massiccio di eroina.

A metà Marzo l'ho chiamato, mi ha detto che era a casa malato di bronchite e che sarebbe tornato una volta guarito, in effetti, a partire dai primi di giugno 1999 è tornato al servizio, non prima di aver intrapreso un trattamento metadonico a scalare al Sert finalizzato alla disintossicazione dall'eroina. A. dopo una decina di giorni di frequenza al centro ha richiesto di poter riprendere i colloqui individuali e di proseguire il lavoro interrotto che al momento continua.

3) L'ipotesi diagnostica

Prendendo in considerazione il DSM IV, La diagnosi è collocabile sull'Asse I "uso di sostanze psicoattive", questa diagnosi non da però conto della struttura, giacché l'uso di sostanze psicoattive "Non modifica mai la natura specifica della struttura psichica…… si limita a modificare più o meno notevolmente il modo di funzionamento…. della struttura profonda" (Bergeret J., 1982). Sempre con riferimento all'Asse I credo ci si possa anche orientare sui disturbi affettivi, in particolare sulla depressione. L'uso non interrotto di sostanze (l'alcol quando non l'eroina) penso che non permetta di escludere una struttura psicotica, anche se sono più orientato a pensare ad una nevrosi. Le componenti anali del primo sogno di A. ed il suo rimuginare mi sembra abbiano funzione di indice, nel senso della classificazione dei segni proposta da Peirce e ripresa da Jakobson, (A. Rifflet-Lemaire, 1970) ed evidenzino aspetti propri della nevrosi ossessiva.

 

 

DISCUSSIONE SUL CASO

Dr. Viganò: L'esposizione è stata forse un po' faticosa da seguire perché si tratta di n frammento di una storia clinica che possiamo solo immaginare. Questo uomo ha 35 anni e ciò di cui il Dr. Giglio ci parla è poco meno di un anno della vita di questa persona. E', si può dire, da un punto di vista clinico, un flash, un episodio che capita in un soggetto che da 15 anni fa uso di eroina. Quindi c'è un'anamnesi che non è del tutto costruita: c'è il discorso di A che produce dei ricordi, delle scansioni rispetto al passato ma non conosciamo la storia dal punto di vista dei tentativi terapeutici tentati o subiti. E' un punto da tenere presente nella discussione.

Come discutere di questo caso? Direi, discutiamo di questo intervento, prima interrotto e poi ripreso, che ha delle scansioni esemplari rispetto all'intervento in sé. Consideriamo il periodo precedente all'interruzione: c'è un primo tempo di una partecipazione volontaria, spontanea di A ai colloqui che mette in luce ciò che in lui è ripetitivo: come lui si vede, l'immagine di tossicodipendente a cui è identificato e come usa l'eroina. Sottolineerei la parola che è stata ripetuta più volte "uso strumentale" dell'eroina: nonostante che A si definisca tossicomane e che cerchi di smettere, accetta, quando glielo si fa notare l'uso strumentale (a cosa?) dell'eroina, in un quadro più complesso in cui c'entra il suo vittimismo non casuale, un farsi umiliare dall'avversario. Quindi c'è un uso dell'eroina, almeno nel momento in cui viene a parlare, non a 15 anni quando probabilmente essa aveva un'altra funzione, ma questa residualità strumentale porta ad interrogarsi a cosa sia strumentale, ad esempio se sia un sintomo soiale che supplisce al "vero" sintomo�C'è una seconda cosa in cui il paziente sembra accedere ad una comunicazione più interiorizzata, ad un transfert, col mettere in gioco qualcosa di sé, del proprio inconscio, con il frammento di sogno dei tre uomini, numerazione molto particolare: "vedo tre uomini di cui uno sono io": c'è questo paradosso per cui ne vede tre e poi si conta tra i tre. Questa catena associativa dei ricordi con la seduzione dello zio, l'incesto con le sorelle, l'umiliazione della madre e questa breve comunicazione di contenuti di un inconscio il cui statuto va interrogato: di un inconscio a cielo aperto? O di un inconscio rimosso che contribuisce a costruire un sintomo, una sofferenza�? Non sappiamo. Sono comunicati così, un po' velocemente.

