Volentieri ospitiamo uno speciale, interamente curato da Nicola Licciardello*, dedicato all’ incontro-intervista con Manlio Sgalambro (Lentini, 9 dicembre 1924 – Catania, 6 marzo 2014), (http://sgalambro.altervista.org/) intellettuale e filosofo anti-accademico, autore Adelphi e noto anche per l’intensa collaborazione con il cantautore e compositore Franco Battiato (http://www.battiato.it/amici/manlio_sgalambro.htm).
Catania, 21-22 settembre 2005
Manlio Sgalambro, figura assai singolare in Italia di filosofo anti-accademico: da oltre vent’anni è ‘in quota’ Adelphi, (http://www.liberonweb.com/Adelphi/aut_sgalambro.asp ) e dal ’94 in sodalizio con Franco Battiato, con cui ha scritto il libretto dell'opera lirica Il cavaliere dell'intelletto(1994), i testi degli album L'ombrello e la macchina da cucire (1995), L'imboscata (1996), Gommalacca (1998), i testi "Medievale" e "Invito al viaggio" di Fleurs (1999), del balletto Campi Magnetici (2000) e di Ferro Battuto (2001). Con Battiato sta infine presentando il film Musikanten sulla vita di Beethoven.
Pochi giorni prima d’imbarcarmi con la macchina sul container "espresso Catania-Ravenna" (39 ore), dopo un viaggio nelle tradizioni di canto e poesia orale — ottave maremmane, cantadores sardi (e Franco Loi), cuntisti siciliani alla Buttitta, Alan Lomax e coro polifonico Mille Regrets — decido di ascoltare anche la voce di Manlio Sgalambro, il ruvido filosofo le cui opere non mancano in nessuna libreria di Catania. Gli telefono presentandomi come giornalista del "Mattino" di Padova, nonché antichissimo collaboratore di Cacciari, così mi da’ subito appuntamento per l’indomani. Abita nel centro storico, in una piazza dai preziosi chioschi di bibite e bancarelle di libri. Mi fa sedere al suo posto, di fronte al computer, lui si accomoda in una spigolosa poltrona, in giacca e cravatta, un piglio cordiale e serissimo, la faccia arruffata, caprigna. Un’altissima scala in ferro troneggia nella stanzetta, soffocata da pareti di libri fino al soffitto e rumori di fuori ("mi piace vivere in mezzo al fracasso, gli alberi non li sopporterei"). Accetta volentieri la ripresa video integrale (incluso le telefonate delle ammiratrici). Il familiar-teatrale accento catanese, nelle risposte più lunghe, s’innalza fino ai toni epici. Naturalmente non possiamo esaurire in una seduta: "Domani mattina, quando vuole, poi resta a pranzo con me". L’ospitalità sicula non si può rifiutare. Siamo entrambi rammaricati del fatto che io non posso abbuffarmi alle tre portate di pesce, imbandite dalla giovane paffutella come una mesoamericana, che siede con noi a tavola. Signorilmente s’informa su cosa faccio io, vuol leggere le mie poesie. La conversazione terminerà sulla fine della dignità in questo tempo.
Lei si definisce uno fra i rari epigoni di Schopenhauer, ma con Battiato non disdegna la mondanità e il successo.
Questa collaborazione è interessante, oltre che per l’aspetto economico (non trascurabile), per quello culturale, lo spiego in Teoria della canzone (Bompiani, 1997). Il conflitto fra le lingue e fra le età, ma già l’intelligenza, il gusto, il talento, la bellezza, la forza, la ricchezza interiore: è lo scomparire di queste dannate disparità che inseguo. Il fatto che io ‘pensi’ mi sembra debba offendere anche più della ricchezza. Ma vedo che, a differenza della fanciullezza, dell'adolescenza e della maturità, che sono in balia del mondo della vita, nella vecchiaia tutto è compiuto e perciò perfetto: come dico nel Trattato dell’età (Adelphi, 1999) in essa ci si congeda dal tempo dell'Io, cioè il tempo del desiderio, e senza l’ansia della riproduzione c’è il vero eros, il trasalimento. L'apice dell'amore è nella conoscenza del tempo dei tempi, in cui amore e morte si abbracciano senza frainteindimenti.
Diceva che scrive all’interno di una precisa tradizione filosofica e terminologica, quella occidentale. E che caratteristica di questa è l’essersi costruita intorno all’idea di Inizio.
