Patrice Leconte in un’intervista rilasciata a dicembre ammette, immaginiamo ad un giornalista un po’ perplesso, di non sapere nulla di psicanalisi, né lui e neppure lo sceneggiatore, Jerome Tonnerre.
Paradossalmente, dice il regista francese, soltanto l’attore protagonista, Fabrice Luchini possiede una buona conoscenza della materia, essendo egli stesso in analisi da parecchi anni, ed avrebbe fornito alla troupe preziose indicazioni sulla disposizione dell’arredamento (setting) dello studio dell’analista, suggerendo la posizione del divano e della scrivania.
Eppure, avendo visto il film, si fa fatica a credergli completamente.
La parola, anche quando in realtà è "assenza di parola", nell’espressione e nell’intensa recitazione "di sottrazione" di Fabrice Luchini, è la protagonista quasi assoluta del film.
A parere del regista, in quest’epoca è sempre più difficile realizzare una comunicazione intima con gli altri, e proprio i mezzi di comunicazione attraverso i quali ci teniamo in contatto sarebbero i principali responsabili della solitudine dell’uomo.
La solitudine è un filo sottile che lega e stringe i protagonisti di quest’opera, pensata da Leconte come un thriller di Hitchcock, che parte dal mistero e arriva a raccontare una storia d’amore.
In questo senso egli sembra incrociare due tra i suoi più significativi film, l’uomo che spiava S. Bonnaire in "Monsieur Hire" e le solitudini incrociate e riflesse de "l’uomo del treno".
I protagonisti della vicenda, Anne (Sandrine Bonnaire) e William (Fabrice Luchini) entrano in contatto per caso: vivendo un rapporto privo di passione con il marito e sommersa da un senso di colpa per un incidente da lei stessa provocato, Anne decide di rivolgersi ad uno psicoanalista, ma sbaglia porta, finendo nello studio di William, consulente fiscale.
Egli, compresa la situazione,dapprima appare imbarazzato per le confidenze inaspettate della donna, ed ascolta senza avere il coraggio di interrompere il rapporto nato senza intenzione.
Presto però la casualità abbandona definitivamente la scena, e William, incuriosito ed intrigato dalla situazione, inizia a condurre il gioco ed il rituale di sedute impreviste, rivelazioni e seduzioni. Sarà aiutato da uno psicoanalista (quello vero), che in parte indirizzerà il fiscalista nello sviluppo della relazione con Anne e nel cambiamento che ella intraprenderà, e soprattutto condurrà lo stesso al dubbio ed alla discussione.
E’ curioso ed efficace il paragone tra il fiscalista e l’analista, entrambi indagatori della profondità umana, materiale l’uno e spirituale l’altro (il denaro versus le emozioni), entrambi che lavorano "tirando fuori" più o meno letteralmente quello che più tenacemente teniamo nascosto nell’animo o meno siamo disposti a condividere.
Il regista, qui come in altre sue opere, è un maestro nell’attenzione per i dettagli, che sostengono la narrazione ed indirizzano le riflessioni, benché a volte abbiano un leggero sentore di "cliché".
William vive da solo e lavora nella stessa casa, circondato e fortemente attaccato ad una collezione di giocattoli di latta, che ci paiono suggerire la sua difficoltà ad uscire dall’infanzia.
Nella sua vita tutto è in ordine, con tratti ossessivi: spolvera scrupolosamente i mobili, organizza la scrivania con estrema precisione, la stessa precisione con cui si prepara i pasti e sceglie i vestiti.
Ma gi oggetti a cui si lega non riescono più, ad un certo punto, a riempire i vuoti della sua vita, e la sicurezza che gli infondono a poco a poco inizia a sgretolarsi.
Complice in questo è Anne, attraverso le parole, il fascino ed i sospetti che insinuano, più o meno involontariamente, nell’uomo.
Anche lei è descritta attraverso i particolari: esile, nervosa, fuma compulsivamente mentre si svela, mai del tutto convincente, al goffo e malinconico William.
Anne, in cerca di una propria identità, vive con lui una storia d’amore che sempre pare iniziare ed in realtà rimane "in potenza", è una tensione che non trova realizzazione, appare il "fantasma" di una relazione, quel che sarebbe potuto essere ma non conosceremo mai.
Infine lei parte, e risolve, lui la ritrova e forse le confidenze si faranno davvero intime,ed il regista ci regala un gioco di luci ed un’inquadratura finale che è una piccolo capolavoro di cinema, ma tutto questo accadrà fuori campo, fuori dallo schermo, in un altro luogo e in un altro tempo.
Leconte si augura che, insieme all’evoluzione dei propri personaggi, anche lo spettatore sia cambiato durante la visione del film.
Ed in questo caso non possiamo che rispondere positivamente.
Ma non è anche una caratteristica della psicoanalisi?
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