La creatura trasformabile
Dapprima era un'arpia con le sue alucce minacciose, poi, abbandonando le più inquietanti porzioni del corpo, si fece sirena: così si “scrive” la donna, creatura trasformabile. La “mutante” racconta di sé ogni giorno con il corpo e con l'abito. Il modo di vestirsi è una scrittura. Il femminile si esprime attraverso alcune considerazioni sullo stile – dal latino stilum, stilo, modo di scrivere – parola che include la relazione tra corpo, gesto, abito1.
In un racconto d'analisi il soggetto porta se stesso, con il proprio dire, con un incedere, un atteggiamento, un modo di presentarsi, cioè di offrire il proprio corpo, il proprio abito. L'offerta, non solo quella della modernità, propone un uso antico, la prima vestizione del corpo: decorarlo. Questo lemma è fascinoso proprio in quanto complesso: decoro arriva da decorum, decédere, convenire; l'estetica ellenistica fa una distinzione tra conveniente (aptum, decorum), appropriato allo scopo e bello (pulchrum).Gli antichi avevano ricondotto la bellezza delle cose al fatto di essere apta, cioè costruite in modo adeguato e adatto al loro fine. Qui la decorazione assume più spessore perché non si fissa un'idea di sola bellezza, cioè ad un giudizio di ordine estetico, ma si svolge verso l'utilità, che apre la dimensione dell'etica. Il decoro è segno, il più antico riguarda il disegno sulla pelle. L'antropologia seduce con acconti speciali sull'uso del tatuaggio in alcune tribù dell'Africa e nel mondo Arabo, indicandolo come forma di scrittura al femminile2 .
Nella tradizione di questi popoli la scrittura sarebbe patrimonio maschile – e del femminile, invece, il sapere orale. Tuttavia, il corpo stesso della donna testimonia la stretta appartenenza della scrittura al femminile mediamente il tatuaggio. Nel mondo arabo è eseguito soprattutto sulle donne e da una donna, su tutto il corpo, dal volto alle gambe; l'uomo può essere invece tatuato solo sulla mano destra e l'avambraccio, ma di rado. Per questo motivo s'intende facilmente che il corpo della donna viene iscritto soprattutto in speciali occasioni, quali l'avvento della pubertà, e del matrimonio, allo scopo di annunciare un cambiamento di status nella vita del soggetto. Per l'uomo e un segno della sua forza, del suo coraggio di guerriero. Un racconto, ai confini con la fiaba, ci conduce a un ulteriore passaggio di significazione, dalla convenienza alla guarigione: è la storia Navajio (Indiani d'America) i cui guaritori effettuano composizioni su sabbie colorate nella casa del malato, scrittura invocante l'aiuto degli Dei, mentre nello stesso tempo, il paziente, posto in un'altra stanza, viene dipinto sul corpo con simboli corrispondenti alla scrittura rivolta alle divinità; alla fine viene ricoperto su tutta la superficie del corpo dalla sabbia del tracciato.
Certamente questo genere di guarigione è ai confini con la magia. In Nigeria vi sono esempi di scrittura sul volto, pitture facciali, in cui si scrive direttamente sulla pelle il nome divino ripetuto contemporaneamente tre volte. Per le tribù africane la scrittura aveva funzione di difesa: la cavalleria degli Hausa si sentiva protetta, durante le battaglie, dalle particolari casacche iscritte. La parola diviene salvezza.
L'abito come abitudine
L'uso di coprire il corpo è molto antico, è un'abitudine, Habitus, da habére. E' antica perché rintracciabile in quella prima veste, Lacan parla di velo, che è la placenta. La definisce qualcosa d'incancellabile. Tuttavia, viene smarrita. Ma resta, appunto, l'idea che il bambino nasce “vestito”, non più così nudo, segnato da questo evento. “Il vestito, meglio della sfera, ricrea per l'individuo la protezione perduta, è la placenta ricostruita”3.
