INTRODUZIONE
di Carlo Viganò
Riprendiamo il nostro Seminario, con il caso della dott.ssa Barracco, ma prima di cominciare vorrei fare alcune precisazioni, anche a partire da riflessioni emerse dopo la presentazione del caso della volta precedente, esposto dalla dott.ssa Caspani.
Questo Seminario è un laboratorio clinico, di clinica psicodinamica in ambito istituzionale, che non ha la finalità di supervisionare i casi, non entra nel merito, se non incidentalmente e in modo indiretto, della conduzione dei casi; è possibile che dalle presentazioni possa apparire anche qualcosa dell'ordine della conduzione, ma poiché noi non facciamo trascrizioni delle sedute, non possiamo pronunciarci con cognizione di causa sulle questioni di conduzione della cura. Non facciamo trascrizioni delle sedute, o videoregistrazioni, ecc., non solo e non tanto perché è un lavoro lungo e difficile, ma proprio perché il nostro obiettivo è diverso, e cioè perché siamo convinti che in psicoanalisi, a differenza che nella clinica medica, non esiste e non può esistere una teoria della tecnica. Esiste una teoria, da una parte, una teoria forte, messa a punto da Freud e in seguito dagli epigoni delle varie Scuole Psicoanalitiche, che comprende i concetti di Inconscio, transfert, interpretazione, pulsione, ecc., articolati fra loro e sistematizzati in un sapere specifico, e dall'altra esiste una tecnica, che è testimoniata a partire dalla clinica, dalla costruzione dei casi e dall'enucleazione delle strutture che ciascun caso permette di reperire. Fra la teoria e la tecnica, però, non c'è una corrispondenza biunivoca, non c'è un'applicabilità diretta, come per es. nella clinica psichiatrica, in cui da una parte io posso individuare i criteri minimi per fare diagnosi, per es. di disturbo Borderline, e dall'altra ho il caso particolare, dove devo decidere una strategia e porre un atto.
Questa corrispondenza biunivoca fra teoria e pratica in psicoanalisi non è possibile, c'è una incommensurabilità strutturale fra i due universi, e per questo motivo, al di fuori della struttura transferale, è impossibile e anche inutile cercare di fare un'operazione di individuazione della validità tecnica di un intervento o di un altro.
L'unica testimonianza che si può avere del caso, quindi, al di fuori del contesto della cura (analisi e supervisione), è proprio la Costruzione del Caso, che in quanto tale si differenzia profondamente dal resoconto della seduta o delle sedute, in quanto è un testo, in senso strutturale e letterario, testimonia di una scelta soggettiva (quella del terapeuta che lo presenta), ed è su questo testo, su queste scansioni, che è possibile tentare un'operazione di reperimento di una clinica del soggetto, al di là della critica causalistica (si sarebbe potuto fare così, si sarebbe dovuto dire questo… qui si sono interpretate le difese…, ecc.), una clinica che permetta di individuare e mettere in luce, al di là delle differenze di scuola, i momenti di emergenza soggettiva, le scansioni che hanno permesso un cambiamento, ecc.
Anche per questo motivo, quindi, nelle riunioni preliminari di preparazione del caso ci sforziamo di elaborare questo testo, che poi sottoponiamo alla sala.
Il caso che, quindi, arriva alla discussione, non è tanto il paziente X, quanto, appunto, questo testo, frutto dell'operazione clinica e della rivisitazione di gruppo. Esso permette di valutare la qualità del progetto terapeutico, della strategia e della modellizzazione (costruzione) che l'ha sorretta. Il vantaggio della lettura diacronica è quello di far emergere meglio la tipicità del soggetto, rispetto a quanto fosse possibile in ciascun momento della cura.
Per questo motivo, quindi, vi pregherei di ascoltare il testo, l'esposizione letteraria del caso, senza interrompere con precisazioni o chiarimenti a meno che non siano proprio indispensabili, per poi passare ad una discussione successiva.
CASO CLINICO
presentato dalla dott.ssa Anna Barracco
Le condizioni dell'incontro e lo scenario istituzionale.
Il primo contatto di Vesna con il Centro Psico-Sociale (CPS) è dell'aprile 1997.
La collega psichiatra, nel corso del primo colloquio anamnestico, annoterà in cartella la diagnosi di "Bulimia nervosa", e le seguenti note :"Inviata dal medico curante per bulimia. Riferisce saltuarie crisi bulimiche con successive assunzioni di Guttalax (1 flac.), intervallate da periodi di alimentazione regolare, in cui per altro non pensa ad altro che al cibo. Dopo le crisi bulimiche è depressa e abulica. Non desidera assumere farmaci, ma approfondire psicologicamente le motivazioni dei propri disturbi. Si recherà per un mese in Jugoslavia e al rientro telefonerà per un app.to con la psicologa."
In cartella, al primo colloquio, vengono raccolti i "dati di interesse sociologico": la pz. è del 1974, seconda di due sorelle, la maggiore è del 1968. I due genitori, residenti in una grande città dell'ex Jugoslavia, sono entrambi viventi. La madre è obesa e gravemente cardiopatica, mentre il padre ha sofferto di alcoolismo. Attualmente la pz. convive con un uomo, in una casa di tre locali di proprietà (del convivente) e fa la casalinga. Ha frequentato una scuola professionale per sarta (in Jugoslavia) ed ha conseguito il relativo diploma.
Nell'anamnesi psicopatologica, la collega scrive: "Riferisce di avere sempre avuto problemi con l'alimentazione: diete dall'adolescenza, timore di diventare obesa come la madre. E' in Italia da un anno e mezzo. Da 4 mesi convive con un uomo e questo le ha dato l'opportunità di avere la residenza in Italia e di vivere agiatamente. Non è però soddisfatta della situazione perché non lo ama".
Dopo questo primo colloquio, la psichiatra mi chiede di vedere la pz., che a suo avviso presenta una situazione di distimia secondaria al disturbo sull'asse I, o comunque certamente un disturbo depressivo N.A.S. , associato al disturbo sull'asse I (Bulimia nervosa). Pur non volendo assumere alcuna terapia farmacologica, la sig.ra sembra molto motivata ad un lavoro introspettivo di tipo psicoterapeutico.
Me la presenta, così, rapidamente, per un appuntamento da fissare al rientro dal viaggio in Jugoslavia.
Il primo colloquio e la strutturazione della domanda iniziale.
Alla fine di Giugno del 1997, cioè tre mesi dopo quel primo contatto col Servizio, arriva la telefonata del convivente di Vesna, che chiede l'appuntamento per la compagna, richiamandosi agli accordi presi prima della sua partenza per la Jugoslavia.
Al primo colloquio, la pz. si presenta (cosa che sarà poi una costante), molto curata, ben vestita profumata e piuttosto carica di gioielli, soprattutto oro, decisamente ostentato.
"Sono venuta da lei perché vorrei affrontare il mio problema con bulimia. Sono arrivata al punto di convincermi che è veramente una malattia e devo farmi aiutare da qualcuno per affrontare problema. Sono sicura che devo cercare di capire che cosa mi spinge a mangiare e perché non sono capace, come tutti gli altri, di sapere quanto e che cosa devo mangiare".
Le chiedo, aggrottando le sopracciglia, di spiegarmi meglio che cosa intende dire.
"Ecco, io credo di avere sempre avuto problema con cibo, anche da bambina, da ragazza, quando ero al mio paese…però prima ero convinta che fosse una cosa normale, come tutte le ragazze avevo paura di ingrassare, ero golosa, tendevo anche un po' a mettere su qualche chilo. Però infondo tutto questo era normale, bambini sempre golosi, piace molto dolci…. Mi piaceva mangiare, mi piacevano dolci, ma a volte cercavo di mettermi a dieta e avevo paura di diventare grassa come la mia madre, però in fondo ero solo un po' cicciottella, come tante altre ragazze, e facevo una vita normale, questo non mi ha impedito di avere le mie amicizie, i miei amori…"
"Quando sono cambiate le cose?" le chiedo.
"Con il mio trasferimento in Italia. Prima sono stata alcuni mesi in Grecia, facevo la Baby sitter alla pari, ma Grecia non mi piaceva, era troppo simile a mio paese, e poi io volevo guadagnare, e questo è altro mio grosso problema. Io molto, troppo attaccata a soldi. In Jugoslavia noi eravamo molto poveri, e sempre abbiamo avuto questo mito, questo sogno dell'Europa, della vita comoda, delle cose belle.
Così io mi sono trasferita in Toscana, dove avevo un'amica, e ho cominciato a lavorare in un night club. Questo lavoro era molto ben pagato, e all'inizio mi era sembrato un ottima possibilità. Si lavorava solo la sera, e se ci sapevi fare, guadagnavi bene. Ma io lì ho cominciato ad esagerare con dieta, e di giorno spesso avevo le mie prime vere crisi di bulimia, mangiavo in modo disordinato, pane, poi dolci, poi altre cose salate, tutto senza ordine, e poi mi sentivo male e a volte la sera non riuscivo ad andare al night. Ho anche pensato che a volte questo era scusa per non lavorare, perchè questo lavoro a me presto mi sono accorta che non piaceva, mi sentivo in colpa, non era un lavoro serio, anche se noi non eravamo obbligate ad andare a letto con i clienti, io facevo il mio lavoro e basta, ma comunque mi vergognavo, non avevo detto a famiglia che facevo questo, erano soldi facili, ma capivo che non era un bell'ambiente, e anche colleghe, persone che incontravo lì, non mi piacevano."
"Le crisi bulimiche erano un modo per evitare questo lavoro che accettava con difficoltà?" chiedo.
