I prossimi cambiamenti nel DSM sono una buona occasione per tornare a volgere l’attenzione alle tesi prevalenti in materia di disturbi, disordini, sindromi o anomalie psichiche. La mancanza di un sostantivo comune capace di designare la pluralità dei fatti in precedenza sussunti nella categoria classica della malattia mentale, è sintomatica dell'esitazione con cui tratterò l'argomento. I saperi psichiatrico-psicologici hanno rimodellato drasticamente le proprie matrici concettuali, e stiamo ancora esplorando, muovendoci a tentoni, l'ordine del nuovo puzzle teorico.
La questione è complessa. Per questo motivo, mi soffermerò in un angolo del problema, quello dei fondamenti epistemici della distinzione tra anomalia, deficit patologici e differenza di stili di vita. Muoverò da una valutazione, a volo d'uccello, delle modificazioni occorse a questi saperi.
Negli ultimi tre o quattro decenni, tre eventi culturali hanno orientato i discorsi sulla vita mentale nella direzione precedentemente indicata. Il primo è stato il mutamento dello sguardo psichiatrico soi disant scientifico. La psichiatria ha cambiato la percezione della malattia mentale sulla scorta delle innovazioni nel campo della neurologia clinica, delle tecnologie per la cattura di immagini del cervello, di nuovi metodi di analisi statistica ed epidemiologica, della psicofarmacologia e, infine, degli interessi economici dell'industria farmaceutica. La convergenza di questi fenomeni ha determinato l'egemonia dell'idea di una psichiatria fondata sull'evidenza.
Non importa, al momento, discutere di ciò che il corpo professionale psichiatrico intende per "evidenza". Ciò che è essenziale è che la psichiatria clinica ha rinunciato a formulare ipotesi sulla personalità del paziente o sull'architettura olistica della patologia. In conseguenza di ciò, i confini tra i quadri nosologici sono stati ridisegnati, così come gli obiettivi terapeutici. Dal punto di vista terapeutico, il protocollo di trattamento delle anomalie mentali si è limitato a descrivere i sintomi, individuare una possibile causalità cerebrale, prescrivere il farmaco correlato ed eventualmente consigliare una psicoterapia, per lo più cognitivista. Dal punto di vista nosologico, le classificazioni recenti, invece di riflettere le discontinuità qualitative tra le anomalie soggettive, sono state diluite in un continuo puntuato per gradazioni di intensità, durata, persistenza o resistenza dei sintomi alla prescrizione terapeutica. Stati psicologici eterogenei, in precedenza separati da rotture teoriche, sono stati sistemati nel concetto di spettro.
Il secondo evento è stato il movimento intellettuale degli studi culturali, e tra questi gli studi sulle “disabilità” mentali. Questi studi socio-antropologico-psicologici, costruttivisti o decostruzionisti, hanno trovato un forte alleato nelle politiche identitarie delle minoranze. L'alleanza ha portato alla progressiva naturalizzazione delle espressioni psicologiche precedentemente interpretate come devianti o patologiche. Ciò che era visto come patologia ha finito per essere visto come un modalità di soggettivazione singolare, con diritto al pieno riconoscimento civico-morale, che comprende gli adeguamenti ambientali reclamati dalle soggettività in questione.
Il terzo evento, infine, deriva dalle ricerche teoriche sulla genesi, lo sviluppo, e il funzionamento dello psichismo. In questi studi si inquadrano opere di diverse filiazioni concettuali: fenomenologia psicologico-psichiatrica, cognitivismo corporificato, psicologia ecologica, filosofia analitica della mente, psicologia dello sviluppo, neuroscienze, psicoanalisi etc. Appoggiandomi a queste teorie intendo delineare una mappatura provvisoria di questioni epistemiche riguardanti il significato di termini come anomalia, deficit e differenza nell'orbita della vita psichica.
