In questo lavoro cercherò di sviluppare il tema dell’alleanza terapeutica dal punto di vista dello psicopatologo.
Ritengo quindi necessaria una premessa, che possa aiutare a collocare il mio intervento, chiarendovi gli ambiti ambiti e i limiti. Per inciso va sottolineato che l’uso più abituale del termine "psicopatologia" è riferito al contenuto (cioè ai quadri clinici) e non invece al metodo: ma la psicopatologia nacque, con Jaspers, come ricerca comprensiva e non solo come descrizione; la distinzione jaspersiana Verstehen e Erklären, tra comprendere e spiegare, è penso a tutti voi ben nota e sancisce, pur con tutti i limiti che le sono propri, il tentativo di fondare una psichiatria capace di avvicinare anche i pazienti più gravi cercando di operare una donazione di senso a fenomeni, quali il delirio o le allucinazioni, che fino a quel momento storico erano considerate solamente un segno di una malattia cerebrale.
Parlerò della psicopatologia quindi intesa come ricerca di senso basata sulla clinica.
La psicopatologia moderna è nata e si è sviluppata quando la psichiatria non si è limitata a osservare il paziente, ma ha cominciato ad ascoltarlo: compito dello psichiatra non era più solo quello di osservare e descrivere (mantenendo una distanza dai pazienti) ma diventava quello di ascoltare e comprendere, perché, come scrive Scharfetter, "il paziente non ha sintomi, ma vive delle esperienze".
Come ben si può comprendere, siamo di fronte ad un salto dottrinale e metodologico, ad una vera e propria rivoluzione, che di fatto ha profondamente mutato le modalità di incontro con i pazienti psichiatrici, e in particolar modo con gli psicotici.
La psicopatologia cui noi ci riferiamo è prevalentemente quella fenomenologica, nata agli inizi del '900 con gli scritti di Jaspers, che per primo operò una sistematizzazione del metodo psicopatologico; il grande merito di Jaspers, come ha scritto Eugenio Borgna, è quello di "aver introdotto la categoria della soggettività e dell'intersoggettività: egli ha posto l'area dei vissuti dei pazienti come oggetto tematico per la psichiatria e anche come sorgente per le conoscenze, le acquisizioni e la formulazione della diagnosi psichiatrica. II limite della fenomenologia jaspersiana è quello di aver ritenuto che tutto ciò che, dell'esperienza del paziente, poteva essere rivissuto dal medico, fosse una realtà psicologica comprensibile ed afferrabile con categorie ermeneutiche, mentre tutto ciò che non poteva essere comprensibile cessava di essere una esperienza psichica, cessando pertanto di essere oggetto di interpretazione".
Va peraltro sottolineato che i concetti jaspersiani di incomprensibile-inderivabile non si riferiscono tanto al contenuto del delirio, quanto alla sua struttura ultima. Jaspers afferma infatti: "E’ impossibile comprendere un vero delirio nella sua genesi. Dalla disposizione, dall’ambiente e dall’esperienza vissuta si può comprendere il contenuto del delirio, ma il carattere delirante della esperienza vissuta resta l’elemento nuovo specifico, che deve inserirsi in un preciso momento della vita. Il meccanismo paranoico è incomprensibile".
Negli anni successivi Binswanger, Minkowski e K. Schneider – per non citare che loro – saranno artefici di un superamento di queste posizioni jaspersiane; nella loro ricerca, la Sinngebung (donazione di senso) è stata al centro dei loro studi; essi sono stati capaci di scrivere pagine ancor oggi attualissime e permeate di un profondo rispetto verso l'esperienza dell'altro, anche quando questa esperienza denota una grave rottura con la Koiné.
La psicopatologia fenomenologica ha avuto, ed ha, in Italia, illustri e conosciutissimi (anche all'estero) rappresentanti: B. Callieri, D. Cargnello, E. Borgna, A. Ballerini, L. Calvi, F. Barison, G. Gozzetti e molti altri ancora, che cono stati capaci di conservare e di sviluppare negli anni un insegnamento continuo, una ricerca puntigliosa, che permette oggi ai più giovani di raccogliere questo prezioso lavoro, utilizzandolo veramente nella prassi quotidiana.
Sottolineo questo ultimo punto in modo particolare, perché da sempre la psicopatologia fenomenologica è stata vista come un sapere riservato a pochi, assolutamente estranea ad ogni coinvolgimento nella pratica dei Servizi, quasi che essa rappresentasse solamente un momento estetico, di assoluto isolamento e di rifiuto di ogni coinvolgimento con il fare.
