di Mario Colucci (Psichiatra presso il Dipartimento di salute mentale di Trieste.)

 

1) Il coraggio della riforma

 

Il 13 maggio del 1978 il parlamento italiano approva a larga maggioranza la legge 180. Fino ad allora la legislazione italiana in tema di psichiatria è stata una delle più arretrate d’Europa. Il tentativo di riforma fatto dieci anni prima dal ministro Mariotti, la legge 431 del 1968, non ha intaccato sostanzialmente l’impianto della legge 36 del 1904. Il criterio fondante è rimasto sempre quello della sanzione giuridica: colui che viene definito "pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo", continua a essere soggetto a un ricovero coatto, ordinato dal pretore ed effettuato dalle forze di pubblica sicurezza, e ad essere affidato in "cura" e in "custodia" all’istituzione manicomiale.

La legge del 1978, già nella sua denominazione "Norme per gli accertamenti ed i trattamenti sanitari volontari e obbligatori", indica un radicale mutamento del punto di vista, perché sposta l’attenzione dalla malattia alla risposta istituzionale che viene messa in atto, cioè al servizio, alle sue risorse, al modo con cui identifica la malattia: "L’oggetto non è più, come nelle vecchie normative, la determinazione dei confini della malattia e l’identificazione delle sue categorie, ma è il trattamento della malattia, ed è sulle forme e le ragioni di questo trattamento che interviene la legge". L’accertamento e trattamento delle malattie mentali diventa di norma volontario. Soltanto in particolarissime situazioni, la persona può essere sottoposta a un procedura obbligatoria, e comunque "nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura". Ed è proprio la procedura del trattamento sanitario obbligatorio che mostra chiaramente i tre punti su cui poggia la legge: esso, infatti, può essere adottato "solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere".

Il primo punto riguarda la malattia, o meglio l’attenzione alla malattia, e il dovere del medico di agire in senso terapeutico, facendosi carico della salute psichica della persona, invece che della difesa della società: si tratta di una "rivoluzione copernicana", che ha in sé la capacità di demolire dalle fondamenta il paradigma dell’internamento, costruito sulla presunzione di pericolosità del malato mentale. È noto: tale paradigma diventa dominante nel corso del XIX secolo, allorquando si assiste a un progressivo spostamento teorico, per il quale la psichiatria incomincia a prestare più attenzione ai modi del comportamento, che alle forme logiche del pensiero. L’interrogazione sul volontario e sull’involontario nella condotta, ossia la nozione di istinto, organizza la risposta alla malattia mentale più di quanto non faccia l’interrogazione sulla distanza della follia dalla ragione, ossia la nozione di delirio. La psichiatria moderna, in altri termini, si pone come nuovo e principale obiettivo della sua azione il controllo dei comportamenti che si allontanano da una norma — familiare, sociale, ma anche politica —, piuttosto che il controllo dei pensieri che si allontanano da una "verità". Ciò che rappresenta la peculiarità della nuova legislazione italiana in materia psichiatrica, ciò che contraddistingue la sua singolarità rispetto ad altre legislazioni e che, in buona sostanza, definisce la ricchezza del suo impianto etico e politico, è proprio l’attenzione all’asse della volontarietà e della involontarietà, che attraversa tutto il campo della psichiatria, sia nella definizione della natura della malattia, sia nella definizione del tipo di trattamento da adottare.

Non si nega che la malattia mentale possa in determinate e particolari circostanze portare a condotte aggressive e violente, condotte che, peraltro, possono essere agite con medesima, se non più alta, probabilità, nella vita di tutti i giorni, anche da persone non affette da alcun disturbo psichico. Si nega piuttosto, in maniera decisa, il pregiudizio anacronistico e invalidante della pericolosità implicita e invariabilmente connessa alla malattia mentale. Si nega soprattutto che tale pregiudizio possa valere all’interno di una legislazione che riguardi il trattamento sanitario di persone affette da un disturbo psichico, facendo di un’assurdità scientifica un principio normativo. La parola pericolosità scompare completamente dal testo di legge. Inoltre, per la legge del 1978 il magistrato o le forze di polizia non possono disporre una cura o un internamento. Le malattie mentali sono una questione medica, nel senso che le persone affette da disturbo mentale hanno pieno diritto di cittadinanza e come tali pieno diritto ad un trattamento sanitario e non ad una coercizione del loro comportamento. Resta solo la figura del giudice tutelare, che ha il compito di vigilare su eventuali abusi nell’applicazione della legge, affinché i diritti costituzionali di una persona, anche quando sottoposta a un trattamento sanitario obbligatorio, non siano negati. Il magistrato esercita la sua azione soltanto a difesa della persona ricoverata. Tutta la responsabilità resta nelle mani del medico che deve proporre un trattamento sanitario obbligatorio, del secondo medico della struttura sanitaria pubblica che deve convalidare tale richiesta, e del sindaco, in qualità di massima autorità sanitaria municipale, che deve ordinare il ricovero. Quindi una decisione che riguarda un dovere etico di cura e un dovere politico di tutela della salute di un cittadino, non più un dovere legale di difesa della società.