Come punto di partenza, ritorno alla definizione classica di Canguilhem di "anomalia". Canguilhem afferma:
"Non esiste un fatto normale o patologico in sé. L'anomalia o la mutazione non sono, in sé, patologiche. Esprimono altre norme di vita possibili. Se tali norme sono inferiori a quelle specifiche precedenti per la stabilità, la fecondità e la variabilità della vita verranno considerate patologiche. Se, eventualmente, si rivelano, nello stesso ambiente o in ambienti equivalenti, superiori, verranno chiamate normali. La loro normalità deriva dalla loro normatività. Il patologico non è l'assenza di norma biologica, è un'altra norma comparativamente rigettata dalla vita. " (Canguilhem, 1972)[1]
La definizione di Canguilhem oggi può subire diverse correzioni. La sua distinzione tra anomalia e anormalità rimane rilevante, ed è diventata una partizione decisiva per affrontare in prospettiva epistemologica le nozioni di normalità e patologia. Lo stesso, comunque, non si può dire della distinzione tra normatività superiore e norma inferiore o patologia. Infatti, se il criterio che definisce una norma superiore è l'esistenza di modalità di vita stabili, feconde e variabili, difficilmente incontreremmo quadri clinici che corrispondano a questa esigenza, anche limitandosi a considerare le patologie organiche. Gran parte delle malattie organiche non soddisfano tali requisiti, e la maggior parte dei disturbi mentali è ben lungi dal raggiungere tale gravità.
È necessario pertanto rivedere l'apparato concettuale canguilhemiano. Un modo, secondo me, è prendere la strada parallela che analizza due criteri tradizionalmente utilizzati per distinguere tra il patologico e il "normativo normale": a) il criterio della disfunzione e b) il criterio dell'atipia.
Nell'epistemologia della medicina organica, la controversia sulla validità di questi criteri è antica. Molti autori contestano l'adeguatezza dei concetti di "funzione" e di "tipo" nell'analisi dei concetti di malattia/patologia o salute/normatività superiore[2]. In primo luogo, sostengono, il concetto di funzione presuppone una concezione teleologica degli organismi, incongrua con l'idea della selezione naturale. Affermare che l'organismo possiede una funzione passibile di distorsione o di deviazione implica attribuire a questo organismo una finalità senza un luogo teorico nel parametro della variazione cieca e della selezione ritentiva implicita nelle ipotesi naturalistiche sulla vita biologica. Non c'è come dire che uno stato organico è "disfunzionale", per introdurre, surrettiziamente, un giudizio normativo su ciò che è "proprio", inerente o intrinseco all'organismo in questione.
In secondo luogo, se si abbandona la teleologia implicita nella nozione di funzione/disfunzione, a favore dell'idea apparentemente descrittiva di "tipo", i problemi non sono minori. I termini tipico e atipico appartengono al linguaggio ordinario non a quello della scienza. In natura, la variazione è il "tipico", la costanza, l'"atipico". Parlando di tipo, ricorriamo al senso comune, che classifica, in modo puramente pragmatico, il consueto, il ricorrente, il familiare come "tipico". L'uso volgare della parola, tuttavia, non ha lo scopo di eleggere la tipicità come norma biologica, in opposizione a ciò che sarebbe disfunzionalmente atipico. Il tipico come figura del linguaggio è una convenzione discorsiva destinata ad includere determinate cose o eveti in classi logiche distinte. Quando diciamo, ad esempio, che la classe degli uccelli ha come rappresentanti tipici polli, anatre e aquile, e non struzzi e pinguini, siamo semplicemente economizzando descrizioni complesse di tali animali, trascurabili nella vita pratica. Lo stesso accade quando si dice che le balene o i pipistrelli sono mammiferi non "tipici".
Pertanto, la nozione di funzione/disfunzione, nella versione teleologica o tipologica, non è sufficiente per esaurire la natura del fatto patologico. Disfunzioni e atipie presuppongono, entrambi, modi ideali di esistenza che appartengono alla sfera dei valori e non dell'immanenza biologica, vale a dire, degli adeguamenti fisici immediati ai cambiamenti dell'ambiente interno o esterno.