"Un po' questo, penso, ma poi penso veramente anche che con questi orari, con questo lavorare la notte, dormire di giorno, fare vita sregolata… Io vivevo con una ragazza, collega di night, in un appartamentino, dove non ci incontravamo mai, non c'era cucina regolare, non c'erano orari, io veramente credo che anche questo, io ho perso l'idea di che cosa dovevo mangiare, di quando, di quanto mi bastava veramente, e così piano piano non so più che cosa si deve mangiare, non so più quando sono sazia, non so più neanche che cosa mi piace."
"ah sì?" esprimo un grande stupore, anche perché è la seconda volta che Vesna dice una cosa apparentemente ovvia (soprattutto per lei, e che sembra supporre ovvia anche per l'interlocutore), e che invece è piuttosto enigmatica, niente affatto scontata. Questo mettere in dubbio, semplicemente con la sorpresa, le sue apparenti certezze, ha determinato in parte la posizione nel transfert con questo soggetto, la ricerca, da parte mia, di un luogo da cui rispondere, di una strategia per far nascere l'inconscio, in questa cura, nel senso di una prima apertura al dubbio, alla curiosità, ad un transfert del soggetto sul proprio sapere inconscio (come dice il dott. Viganò "Il soggetto supposto sapere nasce veramente quando è il soggetto che si innamora dell'inconscio, e quindi per ciò stesso lo fa esistere").
"Sì,io prima sempre sono stata in famiglia, per me famiglia molto importante, io penso soffrivo per mancanza di mia famiglia (per altro, in questo primo colloquio, la pz. della famiglia non parla affatto), però sempre avevo questo mito dei soldi. Io so che questo è una cosa brutta, io sono andata via dal Night club, quando ho conosciuto il mio ragazzo (lo chiamo ragazzo, ma lui è molto più vecchio di me), ma ora sto con lui, veramente solo perchè è ricco e mi può dare tante comodità, i gioielli, la bella vita. E allora penso che questo è ancora peggio del night,io so che fare questo per interesse è una cosa molto brutta, ma io non riesco a fare a meno dei soldi, io non amo lui, ma in cambio di questo sacrificio, ho i soldi."
"Che cosa è brutto?" chiedo.
"E' brutto che non riesco a fare a meno dei soldi, che io inganno lui, che lui in realtà mi ama e spera che io lo possa amare, anche se a volte io parlo sinceramente, e lui sa che io un po' mi vergogno, però lui crede che è solo per differenza di età. Io invece veramente credo che sto con lui solo per soldi. E' brutto che io rinuncio all'amore per soldi. Io non riesco veramente però a fare a meno dell'amore, vorrei innamorarmi veramente, ma non riesco a fare a meno delle comodità e dei soldi, io veramente credo che questo è mio problema, forse più ancora di bulimia"
Dopo un lungo silenzio, in cui vedo che Vesna è in ansia, mi dice:
"Io credo che devo sapere quanto una persona deve mangiare, credo che lei mi dice che cosa devo mangiare, quanto a colazione, quanto a pranzo, quanto a cena, che lei mi dice come devo accoppiare i cibi, come condire, e dopo forse io starò bene".
Ostento nuovamente un grande stupore: "Per questo genere di informazioni, io mi sarei rivolta ad un dietologo, ma lei stessa mi ha detto che crede di avere una malattia, che qualcosa è cambiato quando è venuta in Italia, mi ha raccontato un mucchio di altre cose. Non credo che le serva veramente una dieta o qualche informazione sui carboidrati. E comunque, non sono io che la posso aiutare, su questo".
"Sì, è vero.Però io credo che veramente c'è un problema per me con informazioni. Noi molto ignoranti, in famiglia, mio ragazzo mi consiglia di andare anche da un dietologo, perché io veramente non so che cosa devo mangiare, forse se io so, io mi regolo meglio".
"Ne riparleremo. Se vuole andare da un dietologo, è libera di farlo, non le farà male. Ma io credo che se lei avesse una crisi d'asma, improvvisamente si accorgerebbe che la quantità d'aria di cui ha bisogno non le sembrerebbe più una cosa così scontata, e non credo che una tabella su come e quanto respirare le potrebbe essere di grande aiuto. Credo che a lei le tabelle servirebbero a poco".
Così si conclude il nostro primo colloquio, che contiene in nuce tutte le questioni di Vesna, come potremo eventualmente valutare nella discussione.
Le narrazioni del soggetto, le scansioni cliniche e la costruzione del caso
Dopo questo primo colloquio c'è una prima fase della cura, di sette colloqui (circa tre mesi), che si conclude con una interpretazione e una prima emergenza di aggressività e di angoscia nella cura.
Questa fase è caratterizzata dalla mobilitazione dei significanti familiari, dal mettersi al lavoro analitico della pz., attorno a tre filoni.
In questa prima fase della cura, le modalità narrative di Vesna sono molto caratterizzate dalla dimensione dell'atto (scoppia a piangere, si emoziona, rompe il silenzio,ecc.).
1) Le narrazioni rispetto alla famiglia.Il delinearsi della scena edipica e la prima versione della "colpa".
"Mia madre"mi dice piangendo "è malata di cuore. E' sempre stata malata, ha avuto tre infarti, è grossa…cammina e si muove a fatica".
Il crollo fisico della madre, mi dirà successivamente Vesna, avviene proprio con la sua nascita: "E' stata per morire. Mi dice sempre che ha rischiato la vita per mettermi al mondo, e dall'ansia e dalla preoccupazione anche mio padre ha cominciato ad esagerare col bere. Mio padre beve un po', prima beveva molto. Però è bravo, è buonissimo. Non riesce a parlare, quando lo spingevamo a parlare, ad affrontare dei problemi, lui doveva bere, oppure parlava con noi solo quando era ubriaco.".
Quando era ragazzina (intorno ai 15 anni) in casa il clima era insopportabile. C'era sempre un silenzio pesante, e non si riusciva a capire da che cosa dipendesse.
Un giorno, mentre le sottolineo la contiguità fra la sua nascita, il crollo fisico della madre e quello psichico del padre, si solleva la maglietta e mi mostra una grossa voglia (un angioma) sulla schiena. "Questa macchia è sempre stata un'ossessione, per me, uno dei motivi per cui ho tanta difficoltà a spogliarmi, a fare l'amore. Nel mio paese si dice che i bimbi che hanno una voglia sono figli di una colpa". Mette in relazione questa colpa con i "silenzi" familiari.
2) Il lavoro intorno al sintomo e al suo senso.
In questo filone ho raccolto gli elementi, a mio avviso salienti, che testimoniano di questo "innamoramento dell'inconscio", di Vesna, dell'instaurazione del soggetto supposto sapere, inteso proprio nel senso di un interesse della pz. a farsi scenziata di sé stessa, a cercare di costruire un sapere circa il proprio sintomo, si mette al lavoro per cercare di intuire la logica dello scatenamento delle crisi, i fattori predisponenti, le cause, ecc.
C'è un atteggiamento un po' "famelico", nei confronti del sapere (in parte anche uno spostamento sintomatico su questa dimensione del sapere dell'atteggiamento bulimico), che tuttavia non impedisce l'instaurarsi di una dialettica, in cui la possibilità di un sapere da attingere tramite il lavoro in seduta, tende a fare barriera, ad opporsi al godimento puro, alla sua ripetizione cieca, che la pz. metaforizza come l'opposizione fra condanna "genetica" (= diventare grassa come la madre) e sintomo bulimico (= c'è un senso un significato).
"Sto scoprendo che tante cose del mio passato, del mio presente, mi sono sconosciute, tante cose che credevo di sapere, come per esempio le mie reazioni, certe emozioni che credevo di saper controllare. Dico sempre "non lo so", e questo mi da' fastidio. E' proprio come nella vita, che sono indecisa, piena di dubbi, affermo una cosa ma c'è sempre un angolo di pensiero in cui non sono convinta, dubito, o addirittura sono convinta del contrario."
In particolare, dice del suo sintomo: "Quando mangio è perché sono sola, anche se non posso dire che la solitudine non mi piaccia, sono un tipo solitario. Forse ora la solitudine mi pesa più che in Jugoslavia, perché lì avevo la sensazione di essere padrona del mio tempo, mentre qui ho l'impressione che i miei tempi, la mia solitudine, esista solo come scansioni, ritagli di tempo dei movimenti del mio convivente. E' lui che gestisce la mia vita, e quindi non mi sembra di avere un tempo che mi appartenga. Ma l'attacco di bulimia scatta proprio quando mi sento serena, un po' rilassata. Sono davanti alla televisione. Ad un certo punto, mi viene in mente mia madre, decido di telefonarle, poi quando metto giù, mi dico "devo prendere una decisione, devo tornare in Jugoslavia, devo dire la verità al mio ragazzo", e poi, come per tranquillizzarmi, "ma no, non ci sono problemi, non ho problemi, non c'è fretta', e allora mangio".
Vesna lavora anche sul suo rapporto col cibo "prima" e "dopo" la venuta in Italia.
"Prima ero golosa, mi piaceva mangiare, mi piacevano i dolci. Ero come tutte le altre ragazzine e anche come mia madre. Lei è molto grassa, ma non ha la bulimia.
Da ragazza soffrivo. Mi sentivo grassa, avevo un naso gonfio e tozzo. Nessuno mi ha mai fatto da modello, nessuno mi ha insegnato a sentire il mio corpo, a capirlo. Mia madre mangia troppo. Mio padre non mangia niente"
" Io da quando ho la bulimia ho il terrore di diventare come lei, che invece non sa che cosa ha, mangia e basta, per ignoranza, con incoscenza, non ha la bulimia."
