Riassunto: In questo lavoro è discusso il PDM (Psychodynamic Diagnostic Manual). E’ un tentativo di classificazione e di diagnosi secondo dimensioni psicologiche e psicodinamiche messo a punto dall’International Psychoanalytical Association, dall’American Psychoanalytic Association, dalla Division of Psychoanalysis (39) of the American Psychological Association, dall’American Academy of Psychoanalysis e dal National Membership Committee on Psychoanalysis in Clinical Social Work.
Scopo di questo lavoro è la presentazione di questo Manuale e dei relativi punti di vista al pubblico italiano di psichiatri e psicologi, insieme ad alcuni commenti che gli autori hanno cercato di mantenere il più possibile obiettivi.
Summary: In this paper PDM (Psychodynamic Diagnostic Manual) is discussed. This is an attempt of classification and diagnosis according to the psychological and psychodynamic dimensions, set by the International Psychoanalytical Association, the American Psychoanalytic Association, the Division of Psychoanalysis (39) of the American Psychological Association, the American Academy of Psychoanalysis, and the National Membership Committee on Psychoanalysis in Clinical Social Work.
The aim of this paper is to present this Manual and the relative standpoints to an Italian public of psychiatrists and psychologists, together with some comments, that the authors have tried to maintain as objective as possible.
Introduzione
Da alcuni mesi è disponibile un nuovo manuale di classificazione dei disturbi psichici.
Nato dallo sforzo di collaborazione delle più autorevoli associazioni psicoanalitiche (l’International Psychoanalytical Association, l’American Psychoanalytic Association, la Division of Psychoanalysis (39) of the American Psychological Association, l’American Academy of Psychoanalysis e il National Membership Committee on Psychoanalysis in Clinical Social Work), il PDM (Psychodynamic Diagnostic Manual) è il tentativo più recente di comprendere e classificare i disturbi psicopatologici.
Il suo acronimo richiama facilmente, per consonanza, il DSM.
La pubblicazione del DSM suscitò tenaci resistenze e viva opposizione da parte di alcuni psichiatri e di molti psicologi di formazione psicoanalitica che ritennero che un sistema di classificazione ateoretico e così rigorosamente fondato su criteri descrittivi potesse ostacolare la comprensione profonda del paziente e compromettere la messa a punto di un piano di trattamento individualizzato.
I segni ed i sintomi presentati dal paziente potevano rischiare di perdere il loro valore comunicativo e il loro spessore simbolico se ridotti ad item diagnostici da sommare tra loro per accertare la presenza o l’assenza del disturbo, in base ad un cut-off convenzionalmente stabilito.
Nello stesso tempo, l’esigenza di disporre di un sistema di classificazione largamente condivisibile si imponeva anche al fine di migliorare la comunicazione e l’attendibilità diagnostica tra clinici, condizione necessaria e imprescindibile per l’avanzare della ricerca scientifica.
Gli psicoanalisti, in prevalenza, ritenevano di astenersi dalla ricerca se questa comportava un approccio nomotetico che appariva largamente incompatibile con i loro presupposti epistemologici, mentre continuavano a considerare possibile il progredire della conoscenza psicoanalitica attraverso la tradizionale metodologia di ricerca basata sullo studio approfondito del caso singolo che non richiedeva certo nuovi modelli nosografici.
Negli ultimi quindici anni il movimento psicoanalitico internazionale, talora rappresentato come sterile ed improduttivo, talora impoverito dal bisogno soverchiante di aderire ad un modello evidence-based, appare soprattutto pervaso dal timore angoscioso di morire.
Recentemente, Haideè Faimberg (2006) affermò, forse ottimisticamente, che non stiamo assistendo alla crisi della psicoanalisi bensì alla crisi degli psicoanalisti.
Il movimento psicoanalitico appare diviso tra chi sostiene la necessità di fornire alla psicoanalisi il sostegno dell’evidenza empirica e chi ritiene di mantenerne l’assetto scientifico tradizionale.
Il PDM nasce ad opera di quegli psicoanalisti che affermano l’opportunità e, ancor più, l’attuale imprescindibilità del sostegno della ricerca empirica per permettere la sopravvivenza e l’evoluzione della psicoanalisi.
La tensione verso la ricerca empirica comporta considerevoli investimenti tesi ad operare tentativi di operazionalizzare i costrutti psicoanalitici classici e di mettere a punto strumenti di classificazione dei disturbi psichici e di valutazione degli esiti e del processo terapeutico psicoanalitico.
La proposta del PDM si colloca in questo ambito teorico e di ricerca e rappresenta un tentativo di classificazione delle condizioni psicopatologiche che non si oppone al DSM ma che si offre come possibile complemento.
In questo nostro lavoro desideriamo proporne una presentazione critica, limitandoci alla discussione della parte relativa alla psicopatologia dell’adulto.
Obiettivi generali del PDM
Il PDM è definito dai suoi Autori una struttura diagnostica che cerca di considerare il funzionamento globale di un individuo, considerandone i pattern emozionali, cognitivi e sociali nella profondità così come nella superficie, enfatizzando sia le variazioni individuali sia gli aspetti comuni.
Lo scopo del PDM è, secondo i suoi Autori, quello di integrare gli sforzi del DSM e dell’ICD degli ultimi 30 anni.