Si chiude con una terza fase conclusiva che è introdotta da uno dei pochi interventi interpretativi del terapeuta che fa dire al soggetto: "la cosa sporca sono io". C'è un primo insight in cui A si coglie non come vittima ma come reietto, lasciato cadere dall'Altro e lì si comincia ad avere qualche piccola costruzione delirante: comincia un imbarazzo quando degli uomini lo fissano e da lì compare il padre padrone che gli ha "rubato l'infanzia". A partire da questo si apre la crisi, il natale, la ripresa dell'uso della sostanza e questo tema, non più della vittima, ma di far pagare al padre ed alla famiglia l'infanzia che è stata rubata e il voler farsela restituire e voler far pagare i genitori per questo furto. A questo punto si sottrae alla relazione con il terapeuta, cioè alla relazione simbolica, di parola con l'Altro, per entrare, dopo il sogno del bosco, nel periodo di alcuni mesi in cui si riempie di roba per poi tornare iniziando una nuova fase.

Sarà interessante se questa ripartirà con gli stessi terapisti o con le stesse figure (più precisamente se il transfert che era diventato persecutorio, potrà produrre u oggetto separatore, che lo renda trattabile), perché la mancanza di anamnesi non ci fa sapere tutti i cicli di terapie che in passato ha già fatto. E' interessante che qui ha fatto un ciclo che io ho diviso in tre momenti: presentarsi come vittima, dire dei contenuti che potrebbero essere attinenti ad una vicenda edipica, proiezione sull'esterno di questi contenuti: persecuzione omosessuale e poi ritorno nella routine tossica. Sarà interessante vedere se ripercorrerà questi tre tempi, ma è difficile ripetere con lo stesso interlocutore. La ripetizione presuppone che ci sia un interesse a farlo e allora non sarebbero più gli enunciati a prendere peso, ma il fatto di riproporli, lo loro enunciazione: che cosa lo muove a riproporli ancora? E' un primo spaccato, un primo tempo che ci fa fare molte considerazioni sulla diagnosi, meno sulle terapie possibili.

Intervento dalla sala: Mi ha colpito questo mettere il terapeuta tra le persone a cui farla pagare; però ha telefonato all'educatrice mettendo lui che è un uomo in un certo posto. Mi chiedo come lui lo vede nella sequenza di tutta la storia che a volte è stata un po' difficile da comprendere nelle sue scansioni, mentre questa è stata chiamata , mi pare, rivendicativa.

Intervento dalla sala: L'impressione è che Giglio si sia un po' spaventato di questa direttività, di aver diretto così precisamente al terapeuta questo messaggio di rivendicazione.

Dr. Giglio: Si, penso che quest'aspetto sia vero, nel senso che nelle relazioni significative con la famiglia e con la compagna con cui è stato otto anni, ci sia sempre quest'aspetto ambivalente, riventicativo, ed in effetti ha voluto farla pagare anche a me. E' vero che c'è una consuetudine che lo ha portato a chiamare l'educatrice perché c'è un'equipe di lavoro e quindi una serie di questioni vengono rivolte all'educatrice; io vengo contattato poco, direttamente. Poi, sul seguito, il lavoro sta procedendo in un modo un po' diverso, più di sostegno che non di approfondimento di questioni più particolari, ad un livello sociale, diciamo: ha iniziato un corso di computer, cose che usualmente si propongono nei centri dove lavoro io, ed è ricomparso ancora il versante della rivendicazione di non poter aiutarlo: "no, tu non puoi fare niente per me perché io vado a farmi".

Dr. Viganò: Ha rivelato una delle strumentalità a cui serve l'eroina: mettere l'altro nella posizione di non poterlo aiutare.

Intervento dalla sala: L'ipotesi diagnostica è un'ipotesi sub iudice o questo paziente è per lei di struttura nevrotica? Io avrei dei dubbi! Ho percepito un Sé fortemente attaccato, deteriorato; c'è un'interiorizzazione di un Sé cattivo e di un oggetto piuttosto scisso. Non sono riuscito a recepire dove sta l'oggetto idealizzato: forse c'è stata una traccia, un flash in un momento, ma sicuramente ho percepito un oggetto cattivo e questo, a mio avviso, non concilia con una struttura nevrtica ma con una struttura evolutivamente precedente. Ho sentito un forte masochismo che mi riporta ad una struttura di marca pre-edipica con dei fortissimi attacchi al Sé dove la droga è usata strumentalmente per attaccare l'altro ma soprattutto per attaccare se stesso: "io sono l'oggetto sporco e cattivo, mi devo deteriorare a tutti i costi". Anche lo stare a casa coattivo che lui dice di voler mettere in atto, mi sembra rientri in un progetto di distruzione del Sé.