Con la bulimia, si vede bene come Vesna metta un freno alla possibilità di diventare come la madre, mangiare per bulimia, paradossalmente, è di per sé già la possibilità di introdurre una separazione, una differenza, un modo di protestare, di esprimere con forza il desiderio che tra lei e la madre ci sia uno scarto.
3) Il rapporto con il convivente e il transfert
In questo filone raggruppo le narrazioni che riguardano il rapporto con il convivente, e che esprimono bene il modo di relazione che questa pz. instaura con l'altro, più precisamente, anche perché si intrecciano con aspetti del transfert nella cura, si può dire che il rapporto con il convivente dica qualcosa del transfert paterno della pz., e la sua difficoltà a scollare l'uomo come oggetto sessuale/partner, dalla questione del transfert paterno e dell'identificazione al padre ideale.
Vesna dice di non amare il suo convivente, il suo "ragazzo", come lo chiama lei, anche se regolarmente dopo sottolinea che in realtà è vecchio, molto più vecchio di lei, e questo la fa soffrire molto. "So che dovrei lasciarlo. Non ha senso che io continui a stare con lui per interesse, senza provare nessuna felicità, senza fare l'amore. In fondo lo inganno, lo illudo, e per di più sono infelice. Non ho il coraggio di dirgli la verità nuda e cruda perchè lui è buono, e anche se a volte gli do' tutti gli elementi per capire, per trarre le dovute conclusioni, lui non mi caccia di casa, aspetta con pazienza che io guarisca, mi da' consigli. Forse dovrei sparire all'improvviso, senza dire nulla."
Questo tema della fuga-ritorno in Jugoslavia si ripresenta spesso, è una fantasia, una oscillazione a pendolo del suo desiderio, che a volte la Pz. mette realmente in scena, durante la cura. La prima volta, dopo il colloquio col medico e la decisione di intraprendere la psicoterapia, e successivamente, come si vedrà, sempre in opposizione a tentativi di emancipazione e di evoluzione.
In questa prima fase della cura, la fantasia del ritorno in Jugoslavia è legata all'idea di ritrovare la serenità, un posto dove possa tornare ad essere sè stessa, sincera, senza dover mentire.
La posizione di lui, che si intuisce anche da alcuni contatti diretti con il Servizio (a volte avvisa di un'assenza di Vesna, o telefona per spostare una seduta), è molto paterna, razionalmente tesa ad aiutare Vesna a trovare una sua autonomia. La incoraggia a prendere la patente, non le impedisce di cercarsi un lavoro, accetta la discussione sui sentimenti di Vesna, paga i suoi lunghi soggiorni in Jugoslavia, le consiglia di non essere precipitosa, accetta pazientemente la totale assenza di rapporti sessuali, scherzandoci sopra.
Successivamente verrò a sapere che è stato dietro sua grande insistenza che Vesna si è rivolta al Servizio in quanto lui stesso, due anni prima, era stato in cura presso una collega psichiatra per una depressione reattiva, sopravvenuta dopo la perdita in un breve intervallo di tempo, di entrambi i genitori con i quali abitava, nella stessa abitazione dove ora abita con Vesna.
Questa dimensione di abbandono, di solitudine, di sofferenza, è la cifra del legame che la pz. ha nei confronti di quest'uomo, che viene vissuto, in continuità con il padre, come "il poverino", che ha perso tutto, e che non può essere abbandonato anche da lei. Nello stesso tempo, però, è un uomo forte, ha successo negli affari, conosce molte persone, e Vesna sa che esercita un potere, un controllo anche su di lei, che fa tutto questo per lei, è disposto ad ascoltarla, ad aiutarla, perchè vuole il suo amore (e in questo c'è il tratto materno dell'oggetto d'amore, e si vede come per questa pz. l'odio nei confronti della madre, o meglio la profonda ambivalenza, caratterizzano la tragica impossibilità ad investire un oggetto perché, proprio in quanto amato, erotizzato, qualsiasi oggetto è anche contemporaneamente odiato, visto come divorante e minaccioso).
La prima scansione: L'interpretazione e l'emergere dei vissuti aggressivi. Lo svelamento della verità familiare e la nuova interpretazione.
Questa seconda fase si apre con una seduta di inizio ottobre �97, durante la quale, -dopo una interruzione dovuta alle vacanze, in cui la pz. è leggermente ingrassata- Vesna dice di essere stata dalla dietologa: "mi ha dato una dieta poverissima, ma io ho bisogno di mangiare tanto. Ora però so come bisogna mangiare, proteine, vitamine, carboidrati, grassi".
Le dico che in realtà ne sa quanto prima. Ha chiesto alla dietologa una dieta che non la facesse mangiare, e quella le ha dato una dieta per mangiare poco. Ma lei vuole mangiare tanto. Quello che lei vuole sapere è perchè le piace mangiare. perché vuole mangiare tanto. La dietologa non può svelarle nulla di cosa le piace.
"Mi piace tutto"mi dice stupita ma come presa da un "furor catalogandi", le paste grosse, rotonde, le cose alte, il pan di spagna, quelle sfoglie con dentro le cose vive (=Crude), la carne alta, le cose tante…" Poi improvvisamente è come sopraffatta dall'angoscia, e mi guarda con terrore. "Sono convinta di avere dentro qualcosa di profondamente negativo. Sono cattiva, veramente egoista".
"Queste cose non le ho mai dette a nessuno. Credevo che non le avrei mai dette a nessuno, perchè a parlarne, a liberarle temo si possano avverare. Ho paura della violenza che ho dentro, e della violenza che gli altri potrebbero manifestare. Penso che solo se picchiassi a sangue qualcuno, solo se gli facessi veramente del male, ma un male fisico, sarei finalmente in pace"
Dopo queste affermazioni, si sente mancare, e tende a chiedermi accoglienza, accudimento. Io chiudo la seduta, invitandola a tornare due giorni dopo.
Dopo questa seduta, comincia da una parte tutto un movimento all'esterno; la pz. si iscrive a scuola guida e prende la patente, accetta di frequentare un corso di estetista, anche se in modo ambivalente, perché è la scuola della cugina del suo convivente ("mi sento sempre sotto il suo controllo").
Dall'altro lato, però, progetta un viaggio in Jugoslavia, sul quale ha moltissime aspettative (soprattutto, quella di trovare "il grande amore"), con la seria fantasia di poter tornare e stabilirsi nuovamente lì.
C'è un emergere di questioni, uno spostamento del discorso rispetto alla famiglia, e un primo netto miglioramento del sintomo.
Poco prima di partire per Belgrado, è molto contenta, si dice stupita di quante energie erano imprigionate dalla questione del cibo, ma ancora non riesce bene a spiegarsi come si leghino la questione del cibo e la sua fame d'amore, il suo piangere pensando alla madre, e quella nuova inspiegabile aggressività che ogni tanto si ripresenta :"Odio tutto quello che sul mio corpo riconosco di lei…non le ho mai visto sul viso un'espressione sincera.."
Ma con il ritorno dalla Jugoslavia, i nodi vengono al pettine.
E' stata malissimo, la bulimia è tornata pesantemente. "In questo mio andare e tornare c'è qualcosa che non riesco a capire, che non appartiene a me, non sono io che determino questi movimenti".
Con l'inesorabile fallimento delle fantasie idilliache di riavvicinamento, di nuova fusione con la famiglia, c'è un netto cambiamento nella posizione di Vesna. Quello che già si era affacciato prima della partenza, sotto forma di dubbio, di giustapposizione di fantasie aggressive e pensieri malinconici, ora riappare come fenomeno di depersonalizzazione isterica, che forse vorrei esprimere meglio con il termine letterario di straniamento, in cui Vesna dice le stesse cose trite e ritrite, che credeva sapute a memoria, e improvvisamente le vede in un'altra prospettiva, completamente nuova.
"Sono andata via di casa, ma in realtà continuo a vivere con loro, a sacrificarmi per loro. Sto con questo ragazzo che non amo, a volte mi vergogno di lui, eppure non riesco a fare a meno dei soldi e del benessere che mi procura, ma ora so che l'ho fatto sempre per loro, per mia madre e mia sorella. Loro a parole mi dicono che se non sono felice qui in Italia, posso tornare, che si troverà una sistemazione, che non devo pensare a loro, ma a me stessa. Ma io vedo che quando arrivo piena di regali, di cose belle, loro si aspettano questo da me.
A casa mia c'è sempre stato questo mito dei soldi. Mia madre (prima che io nascessi), rimproverava mio padre, perchè non aveva il coraggio di tentare la fortuna, come aveva fatto suo fratello (=del padre), che era andato a lavorare in Germania, e poi tornava sempre carico di regali. Mio padre non voleva lasciare la famiglia, non voleva stare da solo all'estero, e mia madre questo non glie lo perdonava. Con la mia venuta al mondo, la malattia di mia madre e tutto il resto, questi progetti sono stati accantonati definitivamente, e si è instaurato il silenzio. Mio padre ha cominciato a bere perché ha deluso per sempre mia madre".
A questo svelamento della vera "colpa" cui la paziente è identificata, l'incapacità del padre a soddisfare la madre, situazione nella quale è implicata con la sua venuta al mondo, si lega con l'associazione il lamento sulla mancanza di vita sessuale, sull'impossibilità di accedere al godimento; emerge anche un trauma adolescenziale, a cui è legata la sua ritrosia a farsi toccare. Durante la prima adolescenza, un compagno di scuola l'aveva sverginata violentemente con le mani, facendole male e lasciandole dentro un profondo orrore. "Da allora evito accuratamente di farmi toccare, soprattutto sotto la cintura. Anche andare dal ginecologo è sempre una tragedia. Per molti anni non sono andata e anche adesso vado il meno possibile."