Basato sugli studi contemporanei delle neuroscienze, sulle ricerche relative agli esiti del trattamento e su altre ricerche empiriche volte all’operazionalizzazione di costrutti psicoanalitici e alla loro misurazione, è corredato dalla presentazione delle ricerche condotte da psicoanalisti, tra i più autorevoli nell’odierno panorama psicoanalitico.
L’introduzione e la presentazione del PDM vertono principalmente sull’evidenziazione dei limiti degli attuali sistemi diagnostici DSM e ICD.
Gli Autori sostengono che, mentre il DSM è una tassonomia delle malattie o dei disturbi delle funzioni, il PDM vuole essere una tassonomia delle persone. La nosologia del PDM, esplicitamente inserita all’interno della cornice teorica psicoanalitica, intenderebbe , quindi, focalizzarsi sulla profondità del funzionamento mentale umano con l’intenzione di dare significato all’espressione psicopatologica.
Gli autori ne descrivono lo scopo centrale sottolineando l’obiettivo di una formulazione del caso individualizzata e di una pianificazione del trattamento per una terapia psicoanalitica o per altre terapie che si prefiggono di considerare la profondità del funzionamento umano cognitivo, emozionale e comportamentale.
Nell’opinione dei suoi Autori, un sistema di classificazione costruito su questi presupposti potrebbe anche avere l’effetto secondario di diminuire il ricorso ai trattamenti focalizzati sui sintomi ed i comportamenti, trattamenti che si sono rivelati in gran parte inefficaci (Western, Novotny e Thompson-Brenner (2004).
La struttura diagnostica formulata dal PDM intende descrivere sia il funzionamento sano della personalità sia il funzionamento disturbato con attenzione ai profili individuali del funzionamento mentale (inclusi i pattern di relazione interpersonale, di comprensione e di espressione dei sentimenti, di affrontare lo stress e l’angoscia, di osservare le proprie emozioni e i propri comportamenti, di formazione dei giudizi morali) e ai pattern sintomatici (incluse le differenze nell’esperienza soggettiva individuale della sintomatologia).
Gli Autori del PDM sottolineano che una classificazione utile dei disturbi della salute mentale deve iniziare con la comprensione dei processi mentali sani e che la salute mentale non può essere definita semplicemente come l’assenza di sintomi. Inoltre, ogni tentativo di descrivere e di classificare i disturbi della salute mentale dovrebbe prendere in considerazione le limitazioni o i deficit in molte differenti capacità mentali, includendo quelle che non sono necessariamente fonte di evidente sofferenza.
A questo proposito, gli Autori confrontano, a titolo di esempio, il disturbo di attacco di panico e l’incapacità di rispondere adeguatamente ai segnali emozionali degli altri. Per quanto spaventoso un attacco di panico possa essere, l’incapacità di percepire e di rispondere adeguatamente ai segnali emozionali degli altri, pur essendo un problema meno apertamente evidente, potrebbe costituire una difficoltà più seria e cronicamente invalidante nella vita di una persona.
La tendenza degli ultimi 30 anni di focalizzarsi su cluster di sintomi anche allo scopo di sviluppare un’adeguata base empirica per la diagnosi, per il trattamento e per la valutazione dell’esito, secondo gli Autori del PDM, avrebbe progressivamente ridotto la prospettiva di osservazione e di studio, senza peraltro portare i risultati sperati nei termini di attendibilità e di validità:
"Ironicamente, i risultati che emergono dalla ricerca empirica indicano che il fenomeno di ipersemplificazione della salute mentale allo scopo di conseguire la concordanza della descrizione (attendibilità) e la capacità di valutare empiricamente i trattamenti (validità) può aver compromesso lo scopo lodevole di una comprensione più scientificamente solida della salute mentale e della psicopatologia. Più problematicamente, i dati di attendibilità e di validità per molti disturbi non sono così forti quanto la comunità della salute mentale aveva sperato che potessero essere.(Herzig e Licht, pag. 663). Allen Frances, chair della DSM-IV American Psychiatric Association Task Force, recentemente ha riconosciuto che l’attendibilità desiderata, soprattutto tra clinici, non è stata ottenuta (Spiegel, 2005)". (op. cit. pag. 3).
Ancora, gli Autori del PDM sostengono che questi sistemi, utilizzando definizioni fisse e criteri rigidi, forzano una separazione artificiale di condizioni che sono frequentemente collegate. Di conseguenza, sintomi che possono essere eziologicamente, fenomenologicamente o contestualmente interconnessi sono descritti come condizioni di comorbilità, come se disturbi discreti coesistessero più o meno accidentalmente nella stessa persona e disturbi diversi sono diagnosticati senza tenere conto di quanto possano avere o non avere in comune aspetti genetici, biochimici e neuropsicologici.
"I criteri di cut-off per la diagnosi sono spesso decisioni arbitrarie assunte dalle commissioni di studio piuttosto che conclusioni tratte da una migliore evidenza più scientifica…Adesso è l’ora di osservare rigorosamente i fenomeni con cui regolarmente gli operatori della salute mentale hanno a che fare e di adattare i metodi ai fenomeni piuttosto che viceversa…Il campo delle neuroscienze che avanza rapidamente, inclusi gli studi genetici, può essere utile solamente quanto la nostra comprensione dei pattern di base della salute mentale e della patologia. Non possiamo aspettarci che siano i genetisti a separare le mele dalle arance per noi. Se non siamo noi a separarle adeguatamente, continueremo a rendere vana la ricerca dei percorsi biologici sottostanti biologici e delle etiologie comuni" (op. cit. pag. 4-5).