Sì (forse tutte le culture lo hanno fatto, ma noi ci occupiamo di quella occidentale). Effettivamente la nostra cultura è basata sul concetto di Inizio. Il problema è che noi non solo ‘traiamo’ certezze, ma abbiamo anche certezze logiche. Il nostro sistema solare è quello che io definisco l’orizzonte teorico, da cui si può effettivamente anticipare…(La morte del sole, Adelphi 1982, tradotto in tedesco da Hanser Verlag di Monaco, in corso una traduzione in francese). Cioè, noi abbiamo con l’inizio un rapporto di contemporaneità. Per altro verso anche tra la Fine e noi vi può essere un rapporto di contemporaneità: purché noi facciamo quella che Kant chiamava un’ "anticipazione della percezione". E ci regoliamo fin d’adesso sulla sua base. Cioè, perché mai di un dio che ha creato il mondo ex-nihilo, o di un inizio in illo tempore noi facciamo culto, attorno ci accasiamo, abbiamo fatto unità attorno all’inizio. E in un momento in cui vediamo profilarsi più chiaramente la fine di tutto questo, non riusciamo ad accasarci attorno all’idea di fine — non all’idea di fine individuale, ma di fine cosmica — cioè non riusciamo ad avere il senso (che ci dev’essere dato, fin dall’inizio effettivo e produttivo, non una misera trovata, anche se la scienza ce lo mostra, come può), non riusciamo ad avere l’antipazione della contemporaneità, il sentimento della contemporaneità. Questo potrebbe avere un rilievo quasi simile a quel sentimento di contemporaneità con Dio che ha un Kierkegaard. Con questo sentimento avremmo un bandolo per regolare i nostri rapporti, stabiliremmo meglio quella compassione che nel pessimismo classico rimane senza una base reale – senza quell’unità di tutti che sempre è presente nelle teorie iniziatrici, nelle riflessioni che si fanno sull’inizio da cui tutto deriva per poi moltiplicarsi … ? E allora il punto è questo, niente fondamentalismi, almeno per quanto mi riguarda, niente riflessioni religiose, ma una filosofia che per esempio s’instaura severamennte in un Kant, prosegue con Hegel, più in là con Schopenhauer — e che poi si ferma, miseramente strattonata in un Heidegger
E Nietzsche ?
Nietzsche rimane in tutto ciò colui che ha mandato tutto all’aria, diciamo così … io ho pubblicato delle poesie su Nietzsche (Frammenti di una biografia per versi e voce, Bompiani 1998),) non quindi in parole che certo corrono qua e là nei miei scritti, ma in una forma che con un po’ di buona volontà si può chiamare poesia
Il rapporto della poesia, dunque, con questa Sua filosofia dell’empietà, coerente pessimismo — con una poesia che in quanto tale deve render conto dei 5 sensi (come si è detto a Modena i giorni scorsi), la nostra appartenenza al sistema solare — in De mundo pessimo, (Adelphi 2005) mi hanno sorpreso i Suoi accenni alla "benevolenza" con cui il sole conferirebbe vitalità agli esseri, etc. E la contraddizione essenziale della poesia di oggi è forse il dover render conto delle emozioni di appartenenza al sistema solare, e una verità che sempre di più si fa strada anche nel senso comune della gente — per cui la Sua filosofia non risulta così strana o ‘pericolosa’… Dunque: poesia e senso comune della "fine del mondo".
Vorrei cominciare con una precisazione. La filosofia più nobile ha proseguito con termini come "essere", che a me non da’ affatto i brividi — me li da’ invece lo scoperchiarli e trovare quella molteplicità di enti che lo costituiscono. Parlando di sistema solare voglio approcciarmi meglio alla realtà, di qualcuno che dice "essere" a qualcosa… qualcosa che in qualche modo mi cozza contro, non posso maneggiarlo come un facitore di concetti (e noi dobbiamo frequentare concetti, null’altro possiamo). Cosichè a me risulta più ‘solido’ parlare degli enti piuttosto che degli esseri. Quanto al modo di parlarne, ci può essere quello di una poesia ‘impoetica’ — c’è una mia poesia, Opus Postumisimum (dove parlo di Kant in definitiva) dove la parola si rompe spesso — non nel senso della (defunta) avanguardia italiana o tedesca, ma nel senso dell’immagine che vuole seguire da vicino il disfarsi di Kant, il disfarsi del suo cervello, e posso farlo solo in questa ‘impoesia’. L’altra domanda connessa ?