"Le mani delle persone mi fanno paura, le mani tozze, gonfie, mi fanno schifo, anche quando penso a mia madre, quando mi viene da piangere perché penso che lei è grassa, è malata, penso alle sue manine piccole e tozze, con i buchini come quelle dei neonati. Quando compare l'immagine di quelle mani, non riesco a non piangere".
Questa fase si conclude quando, nel corso di una seduta in cui emergono i vissuti di profonda rabbia che la abitano, si fa strada il lapsus, ed un primo svelamento dell'identificazione con il padre ideale.
"Fanno sempre la parte delle poverine (=la madre e la sorella), piangono miseria, e poi scopro che senza dirmi nulla hanno venduto una parte delle nostre terre, anche quelle destinate a me, e lo hanno fatto senza dirmi nulla, facendo fuori tutti i soldi in poco tempo. E io che mi faccio sempre problemi per loro, che quando penso a loro piango, che sono venuta qui, in Germania, a vivere questa solitudine per soddisfare i loro desideri…"
"Bene….ben detto!"
L'interpretazione funziona in due tempi.
La pz. non coglie subito il messaggio contenuto in questo lapsus, ma si apre però una terza fase della cura, che si chiuderà con un nuovo lapsus .
In questa fase, comunque, lo svelamento dell'identificazione e la conseguente perdita di godimento si manifestano chiaramente in un momento depressivo e nella contemporanea ripresa dei tentativi di autonomizzazione, oltre che da racconti e associazioni legati all'innamoramento e all'amore.
E' in questa fase che mi racconta della storia del suo convivente, e mi rende partecipe per la prima volta di un grande amore avuto in Toscana, un ragazzo con gravi problemi psichiatrici "era dolce, comprensivo, li rispettava profondamente. Con lui mi sentivo sicura, non mi metteva in pericolo e non voleva nulla da me che io non fossi in grado di dargli spontaneamente"
In oltre Vesna compera un'automobile usata e cominciare realmente a muovere alcuni passi da sola, mi racconta di nuove amicizie e di momenti di soddisfazione sessuale, anche se, con suo rammarico, si legano a momenti di cedimento non più bulimico, ma comunque a qualche "mangiata" che lei valuta come eccessiva. Emerge spesso uno stato che la paziente vive come depressivo, un senso profondo di vuoto e di tristezza: "la consapevolezza – dice- di non essere mai stata importante per nessuno". Questa coloritura depressiva, che io sottolineo offrendo anche un po' provocatoriamente la possibilità di ricorrere alla psichiatra, per un eventuale piccolo aiuto farmacologico, viene però connotata da Vesna come preziosa, una tristezza diversa dalla rabbia inspiegabile e dalla compassione irrazionale che, prima, provava quando pensava alla sua famiglia.
E per questo motivo, rifiuta senza indugi il mio invito.
Continuano quindi queste sedute durante le quali,spesso, piange a lungo; "Nessuno si è mai curato, nessuno si è mai neanche accorto di questo vuoto, mia madre lo riempiva di cibo, mio padre di urla"; si riaffaccia la fantasia di un ritorno in Jugoslavia, che però Vesna riconosce come un desiderio di ritorno impossibile all'infanzia, a quell'infanzia che le appare ora così disperatamente desolata e vuota: "Quello che non riesco proprio a perdonare a mio padre " mi dirà infine " è di non aver avuto ambizioni. Avrei voluto tanto vederlo tornare dall'Italia con le mani piene di regali". E questa volta, io resto in silenzio, e lei ride a lungo.
L'ultima parte della cura (da Maggio a Dicembre 1998)
C'è poi un periodo in cui parte dell'aggressività si riversa nell'hic et nunc della relazione terapeutica.
Interpreto una sua tendenza a minimizzare le interruzioni accidentali, o i piccoli ritardi che a volte si producevano a causa mia (io stessa in cartella rifletto su questa mia tendenza a colludere con questo suo mettersi nella posizione di quella che non crea problemi, che è silenziosa e poco reattiva,ecc.). Si apre così una fase in cui la pz., a partire da una amicizia che ha in Toscana, con una ragazza incinta, abbandonata dal padre del bambino, intreccia nuovi interrogativi.
1) Le nuove paure espresse rispetto al distacco dal convivente.
Ora Vesna dice di sapere che la questione non è solo economica, sente che non è capace di stare da sola, teme che tornerebbe a mangiare, e ciò che è più interessante, riflette sulla sua esperienza al Night club, che per lei resta il luogo enigmatico della svolta patologica. Si interroga su come sia potuta finire in un posto simile, e su come abbia potuto vivere così a lungo nella posizione equivoca della mantenuta.
C'è qui l'interrogazione rispetto alla posizione fallica, la difficoltà a situarsi rispetto al desiderio maschile, anche una volta caduta la questione dell'identificazione al padre ideale.
2) La posizione del terapeuta.
C'è un doppio movimento, da una parte Vesna ammette questa sua tendenza a minimizzare, a negare l'aggressività, e dall'altra manifesta aggressività sotto forma di un parlare a raffica, a vuoto, senza dire nulla.
Inoltre, mi dice chiaramente che rispetto al rapporto con l'amica incinta, lei ha assunto un po' il ruolo della terapeuta, e che però è molto attiva, nei week-end la va a trovare, cerca di scuoterla e spingerla all'autonomia, e in questo critica neanche troppo velatamente quella che lei giudica una mia astensione dall'intervento.
C'è quindi da una parte l'assunzione di un ruolo "terapeutico" nei confronti dell'amica toscana, in cui Vesna è aggressiva, e l'espressione di una aggressività in seduta (sotto forma di critica alla mia posizione, e sotto forma di tendenza a scivolare nuovamente nella posizione di quella bambina di cui nessuno si accorge).
3) La questione della maternità dell'amica, e i nuovi interrogativi sulla posizione femminile.
L'amica era amante di un uomo sposato, che aveva promesso di lasciare la moglie per lei. Quando la ragazza era rimasta incinta, però aveva cominciato a vacillare e alla fine, quando ormai per l'aborto era tardi, l'uomo aveva deciso di restare con la moglie, anche se continuava a mantenere la ragazza, promettendole di provvedere in futuro anche per il bambino.
Vesna è sconcertata dalla grande sofferenza della sua amica, che è intrappolata fra l'amore per quest'uomo e la profonda rabbia per essere stata lasciata cadere. In tutto questo, quello che angoscia Vesna è che non vede alcuno spazio per il bambino, non vede spazio nel desiderio della madre, e la rimprovera soprattutto di non aver visto in tempo che la decisione giusta era quella di abortire, che l'uomo l'avrebbe delusa, e che lei avrebbe dovuto salvarsi prima.
In questo è riverberata la sua questione, la rabbia e la delusione della madre, ma nella tristezza per questo spazio di desiderio che non si apre per il bambino, c'è già in nuce la possibilità di una diversa elaborazione della sua venuta al mondo, e del desiderio di maternità, e quindi una nuova possibile prospettiva sulla questione della femminilità.
Queste sono le ultime fasi della cura, che si concluderà definitivamente a Dicembre 1998, dopo che Vesna avrà preso lavoro in un autogrill, dove fa i turni, e contemporaneamente porta avanti la scuola per estetista.
Adduce motivi di tempo, e infondo adesso si sente soddisfatta dei risultati raggiunti, Non ha più crisi bulimiche, ha il suo lavoro, si sente cambiata e vuole provare ad andare avanti da sé. Esprime anche un certo rammarico per l'interruzione del mio contratto, anche se non esclude la possibilità di proseguire la cura in studio, in un secondo tempo.
C'è una concomitanza di diversi fattori che, a mio avviso, contribuiscono a determinare questa interruzione, questo arresto.
Certamente il fatto che il mio contratto di consulenza con il CPS terminasse, ha influito sull'interruzione dei colloqui, ma probabilmente anche l'emergere delle nuove tematiche, la relativa pacificazione del sintomo e la "fuga nella guarigione", avrebbero probabilmente determinato un'interruzione, laddove la ripresa di un lavoro avrebbe reso necessaria una riformulazione della domanda.
Del resto io ho offerto alla pz. la possibilità di continuare il lavoro in Studio (su sua richiesta), offrendo anche un colloquio di stand-by,dopo le vacanze natalizie, e Vesna mi ha assicurato che, almeno per quel colloquio, sarebbe sicuramente tornata.
Diagnosi psichiatrica. (DSM III R)
Sull'asse primo si individua il disturbo di tipo bulimico, mentre sull'asse secondo si potrebbe parlare di un disturbo Borderline di personalità.
Ci potrebbe stare anche qualcosa rispetto al disturbo dell'umore, penso a questo stato depressivo così intenso, e anche alla tendenza all'indecisione, questo arrovellarsi su diverse ipotesi senza di fatto riuscire a mettere in atto alcun cambiamento; questo soddisfa i criteri della distimia secobdaria al disturbo sull'asse I, ma anche i criteri relativi al Disturbo Depressivo NAS. Del resto lo stato depressivo sottende spesso il disturbo medio-grave dell'alimentazione, ed è nominato anche all'interno dei criteri del disturbo sull'asse I.
Diagnosi psicodinamica.
Dal punto di vista psicodinamico, della clinica differenziale, inizialmente mi sono interrogata sulla possibilità della psicosi, soprattutto quando la pz. sembrava aderire alla questione del "quanto, come e che cosa mangiare", quando sembrava non distinguere completamente la questione del dietologo da quella dell'analista. C'era poi questo elemento del night-club, il fatto che la sola assenza dei riferimenti esteriori, il crollo dei punti di riferimento formali, gli orari, ecc., avessero prodotto in lei questa specie di black out, questa sensazione di non sapere più che cosa voleva, cosa provava,ecc., e che questo spaesamento sembrava però ancorarsi, come una specie di supplenza possibile, alla questione del cibo, come se ritrovare cosa, quanto e come mangiare potessero di per sè costituire una restaurazione possibile dell' ordine simbolico.