Dopo aver sottolineato ampiamente i limiti dei sistemi di classificazione basati su criteri descrittivi, gli Autori si rivolgono alla considerazione dei limiti diagnostici degli approcci psicoanalitici.
In particolare, evidenziano che la precisione diagnostica e l’utilità degli approcci psicodinamici è stata compromessa da almeno due problemi: 1)le spiegazioni psicoanalitiche dei processi mentali sono state espresse in teorie e metafore spesso in competizione tra loro che hanno, a volte, ispirato più disaccordo e controversie che consenso, 2) è stato difficile distinguere tra costrutti speculativi da un lato e dall’altro fenomeni che possono essere osservati o ragionevolmente inferiti.
Secondo gli autori del PDM, laddove la tradizione della psichiatria descrittiva ha avuto una tendenza a moltiplicare le categorie di disturbi, la tradizione psicoanalitica ha teso a moltiplicare costrutti teorici.
Negli anni recenti, alcuni cambiamenti significativi hanno caratterizzato il movimento psicoanalitico internazionale e, tra questi cambiamenti, due sembrano rilevanti in questo contesto: da un lato il diffondersi tra gli psicoanalisti dell’impegno rivolto alla ricerca e dall’altro il parziale abbandono del tentativo di spiegare le condizioni psicopatologiche.
La ricerca in psicoanalisi ha prodotto lo sviluppo di metodi empirici per quantificare ed analizzare fenomeni mentali complessi, cercando di dimostrare di essere in grado di offrire criteri operazionali chiari per un’ampia gamma di condizioni umane, sociali ed emozionali.
Per gli psicoanalisti che hanno accettato la sfida di sottoporre a verifica empirica i loro costrutti, la ricerca è la modalità attraverso la quale è possibile fornire alla psicopatologia basi scientificamente più solide che possano permettere la classificazione dei disturbi psichici avendone compreso le differenze dinamico-strutturali.
Possiamo così dire che gli psicoanalisti che hanno contribuito alla stesura del PDM hanno, in gran parte, abbandonato la speranza di poter spiegare la malattia mentale rivolgendo i loro sforzi verso la comprensione e la classificazione delle condizioni psicopatologiche.
Articolazione del PDM
Il PDM si articola in tre parti.
Le prime due parti sono dedicate alla classificazione dei disturbi della salute mentale dell’adulto e del bambino e dell’adolescente, mentre la terza parte presenta alcuni contributi di studio e di ricerca, indicati come i fondamenti concettuali ed empirici del sistema di classificazione.
Wallerstein presenta le origini storiche della nosologia su basi psicoanalitiche, Braconnier con Widlocher ed altri colleghi ripercorrono il tema delle indicazioni per la psicoterapia psicoanalitica, mentre Greenspan e Shanker discutono della cornice evolutiva per la psicologia del profondo e per una definizione del funzionamento emozionale sano e Shevrin porta una riflessione sul contributo delle scienze cognitivo-comportamentali e della neurofisiologia alla nosologia psicodinamica della malattia mentale.
L’area relativa alla ricerca, anch’essa introdotta da un lavoro di Wallerstein, presenta contributi di ricerca che si focalizzano sulla messa a punto di strumenti e di metodi di valutazione basati su criteri psicodinamici e sulla valutazione degli esiti del trattamento.
Di questa area, che merita un discorso articolato e diverso, non intendiamo occuparci per il momento.
La classificazione utilizza un approccio multidimensionale proponendo una valutazione diagnostica articolata in tre Assi o dimensioni: l’Asse P classifica i pattern e i disturbi di personalità, l’Asse M arricchisce la classificazione attraverso un esame articolato della complessità del profilo del funzionamento mentale e, infine, l’Asse S completa l’assessment attraverso la considerazione dei pattern sintomatologici, con un’enfasi sull’esperienza soggettiva del paziente.
L’Asse P: Pattern e Disturbi di Personalità
Questa prima dimensione prende in considerazione due aree: 1) la posizione generale della persona su un continuum che va da un funzionamento più sano ad uno più disturbato e 2) la natura dei modi caratteristici di organizzazione del funzionamento mentale
La dimensione dei pattern e dei disturbi di personalità è stata considerata per prima nel sistema PDM a causa dell’evidenza che i sintomi o i problemi di una persona non possono essere compresi e valutati o trattati in assenza di una comprensione della vita mentale della persona che presenta i sintomi.
Gli Autori così definiscono la personalità:
"La personalità è quello che uno è, piuttosto che quello che uno ha e certamente comprende più di quanto si possa vedere esaminando il comportamento di una persona…Definiamo personalità modi relativamente stabili di pensare, sentire, comportarsi e relazionarsi agli altri. In questo contesto, "pensare" comprende non solo il proprio sistema di credenze ed i modi di attribuire senso a sé e agli altri, ma anche i valori morali e gli ideali… Ognuno ha una sua propria personalità, è quando questa è così rigida o così caratterizzata da deficit, tanto che la persona incontra problemi persistenti nella sua vita, che per noi presenta un disturbo di personalità" (op. cit. pagg. 17-18).