1. Dalla variazione cieca all'intenzionalità.
Canguilhem era ovviamente consapevole di ciò. Così muove un ulteriore passo avanti nella discussione affermando che,
"Una norma si propone come una possibile modalità di unificazione della diversità, come un riassorbimento di una differenza, di regolamentazione di una controversia (différend). Ma proporre non è imporre. A differenza di una legge di natura, una norma non necessita del suo effetto. Ovvero, una norma non ha senso semplicemente in sé. La possibilità di referenza e regolamentazione che offre, posto che è solo una possibilità, contiene la latitudine di un'altra possibilità che sola può essere invertita. Una norma, infatti, è solo la possibilità di una referenza quando istituita o scelta come espressione di una preferenza e come strumento della volontà di sostituzione di uno stato di cose deludente con uno stato di cose soddisfacente." (Canguilhem, 1972)[3]
Canguilhem va diritto al punto. Non solo dice che dove c'è norma c'è preferenza e, di conseguenza, intenzionalità. Ciò di per sé sarebbe un'affermazione audace, perché introduce un corpo concettuale estraneo nelle mutazioni non intenzionali della materia organica, teoricamente responsabili per l'emergenza di normatività di nuova istituzione[4]. Procede e afferma, pur in modo non esplicito, che la parola "norma" è una proiezione dell'intenzionalità nei fenomeni mentali vissuti o concepiti. Definire la norma come "sostituzione di uno stato di cose deludente con uno stato di cose soddisfacente", vincola, ipso facto, il significato della parola a questo genere di intenzionalità. Nel vocabolario di Canguilhem, il carico semantico del termine "norma" è indissolubilmente legato all'idea dell'aspirazione ad uno stato di cose più soddisfacente.
È possibile controargomentare che la parola "soddisfazione" viene utilizzata in forma analogica per fare riferimento a fatti sub-personali. L'obiezione è infondata. Soddisfazione e delusione non esistono nell'economia della natura, che è valutativamente neutra rispetto a qualsiasi configurazione dei suoi stati. Preferenza è la proiezione sull'esistenza naturale di un processo o di uno stato intenzionale. Questa proiezione, ovviamente, non è gratuita, anodina e tanto meno volontaria o deliberata. Non di meno sfugge l'orbita delle attività di rappresentazione che è alla base delle intenzioni.
Nella vita psichica, quindi, è chiaro che il normativo, il funzionale o il tipico è uno stato ideale, immaginato in funzione dei nostri desideri, credenze e giudizi. Ideale che, tuttavia, viene rimesso continuamente in discussione dal continuo mutare delle condizioni di soddisfazione create o assunte dal soggetto.
Data questa premessa, ne segue il corollario: la soddisfazione può essere raggiunta in differenti modi, tutti in linea di principio "atipici", fino a che non vengano a stabilizzarsi e a inscriversi nel vocabolario delle soddisfazioni "tipiche"[5]. Se l'affermazione è accettabile, credo che, nel dominio psichiatrico-psicologico, l'ideale normativo contemporaneo sia stato ridefinito come una curiosa entità dal volto duplice. Per un lato, appare come una traduzione psicologica spudorata e draconiana dell'ideologia dell'individualismo possessivo e del consumismo. L'ideale dell'autorealizzazione è diventato equivalente all'essere competitivo, eternamente giovane, magro, ricco, atletico, insomma, fruitore di grandi piaceri e possessore di beni che ostentano opulenza socio-economica, l'altro lato è diventato ricettivo a molte forme di atipia mentale. In altre parole, la piramide degli ideali si è assottigliata al vertice e allargata alla base. La nostra società si rappresenta come austera e rigorosa nella selezione dei candidati per il posto di ideale dell'Io e tollerante nella convivenza con "gli altri". Per un verso, seduce e invita tutti a partecipare al gioco dei predicati invidiabili, per l'altro limita l'accesso al podio solo alle celebrità egoiche.
Non intraprendo una discussione sugli effetti collaterali patogenici della dimensione superegoica inestricabilmente intrecciata a queste immagini ideali del sé. L'argomento è stato ampiamente trattato nell'area dei disturbi che comprendono sentimenti di inadeguatezza, vergogna, panico, fobie sociali, distimie etc.[6] Passo quindi al tema dell'atipia, affermando che la psichiatria, in sintonia con la cultura della flessibilità, ha creato una moltitudine di nuove etichette diagnostiche, molte delle quali certificate dal battesimo neuroscientifico. Dove in precedenza si avevano nevrosi, meccanismi di difesa, tratti del carattere, personalità patologiche e così via, esiste ora la "neuroatipia."