I lavori che questi autori (prima citati) hanno scritto nel corso degli ultimi decenni testimoniano il contrario: la tenacia nell'ascoltare le esperienze soggettive, nel cercare di comprenderne il senso è stato ben definito da Ballerini "il punto zero", ma anche il punto di partenza di ogni approccio tendenzialmente fenomenologico, che ogni servizio che funzioni realizza nella prassi quotidiana, mettendo tra parentesi ogni pretesa esplicativa, ogni "teoresi assolutizzante".
In questo senso, allora, la psicopatologia fenomenologica diviene veramente un metodo di esplorazione dell’incontro con il paziente, partendo, come è ovvio, dalla sua osservazione, ma estendendosi progressivamente all'ascolto di quanto egli riesce a comunicare all'interno di un rapporto basato costantemente su un profondo rispetto per l'altro e capace di sospendere, anche per lungo tempo, ogni pretesa esplicativa, in modo da permettere che la soggettività del paziente non sia coartata né da diagnosi frettolose, né da terapie indirizzate esclusivamente sul sintomo (o, meglio, sul silenziamento del sintomo).
Scrive Giovanni Gozzetti: "Ascoltare, sentire e descrivere in collaborazione con il malato, cercare di cogliere un senso seppur provvisorio da comportamenti che, a prima vista, possono sembrare assurdi, questo è lo scopo della psicopatologia o, se si vuole, dell'ermeneutica psicopatologica, col suo faticoso perseguire il cammino della comprensione, tornando e ritornando come in un cerchio su di un tema, riprendendo ogni volta, con ulteriori possibilità di intravedere sempre di più.
Si tratta di un esercizio faticoso: non bisogna credere che si possa ricorrere alla scorciatoia di un cogliere immediato, con una penetrazione, quasi a colpi di fioretto; ………..nell'approccio psicopatologico, che mira ad un continuo comprendere non esaustivo, va fatto uno sforzo metodologico per evitare ogni illusione di raggiungere una conoscenza completa. ……..….La psicopatologia gira attorno al suo oggetto, cercando di coglierne il significato e quindi più con l'ascolto che con lo sguardo, sapendo in anticipo che mai arriverà ad una conoscenza totale".
La psicopatologia fenomenologica, scrive Ballerini (1998), ritiene che i fenomeni che osserva e che lascia comparire nel rapporto, a partire dall'interno esperire delle persone, siano, prima che "sintomi" diagnosticamente utili, "segnali" che rinviano ad aspetti essenziali di particolari modi di essere, sottesi invero da particolari modelli di funzionamento della mente. E proprio per questo possono anche costituire il presupposto di sintomi nella clinica. È la peculiare, privilegiata attenzione alle esperienze interne che forse può fare della psicopatologia fenomenologica una sorta di lingua comune, di koiné, della psichiatria nelle sue diverse declinazioni. Come psicopatologi dobbiamo ricercare modi e concetti generali, ma con il limite di sapere che in essi non potrà mai risolversi il singolo individuo. Siamo quindi di continuo esposti, a questo virtuosismo che in una sorta di gioco figura-sfondo ci fa ora intuire o sentire o capire la singolarità e assieme l’inafferabile totalità dell'altro, e nel contempo ci permette di definire e concettualmente afferrare i modi patologici dell’esperire.
Come ha scritto non molti anni fa. J. S. Strauss (1989): "ci sono molte cose che i pazienti stanno tentando di dirci sulla loro esperienza soggettiva e che sistematicamente non riusciamo ad ascoltare".
L'atteggiamento fenomenologico quindi ci fa innanzi tutto conoscere una serie di frammenti della vita psichica realmente vissuta e, se questa disarticolazione è una prima necessità conoscitiva, la psicopatologia non si esaurisce certo in un catalogo di modi di esperire discretamente tipici, in una sorta di pietrificazione dell'esistenza psichica. Il lavoro dello psicopatologo comincia quando, usando di sé come dell'unico strumento possibile, si confronta con tali frammenti esperienziali e tenta di comprenderli, non solo in senso statico ma nella loro articolazione genetica, immergendosi per far ciò nei modi di essere, nel mondo dei valori, nella dimensione socio-culturale della persona sulla quale riflette. È teso cioè alla ricerca non solo di "significati", quanto a quella di "percorsi di senso", anche se la comprensione che può raggiungere sarà spesso simile a quella di una metafora o di un proverbio. (Ballerini, 1998)
Ci possiamo chiedere ora, come situare in questa cornice, il tema dell’alleanza terapeutica.