L’Asse P del PDM richiama in gran parte la concettualizzazione di Kernberg dei livelli evolutivi di organizzazione di personalità ma, rispetto a questa, non considera il livello psicotico della struttura di personalità. Gli autori precisano che non utilizzano nella loro classificazione questo livello, sia perché esso può dare origine a confusione tra i disturbi di personalità e le malattie psicotiche, sia a causa della scarsa evidenza empirica a supporto.
Utilizzando un linguaggio molto comprensibile ed evitando termini propri della psicoanalisi, riportati solo tra parentesi a mo’ di didascalia, il PDM definisce la gravità dei disturbi di personalità nel modo seguente:
"La dimensione della gravità assume che le persone, per acquisire la maturità psicologica e raggiungere modi soddisfacenti di vivere, devono sviluppare alcune capacità vitali…Noi raccomandiamo di considerare dove si colloca la personalità di un individuo sulla dimensione della gravità attraverso la valutazione delle seguenti capacità. I termini psicoanalitici tradizionali per queste capacità sono tra parentesi:
- la capacità di vedere sé e gli altri in modo complessi, stabili e accurati (identità)
- la capacità di mantenere relazioni intime, stabili e soddisfacenti (relazioni oggettuali)
- a capacità di sperimentare nel sé e di percepire negli altri il full range degli affetti adeguati per l’età (tolleranza degli affetti)
- la capacità di regolare gli impulsi e gli affetti in modi che rafforzano l’adattamento e la soddisfazione, con flessibilità nell’uso delle difese e delle strategie di coping (regolazione degli affetti)
- la capacità di funzionare secondo una sensibilità morale coerente e matura (integrazione del Super-Io, concetti di Ideale dell’Io e di Io Ideale)
- la capacità di apprezzare, se non necessariamente di conformarsi, a nozioni convenzionali di ciò che è realistico (esame di realtà)
- la capacità di rispondere allo stress ingegnosamente e di riprendersi dagli eventi dolorosi senza eccessiva difficoltà (forza dell’Io e resilienza)" (op.cit. pag. 22)
Al livello più sano di organizzazione di personalità, una persona possiede tutte queste capacità e le difficoltà esistenti risultano abbastanza flessibili e comunque tali da non ostacolare un buon adattamento.
A livello nevrotico sono invece presenti limitazioni, seppure nell’ambito di un funzionamento articolato. La rigidità caratterizza il funzionamento a causa della tendenza a rispondere alle condizioni stressanti con una gamma limitata di difese e di meccanismi di coping. A questo livello, i disturbi di personalità più comuni sono quelli depressivo — depressivo-masochistico, isterico, ossessivo e/o compulsivo che comportano sofferenza limitata ad un’area del funzionamento; ad esempio la sessualità per la persona isterica, il controllo per l’ossessivo, la perdita, il rifiuto e l’autocritica per il depresso.
Nelle descrizioni dei livelli di organizzazione di personalità si osserva la tendenza accentuata ad evitare l’utilizzo del linguaggio psicoanalitico e a mantenere l’aderenza all’evidenza empirica, ad esempio nelle precisazioni sulla limitata evidenza empirica dell’usuale distinzione della qualità primitiva e matura dei meccanismi difensivi.
La concettualizzazione dei meccanismi difensivi, così centrale nell’ipotesi diagnostico-strutturale di Kernberg, non compare, infatti, nel PDM, presumibilmente a causa dell’insufficiente supporto empirico.
Allo stesso modo, non è fatto cenno alla conflittualità centrale tra desiderio e timore del desiderio, classicamente riferita al livello di organizzazione nevrotico e alla conflittualità tra l’angoscia dell’abbandono e l’isolamento, classicamente considerata centrale al livello di organizzazione borderline di personalità.
L’impressione è che non sia fatto riferimento a questi concetti, seppur molto familiari tra gli psicoanalisti e presenti negli scritti di Nancy McWilliams (1994, 1999), chair del gruppo di lavoro della sezione dell’Asse P, perché il PDM non pare volersi rivolgere al pubblico ristretto degli psicoanalisti, presso i quali questi concetti sono largamente condivisi, ma alla più ampia comunità scientifica degli operatori della salute mentale, qualsiasi sia il loro orientamento teorico.
Sembra, così, apparire in primo piano il bisogno di considerare e di proporre un livello di comprensione prettamente psicologico evitando il piano metapsicologico che rischia di non trovare né un ampio consenso né, tanto meno, un supporto della ricerca empirica.
Il PDM comprende 15 disturbi della personalità che, secondo gli autori, presentano sia comuni aspetti masochistici, che si mostrano attraverso un comportamento teso all’insuccesso personale, sia funzioni narcisistiche, intese come strategie per supportare l’autostima.
Nella comprensione dei disturbi di personalità, un’attenzione particolare è riservata alla dimensione introiettivo/anaclitico lungo il continuum "self-definition- relatedness".
I disturbi di personalità (indicati con la numerazione progressiva da P101 a P115) presi in considerazione sono i seguenti: disturbo schizoide, disturbo paranoide, disturbo psicopatico, disturbo narcisistico, disturbo sadico e sadomasochistico, masochistico, depressivo, somatizzante, dipendente, fobico-evitante, ansioso, ossessivo-compulsivo, isterico, dissociativo, misto.