Anche l'assenza totale di vita sessuale, unita alla scelta della posizione un po' perversa dell'oggetto di godimento per eccellenza (l'entreineuse), accanto alla questione del trauma sessuale e alla paura di essere toccata, anche dal ginecologo, mi aveva indotto un qualche sospetto.
In senso strettamente Freudiano, per altro, con la questione delle mani, le mani dell'aggressore, le mani della madre, le mani del neonato, le mani che porgono il cibo, si potrebbe ipotizzare l'area del trauma infantile, la fantasmatizzazione e l'erotizzazione di tale trauma, ma tutto è da dimostrare, anche perchè il "sintomo" frigidità o assenza di godimento sessuale è molto a lato nel lamento della pz.
In oltre da subito la posizione nel discorso, la presa che indubbiamente ha avuto per lei il transfert, la rapidità con cui si sono mobilitate le associazioni e si sono messi in moto i significanti familiari, mi ha indotto a scommettere per la nevrosi.
Tale diagnosi si è poi rapidamente confermata nel seguito della cura, dove decisamente c'è un edipo messo in scena dalla pz., anche se c'è una difficoltà a trovare un posto in questo edipo. Il sintomo bulimico è ancora dell'ordine di una identificazione sociale, che permette l'appoggio alla questione del godimento materno (paura di diventare come la madre, la questione del sapere, a cui si lega poi la rabbia contro il padre, ma soprattutto contro l'insoddisfazione profonda della madre, che la soffoca). In questo senso si potrebbe dire che il cibo funziona più come oggetto fobico, separatore (come il cavallo per il piccolo Hans), che non come sintomo isterico.
Certamente non c'è isteria nel senso della conversione isterica, dell'istrionismo in senso psichiatrico, ma soprattutto c'è un difetto di simbolizzazione, noi diciamo c'è olofrasizzazione del discorso, cioè la pz. è ancora incollata (non psicoticamente) a sostenere il padre, e il romanzo familiare è più agito nel reale che non fantasmatizzato.
Anche la questione del "non lo so", del dubbio e dell'indecidibilità, che certamente hanno tutt'altro valore rispetto al rituale ossessivo, in una prospettiva psicodinamica possono aprire ad una questione depressiva, ma non come categoria clinica (depressione maggiore), ma come effetto di questa iscrizione nell'edipo di natura "debole", cioè questa difficoltà estrema a costruirsi come oggetto, e quindi a staccare un oggetto da investire libidicamente.
Commento sulla dinamica della cura
Ho voluto portare questo caso, anche se in un certo senso fa eccezione rispetto alla serie dei casi istituzionali, in quanto anche nell'istituzione non è infrequente imbattersi in domande abbastanza facili da agganciare ad un lavoro psicoterapeutico; queste psicoterapie sono possibili, anche se scandite da tempi diversi da quelli che si potrebbero esigere in una situazione classica (in un anno e mezzo con questa paziente io faccio 36 colloqui, meno di uno ogni 15 giorni, in media), eppure a ben guardare una certa qualità di ascolto, che è stato possibile e si è realizzato, ha prodotto delle scansioni, una specie di preliminare.
Si è senz'altro realizzata, a mio avviso, la condizione di estraniazione, l'incontro con l'alterità che i propri significanti messi in moto permettono, e questo di per sè ha prodotto una indubbia modificazione del sintomo, una sua minore incisività (le assunzioni di Guttalax spariscono subito, e progressivamente i ricorsi al cibo sono limitati al viaggio in Jugoslavia, e in seguito, molto ridotti in intensità, diventano poi delle strategie di avvicinamento dell'Altro sesso, dei cedimenti che permettono di tenere a bada la tirannia del super-io).
Inoltre penso sia un caso interessante perchè, pur non essendo una psicosi, rientra nella vasta casistica dei nuovi sintomi sociali, dei quali sono estremamente difficili sia la diagnosi che il trattamento, ed in cui è sempre un successo, a mio avviso, la realizzazione di un lavoro terapeutico a partire dalla prospettiva analitica, specialmente in ambito istituzionale.
Inoltre, last but not least, siccome credo che un altro degli obiettivi del seminario è quello di riuscire a rendere conto della propria prospettiva teorica, e alla luce di questa poter illustrare i passaggi clinici che si realizzano nello svolgimento effettivo della cura, credo che questo caso, con le sue scansioni abbastanza chiare, rettificazione, interpretazioni, caduta delle identificazioni, ecc., costituisca nel suo piccolo un esempio fortunato che ben si presta all'analisi e…..alle critiche!
DISCUSSIONE
Prof. FRENI: Forse in questo caso che ci ha presentato, emerge per la prima volta in modo abbastanza chiaro l'uso di alcune "tecniche" di elezione lacaniana, emerge per esempio abbastanza limpidamente l'uso del tempo variabile in seduta.Per esempio è chiara la tendenza a non interpretare i detti della paziente. Non interpreta, sospende. "Ci vediamo fra due giorni…". Lo fa anche molto bene, certamente, ma mi piacerebbe approfondire un po' questo aspetto, perché comunque io ho delle perprlessità, pur essendo interessato ad alcuni aspetti della destrutturazione dell'intervento, in particolare all'uso del tempo variabile nell'Istituzione, ma…"
Dott. VIGANO': Bene, allora possiamo partire da questo aspetto. In effetti io ho aperto oggi dicendo che non esiste una teoria della tecnica, e in effetti in questo caso…
Freni: Ti ha smentito…
Vigano': Non direi, anzi lo conferma, perché una questione tecnica è emersa dalla costruzione del caso, quindi non come teoria universale non credo che si possa dire che la terapista ha seguito un modello teorico..
Freni: Non credo che il problema emerga tanto dalla costruzione, quanto un effetto di onestà della presentazione. Forse è la prima volta che si avverte l'ostensione della clinica come più vicina a quanto realmente è avvenuto. Io ho l'orecchio molto esercitato dalle registrazioni di casi, e quindi credo di poter dire quando una sequenza riportata si avvicina a quanto realmente può essere accaduto nell'interazione…
dott.ssa Barracco: Posso dire che uno dei motivi per cui ho scelto di portare questo caso, che da un certo punto di vista è atipico rispetto ad altre presentazioni cui ho assistito, nel senso della complessità dell'intervento, la presenza di diversi operatori, diverse Istituzioni, tempi estremamente lunghi di trattamento…
Freni: No, non mi sembra un caso che esce dalla serie… si avverte sullo sfondo la dinamica istituzionale; l'invio della Psichiatra, le interferenze del convivente…
Barracco: Sì, tuttavia c'è anche una certa limpidità una trasparenza che caratterizza il dipanarsi del discorso, che a mio avviso è dato sia da una sorta di peculiarità della paziente, questo suo rapporto molto particolare con la lingua Italiana, che non è la sua, ma che tuttavia lei padroneggia benissimo pur mantenendo una sorta di radicale estraneità, e sia da un certo modo di utilizzo, direi, delle risorse che l'istituzione mette in gioco. Pur essendo una paziente che presenta un disturbo grave, si riesce con una certa facilità a entrare nel dispositivo psicoterapeutico, eliminando, per così dire, il "rumore di fondo", dell'Istituzione, e creando una relazione terapeutica abbastanza stabile, almeno nell'identificazione dei ruoli e degli strumenti.
Freni: Sincerità per sincerità, vorrei provare ad essere più sincero anch'io: io mi sto convincendo che forse l'approccio del tempo variabile nell'istituzione forse può essere la soluzione migliore, però mi rimane non sufficientemente chiaro che cosa accade del controtransfert. O lo eliminiamo, cioè diciamo che non c'è il controtransfert, ma questo ti dico subito che farei molta fatica ad accettarlo…
Viganò: Beh, dato che tu citavi un po' scherzosamente il �verbo lacaniano', di cui noi saremmo i depositari, ti dirò che Lacan dice che il controtransfert non esiste�
Freni: Infatti, so che Lacan dice questo, ma io non sarei d'accordo…
Viganò: No no, invece credo che saresti d'accordo….Bisogna vedere in che senso…
Freni: Vorrei però mantenere lo spirito del seminario, perché se no può sembrare una provocazione da parte mia. Io credo che soprattutto nell'ambito delle terapie istituzionali forse anche nell'ottica manageriale un tempo variabile potrebbe funzionare anche meglio di un tempo fisso, forse passato a non concludere nulla, mentre il tempo variabile permetterebbe un uso forse più razionale e più flessibile delle risorse. Però o arriviamo a concludere che la faccenda del controtransfert è un'invenzione, che infondo non è così importante, se invece decidiamo che il controtransfert è importante, ed ha un ruolo decisivo nel momento in cui si prende la decisione di interrompere la seduta, allora in quel momento dobbiamo renderci conto che forse agiamo un po' alla cieca, se diamo rilevanza all'elemento inconscio. Il controtransfert per definizione è inconscio, noi ne possiamo sapere qualcosa solo a condizione di essere capaci di fare un discorso di rielaborazione autoanalitico di sottolineatura di stimoli che emergono dal di fuori del setting. E se io finita una seduta o in un particolare contesto di vita associo uno stimolo ad una paziente, può darsi che questo sia una spia controtransferale. Io credo che questa è una realtà con la quale io credo si debba riuscire a confrontarci, perché è solo a questa condizione che io potrei accettare di misurarmi con il tempo variabile, perché in assenza di questo, allora preferisco istituire una parità, tra paziente e terapeuta rispetto a coordinate spazio-temporali, in cui siamo immersi entrambi alla pari, e allora le variazioni sì che possono dipendere da determinanti diverse, ma siamo all'interno di un patto, alla pari.