Senza dubbio questo concetto è stato più sviluppato dalla psicoanalisi; nella prassi psichiatrica dei servizi spesso ci si pone il problema dell’alleanza terapeutica come lontano obiettivo da raggiungere, in quanto i servizi di psichiatria si occupano, per una parte importante del loro lavoro, di pazienti che disconoscono il bisogno di cura: l’attività principale degli operatori essendo quella di arrivare ad una pur minima interiorizzazione del bisogno di cura da parte del paziente.
La psicopatologia fenomenologica può avere un ruolo nel favorire questa processo? A mio avviso sì, ed essa costituisce probabilmente una condizione qua non per la comprensione e l’avvio di un lavoro terapeutico con i pazienti più gravi.
Di questi ultimi vorrei occuparmi, cercando di arricchire e motivare le mie affermazioni.
Come magistralmente ha scritto Cargnello (1980) " tutta la ambiguità della psichiatria, nel suo incerto porsi come scienza, è che essa costringe chi la esercita ad oscillare tra un "essere — con qualcuno" e un " avere — qualcosa – di — fronte".
Evidentemente nessuno di questi due poli può prevalere senza dar luogo ad una psichiatria impoverita, dei suoi aspetti medici (diagnosi e terapia) nel primo caso, dei suoi aspetti più capaci di cogliere il nucleo intersoggettivo, nel secondo.
Tale ambiguità diviene ancora più evidente quando la psichiatria incontra un paziente psicotico, che non chiede una cura, ma si presenta con una distorsione della intersoggettività che si intriseca in fenomeni quali il delirio, le allucinazioni, l’autismo etc.
La psicopatologia ci insegna a non avere fretta nello spiegare il contenuto (il cosa) di queste esperienze psicopatologiche, ma lasciare il tempo per la comprensione del come, permettendo in tutti modi alla presenza (al Dasein) del malato di esprimersi: "l’essere con qualcuno" deve costituire una esperienza condivisa con il paziente, che, gravemente delirante o allucinato, pur tuttavia conserva sempre la capacità di sentire quale tipo di incontro gli viene proposto dallo psichiatra.
Noi usiamo il termine "incontro" quando parliamo dei nostri simili (di altri noi) con cui condividiamo tempi e spazi diversi; non potrei usare questo termine (incontro) se parlassi di oggetti (non si dice: ho incontrato una sedia, ho incontrato un pallone, posso dire lo ho sbattuto contro una sedia, ho trovato o mi sono imbattuto in un pallone etc. etc.): l’incontro presuppone un fondamento, che è quello empatico, intenso in senso fenomenologico.
Il primo studioso a occuparsi di empatia nell’ambito della fenomenologia fu E. Stein, giovane allieva di Husserl, che su questo tema lavorò tra il 1913 e il 1916 per la sua dissertazione di laurea.
Mentre io mi vivo, scrive la Stein, posso soltanto ri-vivere l’esperienza vissuta (Erlebnis) dell’altro: è questo rivivere che caratterizza l’empatia.
L’empatia è precisamente il modo di presenza di un altro soggetto (De Monticelli, 1998).
La Stein assume come oggetto di indagine l’empatia come fonte di conoscenza dell’esperienza vissuta da soggetti estranei.
Da questo punto di vista quindi l’atto empatico costituirebbe una trama di supporto senza la quale l’atto dell’incontrarsi diverrebbe piuttosto atto dell’imbattersi.
L’incontro con un paziente quindi, per dirla con Barison (1990), è un evento che "accomuna un esame clinico vero e proprio e un primo atto psicoterapeutico".
La psicopatologia fenomenologica si è molto soffermata sullo studio delle fasi iniziali di incontro con il paziente alla ricerca di quelli che, con felice espressione, Stanghellini (1994) ha chiamato "organizzatori psicopatologici", che raccordano la congerie delle esperienze interne in costrutti teoretici in cui attrattori o organizzatori sono le strutture di senso di tali esperienze".
Successivamente l’apertura ermeneutica (di cui Barison è stato illuminante esempio) ha portato psicopatologia fenomenologica nella direzione della "comprensione- interpretazione-costruzione" delle trame infinite e infinitamente divelte e lacerate che divaricano e fondano la storicità dell’individuo (Di Petta, 1985) all’interno del suo contesto storico e personale. In questo senso sono possibili, e auspicabili, i momenti di incontro con la psicoanalisi che, a differenza della psicopatologia, non è solo un metodo di studio delle esperienze coscienziali (degli Erlebnisse), ma è anche una teoria della mente, che ha nel concetto di inconscio il punto basilare della sua architettura.