Per ogni disturbo di personalità, il PDM presenta il quadro clinico globale ed indica i pattern costituzionali-maturativi che possono aver contribuito all’insorgere del disturbo, la preoccupazione e gli affetti centrali, le caratteristiche delle credenze patogene riguardo sé e gli altri e, infine, i meccanismi difensivi prevalentemente utilizzati.
Rispetto ai disturbi di personalità compresi nel cluster A del DSM IV-TR non compare il disturbo schizotipico perché gli Autori ritengono che non vi siano dati empirici a sostegno della differenziazione dal disturbo schizoide che, nella loro classificazione, lo comprende.
Per quanto riguarda i disturbi schizoide e paranoide, non sono evidenti differenze significative rispetto al quadro diagnostico generale fornito dal DSM.
Il disturbo psicopatico sostituisce, invece, il disturbo antisociale descritto dal DSM e se ne differenzia in modo significativo. Non viene affatto attribuita importanza alle condotte suscettibili di arresto, alla pre-esistenza in età adolescenziale del disturbo della condotta e alla mancanza della capacità di pianificare. Con riferimento alla descrizione di Henderson (1939), il disturbo psicopatico è considerato in una duplice modalità espressiva: passiva (più dipendente, meno aggressiva, caratterizzata da un’attitudine manipolatoria prevalentemente non violenta) o aggressiva. L’enfasi è posta sul bisogno irrinunciabile di potere e di controllo sull’altro.
Il disturbo narcisistico è considerato in due possibili manifestazioni: arrogante o depresso.
Il tipo arrogante ricorda il carattere narcisistico fallico descritto da Reich (1933) o il narcisista "oblivious" descritto da Gabbard(1989) o il "thick-skinned" di Rosenfeld (1987) o, ancora, il tipo "overt"descritto da Akhtar (1989). Il tipo depresso si riferisce al "narcisista ipervigilante" di Gabbard, al "thin-skinned" di Rosenfeld, al tipo covert di Akhtar.
Il PDM raccomanda la necessità di distinguere, all’interno del disturbo, tra il funzionamento nevrotico e l’organizzazione di personalità ai livelli più patologici caratterizzati da diffusione dell’identità e mancanza di un senso di moralità interno e coerente. E’ qui chiaro il riferimento al concetto di narcisismo maligno di Kernberg (1984), narcisismo intriso di aggressività sadica strettamente connesso al disturbo psicopatico.
Secondo il PDM, i disturbi di personalità sadico e sadomasochistico dovrebbero essere considerate entità cliniche a sé stanti. Comparso come provvisorio nel DSM III-R, il disturbo sadico di personalità è stato poi eliminato nelle edizioni successive a causa delle facili sovrapposizioni con l’ASPD. Il PDM mantiene invece la differenziazione a seguito della considerazione clinica per la quale non tutti i sadici sono psicopatici e viceversa. Il PDM considera centrale nel disturbo sadico il bisogno di umiliare, mentre ritiene che nel disturbo psicopatico sia centrale il bisogno di controllare e di manipolare. Mentre il sadico mostra il peculiare bisogno di umiliare gli altri infliggendo loro dolore e sofferenza fisica, il tipo sadomasochista è considerato una manifestazione intermedia che presenta maggiore capacità di attaccamento, seppur incline a coinvolgersi in relazioni intense ed esplosive.
Il disturbo masochistico ("self-defeating") è differenziato in due sottotipi a seconda che sia caratterizzato in senso morale o relazionale. Pur condividendo molte tematiche centrali (sensibilità al rifiuto e alla perdita, sentimenti di inferiorità, colpa inconscia, inibizione della rabbia conscia rivolta verso gli altri) con le persone depresse, questi pazienti mostrano evidenti tratti masochistici. Mossi da bisogni eccessivi quanto inconsapevoli di dipendenza, hanno l’esigenza primaria di dimostrare di essere vittime di ingiustizie. La loro sofferenza, espressione della colpa inconscia, permette loro di sentirsi "moralmente superiori" esercitando una funzione di regolazione dell’equilibrio narcisistico. Il PDM colloca il disturbo masochistico morale ad un livello nevrotico di organizzazione di personalità verso il polo introiettivo, mentre considera il pattern masochistico relazionale ad un livello evolutivo borderline e al polo anaclitico.
Il disturbo depressivo di personalità è considerato in tre sottotipi: introiettivo, analitico e nella manifestazione opposta del disturbo di personalità ipomaniacale. La diagnosi di disturbo depressivo di personalità è considerata appropriata soprattutto per il tipo introiettivo, caratterizzato da colpa, autocritica e perfezionismo. Quando le dinamiche analitiche sono pervasive (intensi sentimenti di vergogna, elevata reattività alla perdita e al rifiuto, vissuti di inadeguatezza e di vuoto) si pone invece la necessità della diagnosi differenziale con il disturbo dipendente o con il disturbo narcisistico, a seconda delle capacità relazionali.