Dott.ssa Silvia Pozzi (dalla sala): mi domando se non stiamo confondendo due piani rispetto al concetto di "controtransfert". Il controtransfert come discorso analitico, discorso dell'inconscio, in cui penso possa avere senso il discorso di Lacan "non esiste controtransfert", cioè c'è solo un transfert, e invece la dimensione etico-clinica, del Controtransfert, che racchiude tutte le preoccupazioni etiche quali la prudenza, il non far soffrire inutilmente il paziente, la regola dell'astinenza, nel suo significato più ampio…
Freni: Io veramente sono uno che, ti dico sinceramente, a tutte queste cianfrusaglie qui sono molto critico, tutto questo buonismo…Io credo che l'incontro clinico col paziente è un incontro sempre drammatico, pieno di tensione, in questa storia che ci è stata riportata tutto questo si sente, e io sono convinto che non possa che essere così, anzi deve essere così. La questione è, comunque la si chiami, è quella di immaginare un analista comunque immerso in questa dimensione tragica, che lo voglia o no è condannato per tutta la vita in una dimensione di paziente, paziente di sé stesso, o dell'analisi che gli può fare il paziente, e se lui è immerso in questa dimensione, se l'è sposata, allora diventa ridicola la scansione temporale rigida, oppure se diciamo che il transfert ha senso nel qui e ora dell'incontro in quel contesto spazio-temporale e mentale che noi chiamiamo setting, che è il laboratorio dove verifichiamo e lavoriamo in presenza del cointeressato, allora qui torna nuovamente difficile dare la mia adesione a questa questione del tempo variabile…
Viganò: Credo possa essere utile partire da quest'ultima cosa che dicevi, per cercare di dare almeno un primo inquadramento del problema e delle citazioni che sono state fatte, che altrimenti rischiano di sembrare solo delle boutades un po' paradossali, rispetto a Lacan. Quando dicevi, o concepiamo l'analisi in una dimensione tragica, per cui l'analista è sempre dentro a questa situazione tragica, oppure poniamo il setting come protettivo, difensivo, ecc. Certamente, se la questione è posta così, è evidente che la scelta lacaniana è del primo tipo, prendere o lasciare, considerarla buona o cattiva, siamo nel libero mercato delle idee, delle opinioni e degli scambi possibili. Però vorrei dire alcune cose per mitigare questa scelta che è appunto tragica, essere sempre nel lavoro analizzante, che ovviamente è pensabile solo in un senso strettamente utopico, o meglio etico, come diceva Pozzi, ci si potrebbe domandare perché, chi ce la fa fare una simile fatica, rischiando poi inevitabilmente il comico che spesso si accompagna a questa intenzione nei lacaniani o lacanisti che spesso non sono all'altezza del maestro.
Comunque Lacan può parlare del transfert come uno, e si tratta di trovare le scansioni analizzanti a partire dal giocare una posta più alta, quello che chiama "desiderio dell'analista", propone che ci sia una posizione desiderante dell'analista – quella posizione analizzante dell'analista che tu evocavi, desiderio che gli deriva dall'aver attraversato la dimensione del proprio desiderio, fino al punto di aver fatto l'esperienza di poter desiderare al di là dell'illusione che l'inconscio fornisce di oggetti via via spostati, e solo in nome di questo si autorizza a mettersi nella posizione dell'analista. Chi si mettesse nella posizione dell'analista al di fuori di questo orizzonte, commetterebbe reato, dal punto di vista lacaniano. Reato etico, però è importante come procedura, per validare questa posizione. Che cos'è questo desiderio dell'analista? Lacan, nel settimo seminario, dice che è un desiderio molto più forte di tutti gli altri desideri controtransferali – la voglia di abbracciare il paziente, la voglia di dargli una sberla, la voglia di disfarsene, ecc. – perché è essere in una posizione analizzante di questi moti pulsionali inconsci che la presenza dell'analista produce.
Freni: E' una visione un po' mistica…
Di Giovanni: Lacan parla dell'analista come di un santo, in un'accezione particolare, naturalmente, ma la mistica c'entra di sicuro…
Viganò: E' un puntare in alto, non in basso, so che per te non ha una connotazione negativa la parola mistica, e quindi va bene, ma vorrei aggiungere una seconda cosa, e cioè che questa posizione desiderante è pensabile solo se esiste un apparato simbolico e teorico tale da permettere poi di analizzare questo campo mistico, o di santità, altrimenti si sarebbe senza criteri, Lacan dice che il criterio è fornito dalla struttura stessa del Transfert.
Il Transfert si articola al di là del sentimento, dell'incontro con l'analista come affetto, quello per cui il paziente nella vulgata si innamora dell'analista, non è solo il sentimento infantile, edipico, trasposto sulla persona dell'analista, cioè quello che Freud chiama l'errore di persona.
Lacan utilizza la struttura del transfert anche e soprattutto nella sua dimensione simbolica e linguistica di rapporto del soggetto con la dimensione dell'Altro, col linguaggio stesso. In questo senso il transfert è uno, perché il linguaggio è uno, nella seduta, se lo si separa un po' dai sentimenti provati dal paziente o dall'analista, il transfert è la struttura logica di quell'innamoramento dell'inconscio, di quel parlare dell'inconscio, in cui lo svolgersi del discorso analitico si trova immerso, e si trova immerso in una dimensione comunque dispari, mai pari. Nel senso che è il desiderio dell'analista che funziona da operatore, da produttore del terzo in cui il transfert consiste e che produce interpretazioni. E' proprio perché c'è disparità che c'è interpretazione, atto analitico. Se fosse un campo solo intersoggettivo, speculare, saremmo in una situazione tipo Ferenczi, di due soggetti che si amano, si odiano, si dicono le loro cose, in una intersoggettività di due lettini che si alternano. L'unica possibilità di pensare all'atto analitico è quella di pensarlo come un intervento all'interno di un discorso che viene svolto dal paziente; è il pz. che parla, e l'analista sta zitto. La presenza dell'analista stimola il discorso del paziente, gli interventi alla Lacan non sono mai delle frasi dette al paziente, sono caso mai delle scansioni, delle sottolineature e dei tagli nel discorso – unico – dell'analisi.
Detto questo, forse, la questione del tempo logico e non cronologico forse diventa meno sorprendente, c'è anzi da chiedersi cosa potrebbe voler dire introdurre un discorso al di fuori di questa logica, cioè un tempo fisso e non significante. Se c'è un discorso in cui la posizione analitica è quella di scandirlo, perché introdurre l'orologio? In questa logica c'è da chiedere ragione del tempo fisso, non del tempo variabile. Il tempo variabile è un intervento possibile su un discorso unico che il transfert induce. Il tempo fisso, anche storicamente, è il tentativo di introdurre una misura di prudenza, che Freud ha escogitato, un po' ossessivamente, per stabilire una contrattualità, anche se poi Freud stesso ha fatto analisi al di fuori di qualsiasi parametro, tutte le analisi importanti Freud le ha fatte mettendo da parte l'orologio, con sedute diverse nello stesso giorno, ecc. Questo, non per dire che Freud era trasgressivo, ma per dire che il transfert richiede una prudenza, per non rischiare che la cosa si metta in una dimensione di paranoia incontrollata e di interpretazione invasiva. Ma in termini logici, se questa prudenza viene trovata all'interno di atri parametri di garanzia, come il lavoro che l'analista fa su di sé, l'apparato teorico di cui si sente sicuro, perché togliere la possibilità e l'efficacia che effettivamente in questo caso è documentata, in quei due passaggi, la possibilità di scandire un significante, di lasciare il tempo dell'elaborazione al fra le due sedute, e quindi a un'efficacia maggiore rispetto ad una comunicazione che apparirebbe solo cognitiva, e poi, stare lì altri dieci minuti ad aspettare che scada il tempo, credo che dal punto di vista dell'efficacia rischierebbe solo di indebolirla.
(dalla sala) E' al limite del suggestivo�
Freni: Spieghi meglio cosa intende.
(dalla sala): Se lascio una metacognizione e saluto un mio paziente è chiaro che do' una carica e una forza che è imprevedibile da parte di chi viene congedato.
Viganò: Rispetto alla suggestione si apre una biforcazione, che può essere verificata in base al testo. C'è qui la documentazione, si tratta di vedere se è stata un'interpretazione a livello del discorso del paziente, efficace, o è stato un tentativo di imporre l'analista come oggetto di desiderio ipnotico. Qui già dalla seduta successiva lo si vede. O uno o l'altro. Se è suggestione lo si può valutare. Quello che è più difficile da valutare è se il paziente può sopportare questo aspetto di frustrazione (che un'impossibilità possa essere vissuta come impotenza) mi sembra lei dicesse: tu mi congedi, e io non posso più dire niente, sì, posso venire a dirtelo la volta dopo, però posso anche suicidarmi nel frattempo…
Anna Barracco: Volevo aggiungere qualcosa su questo punto specifico, dell'interpretazione e dei rischi ad essa connessa. Freud, in "analisi terminabile e interminabile", chiude un paragrafo con la bella immagine "Il leone salta una volta sola", a proposito dell'interpretazione. Io credo che in quell'espressione ci sia tutta la difficoltà, il rischio, e nello stesso tempo l'imprevedibilità di questa scelta, che però è resa prevedibile e possibile proprio dal tempismo perfetto che solo il lungo allenamento, la concentrazine, la tensione nell'atto, possono garantire. E tuttavia, si può sbagliare, si sbaglia. Nella questione che Lei poneva, inoltre, della possibilità di suggestionare, ipnotizzare, pilotare il paziente, e cioè in definitiva perdere di vista la sua questione per piegarla ai desideri o ai fantasmi dell'analista, o, cosa che forse è la stessa cosa o forse è peggio, di piegarlo ad una teoria e ad una tecnica.