Che questa consapevolezza della fine, specialmente dopo il settembre 2001 e tutto ciò che ne è seguito, diventa sempre più comune…
E perché no ? Lasciamola diventare più comune, vediamo che frutto possiamo cavarne. Dagli accasamenti attorno all’idea di Inizio non possiamo più derivarne nulla. Non un dio ci può salvare e non c’è niente da salvare, in questo mondo che non è altro che un principio autodistruttivo giorno dopo giorno — non il "divenire": il concetto hegeliano di divenire impallidisce di fronte a quello che in realtà avviene, e non soltanto nel mondo umano. Questo è il rovesciamento — pur nel rispetto della terminologia — che vale più che una storia della filosofia (dove si vedono muoversi uomini, professori, cosacce). Nella vera terminologia filosofica invece si respira aria pura, attraverso di essa si vedono muoversi cose
Quello che non mi convice completamente nella sua presentazione è quando Lei parla appunto di questi "enti" del sistema solare come apsuchon, "senz’anima".
E’ un’eredita’ che ricevo dalla Filosofia della Natura di Hegel, mentre trovo che la filosofia di Goethe e di Schopenhauer la fa sembrare grama, asfittica
In un punto Lei dice che "percepisce" la musica delle sfere.
Musica come rumore di un macchinario, non neoplatoniche melodie
Mah. E poi su Spinoza: al posto dell’equazione libertà-necessità, Lei pone una "contro-finalità" a questo dio "distruttore, smisurato e annientante", va bene. Ma da dove Le viene questa "superbia" di credersi "superiore a Dio" perché capace di pensarlo (lo stesso pensare di pensare non è che semplice pensiero, dico in una mia poesia) — mentre Spinoza, pur avendolo pensato, non se ne sarebbe accorto ? E’ un punto molto bello di discussione, credo
<Avremmo bisogno di giorni e giorni …Certo, come lei sa, un pensiero tenta di difendersi anzitutto chiudendosi dentro quello che è il suo modo proprio, e tutto quello che pesca chiuderlo entro qualcosa. In questo senso — sistema no, perché il sistema è impossibile, ma — il sistema è come una scia che tutte queste cose che uno si porta dietro fanno, e allora se uno ogni tanto la guarda questa scia, e dice ‘ma guarda, la scia che stanno lasciando i miei problemi’, allora forse può ricompattarle, darne un senso, i rapporti che hanno l’uno con l’altro. Questo senso di spezzato, di torsi, come quando si va in un museo e si vedono torsi di statue, o pezzi, mani, la testa di uno, di un altro il busto — tutto questo senso del rimasto, è così che io trascino i miei problemi, ma non come qualcosa di assemblato in anticipo, bensì come qualcosa che si va accumulando sotto un rastrello, fino a costituire una massa… Che cosa sono queste cose, hanno un filo conduttore ?
[interruzione]
Torniamo al discorso di jeri, la filosofia occidentale legata all’idea di Inizio (Cacciari ci ha scritto un libro, anche se ora ha scritto l’altro, il termine ad quem, cioè il Fine, "toccare il dio"). Ma tutto questo non condiziona forse anche la Sua idea di "morte in comune", questa necessità escatologica, la "comunità dei morenti" …
Io la intenderei come emozione comune, più che come una comunità ‘predisposta’ in un qualche dio — cioè una comunità ‘accidentale’, nel senso che tutti gli uomini hanno delle causalità, ma un punto ci consente di avere un’emozione comune, quella che tutti finiremo, in particolare — non m’interessa di quelli che moriranno fra duemila anni — tutti quelli che vivono in questo scorcio di tempo, i miei contemporanei appunto, e che quindi possono essere tutti — tutti è un termine da barbiere — "tutti" possono comunque, avere lo stesso senso della fine…noi possiamo ammirare non il grande essere del mondo, ma il fatto che questo si distrugge. Se noi consultiamo per esempio un buon numero di cosmologie che — al posto della metafisica, che ha dato le dimissioni — tramite grandi matematiche, sono tentativi di dare delle risposte, congetturali certo, a domande che hanno per oggetto non il tutto, ma enti specifici (non fanno come la filosofia, che parla dell’Essere, termine popolare ormai, dopo la vulgata heideggeriana o severiniana, non certo aristocratico) — la scienza parla degli enti, che fanno un aggregato, non un tutto come se fosse organico, un coacervo di enti, e allora qui, diciamo, uno s’avvede come la scelta filosofica possa addentrarsi negli anfratti, nei punti o interstizi di questo aggregato di enti…