Per illustrare un'idea che sembra caricaturale, cito il caso di Cristiano Camargo, autore del libro Autista com muito orgulho: a sindrome vista por dentro[7]. Camargo si descrive come "Asperger" e, nella presentazione del libro, riferendosi alla sua condizione mentale, afferma:
"Un'espressione che utilizzerò molto qui e che può generare dubbi è “neurotipico.” Significa che la persona non è portatrice di Sindrome di Asperger o autismo.”[8] (Camargo, 2012)
La frase dell'autore non lascia alcun dubbio: ci sono neurotipici e neuroatipici, e i due tipi si disputano il diritto legittimo alla cittadinanza psicologica. I neuroatipici, finora banditi dall'universo della rigida "normalità psichica", dispongono, ora, dell'argomento scientifico per affermare che sono inevitabilmente costretti a pensare, sentire e agire nel modo che è loro caratteristico.
Guadagno per un verso, perdita da un altro. Il vantaggio è che le persone stigmatizzate come "anormali" o "disabili" hanno cominciato ad assumersi la responsabilità per la particolarità della loro vita senza sensi di colpa, vergogna, sentimenti di inferiorità o senza l'onere di dover mostrare la parvenza di essere "normale". Il rovescio della medaglia è che la gara per la diagnosi scientifica ha generato un'inflazione di "piccole differenze cerebrali", che hanno preso il posto delle vecchie differenze nevrotiche, perverse, psicotiche o borderline e vengono ad essere trattate come se ci fosse un farmaco psicotropo per ogni idiosincrasia neurale.
2. Dall'atipia idealmente normativa all'atipia patologica.
In ogni caso, qualunque organizzazione psicologica dipende dall'ethos culturale nel suo essere definita come atipia idealmente normativa o atipia patologica. In altre parole, le culture sempre stipulano a) quali atipie verranno viste come varianti identitarie compatibili con gli ideali normativi e b) quali tra queste verranno descritte come stati deficitari.
La classificazione è limitata da due fattori. Il primo è di ordine etico o morale. La vita mentale atipica deve mostrarsi compatibile con le convinzioni etiche centrali della cultura per essere accettata come uno stile di vita inusuale e non come tratto psicopatologico. Particolarità psicologiche che trasgrediscono la moralità minima dominante difficilmente vengono ammesse come una mere varianti minoritarie delle espressioni mentali. Il fattore morale, nonostante il peso enorme che ha nell'espansione o nel restringimento dell'ideale normativo, non verrà esplorato in questo lavoro.
Passo al secondo fattore, che riguarda la questione epistemica: quali atipie, una volta accettate moralmente, possono venire classificate come differenze identitarie o come deficit patologici? Affrontare tale tema è complicato. Il consenso relativo alla linea di demarcazione tra atipie mentali assimilabili dagli ideali dell'Io e atipie patologiche è quasi nullo. Le opinioni vanno da quelle che negano l'esistenza dei disturbi mentali a quelle che tendono a patologizzare qualsiasi espressione inusuale della psicologia della vita quotidiana. Cerco di muovermi in un'altra direzione. Provo ad esplicitare, per quanto possibile, perché si percepiscono certe atipie a) come stati psicologici deficitari o b) come tratti idiosincratici identitari senza connotazione patologica.
Per chiarire la via intrapresa, ricorrerò in forma abbastanza libera alle tesi dell'antropologo Irving Hallowell (Hallowell, 1955:75-110) esposte negli studi sulla cultura e l'esperienza psicologica. Hallowell sostiene che ogni cultura deve fornire ai suoi membri le coordinate simboliche o materiali che consentono, facilitano e incoraggiano l'auto-riflessività. A suo parere, la coscienza auto-riflessiva è un attributo psicologico-culturale invariante. Non vi è alcun soggetto senza coscienza di sé e una cultura incapace di fornire ai suoi membri gli elementi formatori di tale coscienza non si mantiene né riproduce.
L'autore descrive i costituenti dell'auto-riflessività come "orientamenti di base" e li elenca in cinque tipi: 1) auto-orientamento, 2) orientamento in relazione agli oggetti, 3) orientamento temporo-spaziale, 4) orientamento motivazionale e 5) orientamento normativo. La cosa importante sulla lista di Hallowell non è la disposizione logica delle categorie scelte. L'interessante è notare come si operazionalizzano. Ad esempio, la stragrande maggioranza delle culture, dice Hallowell, autorizza o incoraggia gli individui a credere nella reale esistenza di un mondo parallelo alla realtà materiale sensibile. La credenza nella duplicità ontica del mondo – diviso in una parte visibile e un'altra invisibile – è banale, approvata e, nella maggior parte dei casi, consigliata.
