Nel filone cinematografico del "giallo psicologico", di cui "Psycho" di Hitchcock resta sempre il classico prototipo, possiamo inserire questo film di Brad Anderson, in cui, fin dalle prime sequenze, affascina e inquieta l’ambiguità dello scenario: esso non è qui semplice sfondo dell’azione, ma vero protagonista, col linguaggio ossessivo dei suoi richiami simbolici, sussurrati come i lamenti di un coro tragico, fino al grido finale. L’intreccio enigmatico appare, a volte, troppo macchinoso, ma sempre sorretto da un’incalzante tensione.
Come richiede il genere dello psico-thriller, l’indagine si concentra e si esaurisce nel labirinto intrapsichico del protagonista, Trevor Reznik (interpretato in modo convincente da Christian Bale): la sua sofferta magrezza, evidenziata da colori grigio-verdastri, diventa metafora del tormento interiore che lo consuma e lo divora, momento per momento, nello stillicidio delle sue domande senza risposta, in una realtà che ha perso per lui ogni logica comprensibile. La mediocre routine, l’ambiente operaio, freddo e ostile, la ripetitività alienante del lavoro meccanico, sono ingredienti di una normalità tetra ed opprimente, che si apre d’improvviso a squarci inquietanti, con figure intrusive e inspiegabili: un grassone beffardo, la cui presenza si collega, ogni volta, a gravi atti di violenza di cui Trevor deve rendere conto, un bambino epilettico, che egli porta in un tunnel degli orrori nello sfondo di un Luna Park ingannevole. Trevor cerca conforto materno in figure femminili che sembrano accoglierlo, da una prostituta affettuosa (Jennipher Jason Leigh), che progetta con lui un’altra vita, a una barista che sa ascoltarlo e condividere la sua pesante quotidianità. Anche i personaggi reali recitano, a loro insaputa, un ruolo di comparsa in una regia dell’ambiguo: sono se stesse ed altro-da-sé, come in un generale transfert di vissuti inconsci.
Il tema incalzante della colpa si proietta, in senso paranoide, nell’angoscia di un complotto generale, sino al disvelarsi improvviso di una verità rifiutata, che si chiarisce solo nelle ultime brevissime sequenze. I colori lividi, spettrali, di una monotonia soffocante, comunicano, fin dalle prime sequenze, l’angoscia crescente di non potersi svegliare da un lungo incubo ad occhi aperti, segnato da allucinazioni continue e fantasmi interiori, in cui anche lo spettatore, continuamente, si sdoppia in un gioco perverso, entro un’incalzante scansione temporale dai sinistri presagi.
Il protagonista, un uomo su cui aleggiano suggestioni letterarie, da Kafka a Dostojevskij a Pirandello (qui alquanto semplificate), con la sua impressionante magrezza, associata ad una cronica insonnia (che dura ininterrottamente da un anno), vive in una stralunata dimensione: elementi reali si confondono con fenomeni onirici, interiorità ed esteriorità hanno perduto i loro confini e la veglia forzata ed estenuante genera continui mostri, in cui il soggetto rifiuta di specchiarsi e di riconoscervi parti scisse di sé, sfuggite tragicamente al suo controllo.
L’inquietudine che il film riesce a trasmettere, grazie all’abile regia, è tutta nell’angoscia di valicare quell’esile confine tra normalità e follia, garantito da un meccanismo di rimozione che il sogno, "custode del sonno" (Freud), ha la funzione equilibrante di scaricare ed elaborare per ristabilire una sorta di compromesso omeostatico. L’insonnia, che rimane l’ultima difesa del protagonista dall’affiorare dei ricordi, diventa, al tempo stesso, sua salvezza e nemesi, conducendolo ad una destrutturazione della coscienza, fino alla follia.
Innumerevoli sono le suggestioni psicoanalitiche: dal "disimpasto degli istinti" freudiano all’irruzione dell’Inconscio junghiano, con la potenza dei suoi archetipi violati, in un lacerante conflitto espresso anche in grottesche metafore infantili: la più significativa prende le sembianze dell’omino del sadico gioco dell’ "impiccato", predestinato al cappio, scisso nelle sue parti anatomiche elementari: capo, tronco, arti. E’l’uomo-burattino, ridotto all’osso dalla sua colpa, denudato delle sue maschere, inchiodato dalla tragica reminiscenza dei suoi misfatti più ripugnanti. Lo sforzo per non vedersi può durare un anno o una vita, e un evento improvviso può spezzare la faticosa finzione.
L’intento del film, a tratti riuscito, è quello di farci avvertire, quasi in un test proiettivo, l’oscura e minacciosa ombra del nostro alter ego negato, che per ognuno di noi potrà assumere diversi connotati e richiami autobiografici. Solo il recupero della memoria può ricomporre l’Io frammentato, consentendo l’espiazione della colpa.
E’ quindi esasperata fino al paradosso quella tendenza alla dissociazione che caratterizza ogni personalità, nell’alternativa tra rimuovere parti scomode di sé, a favore di un Io socialmente accettabile quanto artificiale, o integrare tutte le sue realtà interiori: questo può avvenire non attraverso un cinematografico colpo di scena, come in questo film, ma, più verisimilmente, a prezzo di un lungo percorso analitico al fine di ristabilire il proprio dialogo interiore.
In generale, i film di questo filone cinematografico, dovendo coniugare certe dinamiche psicologiche con comprensibili esigenze spettacolari, corrono il rischio di attuare spesso compromessi semplicistici, in cui l’effetto scenico clamoroso prevale sulla plausibilità dei fenomeni psichici, con un abuso di elementi mitico-simbolici costruiti a tavolino da registi sensibili alle suggestioni della clinica psichiatrica da manuale divulgativo. Le conseguenze negative di queste "commistioni" sono duplici: da un lato, l’ispirazione artistica è limitata dal peso dell’impianto metaforico-intellettualista, mentre, dall’altro, la casistica scientifica deve adattarsi forzatamente a creare curiosità nello spettatore.
Un certo scopo "educativo" va riconosciuto, tuttavia, nel portare sulla scena, attraverso atmosfere intense, il dualismo fondamentale della vita interiore, che, qualora si trasformi in radicale dicotomia, può portare, con più complessi passaggi, ad una conclamata patologia.
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