L'esperienza della parola, di sapere, riguarda il vestirsi, non certo la stare nudi. Un luogo speciale, come la spiaggia per nudisti può essere interessante per questa analisi: in effetti può capitare, ritrovandocisi, di avere la sensazione di essere in un campo di concentramento, in cui i corpi sono nudi, senza personalità, senza nome. Ecco, un abito designa un nome. Il primo effetto di cultura è vestirsi: il corpo vuoto, l'abito, si appoggia su un corpo pieno. Il corpo disegnato, di cui si è detto, il corpo scritto evidenzia il corpo proprio come insieme di segni, e quindi l'abito come funzione di corpo, si fa vero e autentico linguaggio. L'abito si fa parola.
Questa parola agisce all'intero di una relazione a tre: soggetto (corpo)-abito-altro, in cui il corpo è 'ponte' tra soggetto e abito. Il soggetto suppone qualcosa, attraverso il corpo, dell'idea di come presentarsi; l'abito può avere anche più forza del soggetto stesso, al punto da trasformarlo e nel gesto e nei propri sentimenti. In questo modo il soggetto si orienta all'altro, all'inconscio, all'universo, a ciò di cui non sa, predisponendosi all'incontro stupefacente con se stesso. Il soggetto, così attrezzato, va verso il proprio destino.
“Un simbolo o un discorso di simboli era l'antico abito, un colpo d'occhio e si sapeva quale destino portava un uomo, voglio dire da quale destino era portato”4.Parlare di destino di un soggetto significa accennare al proprio romanzo, come lo intendeva Freud: da dove vengo, chi sono…Utilizzando il pensiero di Lacan a proposito della struttura del soggetto nella dimensione simbolica, immaginaria, reale5 si potrebbe osservare che l'individuo attrezzato con il suo corpo-abito si pone simbolicamente; per lui l'abito ha funzione normativa, ha l'effetto di una sorte di regolamentazione di cui il soggetto si riconosce nel proprio posto. Si pensi alle Leggi Suntuarie, ideate già al tempo dei romani, sanzionatorie rispetto al lusso e quindi regolatrici del vestire moderato; in realtà, come si evidenzia in epoca medievale e in particolare nel XVIII secolo, diventano leggi che confermano, attraverso l'obbligo o il divieto di un certo abito o colore, o gioiello, l'appartenenza a una precisa classe sociale.
Suntuaria deriva da sumptus, spesa, da sumere, impiegare, consumare; l'abito sembra dunque chiedere un pagamento nei termini di appartenenza a una classe sociale, sia per eccesso, sia per difetto; si tratta di un pagamento morale.
Immaginariamente il soggetto, attraverso l'abito-corpo, va alla ricerca di sé, crede di trovare sé nello specchio delle creature afferrabili e poi, in questi giochi riflessi, si perde in ciò che non è. Cosa farà il soggetto con quel suo abito-corpo? O cosa ne farà? Il reale, l'indicibile, non si rappresenta: è ciò che non si può controllare. Allora? Questo soggetto parola-abito-corpo, si offre allo sguardo dell'altro; entra cosi' in gioco la pulsione scopica.
La complessità dello scenario preedipico
Per l'individuo è nella primitiva relazione con la madre, dunque con lo sguardo della madre, che si introduce la dimensione etica – estetica del proprio corpo6. Poeticamente Winnicot dice, “la madre per il bambino è la finestra sul mondo”.
Senza addentrarci nella questione edipica, si potrebbe tornare alla scrittura al femminile, aprendo lo sguardo sulla speciale relazione tra madre e figlia7. Un aspetto interessante che si può cogliere nella fase preedipica, cioè nella relazione tra la madre e la figlia o il figlio, è l'aspetto divorante che riguarda il materno. Lacan disegna l'idea del divoramento immaginando un coccodrillo, che se non avesse il bastoncino di traverso in bocca, si mangerebbe il bimbo8. E ancora, “Nella storia dei bambini si dice sempre che il lupo mangia. Allo stadio sadico-anale il bambino ha voglia di mangiare sua madre e pensa che sua madre lo mangi, sua madre diventa il lupo9.