Questa osservazione ha una portata teorica ottimizzata, nel caso venga vincolata ai contributi di Georges Devereux. Devereux è il fondatore della disciplina chiamata etnopsichiatria o etnopsicoanalisi. In modo simile all'antropologia psicologica di Hallowell, l'autore è interessato a come l'interiorizzazione delle norme culturali influisce sull'esperienza psicologica individuale. Riprendendo, quindi, il caso della duplicazione ontica del mondo, Devereux complementa, per così dire, le tesi di Hallowell, mostrando che se il soggetto attiva il dispositivo delle credenze soprannaturali, in modo da annullare, inibire o distorcere la percezione della realtà sensibile, l'ambiente culturale è incline a interpretare ciò come alienazione o deficit autoriflessivo[9]. Ovvero, l'estrapolazione impropria o indebita dell'ordine invisibile dal campo della realtà materiale produce una sorta di dissonanza cognitivo-affettiva che viene imputata a una aprioristica "perturbazione nell'orientamento motivazionale" del soggetto, nella terminologia di Hallowell. In altre parole, il fenomeno sottolineato da Devereux, tradotto nel vocabolario di Hallowell, sarebbe un disturbo nell'auto-riflessività percepito, senza eccezione, come uno stato d'animo che richiede approfondimenti e provvedimenti per il ripristino del funzionamento psicologico canonico. In caso di disturbo della condotta deve esservi una ragione, un motivo o una causa che lo rendano comprensibile. Dalla prospettiva dell'omeostasi culturale, non deve esistere casualità o variazione anarchica nel territorio delle azioni umane. Qualsiasi atteggiamento incomprensibile, inquietante o "aberrante" fa scattare il meccanismo di costruzione del senso, senza il quale la cultura perderebbe il potere di imporre regole di costruzione delle identità personali.
In modo simile al conflitto tra la descrizione soprannaturale del mondo e la sua descrizione materialista, possono manifestarsi altre contraddizioni tra differenti orientamenti di base. Ribadisco, tuttavia, che in presenza di un evento comportamentale atipico, il soggetto o l'ambiente attiva sempre la ricerca di un senso motivazionale o causale della manifestazione stravagante. Detto di passaggio, sto dando alla parola motivazione un senso abbastanza diverso da quello di Hallowell. La motivazione è qualunque ragione intenzionale della condotta investigata, mentre la causa è il fattore materiale, irrazionale e non intenzionale che, a volte, può spiegare l'atipicità del comportamento in esame.
Considerando tali ipotesi, suggerisco che la decisione sulla natura deficitaria o semplicemente inedita dell'atipia dipende dalla capacità del soggetto e dell'ambiente di rendere intelligibili le motivazioni responsabili della genesi del comportamento dissonante. Rendere intelligibile significa rendere ragionevole, plausibile, ciò che ha motivato la discrepanza comportamentale. Se l'intelligibilità trovata appare inconsistente, la tendenza per gli astanti o per il soggetto stesso è a vedere il comportamento come un sintomo di disturbi mentali che impediscono l'esercizio di un'auto-riflessività soddisfacente. Il soggetto che non riesce a raccontare in modo convincente le ragioni che lo muovono, ovvero non è in grado di esprimersi nell vocabolario motivazionale della cultura egemone, viene percepito come una persona la cui auto-riflessività è carente.
3 °. Dalla intelligibilità alla significatività.
L'idea di intelligibilità, tuttavia, è spesso confusa con l'idea ad essa prossima di senso. Accettiamo, solitamente, che il senso si costituisca in forma e contenuto razionali. La sinonimia, tuttavia, è indebita e può, in ultima analisi, ripercuotersi negativamente sulla lettura che facciamo delle atipie mentali. L'omogeneizzazione dei due concetti può determinare l'inclusione o l'esclusione di una atipia nel gruppo delle differenze individuali o della variante patologica.