Il secondo punto riguarda il consenso, ossia il dovere del medico di farsi carico della libertà della persona, adottando tutte le iniziative opportune rivolte ad assicurare il suo consenso nel caso di un trattamento sanitario obbligatorio. In altri termini, la legge del 1978 s’interroga su quel punto centrale e delicato che concerne il rapporto tra malattia mentale e libertà. Nei due sensi: in che misura siamo davvero liberi quando siamo in preda alla malattia? E viceversa: quanta libertà ci può concedere la società quando siamo malati? Il compito che la legge indica al medico è quello di mettersi al centro di questi dilemmi etici: infatti, essa impone al medico di farsi carico della libertà del malato, nel senso di cercare di ottenere il suo consenso alle cure con pazienza e tenacia, e lì dove ciò non accada, di farsi carico del rifiuto, con una scelta responsabile che garantisca i diritti della persona, primo fra tutti quello di essere curato. In definitiva, non ci si può nascondere dietro questo rifiuto per sostenere, in maniera generica e strumentale, che bisogna garantire il rispetto della libera scelta dell’individuo, mascherando così un atteggiamento di deresponsabilizzazione e l’abbandono del malato in una condizione di solitudine e di miseria morale e materiale. Il medico deve adoperarsi perché sia riconosciuta alla persona sofferente, piena voce all’interno di un dispositivo terapeutico, che resta in equilibrio precario tra la tentazione di controllo per motivi sanitari e il pericolo contrapposto di deriva sociale per rifiuto delle cure. È proprio in questa inesausta contrattazione lo spirito innovativo della legge, che interroga il tecnico intorno alla propriaresponsabilità politica di mediatore tra la sofferenza dell’individuo e la dimensione sociale e istituzionale in cui questa si esprime.

Il terzo punto riguarda la risposta del servizio psichiatrico: non c’è solo la persona con il suo disagio, ma anche il servizio psichiatrico con la sua risposta, la quale sarà il ricovero quando non si è saputa o potuta organizzare una risposta differente: "Dal comportamento in quanto tale pericoloso, si passa alla necessità del trattamento ospedaliero in quanto estrema ratio di un sistema di servizi che non ha organizzato sul territorio una risposta efficace al caso specifico". In altri termini, è dovere del tecnico, con la chiusura di qualsiasi presidio manicomiale, agire in senso largamente e strettamente politico, affinché sia garantita la strutturazione sul territorio di una risposta sanitaria adeguata ai bisogni della persona e organizzata una misura terapeutica efficace che eviti il ricorso a un trattamento obbligatorio in regime di degenza ospedaliera. Ecco perché la deistituzionalizzazione non può esaurirsi affatto in un processo di deospedalizzazione, che scarichi sul territorio la questione psichiatrica senza occuparsi della costruzione di una rete alternativa di servizi di assistenza, aprendo così ai rischi dell’abbandono, del travaso in altre istituzioni segreganti e del ritorno inevitabile in tempi brevi delle vecchie soluzioni manicomiali.

 

 

2) Nonostante tutto

 

"La cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, venti anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale".

Parole pesanti — e in qualche modo profetiche, come vedremo — quelle di Franco Basaglia, il vero padre della riforma psichiatrica del 1978: le esperienze di deistituzionalizzazione — da lui promosse a Gorizia, a Parma e poi a Trieste, insieme con quelle realizzate da altri in varie parti d’Italia — rappresentano una testimonianza inaggirabile, perché hanno dimostrato nella pratica che è possibile superare la segregazione manicomiale e assistere il folle sul territorio. C’è il rischio, però, che tale superamento non possa dirsi conquistato una volta per tutte, ancorché se ne sia dimostrata la necessità. Va detto che si è dovuto aspettare il 1994 perché il Parlamento si decidesse a dotare la legge 180 — che è una legge quadro — di un piano sanitario che definisse strutture, personale e finanziamenti, attraverso l’approvazione del Progetto obiettivo per la tutela della salute mentale 1994-1996, poi reiterato nel 1998-2000; e che si è dovuto fissare di nuovo un termine ultimo per la chiusura definitiva di tutti gli Ospedali psichiatrici nella data del 31 dicembre 1996, come indicato all’interno della legge 724, che accompagnava la legge finanziaria 1995.

Eppure, nonostante l’evidenza dei gravi ritardi nell’applicazione della legge 180 e altresì degli straordinari esiti terapeutici, sociali e culturali lì dove ciò avveniva, nonostante le profonde trasformazioni in positivo a cui è andata incontro la nostra psichiatria dopo l’approvazione della legge, nonostante tutto questo nel settembre di quest’anno la maggioranza di destra al governo in Italia ha messo in campo l’ennesimo tentativo di revisione della legge, attraverso la proposta di modifica dell’on. Burani Procaccini di Forza Italia: "la peggiore tra le 25 proposte di modifica passate in questi 20 anni", "di una grossolanità sconvolgente, preoccupante… una totale mancanza di rigore etico-scientifico", una legge che, se approvata, spazzerebbe via la salute mentale territoriale, assolutizzando la dimensione organica e biologica del disturbo psichico e reintroducendo piccoli manicomi da 50 posti letto ciascuno, di fatto serbatoi di popolazione psichiatrica prevalentemente giovane — definita in base a caratteristiche di pericolosità e inoperosità — lasciata al suo destino di cronicità, autorizzando trattamenti sanitari obbligatori privi di tutela giuridica per la persona sofferente e facendo lievitare vertiginosamente i costi sanitari della psichiatria a vantaggio soprattutto di strutture private con scarsissime garanzie di tipo etico e scientifico.

L’impossibile può diventare possibile: anche che una legge coraggiosa, invidiata da molti paesi del mondo e riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per il suo valore esemplare nella normativa internazionale sulla salute mentale, apprezzata dalla quasi totalità delle società scientifiche e delle associazioni di utenti e familiari, una legge che finalmente incomincia a essere applicata e a dare i suoi frutti, venga fatta oggetto di un’indecente proposta di modifica per lo squallido interesse di pochi. La testimonianza di Basaglia non poteva risultare più attuale, così come la legge che per tutti porta il suo nome.

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