Lacan, in un testo intitolato "La direzione della cura", parla molto della questione del potere, di chi ha il potere e di come deve essere problematizzato e calcolato il problema del potere all'interno di una relazione terapeutica. E' un po' il problema che metteva in luce, mi sembra, il prof. Freni quando si interrogava sulla simmetria o meno della struttura del setting. Lacan dice che "il potere è e deve essere saldamente nelle mani dell'analista, a condizione, però, di non usarlo mai".
Questo, che cosa significa? Vediamo il caso della paziente, e teniamo sempre presente la questione del "Leone che salta una volta sola". Io non ero certa che quella fosse l'interpretazione giusta, anzi, meglio, potevo essere convinta che la costruzione teorica fosse giusta (= identificazione allo zio,ecc.), ma non potevo essere certa che il tempo fosse quello giusto. C'è una dimensione di scommessa, e guardate che non è affatto vero, secondo me, che di fronte ad un'interpretazione e ad un invito ad uscire, il paziente non possa fare nulla. In molti casi, al contrario, il paziente si sottrae, ha una crisi d'ansia, oppure protesta, oppure, molto frequentemente, ti disconferma ("Come? Non capisco…" oppure "Intende dire che…ma no, ha sbagliato completamente…" ), protesta ("Non me ne vado! Figuriamoci se pago una seduta di cui ho fruito solo per metà…, ecc.). Se ci pensate bene, questa idea della certezza della riuscita e della posizione onnipotente del terapeuta è un po' un'identificazione con la posizione del Paziente, che, in effetti, suppone un potere nel terapeuta, è lui che glie lo conferisce, nel momento stesso in cui lo elegge nella posizione di colui che sa, di colui che può spiegare, che può curare, ecc. Da questo punto di vista, nel dipanarsi di una cura, questo "potere vuoto", dell'analista, è una funzione che dovrebbe andare da 100 a zero, da un massimo a un minimo, fino ad un totale svuotamento di questa supposizione di potere e di sapere, da parte del paziente.
In questo senso posso riallacciare qui anche alcune considerazioni sul controtransfert. Certo che il controtransfert esiste, credo che non sia neanche corretto dire che per Lacan non esiste il controtransfert. Semplicemente, Lacan organizza diversamente i concetti, e credo che quello che qui si chiama controtransfert è la dimensione immaginaria del transfert. Cioè, appunto, gli affetti, le controidentificazioni, la dimensione reale entro cui le due persone – l'analista e il paziente – sono immerse. In questo senso il controtransfert, o transfert immaginario, è un indice dell'opacità della cura, è dell'ordine della resistenza, della difficoltà, di ciò che fa ostacolo alla cura. E' all'interno di questa dimensione immaginaria che si incontra, appunto, il reale, nel senso della dimensione pulsionale, cui faceva riferimento il prof. Freni, a proposito di quegli studi sulle "spie" controtransferali.
In questo caso che ho riportato, per esempio, è evidente che tutta la terza parte della cura, che man mano si è centrata sul transfert, sulla relazione terapeutica nell'hic et nunc, è abbordabile anche a partire dalla dimensione immaginaria (io che la facevo entrare sempre più tardi, che tendevo a non accorgermi di lei, che rispondevo al telefono senza troppi problemi, perché lei tanto se ne stava buona buona…l'affastellamento istituzionale era per me buona scusa per colludere con la sua posizione di bambina esclusa, e io, evidentemente, con questi atteggiamenti esprimevo la mia paura per l'approfondirsi del discorso, l'emergere delle questioni legate alla femminilità, i moti aggressivi rispetto al mio modo di fare la terapeuta…" ecc.).
Inoltre, e con questo concludo, è evidente che, seppure la questione dell'orologio mi trova perfettamente d'accordo col dott. Viganò, non dimentichiamoci che la dimensione dell'incontro, l'appuntamento, è un momento che annoda i tre registri, simbolico, immaginario e reale, e infatti è sempre interrogabile e interpretabile ( c'è chi viene in seduta in ritardo, chi in anticipo, ogni variazione o ogni incidente è interrogabile di volta in volta e certamente entra a pieno titolo nella dinamica della cura, sia che i movimenti siano dell'analista che del paziente).
Freni: Quindi l'orologio come fattore regolatore lo mettiamo all'inizio, all'appuntamento…
Viganò: certo, l'appuntamento è fondamentale…
Freni: Però forse stiamo parlando del controtransfert forse con accezioni un po' diverse, io non credo che poi i dieci minuti dopo debbano essere necessariamente passati a girarsi i pollici, credo che possa avere un suo valore essere restare insieme a condividere profondamente quei momenti. Questo ha un suo valore scientifico, e anche etico. Al di là di quello che ha detto Lacan…che forse potremmo anche cercare di andare oltre…
Viganò: Sicuramente…
Freni: Mi sembra che è veramente la prima volta che emerge così chiaramente una questione tecnica, c'è anche la questione del pagamento, come viene regolato…
Viganò: Forse, però vorrei che per questa volta lasciassimo da parte le questioni tecniche, e passassimo al caso…
Freni: Sì, è giusto, diamo la parola alla sala.
Silvia Pozzi: Avrei una perplessità sulla diagnosi dell'asse II.
Viganò: Cioè, non metteresti nulla sull'asse II, non ticonvince il Borderline…
Silvia Pozzi: Non sono troppo sicura del Disturbo Borderline
Barracco: Ti dico quello che ho trovato, e legge i criteri diagnostici (almeno 5 dei seguenti elementi, che vengono tutti soddisfatti). C'è anche forse il sesto elemento, cioè la paura d'abbandono…
Freni: Si si, mi sembra che ci stia pienamente, e aggiungerei un'altra cosa, che nell'era pre DSM, quando si parlava di borderline un elemento che veniva valutato era questa propensione verso il notturno, questo ricercare i night club, questa vita notturna, come se la propensione per la vita notturna potesse servire a mascherare le difficoltà a stare nelle coordinate sociali, mentre nella dimensione notturna certe soglie naturalmente, si alzano, con l'alcool le droghe, tutto sembra più facile… questo comunque ora non c'è più nel DSM.
Viganò: questi elementi che hai letto sono tutti criteri che soddisfano la diagnosi di Borderline
Barracco: Sì, poi c'è scritto che comunque questa diagnosi di Borderline può essere posta in quei soggetti che presentano diversi criteri di altri disturbi di personalità, come il disturbo istrionico, narcisistico, o da evitamento, senza però arrivare a soddisfarne pienamente nessuno. In questo senso penso che sia significativa l'obiezione della dott.ssa Pozzi, perchè a mio avviso questa categoria borderline è talmente inclusiva da diventare poco utile in termini descrittivi, è più una definizione generica di "gravità".
Freni: Ci sono altri due elementi che dal punto di vista psicodinamico possono essere inseriti, la questione della difficoltà di simbolizzazione, che è un elemento specifico del borderline, aree specifiche di micro-deficit, che in genere rendono poco indicato il trattamento analitico, perché le interpretazioni potrebbero non essere capite, essere vissute come persecutorie…un atro punto poi è la particolarità della triangolazione edipica, che effettivamente è molto borderline…
Viganò: Su questo punto vorrei fare una domanda che riguarda la scansione principale della cura. Mi colpiscono le due versioni che da' dell'Edipo, prima e dopo il viaggio in Jugoslavia. Una prima versione dell'Edipo è quando dice "mia madre mangia, mio padre non mangia", sono + e – rispetto al cibo, rispetto al mangiare. Quindi la sua capacità di situarsi nel desiderio della madre è relativa solo a questa questione del cibo, e lei sceglie di mangiare tanto, ma diversamente dalla madre, la madre non è bulimica e lei sì, si separa dalla madre attraverso la bulimia. Prima versione dell'edipo attraverso l'alimentazione.
Poi torna dalla jugoslavia e porta l'importantissima questione del desiderio della madre che voleva che il padre andasse in Germania, lui per viltà non c'è andato, si è depresso, ha cominciato a bere, ed è lì che ora lei si rappresenta, tra la madre e il padre. Lei può quindi collocarsi in una storia edipica, in un desiderio familiare molto più costruito. Questa iscrizione nell'Edipo, nell'Altro, è fondamentale per fare la propria domanda d'amore. E questo lo si vede clamorosamente, per es. all'inizio "io non lo amo, non lo amo" questo tizio con cui vive. E non è che non ama lui, non essendo iscritta nel luogo dell'Altro non può amare nessuno, non è abilitata a questa singolare esperienza che è domandare a qualcuno "mi ami?".
Torna dalla Jugoslavia, e lì qualcosa è cambiato proprio a livello della domanda – a parte che ha anche qualche rapporto sessuale – ritorna "abbonata" al luogo dell'Altro, e con la possibilità di fare una sua domanda rispetto all'amore, all'avere figli, alla posizione sessuale femminile, ecc. Non è che lo approfondisca molto nella cura, però nelle patologie anoressico-bulimiche è il problema fondamentale, come passare dall'abbandonico, quindi fuori dal campo dell'Altro (io per l'Altro non ci sono), l'Altro mi ha abbandonato da sempre, e quindi solo provocazioni, agiti, aggressioni, passare invece ad un simbolico articolato, che permetta di fare una domanda. Ora se tu puoi dire qualcosa su come leggi questo mutamento, che cosa lo ha prodotto, perchè chiaramente non è il viaggio in sé, di viaggi ne ha fatti tanti….
