L'immagine che fra tutte meglio descrive con dolorosa e bella icasticita’ ma anche con una sorta di "sincretismo" simbolista la condizione autistica del protagonista e’ l’inquadratura della facciata di un’abitazione che ha finestre e porte tutte, rigorosamente, murate. E’ il paradigma visivo dell’isolamento, del ritiro degli investimenti dal mondo e dalle relazioni, della condizione narcisistica estrema in cui e’ "murato" Dennis "Spider" Cleg.
Tratto dall’omonimo romanzo (1990; trad. it., 2002) di Patrick McGrath, scrittore inglese che si muove sontuosamente tra la letteratura gotica e la black comedy, autore anche della sceneggiatura, e diretto da David Cronenberg, regista iconoclasta, geniale e controverso di "The Fly", "Crash" ed "Existenz", il film si dipana come la tela di un "ragno" attraverso i fili di una memoria -quella del protagonista affetto da schizofrenia (Ralph Fiennes, "Schindler’s list", "Il Paziente inglese", "Red Dragon")- che tesse trame deliranti frammiste a scampoli di realta’, alla ricerca della propria "verita’" riguardo al passato che lo ha condotto in un manicomio criminale alcuni decenni prima, negli anni ’50.
Il "presente " del film si situa negli anni ’80, quando Dennis, uscito dall’ospedale psichiatrico giudiziario, e’ affidato a un centro per ex detenuti diretto da un’anziana donna (Lynn Redgrave) che lo abbandona a se stesso, consentendogli cosi’ di interrompere l’assunzione dei farmaci e quindi di scivolare nelle sue ricognizioni mnesiche svolte lungo spirali deliranti costellate di fenomeni allucinatori intrusivi, mentre egli nella sua stanza, come da bambino ai tempi dei fatti che lo condussero al manicomio criminale, comincia a costruire la sua "tela" fatta di cordicelle tese da parte a parte, altro efficace equivalente simbolico del ritiro autistico. Un autismo che, senza farmaci, diventa ricco di fenomeni produttivi, quindi, seguendo Minkowski, un autismo "vivace", laddove all’inizio del film ci e’ presentato un individuo in una condizione "impoverita", diremmo oggi "con prevalenza di sintomi negativi".
Uno dei motivi di merito del film sta nel proporci la condizione alienata del protagonista non da una visuale esterna, ma dal punto di vista del suo vissuto soggettivo, ambendo a rappresentare, attraverso il linguaggio immaginifico della creazione artistica, il complesso e abissale "esser-ci" dello schizofrenico, il suo modo di essere "nel" e "con" il mondo. A chiarire che cio’ che vediamo del passato di Spider, e che s’intreccia senza soluzione di continuo con il presente, e’ cio’ che "vede" egli stesso, e’ il posizionamento del Dennis adulto nelle scene del passato in cui si muovono il Dennis bambino (Bradley Hall), sua madre (una bravissima e camaleontica Miranda Richardson) e suo padre (Gabriel Byrne), come spettatore dal perenne sguardo esterrefatto, perplesso, allucinato, addolorato.
L’immersione nel mondo psicotico del protagonista e’ consentita al regista e allo sceneggiatore dal necessario riferimento a una chiave di lettura teorica, utile a decifrare l’apparente caos di quello stesso mondo, che ci pare di poter definire senza forzature "psicoanalitica", peccando forse talvolta di eccessiva esemplificazione "iconografica". Pensiamo infatti alle connotazioni sessuali e aggressive dell’ambivalenza manifesta di Dennis nei confronti della madre, alla sua necessita’ di "dividerla" in una "madre buona", accudente, tutta sua, che lo definisce "genietto", quasi seduttiva, e in una "madre-prostituta", con lo stesso volto ma col trucco pesante, i capelli color platino, volgare e sboccata, la madre che egli scorge in atteggiamento inequivocabilmente erotico nel giardino di casa con suo marito, padre di Spider. Una madre-prostituta che egli, in preda al delirio, immagina aver ucciso, in combutta perversa con suo padre, la madre buona e che egli uccidera’ a sua volta, realmente. Solo in quel momento, tragicamente, le due figure torneranno a integrarsi agli occhi del Dennis adulto, in una consapevolezza insostenibile che avra’ solo il potere di precipitarlo definitivamente nella psicosi. Questo esito drammatico era del resto annunciato dal trailer del film che, con enigmatico e fosco vaticinio, avvertiva: "La cosa peggioreche puo’ accaderti non e’ perdere la ragione, ma ritrovarla". Insomma, Freud con l’Edipo e Melanie Klein con la posizione schizoparanoide e forse col matricidio oresteo tramano dietro questa fin troppo "esemplare" parabola psicopatologica che sfiora pericolosamente lo stereotipo.
Il film oscilla fra registri espressivi realistici, quali quelli che ci consentono di vedere nella figura che vagola per le strade borbottando fra se’ e se’ un’immagine dolorosa e non infrequente che attraversa anche le nostre citta’, affaccendata, per dirla con Musil, in "un mormorio frettoloso a mezza voce, piu’ intento a se’ che a palesarsi", e felici sintesi metaforiche, come il puzzle la cui composizione da parte di Dennis va di pari passo con il suo tentativo di ricostruzione mnesica del proprio passato, o come la citta’ desertica e silenziosa in cui egli si muove, proiezione della condizione di isolamento e solitudine irriducibili in cui e’ affondato. E ci pare, mutatis mutandis, che quella stessa figura aggirantesi per le strade di un’anonima periferia inglese alla ricerca di frammenti di se’ si richiami a quella grandiosa, letteraria, del Raskol’nikov di "Delitto e Castigo" che si muove col suo cappotto lacero tra sordide cantine e bui sottoscala di San Pietroburgo inseguendo i propri fantasmi.
L’intento dichiarato di Cronenberg e di McGrath era quello di riuscire a rappresentare, grazie anche alla addolorata interpretazione di Ralph Fiennes, una condizione umana quasi irrappresentabile, dall’interno della stessa, dal fondo delle sue oscure fondamenta, dal punto di vista dei suoi insondabili rebus.
Operazione che puo’ dirsi in parte riuscita, anche se Cronenberg, inspiegabilmente proprio alla luce di questo intendimento, rinuncia alla pervasiva visionarieta’ orrorifica dei suoi precedenti film a favore di una forse eccessiva verosimiglianza "clinica" e "manualistica".
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