"Se si vuole conoscere un uomo a fondo, bisogna dapprima leggere quello che scrive, poi sorvegliare come si comporta quando mangia e quando gioca, infine bisogna vedere il suo cane. Il cane d'un uomo parla per lui.Se poi vi dirà che non ha cani e magari li detesta, allora lo avrete definito"
(Piero Scanziani, "Mistero dell'uomo e del cane", 1978)
"Se i cani non vanno in paradiso, io voglio andare dove vanno loro"
(Anonimo)
Il cane ama convivere, giocare e lavorare con l'uomo. Per fare ciò, è abituato da migliaia di anni a co-costruire e a condividere con noi un'area interpsichica di base, così come dai primordi delle proprie origini ha cooperato sintonicamente nel branco con i suoi simili.
Solo una parte degli umani, però, sa riconoscere ed utilizzare quest'area comune, rispondendo "sensatamente" alla convocazione esplicita dell'animale e creando situazioni significative di intesa e di rapporto.
Come nei casi, ben più drammatici, relativi all'allevamento dei bambini, anche tra padroni e cani la prevalenza dell'"intrapsichico" umano, rispetto all'apertura all'"interpsichico" condiviso, impedisce che si crei nella coppia qualcosa di godibile e di profondamente sensato, e produce situazioni infruttuose e frustranti per almeno uno dei due.
La proiezione rivela tutto il suo carattere patologico di sostituzione della realtà dell'altro e di soppressione di una possibile realtà intersoggettiva condivisa..
I cani, come è noto, si prestano molto bene a rappresentare il supporto proiettivo di immagini interne degli uomini, sia in positivo che in negativo.
Nel suo testo, Scanziani —che non era uno "psico-qualcosa", ma un grande esperto di cani- propone una interessante carrellata storica delle propensioni di celebri figure del passato verso i cani, con ricostruzioni piuttosto convincenti dei motivi profondi di alcune scelte individuali.
Ricorda, ad esempio, la preferenza di Alessandro Magno per i molossi giganteschi, che appagavano in lui un fantasma di preponderante potenza; e viceversa la passione di Federico il Grande per i piccoli, esili levrieri, (di primo acchito inspiegabile in un re che sfidava i nemici in guerre durate Sette Anni, e che aveva fatto della Prussia una formidabile macchina da guerra), riconducendola acutamente al fatto di essere nato da un padre rozzo e oppressivo, mentre lui, Federico, era stato in gioventù un ragazzo gracile, bisognoso d'espansione e solo; mentre il narcisista Gabriele D'Annunzio esibiva per gli stessi levrieri una predilezione estetizzante più declamata che sentita, nobilizzandoli come "veltri" ma tenendoli di fatto abbastanza fuori dai piedi.
Scrive Scanziani: "Chi troppo ama se stesso, non può amare i cani. Napoleone e Mussolini non ebbero cani. Bonaparte detestò sempre i cagnolini dell'infedele Giuseppina ed essi lo ricambiarono, tanto da inseguirlo e mordergli i calcagni imperiali. (…) Napoleone, indifferente alla morte degli uomini, neppure s'accorse delle imprese dei cani. Pure , una sera, sul campo di Bassano coperto di cadaveri, il tiranno udì l'urlo disperato di un cane accanto al corpo del padrone ucciso. Tanti anni dopo, a S. Elena, il fantasma di quel cane ancora inseguiva l'imperatore prigioniero e infermo, che confessava a Les Cases: "Ho tranquillamente ordinato l'inizio di cento battaglie, ho guardato con occhio impassibile morire migliaia di uomini. Eppure ricordo ancora una sera, a Bassano, quando mi sentii l'animo rimescolato per le grida e il dolore di un cane".
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Il titolo da me scelto ("Il mio cane non conosce Cartesio"), più che una scopiazzatura, è una citazione: si chiamava così il libro pubblicato negli anni ‘60 da Mario Girolami, in cui l'autore, medico, prestigioso clinico cattedratico a Roma e all'epoca presidente della Società Italiana di Gastroenterologia, sulla base delle sue osservazioni circa la vita mentale del suo cane, rigettava risolutamente la distinzione cartesiana tra corpo e anima, tra "res extensa" e "res cogitans", e soprattutto tra psichismo animale e psichismo umano (sostenuta di solito enfatizzando oltremisura presunte differenze qualitative piuttosto che quantitative tra loro e noi).