A partire dal DSM III è prevalsa la decisione di considerare solo i fenomeni depressivi inquadrabili come disturbi dell’umore. Ma molte persone caratterialmente depresse non hanno mai sofferto di un episodio significativo di depressione clinica e quindi non possono ricevere una diagnosi di disturbo dell’umore. Le persone con personalità depressiva dovrebbero essere differenziate da quelle con disturbo dell’umore, per quanto sia possibile la compresenza di personalità e di disturbo depressivo. Nel disturbo dell’umore sono centrali i sintomi vegetativi e l’intensità degli affetti disforici. In queste condizioni cliniche i farmaci antidepressivi risultano efficaci, mentre nella personalità depressiva prevale l’atteggiamento autopunitivo non sensibile all’azione dei farmaci.
La descrizione del disturbo somatizzante è molto simile al quadro clinico generale del disturbo somatoforme indifferenziato del DSM IV- TR, pur non presentando gli item diagnostici e il criterio di cut-off. Gli Autori del PDM sottolineano che lo stesso criterio diagnostico del DSM IV relativo all’insorgenza del disturbo prima dei trenta anni di età depone per un disturbo di personalità, descrivendo una condizione di sofferenza spesso cronica che implica il ricorso alla difesa caratteriale della somatizzazione e che si accompagna ad una condizione cronica alessitimica.
Il disturbo dipendente è descritto in due varianti: passivo-aggressivo e controdipendente. Ad ogni livello, da quello nevrotico a quello borderline, la problematica analitica appare centrale. Gli Autori discutono l’opportunità di considerare il pattern passivo-aggressivo come un disturbo di personalità a sé stante perché, se da un lato, non c’è sufficiente evidenza per classificare il pattern passivo-aggressivo come un disturbo di personalità a sé stante poiché la tendenza di punire gli altri indirettamente è un caratteristica di molti disturbi di personalità organizzati a livello borderline, dall’altro la modalità relazionale improntata alla dipendenza ostile è frequentemente osservata nella clinica. Con maggiore sicurezza, è considerato a sé stante il disturbo contro-dipendente caratterizzato dal bisogno di negare i bisogni, di mostrare mancanza di dipendenza e di evitare la consapevolezza delle emozioni considerate segno di debolezza.
Nonostante gli Autori considerino il disturbo fobico (evitante) di personalità e la sua manifestazione opposta, il disturbo controfobico, come entità cliniche a sé stanti, si chiedono, a causa dell’osservazione clinica degli intensi bisogni di gratificazione dei vissuti di dipendenza, se queste non siano piuttosto varianti di organizzazioni di personalità depressiva o dipendente.
Secondo gli Autori del PDM la diagnosi di disturbo ansioso di personalità può riflettere una comprensione più accurata delle persone che attualmente ricevono la diagnosi del DSM IV di disturbo d’ansia generalizzato. Anche in questo caso, come nel disturbo somatizzante, gli Autori del PDM ritengono più adeguata la diagnosi di un disturbo di personalità considerando l’ansia l’esperienza che organizza psicologicamente le persone che ne soffrono.
Per quanto concerne il disturbo ossessivo-compulsivo, esso è per lo più sovrapponibile al disturbo ossessivo di personalità. Gli Autori del PDM sottolineano però che spesso i tratti ossessivi e compulsivi accompagnano altri tipi di personalità (specialmente narcisistiche e depressiva-introiettiva) e che, per questo, la diagnosi di disturbo di personalità ossessivo-compulsivo richiede la comprensione dell’esperienza interna e non solo del comportamento del paziente. A differenza del DSM IV, inoltre, sono considerati sia il tipo ossessivo, bisognoso di investire il funzionamento del pensiero sia il tipo compulsivo, bisognoso di agire e di essere sempre occupato in attività meticolose svolte con perfezionismo.
L’isteria, nella sua classica concettualizzazione psicoanalitica, compare nel PDM come disturbo di personalità isterico considerato in due varianti : dimostrativo ed inibito. La descrizione del primo tipo richiama il disturbo istrionico del DSM IV, mentre il tipo inibito si caratterizza per la riservatezza emozionale, l’ingenuità a riguardo della sessualità, l’inesperienza e l’inibizione, sintomi di conversione e somatizzazione (op. cit. pag. 61).
Il PDM considera, infine, come disturbo di personalità dissociativo il quadro clinico descritto dal DSM IV come Disturbo Dissociativo dell’Identità, originato da traumi di natura fisica o sessuale e caratterizzato dal ricorso massiccio alla difesa della dissociazione.
In ultimo è proposta la classificazione P 115, Disturbo Misto/Altro, inclusa per permettere la diagnosi di pazienti che presentano una combinazione di differenti disturbi di personalità e di persone che evidenziano pattern di personalità non descritti nell’Asse P.
L’Asse M
Il secondo Asse, denominato M, prende in considerazione il profilo del funzionamento mentale. E’ definito dagli Autori come l’Asse che descrive le categorie delle funzioni mentali di base, utile allo scopo di aiutare i clinici a cogliere la complessità e l’individualità del paziente.
Comprende nove categorie: la capacità di regolazione, attenzione ed apprendimento, la capacità relazionale e di intimità, la qualità dell’esperienza interna, la capacità di esperire, esprimere e comunicare le emozioni, i pattern e le capacità difensive, la capacità di formare rappresentazioni interne, la capacità di differenziazione e di integrazione, la capacità di auto-osservarsi e, infine, la capacità di costruire o usare standard interni ed ideali.