La impostazione fenomenologica ed antropologica dell’incontro con il paziente può far emergere i fondamenti dell’atteggiamento psicoterapeutico: "la sfera empatica dialogica dell’afferramento eidetico, la disposizione a incontrare l’altro anche nell’apparente estraneità delle sue strutture costitutive, secondo i modi propri all’incontro Io-Tu e all’illimitata apertura alla significanza dei processi simbolici e rappresentativi, costituiscono i momenti fondativi di tutte le psicoterapie non comportamentali.
Non c’è dubbio che, a fronte dell’inaridimento generale dei momenti dialogico- comprensivi nel campo clinico—diagnostico, gli psicopatologi ad orientamento fenomenologico, con la loro attenzione ai movimenti percettivo-empatici", (Callieri) e con la attitudine ad un ascolto compartecipato e non frettoloso di concludere siano disposti ad affrontare poi, in un secondo momento, una vera e propria psicoterapia, che sarà però potata avanti con l’aiuto anche di altre conoscenze.
Io penso che sia estremamente feconda l’unione di fenomenologia e psicoanalisi, o meglio, nella pratica, di metodo psicopatologico a orientamento fenomenologico e psicoterapia psicoanalitica: non vi è opposizione ma, a mio avviso, costruttiva coesistenza, necessaria per creare le basi di una relazione terapeutica, e quindi della alleanza terapeutica così come oggi viene comunemente intesa.
Ma pensiamoci un attimo: come lavoriamo noi con i pazienti psicotici? Quali possono essere le strategie che possono permetterci di cogliere, prima dei contenuti, le modalità che strutturano la presenza del malato? (In altre parole il Dasein, che significa essere nel mondo e quindi obbliga a cogliere le alterazioni del modo di essere dell’Io nel mondo in termini di temporalità, spazialità, corporeità).
Pensiamo ad un paziente in fase in fase iniziale di psicosi: non delira né esterna fatti dispercettivi, ciò che si coglie di lui è uno sguardo teso, interrogante il mondo ,ma nel contempo spaurito, angosciato: spesso tale stato che noi definiamo perplessità si unisce inestricabilmente alla W.S.: predomina una diffusa angoscia paranoide senza oggetto definito, tutto il mondo sembra avere significati diversi e cangianti: l’orologio della stazione ferroviaria segnala ad una paziente che la sua ora sta per arrivare, per un’altra l’imbattersi nel suo camminare in una corriera ferma le indica la necessità di salirvi per un viaggio destinato a lei: perplessità, W.S. percezioni deliranti etc. costituiscono essenzialmente, una profonda alterazione del rapporto intersoggettivo, che deve esser colto e compreso primo di ogni atto interpretativo.
O ancora, l’analisi della centralità, cioè del vissuto tipico dell’ingresso in psicosi, centralità che costituisce in modo specifico di essere-nel-mondo come certezza non controvertibile di essere al centro della totalità degli uomini e dunque al centro del mondo, si rivela necessaria in quanto comprensione di un vissuto di cui si deve parlare al paziente, non interpretando, ma usando il linguaggio piano di chi narra e "mette in parole un vissuto altrimenti indicibile, così da non dare dei significati proprio sull’istante ad una esperienza che appare al paziente come non troppo piena di senso e allo psichiatra, troppo spesso, come una perdita di senso".(Sirere e Naudin, 1999)
O ancora, di fronte ad uno stupor melanconico, in cui l’arresto della temporalità si segnala all’esterno attraverso il blocco del movimento di un corpo quasi meccanico, ma è presente nel paziente solo come idea di morte, con incapacità di usare il linguaggio per comunicare l’angoscia totale della fine che si sente incombente, con la disperazione per la colpa che attanaglia e non lascia respiro, con il senso di indegnità che tutto avvolge, riducendo la lunghezza della vita, con tutte le sue pienezze relazionali, ad un piccolo segmento che però si allarga a dismisura coprendo il passato, bloccando il futuro, manifestando al mondo la inutilità colpevole del presente: di fronte a questi pazienti solo le conoscenze psicopatologiche permettono di parlare, di prendere in qualche modo il posto del paziente, fare da io narrante ausiliario, per comunicare al paziente che noi stiamo tentando di percepire cosa prova lui, e sappiamo dalla nostra esperienza di poterlo aiutare mandandogli dei frammenti, dei fili esili ma pur sempre utili per costruire un legame : è solo da questa condivisione che può nascere una alleanza terapeutica con pazienti che vivono una grave frattura intersoggettiva.