Intervento dalla sala: Ho trovato questo caso molto ricco e molto sostanzioso: io penso che si potrebbe ipotizzare invece la nevrosi (�) la madre che non lo aiuta rispetto alle sorelle che, a suo dire, sono loro che lo seducono; la madre non da spazio a questo discorso, è solo lui che viene picchiato, messo nella condizione del reietto. Quindi non viene raccolta questa profonda amarezza, disperazione di A, perché l'altro non risponde, che poi è la condizione in cui mette gli altri e lo dice pure:" io mi faccio per ripetere, per mettere l'altro nella condizione di non rispondere, di non aiutare", e questa è una visione del tutto psichiatrica. Io non conosco il paziente ma da come il dottore espone, il discorso ecc., a me non sembra un soggetto psicotico. E' vero che ci sono queste seduzioni terribili, un padre ubriaco, quasi delirante: bisogna anche vedere che tipo di famiglia, che tipo di situazione reale questo ragazzo ha vissuto. Io quindi credo che sia importante anche capire questo quadro; lo articola anche: "mio padre era un padre padrone, violento, poi in realtà era lei, la madre che comandava�" cioè sembra quasi un rovesciamento, una scoperta, rettificazione molto pesante che lui non riesce a sopportare, drammatica, in un momento in cui poi c'è il Natale, in cui poi l'operatore è costretto comunque ad interrompere�e anche qui si può riflettere: a volte succedono dei momenti critici nelle feste e proprio nei pazienti nevrotici determinano delle scansioni importanti, delle cadute pesantissime che poi magari col tempo si recuperano.

Dr Viganò: Questi interventi riportano delle considerazioni da trattenere perchè, rispetto alla diagnosi, abbiamo visto non tanto due opinioni contrapposte quanto due punti di vista da cui si può fare la diagnosi: il primo è sicuramente incontestabile, che la clinica testimonia e cioè un'interiorizzazione dell'oggetto cattivo tale da arrivare ad una proiettività e ad una aggressione anche verso il terapeuta e, rispetto alla possibilità di stabilire un oggetto nel transfert si produce un'aggressività, una distruttività tale che questo deve ricorrere all'eroina. Ora questo è lì da vedere, cioè non c'è una relazione d'oggetto strutturata almeno attraverso un sintomo nevrotico classico ma una scissione per cui quando l'oggetto si presentifica è talmente distruttivo che il soggetto deve splittare. Il secondo intervento dice: ma se ci fosse stato un transfert capace di contenere questa aggressività, e poter arginare quindi anche la coincidenza del Natale, magari il soggetto avrebbe introiettato qualcosa di ciò che si stava iniziando a produrre dell'ordine di un'articolazione, di mettere in relazione sé non solo come reietto ma introducendo la figura del padre, una questione di pagamento, simbolica dunque. Di debito: chi deve pagare e a chi, non è lui il rifiuto, come resto di un'operazione, ma c'è un'operazione che simbolicamente e non strettamente in modo delirante si stava aprendo. Rifacciamo i conti; ritorniamo a�quindi in quest'ipotesi si può pensare che qualcosa di un sintomo nevrotico si organizzerebbe qualora ci fosse il transfert capace di far si che il soggetto lo organizzi. Sembrano due punti di vista che io tenderei a mantenere, non per stabilire la ragione della diagnosi di psicosi o nevrosi ma come considerazioni rispetto al tipo di transfert, come relazione terapeutica. La mia opinione, ed interrogo voi, è che in questi casi non bisogna accanirsi sulla diagnosi, come se fosse l'ontologia ultima o la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Se non ci sono gli elementi si dice che in questo contesto terapeutico di transfert la diagnosi mostra una personalità che agisce nello stile psicotico, della proiezione, della scissione, della distruzione, dell'atto. In un contesto transferale diverso può darsi che questo soggetto possa arrivare ad articolare qualcosa nello stile nevrotico. La soluzione da un punto di vista classificatorio, strarebbe nel metterlo a metà strada, nel borderline, né psicotico né nevrotico, nel limbo dei disturbi di personalità. Io credo che vadano invece rilevati questi elementi ed affidati con più prudenza al transfert che sta riprendendo. L'ultima cosa che diceva il Dr Giglio, mi sembra interessante e cioè che nella ripresa, spontaneamente, terapista e paziente si sono messi nella linea della creazione d'oggetto, più prudente, cioè attraverso qualcosa più legato alla realtà, allo scambio scambiabile, non immediatamente sugli oggetti infantili, che sono intrattabili per questo soggetto, e quindi sembra una strategia meno azzardata della provocazione della distruttività dell'oggetto cattivo. Conclusione del mio ragionamento è quindi non sospendere la diagnosi perché per agire bisogna avere un'ipotesi di lavoro. La diagnosi attuale è quindi che questo soggetto è a rischio di splitting, di scissione, di passaggio all'atto, di persecutorietà del transfert. Quindi questa è una diagnosi provvisoria, che non porta però a fare diagnosi di schizofrenia perché non ci sono sintomi psicotici nella realtà. Va trattato transferalmente rispetto allo stile psicotico che produce nel transfert in attesa che la sua struttura si chiarisca, si decida.