Il Manuale presenta, per ognuna di queste categorie, una tabella che illustra in modo sintetico i diversi livelli di funzionamento lungo un continuum che procede dalla condizione di salute mentale ai livelli di funzionamento patologici.
In ogni illustrazione sono indicati i riferimenti bibliografici relativi agli studi clinici ed empirici a supporto.
La valutazione delle capacità di regolazione, attenzione e apprendimento comprende la considerazione sia del patrimonio costituzionale sia delle acquisizioni evolutive relativamente al funzionamento esecutivo, alla memoria (di lavoro, dichiarativa e non dichiarativa), all’attenzione, all’intelligenza globale e al processamento degli stimoli sociali ed affettivi.
La capacità relazionale e di intimità è valutata includendo la profondità, la gamma e la stabilità delle relazioni.
La qualità dell’esperienza interna si riferisce al livello di sicurezza e di autostima; la valutazione dell’affettività ne comprende gli aspetti dell’esperienza, della capacità di espressione e di comunicazione.
La valutazione delle modalità difensive prende in esame sia la gamma dei pensieri e degli affetti che la persona mostra di essere capace di esperire, sia la capacità di affrontare le situazioni condizioni stressanti limitando il ricorso a difese che possono sopprimere o distorcere gli affetti e le idee.
La capacità di formare rappresentazioni interne è intesa come l’abilità di usare le rappresentazioni interne allo scopo di sperimentare il senso di sé e degli altri, di esprimere un’ampia gamma di emozioni e di regolare gli impulsi e il comportamento.
La valutazione della capacità di differenziazione e di integrazione è intesa allo scopo di comprendere se e quanto la persona è in grado di separare, comprendere le differenze e mettere in relazione le rappresentazioni di sé e degli altri, la fantasia e la realtà e la gamma delle esperienze interne, dei desideri, delle emozioni e delle sensazioni.
La capacità di auto-osservazione si estende all’abilità di comprendere gli stati mentali propri ed altrui. La descrizione che ne fa il manuale ricorda il costrutto di funzionamento riflessivo di Fonagy e Target (1998, 2001) seppure gli Autori non vi facciano esplicito riferimento.
L’ultima abilità presa in considerazione, la capacità di costruire e di utilizzare standard interni e ideali è riassunta nella denominazione "senso di moralità".
Secondo le indicazioni del manuale, la valutazione generale delle nove capacità di base, da effettuarsi secondo le linee guida chiaramente espresse, conduce il clinico e/o il ricercatore alla possibilità di codificare il livello globale di funzionamento mentale secondo una classificazione ad otto punti (codificata seguendo la numerazione progressiva da M201 a M208) lungo un continuum dalla valutazione M201 che indica capacità ottimali alla valutazione M208 che segnala la presenza di gravi deficit delle funzioni mentali di base.
L’Asse S
Il terzo ed ultimo Asse (Pattern di sintomi: l’esperienza soggettiva) si basa sulla descrizione dei sintomi del DSM IV-TR. Gli Autori sottolineano la loro intenzione di focalizzarsi sull’esperienza soggettiva del paziente riferita ai sintomi.
L’esperienza soggettiva è analizzata relativamente alle modalità affettive, ai contenuti mentali, ai concomitanti stati somatici e ai pattern relazionali associati.
Gli autori precisano di aver considerato questa parte come terza ed ultima dimensione perché, nella loro opinione, l’esperienza soggettiva riguardo ai sintomi può essere compresa solo nel contesto delle due dimensioni relative alla struttura di personalità globale della persona e al suo funzionamento mentale.
Essi sottolineano come "nell’esperienza dei clinici psicodinamici, i pattern dei sintomi non siano semplicemente disturbi ma siano, piuttosto, espressioni manifeste dei modi in cui i singoli pazienti affrontano l’esperienza nel loro modo peculiare" (op. cit. pag. 93).
In questa prospettiva, raccomandano anche di valutare quanto e come l’età del paziente contribuisce alla qualità della sua esperienza dei sintomi.
Gli autori precisano, inoltre, che il loro approccio include la considerazione dei fattori biologici e che può fornire un contributo anche al loro studio favorendo l’ esplorazione dei correlati biologici di una varietà di disturbi della salute mentale.
Nell’affrontare la questione della comorbilità, ritengono che questo loro approccio può offrire una prospettiva dalla quale la presenza di sintomi differenti può apparire non come la presenza contemporanea di differenti disturbi, ma piuttosto come l’espressione di un disturbo complesso del funzionamento mentale.
L’asse S comprende 13 categorie principali (indicati con la numerazione progressiva da S301 a S313): i disturbi dell’adattamento, i disturbi d’ansia, i disturbi dissociativi, i disturbi dell’umore, i disturbi somatoformi, i disturbi alimentari, i disturbi del sonno psicogeni, i disturbi sessuali e dell’identità di genere, i disturbi fittizi, i disturbi del controllo degli impulsi, i disturbi da dipendenza/abuso di sostanze, i disturbi psicotici e, infine, i disturbi mentali associati ad una condizione medica generale.
Per ogni categoria, il manuale prende in esame la qualità dell’esperienza soggettiva considerando la gamma dei più usuali stati affettivi, dei pattern cognitivi, degli stati somatici e delle modalità relazionali.