Barracco: Il viaggio in quel momento, credo abbia funzionato da elemento scatenante. C'era stata una prima scansione, la fase di rettificazione, cioè quella prima parte in cui io distruggo le sue certezze sui cibi, la dietologa, ecc., in quel momento lei fa tutto un inventario di cibi, e si scatena, al fondo dell'inventario sul piacere, quindi il cibo come enigma sul piacere più che come questione da regolare con la bilancia e la dieta, lì, lei ha una crisi d'angoscia, Emerge tutta l'aggressività, tutta l'oralità della sua posizione, e io credo che con il viaggio in Jugoslavia lei cerchi di tappare, di mettere a tacere questa angoscia, ritentando per l'ennesima volta il ricongiungimento con il mito familiare, il padre, il grande amore da ritrovare in Jugoslavia naturalmente è ancora lui. Cerca questo ricongiungimento proprio nel momento in cui l'incrinatura di questi ideali era ormai inevitabile.
Quando va lì, e scopre che non c'è più possibilità, che ricade nella bulimia, e quando torna si interroga su questi suoi movimenti, e questo credo che sia legato a quelo che succedeva in analisi. Cioè questo viaggio era stato il suo ultimo, disperato tentativo di sfuggire all'analisi, attraverso l'agito. Però già si erano messi in moto elementi di ambivalenza, prima c'era solo questa idealizzazione difensiva, mia madre poverina, è malata, è stata per morire, ecc., ma poi accanto a questo emergeva "mia madre non è mai stata sincera, odio tutto quello che riconosco di lei…" quindi un'incrinatura di questo ideale. E con la ricaduta pesante nel sintomo bulimico, che lei non può più nascondere a sé stessa, comincia ad interrogarsi sulla meccanicità, sulla sovradeterminazione di questi suoi movimenti, movimenti che poi lei riesce a realizzare solo rispetto a questo va e vieni dalla jugoslavia, perchè per il resto è ancora tutto un progettare a vuoto, un "vorrei…", in questa prima fase. Penso inoltre che la prima versione dell'edipo è ancora molto mediata dal desiderio della madre, questa madre che è malata di cuore, che stava per morire, la gravidanza con l'angoscia che lei non sarebbe sopravvissuta, e anche la colpa, in questa fase, è molto concretamente rappresentata in questa macchia, in questo marchio nel corpo, dell'ordine del genetico, e invece dopo, dopo questa prima svolta, lei si accorge che questo movimento non le appartiene, è una pura ripetizione.
(dalla sala): A suo avviso, che cosa c'è dietro a tutto questo andare e venire della paziente, dietro queste resistenze…a che cosa sta dicendo "no" questa paziente? Come se questa paziente volesse appropriarsi di lei…
Barracco: Mah, mi ha colpito che nell'ultima telefonata la pz. ci ha tenuto a sottolineare, più di una volta, che sicuramente una seduta, almeno una, la farò, come se…
Freni: ma anch'io penso che la farà…
Barracco: uno dei motivi secondo me è che lei ha fatto un po' una fuga nella guarigione, questa pacificazione del sintomo, adesso lei è un po' identificata al desiderio del suo convivente, che è poi quello che ha fatto la domanda di cura: diciamo che per lui questi risultati bastano e avanzano, perché se si sgancia un altro po'…
Viganò: La prima parte della cura l'ha fatta lui, mentre ora una nuova fase dovrebbe aprirsi con un'altra domanda, questa volta della pz.
Freni: Io penso che un punto di svolta possa vedersi in questo punto, dove mi sembra di poter reperire la fantasia di aver divorato la madre, e che pezzi del proprio corpo sono stati inglobati in quanto estratti dal corpo materno, e la colpa relativa a questo è andare in Jugoslavia a verificare questa fantasia, perché consente di cominciare una separazione di pezzi del corpo suo da pezzi del corpo materno, quindi questo punto dove dice "odio tutto quello che riconosco di lei sul mio corpo", sia molto interessante, perché potrebbe avere a che fare con questa domanda, come se il terrore della paziente possa essere quello di poter fare alla terapeuta un'operazione del genere".
Barracco: Certamente la dimensione orale, nella sua qualità aggressiva, in questo caso è centrale. In questo senso sono d'accordo che tutte le difficoltà di mantenere un minimo di regolarità, tutti i miei tentativi di avvicinare le sedute, di stringere un po' il discorso, fallivano io credo per questa grande difficoltà a trovare una distanza, un po' quello che ho provato a dire descrivendo il tratto materno che si reperisce nell'oggetto d'amore, che lo si può amare solo se nello stesso tempo lo si odia, ci minaccia, ci distrugge.
Di Giovanni: Mi colpisce in questo caso la tendenza a ricercare questi allontanamenti e avvicinamenti nel reale, in questo senso penso che la domanda sul punto di svolta possa essere riformulata dicendo che una volta incontrato il desiderio dell'analista, e ristabilito un'abbonamento al campo dell'Altro, la paziente, tornando in Jugoslavia, per la prima volta coglie questo scarto, appunto fra la dimensione simbolica e la dimensione immaginaria, della realtà, fra una triangolazione edipica e una ricerca del padre in senso simbolico, e questo andare e venire, nella realtà, con le mani piene di regali, questo mettere proprio in atto, rappresentare il padre donatore.
Barracco: Secondo me quest'apertura è avvenuta proprio in quella seduta in cui la paziente, dopo la mia interpretazione sul cibo/piacere, su cui la Dietista non può dirle nulla, comincia a fare quello strano inventario, in un modo anche un po' maniacale, dei cibi che le piacciono. E' stata una seduta, fra l'altro molto angosciosa anche per me. Ancora non ero certa della struttura soggettiva, e tutti questi strani vocaboli, a metà fra lo slavo e l'italiano, mi sembravano quasi uno scivolamento nel neologismo, una sorta di piccolo deragliamento della tenuta significante. E poi, questo improvviso scatenarsi dell'angoscia sulla questione dei suoi desideri di aggressività. Io naturalmente non ho potuto riportare tutto, ma qui è emerso anche tutta una serie di ossessioni, di fantasie aggressive infantili che aveva nei riguardi della sorella, delle coetanee. Io credo che questo emergere della pulsione allo stato puro, l'angoscia, il successivo tentativo di negarla con l'ennesima ripetizione, fallita, abbia poi aperto il campo a quella che kleinianamente potremmo definire la "fase depressiva", cioè la paziente comincia ad elaborare, a spogliarsi lentamente delle sue identificazioni, e ad entrare nella logica significante.
Viganò: Afferma che è la prima volta che dice a qualcun altro queste cose…
Barracco: Sì, e aggiunge che non le ha mai dette a nessuno per la paura che la parola, il solo fatto di mettere in parola queste fantasie aggressive, ne faciliti la realizzazione. In questo senso c'è veramente un punto molto critico…
Freni: Questo passo credo che sarebbe molto interessante per un kleiniano…
Viganò: lo è anche per noi…
Freni: nel senso che appare davvero un attacco al seno…
Viganò: Sì, c'è questo elenco formidabile di cose, nelle serate di preparazione del caso dicevo che ricorda il catalogo delle donne nel don Giovanni, è fatto di cose banali, ma qui l'oggetto si presentifica in tutta la sua voracità, e si produce l'angoscia, ma qui si aggiunge anche qualcosa dell'ordine del simbolico, perchè per il fatto di essere stato detto, di entrare nel simbolico, diventa minaccioso e scatena l'angoscia.
Barracco: la paura di mettere in parola è più legato, però alle fantasie aggressive…
Freni: Qui c'è un punto drammatico, e forse qui entra la questione del controtransfert in senso terapeutico, in cui la terapeuta può dire "no, non hai mangiato nessuno…", e il terapeuta anziché dare accoglienza, la congeda, è un congedo che può essere considerato cinico.
Barracco: Con quell'intervento io ho cercato di sottrarmi, effettivamente, perché mi è sembrato che l'appello della paziente fosse dell'ordine del bisogno, dell'accudimento, che spesso è il modo con cui i pazienti cercano di sottrarsi al lavoro significante. Ho valutato che l'episodio era sufficientemente significativo per tentare il non accoglimento, e ho sperato che la paziente "reggesse", sempre nell'ottica del "leone che salta una volta sola", era la prima volta in cui la rettificazione sulla sua posizione rispetto al cibo sembrava aver prodotto un'apertura, e non ho voluto rischiare di giocarmela, per la paura di un cedimento della paziente…
Freni: Invece in un'ottica kleiniana, avremmo potuto comunque verbalizzare questo, dicendo "lei ora teme che io sia distrutta dalla sua ansia, vuole mettermi alla prova… Credo che dovremo rifletterci molto su questa questione…
Barracco: Comunque in effetti c'è un legame fra l'oggetto orale e la questione aggressiva, il sangue viene subito associato, emerge al termine di questo elenco, un po' come una dissolvenza incrociata, come il famoso passo di Dante, del Conte Ugolino "Poscia più che l'onor poté il digiuno", dove, al di là di ogni diatriba interpretativa, quello che è incontrovertibile è che dal racconto patetico degli affetti, si passa nuovamente alla scena aggressiva e sadica, la scena che è paradigma dell'oralità, io penso, della dimensione speculare, in cui il Conte Ugolino addenta il cranio del suo acerrimo nemico. Anche in quella seduta, secondo me, c'è questo passaggio metonimico, lì c'è proprio il nucleo della struttura del sintomo, dell'oralità di questa paziente.
Viganò: Ringrazio tutti, e vi ricordo il prossimo incontro, il 26 marzo.
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