Intervento dalla sala: Io sono uno specializzando in psichiatria e volevo sottolineare un aspetto forse diverso sulla sensazione che dà questo paziente. Prima si è discusso dell'impotenza sua nei confronti di questo paziente; ora si parlava di diagnosi e il quadro che dava sembrava quasi l'epitaffio di un soggetto sieropositivo, che fa uso di eroina, una storia personale di stupro a sei anni, rapporti sessuali con le sorelle, lui allontanato dalla famiglia. Il senso che dava, personalmente, era quasi di disinteresse, come se io fossi anestetizzato da questo paziente, come se l'eroina non fosse solo nella vena del paziente, ma finisse in quest'aula, sparso nell'aria. Che cosa facciamo: ok decidiamo la diagnosi, e poi? Aspettiamo che i globuli bianchi scendano sotto un certo livello?

Dr. Viganò: No, no, se io ho capito bene il paziente è andato altrove e poi è tornato alla comunità dopo essere stato metadonizzato. Fa bene a richiamare la drammaticità dell'esperienza soggettiva, però bisogna tenete presente che nella rete sociale oggi, purtroppo la drammaticità si perde. Questo soggetto, prima di arrivare al Dr Giglio, avrà passato in 25 anni 25 equipe e anche la capacità di sottrarsi deriva da questo�lui è stato attivo. Come si fa allora in una rete sociale così dispersa ed anodina, cioè insensibileal grido di dolore, a mantenere l'interrogativo che lo specializzando ci poneva? Come si fa a prendere in considerazione il caso senza cadere nell'anestesia routinaria? Uno degli strumenti è mettere il caso in una storicizzazione, costruire con lui una storia del soggetto, per iniziare a diventare sensibili al tipo di dramma che il soggetto vive. Oggi si tende a evitare di storicizzare per difesa, per non mettere l'operatore nell'imbarazzo di prendere posizione di fronte ad un dramma grosso. Oppure, semplicemente, per evitare di dare una risposta che riguarda il sé dell'operatore. Il richiamo a non lasciarsi anestetizzare dall'eroina nel modo di parlare è valido come lo è per gli psichiatri quello di non lasciarsi schizofrenizzare dal rapporto con lo schizofrenico.

Intervento dalla sala: Torna con una certa frequenza la questione della cosa sporca. Sto seguendo la tesi di una mia compagna che lavora in un centro per bambini abusati e questo è il vissuto tipico dei bambini abusati: "Io sono la cosa sporca". Chiedo se in quest'ottica tutto abbia origine nel trauma che lei ha riferito. Considerando che "è successo forse�." Mi pare che il soggetto stia cercando attraverso la droga di ripetere il trauma e, in qualche modo, dominarlo attraverso la droga. Se questo sogno del bosco e del fango "c'era il bosco, c'era il fango, aspettavo lo spacciatore", mi sembra la stessa identica scena. Mi chiedo se questa sua richiesta di essere ascoltato così come non è stato ascoltato a suo tempo dalla madre, sia adesso rivolto a lei e il soggetto la stia mettendo alla prova perchè vuole essere ascoltato finalmente, vuole essere sollevato dallo sporco.