Significativamente, nel testo è citata più volte la consulenza dell'allora giovanissimo Dr. Giulio Cesare Soavi, psicoanalista romano che sarebbe poi divenuto noto per i suoi studi sulla "fusionalità"; la tesi sostenuta nel libro non era poi così innocente, se si pensa che il Girolami era medico personale di Papa Pacelli, e che il libro gli procurò comunque qualche noia nelle sue frequentazioni vaticane.
In compenso, lo responsabilizzò ai vertici dell'ENPA, l'Ente Nazionale Protezione Animali, di cui fu a lungo il presidente negli anni successivi.
Cito quel libro e quel personaggio per caratterizzare un possibile conflitto ideologico di principio che avrebbe potuto allora — epperò potrebbe ancor oggi — creare delle "zone cieche" nel considerare con spirito sufficientemente libero la relazione di un umano con un animale.
Problemi politico-culturali di questo tipo non erano esistiti invece in casa Freud: chi ha visitato Berggasse 19 e si è soffermato sul video che scorre incessantemente in una stanza, con le immagini dei filmini di famiglia commentati da Anna Freud in occasione del suo storico ritorno a Vienna per il Congresso IPA del 1971, avrà notato che la voce di Anna, sempre profondamente ma compostamente commossa di fronte allo scorrere delle scene di famiglia, si "rompe" in lacrime irrefrenabili quando proprio alla fine del video compaiono i cani di casa.
Li definisce "queste meravigliose creature", e reagisce come se avesse ri-visto dei famigliari; e in effetti era così.
Secondo la testimonianza del suo paziente Smiley Blanton ("La mia analisi con Freud", 1957; Feltrinelli, 1974), Freud, che teneva in sommo conto i suoi cani, pensava che "…il sentimento per i cani è quello stesso che nutriamo per i bambini: è della stessa qualità. Ma sapete in cosa differisce? (…) Non si dà in esso niente di ambivalente, non vi si riscontra alcuna resistenza".
E ancora, in una celebre lettera a Marie Bonaparte, egli fa riferimento —oltre all'assenza di ambivalenza- al fatto che il cane ci dà rappresentazione di una "…semplicità di una vita libera dai conflitti della civiltà così difficili da sopportare, la bellezza di un'esistenza perfetta in se stessa."
Come ha scritto A. M. Accerboni ("Il segno di un'amicizia" in "Topsy. Le ragioni di un amore", 1990), Jo-fi, la chow-chow regalatagli dalla principessa Bonaparte "..era tanto cara a Freud che egli se ne separava malvolentieri, e la teneva presso di sé anche nelle sedute. Lo testimonia il figlio di Freud, Martin, sostenendo che il padre, la cagnetta presente, non aveva mai avuto bisogno di consultare l'orologio per sapere quando era finita l'ora di analisi: "Quando Jo-fi si alzava e sbadigliava, questo era il segno che l'ora era conclusa; essa non si fece mai sorprendere in ritardo dall'annunciare la fine della seduta, benché mio padre sostenesse che era capace di un errore di forse un minuto, a spese del paziente". Evidentemente Jo-fi, come ogni buon cane, parteggiava per il padrone!"
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"Convivenza" e "collaborazione" sono, a mio avviso, le due parole-chiave per intendere la dimensione interpsichica che può accomunare uomo e cane in alcune situazioni.
L'interpsichico (Bolognini, 2004) è per me quella dimensione di convivenza in cui il senso del Sé si estende — per via naturale ed in modo non patologicamente condiviso – ad un altro essere contiguo, con effetti che a volte si propagano reciprocamente anche a livello dell'Io centrale, con acquisto di consapevolezza di quanto si sta svolgendo; ma non sempre e non necessariamente.
Trovo invece utile la definizione di "trans-psichico" ( R. Kaes, 1993; R. Kaes, H. Faimberg, M. Enriquez, J.J. Baranes 1993; R. Losso, 2000; 2003)per designare quei processi patologici in cui l'estensione prevarica i confini dell'altro in modo violento, intrusivo o subdolo, passando per vie anomale e non consensuali, con alterazione ed esproprio della soggettività altrui.