La parola "aggregato" mi spinge a farLe un’altra domanda: anche il buddhismo parla diaggregati, ed è tra le poche visioni che non ricorre all’idea di Inizio. Inoltre, il Suo "sapere beato, in cui tutto sarà dato in una sola volta, sopraggiungendo in quell’istante da chissà dove al ramo rinsecchito, che dopo la rinunzia più non germoglia" mi ricorda le inevitabili ‘citazioni’ orientali del pessimismo occidentale (Schopenhauer). Pensi al sat-chit-ananda ("esser-coscienza-beata"), paradigma vedantico che passa anche al buddhismo
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Come le dicevo, io penso nella terminologia filosofica occidentale. Lo scandalo filosofico del Novecento è quello di teorie micidiali che sono state fatte da filosofi come Heidegger, il cui scandalo è che lui non se ne sia scandalizzato, ma abbia mascherato il suo tentennamento (in modo da lasciare ai posteri l’interpretazione della sua opera omnia) — era un uomo che non aveva un grande coraggio personale, come testimoniano alcune lettere alle sue allieve amanti (la moglie era sempre presente, perciò lui doveva esporre delle pezze, dei segnali per dire "si può"/"non si può") — la verità accademica, che forse è meno dannosa nelle discipline farmacologiche, la verità accademica filosofica è che l’università deve formare un soggetto, un uomo come entità preconfezionata, un cittadino che vive in una società di cui condivide il principio fondamentale — mentre il filosofo dovrebbe essere quello che esprime i dubbi, almeno così ce lo presentava la filosofia moderna — e questo non significa esporre il dubbio per cinque secondi ai propri studenti, significa macerare, magari non nell’ambito del proprio vissuto, ma nell’ambito del proprio fare filosofico. Un buon filosofo non espone i suoi dubbi, ma scrive quando in un modo o nell’altro crede di averli superati, di non averli più. Oggi un filosofo deve osare, andare dove lo porta la sua testa, la sua educazione filosofica, il suo principio, la sua visione di che cosa significa pensare — i limiti glieli devono dire gli altri, "guarda, tu hai saltato i limiti che il Kant pose … quali delitti stai facendo, Popper, tu stai dicendo cose non-falsificabili, e quindi al di là di vero e non-vero, nel senso basso della fisica. Io sto andando, sto spaccando queste cose. Poi tu me lo vieti, mi dimostri che con queste cose che ho spaccato ho disubbidito alla dea …
Quindi ritiene che Emanuele Severino, ad esempio, questo non lo faccia.
Lo riterrei come ogni filosofo che appartiene all’Università — io mi sono sempre tenuto lontano dall’università per tenermi, almeno consapevolmente, lontano da qualcosa che avrebbe agito in me — l’ho scritto lì, in Della filosofia geniale (postfazione a La filosofia dell’Università di Schopenhauer, pubblicata da Adelphi tempo fa) — cioè dalla condivisione di una filosofia generale che ammorba tutte le filosofie particolari che poi si possono avere al suo interno. Per forza. Perché la filosofia non è un progetto di "adaequatio" del pensiero alla realtà (abbiamo oltrepassato questo concetto di verità), è il contro semmai, l’esibire il contro — non nel senso che l’universo ci sia avverso perché ha una mente diabolica, ma è un fatto nel suo complesso, perché esiste e ci opprime, se ne capisci la grandezza — non l’infinità — ma la smisuratezza.
I nostri cattedratici hanno dovuto eliminare documentazione su Heidegger tacciandola di propaganda. Se Heidegger si fosse assunto le sue colpe, dicendo ‘sì, io ho commesso gli errori del mio tempo, sono stato così più capace di voi di capire l’errore, il male’ — difficilmente si può parlare del male se non si è fatto o subito. I cattedratici forse l’unico male che hanno subito è quello che faceva dire ad Adorno, donnaiuolo squisito, che se avesse dovuto rinascere gli sarebbe piaciuto rinascere "playboy".