Dr Giglio: E' molto interessante e quest'ipotesi l'ho fatta anch'io anche perché non abbiamo avuto più modo di tornare sul "credo di essere stato violentato" perché quel colloquio ha scatenato ciò che descriveva Viganò, la paranoia, l'esser fissato in autobus, la questione del padre e tutto è partito dal fango di un sogno che lei giustamente ha ripreso. Toccare questo tasto ha innescato una serie di conseguenze che lo hanno allontanato. Io ho ascoltato, non ho fatto alcun intervento su questo punto. Ma è bastato questo per allontanarlo� Questa cosa mi ha coinvolto. Mi dispiace che si sia parlato di anestesia perché personalmente questo è un caso che non mi ha lasciato indifferente. L'ho seguito con impegno e mi ha coinvolto nonostante la gravità della situazione. Rispetto alla diagnosi può anche darsi che quest'eroina faccia da contenitore ad una psicosi e che quando il soggetto usa sostanze è in grado di tenere un atteggiamento che dal mio punto di vista è apparentemente nevrotico. Effettivamente non so come sarebbe strutturalmente se non assumesse alcuna sostanza. Non è chiaro per me.

Intervento dalla sala: Pensavo che questo punto della cosa sporca sia cruciale. Ci sono stati degli effetti dopo questa scoperta. Io non penso che lui la metta al posto della madre, anche se lei in un certo momento ci crede e dice: "io forse non capisco questa richiesta di aiuto da parte sua" dato che lei risponde con una assicurazione. Però qui il soggetto ci avverte: "guardate che quest'oggetto non è trattabile", almeno nel senso della nevrosi, con i poche elementi che abbiamo. Perché la madre dice contrariamente "Questo non è per te" quindi quando lei propone qualcosa di diverso si mette in una posizione che potrebbe aprire al nevrotico una certa altra via, invece lui si sottrae. Quindi questa fase di sostegno in cui l'oggetto viene trattato, ma non nel senso del "parliamone", nel senso di ciò che è accaduto, apre già una lettura diagnostica. Penso che questa "passione" diagnostica abbia a che fare con la cura, con il trattamento. Se questo oggetto non rimaneggiabile comanda la mamma e dice anche a proposito di suo padre che non è mai stato importante anche se dettava legge, e mi pare che questa serie di dati ci dica molto della sua posizione di soggetto, penso che non si possa trattare nel senso della nevrosi come rimaneggiamento della sua posizione di oggetto.

Dr Viganò: inquadrare così la diagnosi la porta su un versante molto più umano di trattabilità del transfert e dell'oggetto. C'è modo e modo di ascoltare: ascoltare il senso delle frasi oppure ascoltare l'angoscia che quest'oggetto produce e quindi tenerne conto leggendo gli avvertimenti. L'ascolto non è solo l'interpretazione. Avvertire il grido di aiuto non comporta che lui si aspettasse che la madre lo interpretasse, ma che fosse presente con il suo desiderio, che lo tenesse magari in braccio. Quindi l'ascolto è anche prendere in braccio dal punto di vista analitico-dinamico. L'ascolto non è solo la psicologia del perché e del per come, della costruzione di senso, ma è l'accoglimento della relazione che il soggetto ha con l'oggetto.

Intervento dalla sala: secondo me lo dice molto bene ciò di cui ha bisogno e la direzione in cui si potrebbe eventualmente andare quando dice: "ci sono tre possibilità�" che poi è sempre la stessa: lui è sempre il pezzo, l'oggetto di una mamma che lo tratta in maniera molto narcisistica, che non lo vede come un oggetto staccato da sé, come un bambino che può contenere del buono e del cattivo. A mio parere è qui il messaggio: "Accoglimi non come un oggetto narcisistico, ma come un oggetto che può essere buono o cattivo, che può farsi la droga o non farsela". Mi chiedevo anche se c'era stata una certa valutazione inconscia positiva o negativa del suo farsi o del suo non farsi, perché sembra che inizialmente lui non voglia essere accolto come buono, ma come sporco, nelle sue parti cattive, perché solo così può vedere se un'evoluzione c'è. La mia diagnosi era posta come una domanda a cui ci sta chiamando a rispondere e non come un'etichetta..