Chiamo in causa l'interpsichico senza alcun riferimento comunque, per come la penso, alla telepatia o a fenomeni paranormali vari, bensì alla condizione di fusionalità primaria fisiologica, benigna e necessaria che tutti riconosciamo legittima e "doverosa" nella coppia madre-bambino piccolo, così funzionale alla crescita e alla trasmissione della vita e delle competenze, fino a che non si è avviata la maturazione che porterà al progressivo distacco.
La capacità/necessità canina di convivere anche psichicamente è originariamente legata, come tutti sanno, alla vita del branco, del gruppo, e alla propensione naturale ad un "lavoro comune" nella caccia e nella difesa del territorio e del patrimonio biologico della loro comunità (la "guardia"); ma è legata anche al gioco, perfettamente congruo al dispositivo naturale
dell'insegnamento/apprendimento: anche i lupi, antenati del nostro cane, hanno un "training" formativo.
Jo-fi e Freud, in quella data situazione, formavano una collaudata "unità operativa" in cui Jo-fi sembrava avere compiti modesti, ma ben definiti: star lì, aver pazienza con gli ospiti, e poi dire "basta", non a caso ma in base ad un protocollo convenuto ed accertato.
Non sappiamo che idea si facesse dei contenuti della seduta, ma possiamo immaginare che in caso di transfert negativo violentemente agito non sarebbe rimasta indifferente, e che avrebbe provveduto —come dire?- a ripristinare il setting.
La contrapposizione tra intra- e interpsichico è uno dei temi ricorrenti della psicoanalisi contemporanea.
Si potrebbe fornire una sfilza infinita di esempi (per lo più abbastanza tragici) di prevalenza dell'intrapsichico umano rispetto alla percezione della realtà psichica altrui: ormai sono abbastanza allenato a riconoscere i segni della delusione e della mortificazione in un cane che non viene minimamente inteso da qualcuno né nei suoi bisogni né nelle sue offerte di gioco, di scambio, di collaborazione o di semplice convivenza.
Ma piuttosto che citare uno fra gli infiniti casi pietosi, voglio richiamarvi una rappresentazione felicemente ironica di questo tipo di sfasatura.
Nel celebre film di Mika Kaurismaeky "L'uomo senza passato", lo smemorato protagonista si trova alle prese con un improbabile personaggio simil-nazi che gli affitta una baracca nei pressi del porto.
Questo padrone di casa, per dare un'idea della propria terribilità ed intimorire l'interlocutore, si presenta vestito in modo para-militare, e reca con sé un cane bardato come un feroce assalitore (chiamato "Ursus" o "Brutus", non ricordo bene).
Egli minaccia il protagonista di aizzarglielo contro in caso di morosità nei pagamenti, ma il cane scodinzolando va a leccare la mano del poveretto, accoccolandosi ai suoi piedi (si saprà poi, dai titoli di coda, che è la cagnetta dello stesso regista, ingaggiata per l'occasione nel cast).
Intrapsichico umano: molto; interpsichico: zero.
Ma voglio ora presentarvi uno strano caso di netta prevalenza dell'intrapsichico canino rispetto allo svolgimento di una relazione interpsichicamente consensuale..
Il Prof. Casolino, grande esperto dell'ENCI, giudice di gara internazionale e scopritore/salvatore ufficiale del cane Corso, mi ha raccontato un episodio curioso.
Alcuni anni fa accompagnava un noto allevatore di cani San Bernardo dal Piemonte a Roma, per un concorso. Durante il viaggio in autostrada si erano fermati ad un autogrill ed avevano fatto scendere dal bagagliaio della station-wagon i due imponenti esemplari da esposizione (un maschio e un femmina), per abbeverarli e per farli sgambare un po' nell'aiuola retrostante.
I due cagnoni avevano fatto i loro regolamentari bisogni, si erano aggirati un po', e poi erano inaspettatamente partiti, all'unisono e di gran carriera, in direzione dell'officina meccanica che era ad una decina di metri.
Di lì a pochi secondi si erano udite grida umane di terrore dall'interno dell'officina, e l'allevatore e Casolino si erano precipitati là dentro per fermare gli animali.
La scena era questa: i due cani avevano afferrato per la tuta, all'altezza delle spalle, un ignaro meccanico che stava armeggiando attorno alla coppa dell'olio di un'auto, sdraiato sotto di essa, e lo avevano estratto a forza da là sotto.