Solo nel caso dei disturbi d’ansia, dei disturbi dell’umore e dei disturbi sessuali e dell’identità di genere prende in esame differenti sottotipi.
Tra i disturbi d’ansia considera il trauma psichico e il disturbo post-traumatico da stress, le fobie e i disturbi ossessivi compulsivi.
Nei disturbi dell’umore include i disturbi depressivi e i disturbi bipolari e, per quanto attiene i disturbi sessuali e dell’identità di genere prende in considerazione i disturbi sessuali, le parafilie e i disturbi dell’identità di genere.
Globalmente le categorie dell’asse S del PDM non si differenziano sostanzialmente nella loro descrizione generale dalle corrispondenti nel DSM-IV TR.
In generale, le differenze sostanziali possono essere riassunte nel fatto che il PDM privilegia una descrizione del quadro clinico generale non considerando il criterio di cut-off e non presentando un elenco di item diagnostici.
In relazione ad alcuni disturbi si evidenziano,invece, alcune differenze significative.
Per quanto concerne le fobie, ad esempio, il PDM considera insufficiente per questa diagnosi la presenza di paure associate ad un comportamento di evitamento dell’oggetto e/o della situazione fobica. "Per essere considerata una fobia nel senso tradizionale, deve esservi evidenza che la paura esagerata (il sintomo) esprima il modo in cui l’individuo organizza l’esperienza interiore. I requisiti evolutivi per formare una vera fobia includono le capacità di simbolizzare e di creare connessioni psichiche con l’oggetto temuto"(op. cit. pag. 104).
Altre differenze sono già state segnalate a proposito dei disturbi dissociativi e dei disturbi somatoformi. (Ricordiamo che Il PDM considera il Disturbo Dissociativo dell’Identità e il Disturbo di Somatizzazione come caratteriali e quindi li comprende tra i disturbi di personalità, definendoli disturbo dissociativo e disturbo somatizzante di personalità).
I disturbi psicotici sono trattati in poche pagine e la trattazione si limita a ripercorrere le classificazioni del DSM IV-TR.
Conclusioni
Il PDM sembra riflettere l’intenzione del movimento psicoanalitico contemporaneo di radicare il proprio operato nell’esperienza clinica privilegiando la prospettiva psicologica vicina all’esperienza a scapito della dimensione metapsicologica, soprattutto se priva del supporto dei risultati della ricerca empirica.
Se da un lato si pone criticamente rispetto al DSM, nello stesso tempo, sembra proporsi come uno strumento di valutazione diagnostica complementare che origina, anch’esso, dalla ricerca empirica.
La necessità del supporto della ricerca comporta il ridimensionamento di alcune ipotesi psicoanalitiche esplicative dei disturbi della salute mentale. Dopo anni, va in senso opposto ad Otto Fenichel che individua puntigliosamente gli schemi etiologici secondo la metapsicologia. Qui la metapsicologia è accantonata perché la dimensione teoretica (non empirica) non si presta ad appoggi riproducibili concreti (rating scales, etc.).
Tale cautela è particolarmente evidente a proposito dei disturbi psicotici. Come abbiamo visto, il PDM non considera il livello psicotico di organizzazione di personalità, precedentemente individuato da Kernberg, al fine di evitare l’emergere di confusività terminologica e concettuale. La trattazione dei disturbi psicotici è molto ridotta e segue prevalentemente le linee classificatorie del DSM IV-TR, pur potendo arricchirsi delle altre due dimensioni, soprattutto dell’esame del funzionamento mentale considerato nell’Asse M.
L’abbandono del "gergo psicoanalitico", la presentazione dei costrutti psicoanalitici in una modalità espressiva molto chiara e l’impegno del movimento psicoanalitico contemporaneo nella ricerca sono alcune evidenti caratteristiche del PDM che possono contribuire ad una sua ampia diffusione nel mondo scientifico. La terza parte del manuale, interamente dedicata alle basi concettuali ed empiriche, fornisce un supporto solido al sistema di classificazione attraverso un’accresciuta capacità di comunicare alla comunità scientifica psichiatrica e psicologico-clinica le origine storiche della nosologia psicoanalitica, le ipotesi evolutive basate sulla teoria psicoanalitica unitamente ai maggiori contributi della ricerca empirica tesi ad indagare sia nuovi strumenti di valutazione diagnostica sia gli esiti dell’intervento clinico psicoanaliticamente orientato.
Il PDM, che sembra avere anche scopi promozionali e propagandistici, deve convincere un pubblico eretico con costrutti forti.
L’imitazione formale del DSM, clamorosa e stridente vista la distanza sostanziale, maschera la sirena biologica e genetica che affascina gli Autori.
Può essere un lodevole tentativo di far debordare la psicoanalisi fuori dai suoi confini teorici e pratici, sentiti come angusti, che esprime il conflitto attuale: chi si sarebbe aspettato dalla psicoanalisi, un manuale tassonomico fatto da una task force?
L’istanza fortemente individualizzante della psicoanalisi sembra messa in crisi dalle esigenze del mondo di oggi di condivisione predeterminata (medicina pubblica, schemi di riferimento economico, giudici e perizie, certificazioni lavorative, tempi prevedibili in modo convenzionale).
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