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“La parola amore esiste”, regia di Mimmo Calopresti (Ita, 1998)

3 Ott 12

Di riccardopierodalleluche

I tempi mutano, e con essi i modi e i luoghi delle cure, ormai offerte con le stesse modalità e strategie di qualsiasi merce al supermercato, ma la patologia mentale resta, ed il cinema continua ad occuparsene, sotto i veli convenzionali delle commedie e del minimalismo sentimentale.

"La parola amore esiste", un film dolce, ben diretto ed ottimamente recitato, pur con qualche ingenuità nella sceneggiatura mette in scena con buona verosimiglianza la storia di una ragazza benestante affetta da ossessioni numeriche, scaramanzie e anancasmi vari, sola, incompresa da una madre rigorosamente algida, che si innamora di uno svagato professore di violoncello, lasciato dalla moglie, altrettanto solo di lei, e consolato soltanto dalla figlia adolescente, il cui ragazzo fa, guarda caso, il musicista, ma in un gruppo rock.

Uno psicoanalista senza divano, virile e un po' disilluso (interpretato dallo stesso Calopresti), finisce per infrangere una disposizione discretamente empatica con un lapsus linguae, quindi, ricevendo fuori orario la sua paziente (ah, bei tempi andati dei setting rigidi!) quando lei, furiosa per l'indifferenza involontaria del musicista, sembra avviarsi a varcare le porte di corno e d'avorio della psicosi, le diagnostica senza pietà la sua incapacità di amare ed infine quando lei, comprensibilmente, minaccia di andarsene con la frase di rito ("tanto a lei interessano solo i miei soldi!"), con molta chiaroveggenza la lascia andare con un "è meglio così".

Se la psicoanalisi oggi rinuncia tanto facilmente ad occuparsi di malati, sono le cliniche private della psicofarmacologia d'assalto a rubarle la scena: qui la ragazza è accompagnata dalla madre in una che surrealmente è immaginata consentire ai malati di passeggiare e prendere il sole sulla battigia della riconoscibilissima spiaggia (in realtà inaccessibile via terra) del parco Migliarino San Rossore, localizzazione che insinua chiari indizi su quale cattedra psichiatrica universitaria la controlli. 
Un giovane dottorino (uno specializzando di primo pelo, ma già sicurissimo di sé e straordinariamente aggressivo) trova il modo, in un corridoio (ah, immortale psicoterapia selvaggia!) di imbastire un ragionamento cognitivo-comportamentale che si conclude con una ulteriore diagnosi di incapacità di amare. Menomale che un' altra ricoverata, afflitta anch'ella da problemi sentimentali irrisolvibili (è innamorata del suo avvocato e tutore patrimoniale la cui idealizzazione è immediatamente suggerita dalla figura impeccabile e gigantesca di Depardieu) interagisce con lei come una madre dotata di affetti, seppure fragili e volubili, ed in qualche modo le instilla un po' di quella fiducia necessaria ad osare l'amore: l'autoaiuto ed il caso, dunque, fanno più dei terapeuti professionisti e la vita talora, come in questo film che termina lasciando presagire un lieto fine, risarcisce di ciò che in precedenza ha preso. Due esseri avviati alla sparizione potranno forse riesistere, come la parola che li lega: amore.

Qualcuno degli sceneggiatori dev'esserci passato: troppo verosimile è la sintomatologia e la storia della cura; Valeria Bruni Tedeschi è un'ossessiva da manuale, perfetta nel rappresentare le stereotipie e le rigidità attitudinali degli scompensi pre-psicotici; anche Bentivoglio è convincente nel personaggio nostalgico e un po' fuori dal tempo del violoncellista quarantenne svagato e forzatamente de-virilizzato, uscito malconcio dal ventennio dell' emancipazione femminile.

 

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