L'uomo, che appariva terrorizzato, si era sentito acchiappare da dietro e aveva visto a pochi centimetri di distanza dal suo volto i due testoni non umani, e a momenti faceva un infarto.
All'arrivo del padrone, i due cani erano apparsi felici e certi di un elogio: essi, infatti, AVEVANO SALVATO UNO SVENTURATO CHE ERA FINITO LA' SOTTO, COME IN CASO DI VALANGA, e dunque sarebbero stati certamente premiati per l'ottimo lavoro svolto, come da secolare tradizione nella collaborazione uomo-cane.
Psicoanaliticamente parlando, i due "salvatori" avevano dunque proceduto in un regime di netta predominanza dell'intrapsichico sovradeterminato; nella percezione interpsichica dell'effettivo terrore altrui, avranno probabilmente ascritto tale vissuto al rischio corso dall'umano sotto alla massa opprimente della vettura, ma per fortuna erano arrivati loro, e quindi il poveretto —grazie al loro intervento- si sarebbe presto tranquillizzato.
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Spostiamoci ora al centro di Bologna, capitale europea del "Punkabbestia".
Centinaia di giovani alternativi si danno appuntamento — e spesso finiscono col risiedere stabilmente- sotto ai portici del centro storico assieme ai loro cani, coi quali formano una unità psichica strutturata, ricca di implicazioni significative.
I Punkabbestia sono un fenomeno giovanile diffuso in Italia, e non mi risulta che esistano altrove in modo così caratterizzato e militante( in Brasile, ad es., esistono i "Pit boys" dotati di regolamentare Pit Bull " di ordinanza", ma sono un fenomeno completamente diverso, sono di estrema destra e il cane è dichiaratamente un'arma).
Quelli nostrani sono ragazzi e ragazze acconciati e vestiti in modo povero/bizzarro, che si allontanano dalla loro casa e dalla loro città avendo come unica compagnia fissa un cane (sono cioè dei Punk con una bestia: Punkabbestia).
Di solito non sono delinquenti, ma vivono in una sorta di mondo parallelo rispetto alla società, pur stazionando per lo più (loro, gli "esclusi/eccentrici"…) nel centro storico delle città.
Fanno largo uso di sostanze; ricevono soldi dalle famiglie; non rubano; rifiutano ogni tipo di impegno e di dipendenza da persone.
Attraverso il piercing e i tatuaggi condensano una rappresentazione complessa delle loro ferite interne non mentalizzate e anzi narcisisticamente investite a scopo difensivo, sulla quale non mi dilungherò.
Fanno gruppo, e i loro cani stanno insieme ma non fanno branco, perché dipendono ognuno dal proprio padrone.
I punkabbestia cercano di sostenere attivamente e narcisisticamente un'idea di se stessi come intenzionalmente "eccentrici", per negare un vissuto originario di de-centramento e di esclusione: schivano la depressione con un sovra-investimento narcisistico di un'immagine autosufficiente idealizzata, e proiettano casomai il Sé bisognoso e dipendente sul cane, che li segue come un'ombra e che in effetti dipende da loro.
Del cane mi sembrano aver cura, ma soprattutto il cane deve svolgere due funzioni di base: 1) rappresentare e confermare un Sé libero e pulsionale, che non si piega alle convenzioni della società e che non deve soffrire l'onta del guinzaglio. 2) impersonare il Sé dipendente, nei confronti del quale tramite il cane- il Punkabbestia mostra una sorta di affettuosa degnazione; il cane rassicura il ragazzo circa il fatto che chi ha paura di restare da solo e di sentirsi abbandonato non è lui.
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Ma torniamo all'interpsichico.
Con tale concetto io intendo qualcosa di molto modesto: niente a che vedere con prodigiose intuizioni o letture del pensiero, e nemmeno con chissà quali commoventi comprensioni del padrone da parte del cane (che pure in qualche raro caso si sono in effetti verificate, in modo del tutto naturale e spiegabile).
Io mi riferisco a quella abituale convivenza dell'essere insieme, frutto molto spesso di abitudine e di reciproca sintonizzazione, che è il prodotto del reciproco investimento e del progressivo entrare dell'uno nel modo di ragionare e di sentire dell'altro, che può realizzarsi tra l'addestratore e l'allievo come tra il pensionato e il suo bastardino, che li conduce non solo a conoscersi molto bene, ma anche a dare per felicemente scontate e accordate un sacco di funzioni che vengono svolte in comune, spesso senza accorgersene. : funzioni percettive, sia rivolte all'esterno ("chi arriva?") sia di segnalazione reciproca ("siamo tranquilli", oppure "siamo allarmati", ecc.).