Questo punto di simbiosi che si stempera, si attutisce, si annulla nel tempo della crescita del soggetto, spesso riappare “travestito”, sotto altre spoglie, nella relazione adulta tra madre e figlia. Sullo scenario della relazione in cui la bambina cerca un proprio tragitto e la madre intenderebbe concederglielo, ci si chiede comunque quanto il divoramento fluttui, esprimendosi esteticamente nello stile (modo, gesto, abito), e venga “passato”, più comunemente proposto, dalla madre alla figlia.
E anche, in che misura il desiderio della madre verso la figlia viene rappresentato attraverso la formazione di un immagine seduttiva – o all'antica o costrittiva o mascolina – disegnata dall'abito sul corpo? C'è in gioco il corpo, e si potrebbe dire che ogni supremazia della madre sulla figlia, attuata attraverso l'abito, è una scrittura sul corpo, perché, tramite il vestito, è il corpo che viene significato in quanto sessuato. La madre può desiderare che la figlia vesta in certo modo non solo per una questione identificativa, ma per situare la figlia in una posizione edipica.
Si potrebbe sintetizzare il problema in questo modo: con l'abito si significa anche l'iscrizione della questione del padre nel discorso della madre, il posto accordatogli nel proprio discorso, posto che viene trasmesso alla figlia. Un intervento di questo genere può avere una portata edipica.
Una suggestione letteraria può far riflettere: è un frammento del romanzo di Theodor Fontane, nel 1894, Effi Briest, in cui apparentemente il vestito e luogo di dialogo tra madre e figlia. Il circo, fonte di travestimento, è il desiderio della madre per la figlia, e il vestito, scherzoso, ancora infantile, la ragazza lo subisce quale seduzione materna10.
“Effi Briest indossava un vestito di tela a righe bianche e azzurre una specie di grembiule in cui soltanto la cintura di pelle color bronzo segnava la vita; il collo era libero e sulla nuca e sulle spalle ricadeva un colletone da marinaio. In tutte le sue azioni si univano la spensieratezza e la grazia, mentre i ridenti occhi bruni rivelano molto intelligenza naturale e molta bontà. La chiamavano “la piccola” ed Effi doveva rassegnarsi al nomignolo soltanto per che sua madre, la bella signora Von Briest, era più alta di lei ancora di una spanna. Effi si era appena alzata per dedicarsi alle sue flessioni a destra e a sinistra, quando la madre sollevo la testa dal lavoro e disse: “In fondo Effi avresti dovuto diventare un'acrobata da circo: sempre sul trapezio, sempre figlia dell'aria. Credo che quasi ti piacerebbe”.
“Forse mamma, ma se mi piacesse, chi ne avrebbe la colpa? Da chi ho ereditato questa disposizione? Soltanto da te. Oppure pensi che mi siano venute da papa? Vedi, ridi anche tu. E poi, perché mi ficchi in questo grembiale? Ogni tanto mi pare che finirò per tornare ai vestitini corti. E allora tornerò a fare la riverenza come una ragazzina, e quando verranno qua quelli di Rathenow, mi siederò sulle ginocchia del maggiore Goetz e farò cavalluccio. E perché no? Per tre quarti è mio zio, e soltanto per l'ultimo quarto mi fa il corteggiatore. E' tutta colpa tua. Perché non mi fai fare degli abiti da ballo? Perché non mi fai diventare una vera donna?…”.
In quest'ultima frase è raccolta con incisività l'idea che sia la madre a concedere, a permettere che si inscriva un passaggio nel corpo, quindi nello stile della ragazzina; la figlia lo chiede, “perché non mi fai diventare una donna?” offrendo alla madre una posizione demiurgica di speciale potere.
Si tratta di una posizione che la ragazza stessa percepisce come unica e che la lega profondamente alla madre, dandole la sensazione di un “tutt'uno”.