Dr Freni: Io volevo riprendere la cornice del caso, cosa accade, cosa cerca. Io penso che siano vere, ma poi di fatto c'è sempre una lacuna perché lavorare così è molto impegnativo e a volte non se ne coglie il valore, la portata. Viene spontaneo al di là della diagnosi, sempre discutibile, ma fatta in base a criteri e parametri che noi utilizziamo. Quindi se gli strumenti sono le modalità difensive, i suoi strumenti, i suoi comportamenti, non vedo grosse difficoltà: scissione, proiezione, preferenza all'agire. Secondo un certo orientamento clinico si configura in un quadro borderline con un gradiente maggiore di gravità rispetto al grado di vicinanza e lontananza dai gradienti psicosi e nevrosi. La cosa che mi sembra più rilevante è invece cercare di capire chi è questo signore, dove sta andando e cosa stanno facendo i due quando parlano insieme: sono lì in una situazione surreale o c'è un progetto, un programma condiviso? Si parla, ci sono dei colloqui di valutazione, però quello che accade dopo non è chiaro come venga definito. Se è chiaro soprattutto a lui che viene lì. Mi sembra ci siano due orientamenti nella pratica: uno che tende ad accogliere in modo molto buono, rinuncia all'etichetta, di persecuzioni, di programmi terapeutici precisi; l'altro che si sta profilando come un approccio molto rigoroso in cui una pianificazione e un contratto del trattamento si ritiene essere un elemento fondante del trattamento stesso senza il quale si sconsiglia perfino di avviare il trattamento. A proposito di " Dove va la salute mentale", stiamo assistendo a pratiche che portano in direzioni molto diverse. Ad es, mentre sentivo gli interventi, ripensavo alla pratica proposta dal gruppo Kernberg sui bordelrline, dove l'indirizzo che sta prendendo sempre di più è l'importanza del contratto e dell'adesione rigorosa al patto terapeutico. Il punto è come creare le condizioni per cui un trattamento possa sussistere e possa chiamarsi tale e fino a che punto questo è vincolante per l'utente e per l'operatore. Secondo alcuni, al di fuori di questa cornice, non c'è trattamento, ci può essere un parlare strumentale al fatto che troviamo degli spunti che possano aumentare la nostra esperienza clinica e fare un seminario che ci permetta di testare la teoria clinica. Però il trattamento come possibilità di ottenere trasformazioni è già pregiudicato. Non vorrei entrare nella specificità del caso che mi sembra molto complesso; però il come va il caso dipende molto da questa centratura perché se io istituisco me come punto di riferimento del transfert, tutti i movimenti che il paziente fa, non posso non interpretarli come attacchi alla relazione di transfert, compreso il fatto che va dall'altro. Se io assumo in modo forte questo punto, la proposta del gruppo Kernberg, l'intervento non può esimersi da un'interpretazione intensiva forte, coraggiosa del transfert nei suoi aspetti negativi ma anche idealizzanti. Penso che sia opportuno costruire una cornice entro cui stiamo pensando di operare. Mi chiedevo: "cosa stanno facendo questi due: stanno facendo una terapia, stanno prolungando l'osservazione, si stanno usando reciprocamente ciascuno per scopi non dichiarati, non condivisi", perché non sembra che ci sia una psicoterapia in corso, definita come tale dai due partecipanti. Sembra che ci sia un ascolto analitico, qualche intervento analiticamente illuminato, sembra che ci sia un paziente che portando qualche sogno corrisponda con degli spunti da portare ad un analista, però tutto ciò non accade all'interno di una conduzione, di una consapevolezza di stare facendo un discorso di questo tipo. Come non è chiaro che tipo di valutazione si faccia; vorrei pensare che tutto ciò che è accaduto rientri in un'ottica del preliminare che, visto così, potrebbe portare ad un grave disturbo borderline con scissione, identificazione proiettiva, con la ragazza che si innamora dello psicologo e lui vive l'altro come rivale con cui misurarsi, ma il rivale è anche l'osservatore attuale nel qui ed ora.. il sogno è interessante perché fa vedere una scissione fra un Sé che è in grado di osservare, e questo mi sembra una cosa buona che lo qualifica come non particolarmente psicotico, ed un Sé che agisce in questa specie di intestino, luogo anale. Mi sembra che dobbiamo appellarci ad una pratica molto più rigorosa e ad una programmazione terapeutica che comprenderebbe saperne di più anche rispetto al SerT e all'integrazione del trattamento. Lavorare così è molto difficile; viviamo in questa realtà strana, che a me personalmente preoccupa, di questo fiorire di offerte dove tutto ed il contrario di tutto va bene. Sono forse gli analisti che riconoscono il rispetto per un capire psicanalitico che è una cosa che si fa con grande sforzo e che i giovani specializzandi stanno includendo a fatica ma che non è scontata come pratica. A volte lo si capisce teoricamente, intellettualmente; lo si usa in alcuni interventi per rendere il discorso più elegante, seducente, ma trasferirla nella realtà operativa quotidiana è una cosa difficilissima. Ecco perché decidere di lavorare in questo modo piuttosto che in un altro, in un caso del genere, è preliminare ad ogni discorso. Non si capisce quale sia il regolamento di questo centro diurno privato, se si basa su un patto preciso con l'utente o se sia aperto e disponibile con chiunque venga, tollerando che faccia quella piccola parte che pensa di poter fare. E' un discorso di impostazione metodologica, anche a seconda del periodo storico che un centro sta attraversando. La questione è se e come è possibile creare le condizioni reali e strutturali perché si possa mettere in atto un programma anziché un altro o se si ritiene che tutto questo non serva a niente: si fa quel che si può; il paziente va e torna, e va bene così.