Mi hanno spesso colpito le espressioni della faccia di cane e padrone durante lo svolgimento di mansioni quotidiane; un classico è quando vanno in macchina, o su un camion , o su un carro, insieme.
Sono stato in campagna per moltissimi anni, durante intere estati, e mi sorprendeva sempre il fatto che tra il padrone alla guida e il cane seduto al suo fianco ci fosse una esemplare identità di espressioni e di intendimenti.
Intanto mi meravigliava che il padrone non mettesse visibilmente in dubbio il fatto che, in barba al codice della strada, il posto ovvio del suo socio fosse lì, sul sedile del passeggero; non certo sul sedile di dietro (mica si era in taxi!), né nel bagagliaio della famigliare, come usano invece, del tutto significativamente, i cacciatori, per i quali il cane è un dispositivo biologico più o meno efficiente finalizzato allo scopo.
Poi, mi meravigliava altrettanto constatare nel cane una analoga certezza del proprio ruolo, e una collaudata condivisione del senso della missione che si stava svolgendo: per lo più consistente nell'andare a prendere o a consegnare frutta o verdura, o materiali da costruzione o altre merci, presumibilmente presso fornitori o magazzini già noti al cane come al padrone, e con la solida certezza della opportunità della presenza di entrambi —cane e padrone- per un buon svolgimento di tutta la manovra operativa.
Fino a che punto giungesse la mentalizzazione dettagliata di tutte queste operazioni non mi era ben chiaro (e ciò sia riguardo al cane come al padrone, che mi sembrava altrettanto organizzato mentalmente sul registro dell'implicito procedurale); notavo però —e, devo ammetterlo, apprezzavo vivamente- una dimensione di sana ovvietà e di risparmio energetico mentale dovuta proprio al fatto che uomo e cane procedevano in evidente accordo, assumendo una direzionalità condivisa ed assumendo, in definitiva, espressioni molto simili.
Non è chi non veda, a questo punto, tutta una serie di coincidenze con la dimensione fusionale che noi psicoanalisti riteniamo essere (soprattutto dalla Mahler in poi) una delle tappe necessarie della co-esistenza formativa tra madre e bambino nello sviluppo dell'essere umano: e sappiamo bene quali rovinose conseguenze possa comportare la mancanza di questa fase fisiologica dell'allevamento, con la ricerca disperata, in fasi successive, degli equivalenti di ciò che è mancato, e con la conseguente incomprensione da parte degli umani del senso di questa ricerca che appare patologica e incongrua se non la si sa intendere correttamente.
Ciò di cui la psicoanalisi si è poco occupata, viceversa, è proprio questa dimensione diffusa dell'interpsichico necessario di base, di cui in realtà i più si approvvigionano in modo molto libero in famiglia o al lavoro, al bar o in altre situazioni quotidiane, "funzionando in sintonia" senza saperlo con gli altri e appagando un "quantum" basale di microfusionalità nella convivenza che giova al Sé, stabilizzandolo, confermandolo, e facendogli spesso risparmiare energie per percepire un senso di esistenza, di unitarietà e di contatto cooperativo nell'esserci con gli altri.
Il cane condivide con noi questi bisogni, ed è lieto di compartecipare della nostra esistenza.
Cartesio, e tutta una lunga serie di Soloni raggruppati sotto varie insegne di credenze e di presunzioni narcisistiche circa l'esistenza nobilitante di un'"anima bella" di elevata spiritualità, non lo considerano nostro parente; ma chi di noi si è realmente messo alla prova in una dimensione di convivenza e di reciproca ricerca di comprensione, non può di solito coltivare a lungo una convinzione di radicale differenza sostanziale.
Si può essere d'accordo, paradossalmente, solo su un punto: i cani non li possiamo realisticamente definire "nostri parenti"; infatti, se ci viviamo insieme accorgendoci davvero del loro modo di essere con noi, la definizione che sentiremo più giusta e più vera sarà un'altra: "nostri famigliari".
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