In altre parole prima di prendere in considerazione i contenuti devono essere valutate le modalità attraverso le quali la corporeità, la temporalità, la spazialità si rivelano all’interno dell’incontro tra paziente e terapeuta : esse non costituiscono solo una cornice, ma illuminano con insostituibile capacità il senso che i fenomeni (non solo i sintomi) da noi osservabili assumono nella biografia interiore del paziente, "Il sintomo è sempre tale soltanto in relazione con l’altro … è qui che emerge, a pieni contorni e con grande pregnanza noetica, la storicità del sintomo, il suo essere senso nella vicenda esistenziale (mai astorica) e, insieme la sua irrepetibile singolarità.
Prima dell’incontro clinico il sintomo, in certo qual modo, non ha senso. La sua storia si crea nella misura in cui esso viene espresso e colto". (Callieri, 1996)
Il metodo psicopatologico quindi può permetterci di non assolutizzare il sintomo, ricollocandolo all’interno di una alleanza terapeutica che non si lascia bloccare dalla radicalizzazione del bisogno di comprensibilità e nello stesso tempo non si illude di possedere nella capacità di immedisimazione la chiave di volta per accedere al nucleo dei vissuti psicotici.
In questa ottica la psicopatologia è "l’unica base valida dei differenti trattamenti psichiatrici, siano essi farmacologici o psicologici". (kuhn,1991).
Forse non segnaliamo a sufficienza ai nostri colleghi più giovani quanto importanti siano queste parole che Kuhn, un grande psicofarmacologo (inventore della imipramina), allievo di Binswanger, formula per chiarire l’assudità di chi pretende la compliance dei paziente rispetto a delle prescrizione mirate sul sintomo, che non tengono in considerazione alcuna gli organizzatori psicopatologici, privilegiando in assoluto i singoli sintomi o criteri, sulla base della cui presenza si fondano contemporaneamente la certezza della diagnosi e la ineluttabile conseguente terapia, cosicché spesso la parte è scambiata per il tutto e poco o nulla in verità, al termine del colloquio, viene colto del mondo interno del paziente.
Tali considerazioni valgono tout-court anche per la valutazione in merito ad un trattamento psicoterapico, che, comunque e in ogni caso, necessita di una comprensione del paziente non limitata alla superficie, ma di ciò che viene colto con l’ascolto attento e non con uno sguardo frettoloso e con una focalizzazione centrata solo nella raccolta di sintomi e/o comportamenti anomali.
Proprio perché evita di lasciarsi intrappolare nella illusoria certezza del categoriale, lo psicopatologo ha la consapevolezza di essere sempre quell’"eterno debuttante" di cui parla Husserl, perché sa che ogni paziente è unico e irrepetibile, ma che, nel contempo egli deve sforzarsi di operare per ritrovare, nei vissuti del singolo, tracce a fili comuni, in questo senso operando empaticamente, dando a questo termine il significato prima ricordato parlando di E. Stein (empatia come ponte senza conoscenza dell’esperienza vissuta da soggetti estranei).
È questa la alleanza terapeutica?
Se con questo termine intendiamo "lo specifico rapporto collaborativo che si stabilisce tra un paziente e un terapeuta" (Lingiadi, 2002) dobbiamo ammettere, che altri passi vanno compiuti, in quanto questa definizione di alleanza terapeutica presuppone la condivisione di un setting e di una modalità di lavoro, cosa non sempre possibile con i paziente psicotici; peraltro questi pazienti richiedono, per poter essere accolti e quindi perché si possa instaurare una alleanza terapeutica, che il terapeuta si muova fin dall’inizio avendo questo obiettivo nella sua mente, anche di fronte ai pazienti ai pazienti psicotici più frammentari.
Lo psicopatologo orientato fenomenologicamente non cercherà di sanare subito e a tutti i costi ciò che si trova di fronte, ma si preoccuperà, prima, di comprendere chi si trova in quel momento con lui: in altre parole non farà una psichiatria basata solo sui sintomi e criteri, ma una psichiatria di ascolto e curiosità.
Ribadisco che spesso sembra a me che sia un po’ sopita questa capacità di attendere per lasciare che la discussione dell’incontro sedimenti dentro di noi e faccia nascere qualche vissuto che è proprio risultato di quell’incontro e non esisteva prima.