Intervento dalla sala: A proposito degli ultimi interventi col paziente, egli riferisce di essere stato male e l'incapacità di adottare strategie adeguate rispetto alla propria condizione di sofferenza, di disagio, di manchevolezza e questo lo aveva fatto stare male. Interpella il terapeuta che gli parla dell'inconscio, dell'incapacità di soddisfare ogni bisogno che affiora e quindi di evitare ansietà o sentimenti di manchevolezza e fragilità; dopo di chè il paziente porta il sogno dello spacciatore e poi l'interruzione. Allora si può pensare che nell'hic et nunc il paziente dimostra di poter fare l'osservazione del proprio stato ed anche di avere un vissuto suo nei riguardi del terapeuta. Quando emerge la fragilità e la sofferenza che ne consegue, il paziente si sente alle prese con uno spacciatore, e allora va dallo spacciatore vero, non tollerando una realtà mentale, di avere una vita mentale. Io vorrei rovesciare le condizioni di Freni che propone un trattamento strutturato, di fronte ad un paziente che non tollera di avere una vita psichica. Se ci sono delle difficoltà non si può mettersi a fare il carabiniere, proprio per queste espressioni di rigetto così radicali. Io sono d'accordo sulla necessità di approntare dei modi di trattamento che tengano conto delle esigenze inevitabili; il paziente deve presentarsi, però se non è in grado di assumerlo questo va visto con il paziente stesso. Altrimenti limitiamo le libertà personali e ci illudiamo di curarli.

Dr Giglio: Questo Centro diurno è aperto da sei anni ed è stata fatta la scelta, se è stata fatta, di occuparsi di tossicodipendenti attivi; queste persone fanno uso di sostanze e ciò ha un'inevitabile ricaduta su qualunque tipo di terapia ed anche sul transfert. Si è parlato di preliminare e mi sembra che tutto il lavoro del Centro Diurno si colleghi alla clinica del preliminare che, a mio avviso, è tutto quello che si può fare con un tossicodipendente attivo. Preliminare che poi non necessariamente sfocia in una psicoanalisi; a volte può accadere che vengano inviati ad uno psicoanalista esterno al centro. Può essere un lavoro preliminare che dura anni, se non tutta la vita.

Dr. Viganò: Non lascerei troppo in sospeso la cosa perché è il tema di quest'anno. E' chiaro che si tratterà di offrire un'alternativa che non sia un'alternativa coatta, se no torniamo al manicomio, ma comunque cosa vuol dire cambiare strategia e quando, quindi la seconda fase del loro intervento ed il collegamento che questo richiede tra enti differenti, nodi diversi della rete.

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