Gli abiti memoria della storia del soggetto
Propongo ora un racconto d'analisi che, invece, pur vertendo sul sentirsi “tutt'uno”, opera una specie di capovolgimento, per cui la ragazza, cioè il soggetto narrante, si trova ad avere un ruolo di padronanza, quasi protettivo e decisionista rispetto alla madre.
L'aspetto affascinante di questa narrazione riguarda il solido pacchetto di ricordi relativi al corpo e al vestire, scenario della complessa relazione con la madre. E poi, durante il tempo d'analisi, l'accadere di un suo dire autentico, avvenuto attraverso il cambiamento della gestualità, del modo, dello stile, e degli abiti. Un giorno la giovane donna fece questa considerazione: “Esser messa nel posto della “grande”, quando si è piccola, e come indossare costantemente della scarpe troppo strette. Ricordo, a proposito di scarpe, il primo giorno di scuola delle medie con un pullover a V e delle scarpe con un tacco piuttosto alto su jeans molto aderenti. Ero l'unica addobbata cosi, le altre ragazze indossavano le scarpe da tennis o mocassini. Io, quelle, le avevo comprate un giorno con la mamma, esattamente come le sue”.
Questo ricordo emerse proprio in un occasione in cui, per la prima volta, venne in seduta con un paio di scarpe definibili quasi normali. Generalmente la narratrice si affaticava su specie di trampoli, di gusto discutibile, ma che, nella maniera di portarli, indicavano un forte disagio.
Quello stile esasperato, da piccola donna costretta a non concedersi di essere bambina, si articolò proprio a partire da questa nuova scelta “d'abito” offerta nel lavoro analitico.
Un giorno emerse, in un suo dire, che non si era mai connessa di essere un'adolescente ma che si era quasi agghindata da vecchia, specificando: “Non so come potessi portare quella gonna, lunga al polpaccio, rossa scura, e un po' pelosetta a quindici anni; ma dovevo accelerare i tempi ed essere molto vicina a mia madre per aiutarla, cosi allo sbando com'era”. E, procedendo con fatica: “Mia madre era ossessionata dall'idea che andassi con qualche ragazzo e, come lei diceva, diventasse una puttana. Era chiaro che, per non diventare una puttana, dovevo stare sempre con lei, cosi non cadevo in tentazioni, travolgendo l'idea di giovinezza. Ricordo un paio di pantaloni celeste polvere che mi ero comprata da sola senza l'intervento di mia madre. Li amavo moltissimo. Un giorno, a seguito di un lavaggio sbagliato, si rovinarono. Ne soffrii molto e mia madre non capi il perché”.
Il frammento del romanzo e il racconto vero della giovane donna riportano alla iniziale riflessione relativa al soggetto, cioè al soggetto – abito – corpo. Il narratore o la narratrice, nello scrivere sul corpo, attraverso l'abito, ricostruisce la propria storia, esattamente come fa un romanziere, rimandando a un terzo, a un egli che non è mai bene identificabile, che fluttua, che è il che sarò stato ipotetico, cosi come osserva Barthes nel Grado zero della scrittura: “In molti romanzieri moderni, la storia dell'uomo si confonde con la parabola della coniugazione; partito da un io, che è ancora la forma più fedele dell'anonimato, l'uomo – autore conquista a poco a poco il diritto della terza persona, via via che l'esistenza diventa destino, e il soliloquio romanzo.
Qui l'apparizione dell'"egli” non è l'inizio della storia bensì il termine di uno sforzo, che ha potuto dar luogo liberandola, da un mondo personale di umori e di movimenti, a una forma pura, significativa, e perciò subito svanita grazie allo sfondo perfettamente convenzionale ed esile della terza persona” 11.
Accogliendo il pensiero poetico di Barthes si potrebbe formulare, per fermare un'emozione sul femminile e la propria scrittura, l'immagine di quella bambina, già agghindata da donna, che oggi si trova a presentasi come quella ragazza che da qualche parte è stata.
*Pubblicato in: La Scrittura Femminile nel Racconto dell'Analisi,in Scibbolet,Shakespeare and Company, Milano,anno III, n° 3, 1996,pp. 57-63.
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