I fenomenologi, con un termine difficile, parlano di epochè, di sospensione del giudizio, una operazione mentale attraverso cui viene messo tra parentesi ogni pregiudizio (non ogni presupposto!) circa la realtà che lo psicopatologo si trova ad affrontare; in questo senso egli è un "eterno debuttante", perché tenta, attraverso l’epochè "di non costruire giudizi sul mondo prima di aver posto la interrogazione sul senso.
L’epochè non è un distacco dalla realtà, in quanto non si può rinunciare all’atteggiamento naturale, perché la confidenza col mondo è il terreno della nostra esperienza; si può però tornare riflessivamente su quell’atteggiamento e metodologicamente neutralizzarlo per conseguire una evidenza di senso che non è fine a se stesso, ma apre nuove vie di conoscenze.
…..l’esercizio dell’epochè si acquisisce attraverso una disciplina costante e difficile". (Armezzani, 1998) e come Husserl specificherà (Husserl, 1961) l’"atteggiamento fenomenologico e la epochè che gli inerisce sono destinati a produrre inanzittutto una completa trasformazione personale".
Sono sicuro che molti di voi sentendo queste riflessioni sull’epochè hanno ricordato concetti più moderni e di tutt’altra scuola; quando Bion parla di un analista senza memoria né desiderio si avvicina molto, nell’essenza, al concetto di epochè; ma sentiamo le sue parole:
"Mi ci è voluto molto tempo per convincermi che era necessario spogliarmi di memoria e di desiderio e più ancora ce ne volle per cogliere il vizioso effetto che ha sull’osservazione il bisogno di capire a tutti i costi.
Tale bisogno è un particolare esempio di intrusione (…). Man mano che divenni più capace di far tacere i miei pregiudizi, mi accorsi che riuscivo a cogliere l’evidenza che c'era, piuttosto che lamentarmi dell'evidenza che non c'era. Quando le mie orecchie divennero più abituate al silenzio, piccoli suoni divennero più facili da udire. Mi ricordai di un'analogia che Freud usò, quando scrisse che doveva artificialmente accecarsi per poter dirigere il più debole barlume di luce in una situazione molto oscura.
Imparai a considerare l'importanza del silenzio per ascoltare i più "deboli suoni". Ciò funzionò. E cominciai ad ascoltare suoni che un tempo non sarebbero stati avvertiti" (Bion, 1981, pp. 55, 65).
Così, alla fine di questo lungo discorso, abbiamo gettato il nostro sguardo su aree che fanno avvicinare discipline diverse, ma accomunate da un genuino interesse per l’uomo, nel tentativo di ricordare con le parole di L. Binswanger che "il fondamento e il terreno su cui la psichiatria come scienza autonoma può radicarsi non è né l’anatomia e la fisiologia del cervello, né la biologia, né la psicologia, la caratterologia e tipologia in genere, né ancora la scienza della persona, ma l’uomo.
A questa parola dal suono in apparenza semplice, ancor oggi non si presta ascolto.
… Noi non comprendiamo nulla della follia finché ci comportiamo di fronte al folle come soggetti disinteressati o, che è lo stesso, consideriamo il folle semplicemente come oggetto". (Binswanger, 1992).
Qualsiasi discorso sull’alleanza terapeutica non può che partire da qui, da questa presa di coscienza profonda di come la psichiatria che noi pratichiamo si pone verso l’uomo malato di mente; non c’è alleanza terapeutica alcuna, a mio avviso, se prevale un pensiero riduzionistico, che tenga conto solo dell’aspetto biologico e neghi all’uomo la sua storicità.
Il termine "alleanza" ha il senso di impegno o di patto stipulato con una persona o una collettività: un uomo si impegna con un uomo, di cui riconosce, empaticamente, l’alterità, (non l’alienità), nel tentativo di costruire momenti di comprensione condivisa all’interno della storicità e dei molteplici significati che la relazione terapeutica innesca.
Come scrivono Callieri e Maldonato (1998): "sapersi mantenere con l’altro e non meramente di fronte all'altro, anche se delirante, significa cercare di scorgere l’uomo (cioè un "ordine") anche là dove, forse con posizione meno impegnata, si scorgerebbe soltanto un disturbo mentale o del cervello, cioè un "dis-ordine". È forse, questa della dimensione interpersonale, la vera "rivoluzione copernicana" della psichiatria".
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