Torniamo al Suo rapporto con questo ambiente, con Catania e la Sicilia
Per quanto ne sono consapevole – e di questo solo rispondo, non delle cose cosidette inconsce, che non mi picco d’indagare — non ho "rapporti", è piuttosto l’estensione della mia pelle. Mi sono un po’ rivoltato ultimamente contro quei catanesi che hanno votato nelle ultime elezioni per quello che hanno già toccato, cioè una politica basata sui cessi, una "plebaglia", com’ebbi a dire in un’intervista che ha suscitato un po’ di rumore, e per cui anche Battiato ha deciso di andarsene, ed è stato perdonato dal sindaco, ma io no, sono ancora imperdonato. Comunque, certo, quando atterro all’aeroporto dopo un viaggio, sento piacere, un piacere naturale, poi tutto finisce, io praticamente vivo in me stesso in rapporto a questi rumori, mi piace abitare in questi punti di rumore, fracassi — gli alberi non li sopporterei. Ho scritto qualcosa sulla Sicilia. Ma quanto al vivere qui, devo dire che mi trovo bene, ho un collegamento immediato, da ragazzino vivevo a Lentini dov’ero nato — non c’erano i giardini che avrebbero sostituito le pensioncine — mio padre era farmacista, mio zio avvocato e aveva delle campagne, dove ogni tanto andavamo. Ricchissima terra, dove poi ci sono stati ritrovamenti archeologici, e così mi sono trovato a giocare con le ossa — dei greci, dei graeculi, di tutti quelli che vi avevano abitato o comunque erano passati da lì (si ritrova in un mio poemetto…) ebbene, mi trovavo bene, mi ci trovo bene in mezzo, io non sono portato a scrivere osservazioni…ho scritto della differenza del vivere in società e in politica… mi sono trovato a vivere in regimi dittatoriali. Un giorno alla stazione di Lentini vedo un farmacista che conoscevo, scortato da guardie, che aveva per le mani moltissime catene, lo stavano portando al confino, perché considerato un facitore di disordini, uno che parlava, parlava.
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Ma anzi a me da’ fastidio chi parla male della Sicilia, ma ne parla male perchè il giudizio non è tale, è mal motivato, è piuttosto un qualcosa di non corrisposto, un risentimento …
Cosa pensa della cultura popolare siciliana, come Ignazio Buttitta, rievocato in questi giorni da Fabio Monti ?
Buttitta non lo frequentai, ma non per scelta di antipatia, semplicemente non entrava nella mia strada. Feci un’osservazione su Sciascia che poi mi è stata da qualcuno imputata (ma altri l’apprezzarono, come il "Corriere della sera"), e cioè che lo scrittore che oggi voglia fare scrittura civile, diciamo nel suo orizzonte, nella sua fantasia, dovrebbe uscire da qui, dalla denuncia dei soliti problemi, la mafia etc — si sente la stanchezza della ripetitività di questi temi, si avverte che non sono attecchiti né a livello personale, né a livello storico, per cui reputavo Sciascia diventato una specie di burattino. Mi fa piacere che sia tornata ora una scrittura popolare, che sembrava morta e sepolta — Camilleri — mancavamo da tempo di una scrittura popolare, mediatrice, nel senso che può circolare tra milioni di persone — negli anni trenta ci fu un un solo scrittore, la circolazione letteraria era circoscritta, basti pensare che il primo libro di Montale fu stampato in 250 copie, ma allora c’era una veicolazione diversa, un passaparola. Qui manchiamo di case editrici, a parte Sellerio, abbiamo fatto un esperimento con la "De Martinis & C" che per alcuni anni pubblicò cose di rilievo (Contro la musica, 1994), ora c’è "Prova d’autore" (Nell’antro del filosofo, 2002) con Mario Grasso, persona molto simpatica.
* Nicola Licciardello, nlicciar@alice.it cresciuto a Catania e laureato a Trieste, pubblica su riviste di poesia comparata e vari periodici. Viaggiatore, intervistatore e traduttore (beats e latinoamericani), ha organizzato incontri e slam poetici e la Giornata Mondiale della Poesia a Padova. Per Fermenti (Roma 1994) è uscita la sua raccolta di versi Il Ballo Immune, e del suo CD Grazie alla terra sono presenti brani nel sito audio ilnarratore.com (http://www.ilnarratore.com/). Gioca con innesti in varie lingue ("trans-poesia") nel volume di prossima pubblicazione La gioia dell’impossibile.
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