In verità, come sostengono Lakoff e Johnson (Lakoff e Johnson, 1999, Johnson, 1987), senso o significatività, come preferiscono, è un modo di essere nel mondo. Si tratta dell'abbreviazione lessicale di una struttura gestaltica che dà consistenza, regolarità e intelligibilità alla percezione e all'azione del soggetto. Per la significatività, ordiniamo la nostra posizione soggettiva nel mondo e azioniamo sistemi implicativi di inferenze obbligatorie che sono i pilastri delle attività intenzionali poste in atto. Così l'intelligibilità, ovvero il contenuto logico delle giustificazioni razionali, non è né l'unico né il criterio principale per la caratterizzazione significativa di un’atipia come patologia. La patologizzazione di un'esperienza richiede altri predicati oltre l'abito razionale. Secondo gli autori, la caratteristica saliente dell'episodio patologico è il modo insolito in cui il soggetto sistematizza le cose e gli eventi e si situa in relazione a questi. Se il soggetto si posiziona nel mondo, rompendo gli orientamenti di base accettati come una giustificazione sufficiente per le azioni intenzionali, la sua condotta tende ad acquisire il profilo della perdita, danno o deficit per l'esercizio auto-riflessivo.
Per chiarire, il senso o significatività, secondo Lakoff e Johnson, è in primo luogo l'esperienza corporificata dell'interagire con l'ambiente. Questa concezione, chiaramente ispirata al pensiero di Merleau-Ponty, rimaneggia le idee di "progetto motorio", "intenzionalità motoria" e "arco intenzionale" in modo da sistemare la significatività in due concetti principali: schematismo imagetico e proiezione metaforica. In linea generale, la tesi è la seguente: data la nostra costituzione neurale e senso-motoria, ci relazioniamo al mondo attraverso la mediazione di strutture gestaltiche, che spontaneamente classificano oggetti ed eventi, differenziandoli nello spazio e nel tempo.
Lo schematismo imagetico categorizza oggetti ed eventi a partire da due grandi forme gestaltiche: 1) la forma del contenitore, e 2) la forma del tracciato. Il contenitore localizza il soggetto, le cose e le situazioni nell'ordine spaziale, il tracciato nell'ordine temporale, sempre obbedendo alla struttura gestaltica di base della relazione parte/tutto, figura/sfondo, continuità/discontinuità e così via. La percezione e l'azione informate dalla gestalt del contenitore implicano la costruzione delle categorie di esterno e interno, di maggiore e minore, di condensato e frammentato e quant'altre. L'organizzazione gestaltica del tracciato, a sua volta, implica costruzione di mobile e immobile, stabile e transeunte, di lento e veloce, degli ostacoli al movimento e della forza che mette in marcia, della condensazione del tempo in un istante e della diffusione dell'esperienza della temporalità, della compulsione a muoversi e della libertà di rimanere fermo o muoversi, e così a seguire.
Una volta in funzione, gli schematismi imagetici sono spontaneamente estrapolati dalla sfera di fatti sensibili e concreti alla sfera del pensiero astratto. Si tratta di quello che Lakoff e Johnson chiamano "proiezione metaforica". La proiezione metaforica promuove l'incrocio di categorie appartenenti a diversi domini temporo-spaziali, creando oggetti o situazioni in precedenza non esistenti. La metafora implica sempre la proiezione, il dislocamento della categorizzazione applicata dal dominio dei fatti X al dominio dei fatti Y. Mediante questa operazione, il senso originale di Y viene modificato e una nuova entità sorge nell'universo fenomenico, ovvero Y accresciuto dal predicato proveniente da X.
Nel linguaggio convenzionale della semantica, diremo che una nuova "intensione" è stata aggiunta alla "estensione" significativa di X. Se, ad esempio, usiamo la parola "ratto", originariamente applicata a un determinato roditore X, per stigmatizzare un individuo disonesto Y, la "estensione" della parola "ratto" è stata ampliata per includere la nuova "intensione", che è l'uso del termine "ratto" come sinonimo di persona venale. Nell'universo dei significati esistenti, quindi, l'uso di "ratto" come sinonimo di "disonesto" crea un'altra entità, quella del "soggetto ratto", inesistente prima della proiezione metaforica della parola, migrata dal "dominio degli animali roditori" al "dominio delle qualità morali di alcuni esseri umani".
Tuttavia, nel passaggio dallo schematismo imagetico senso-motorio al terreno delle proiezioni metaforiche di natura linguistica, il soggetto continua a seguire compulsivamente le regole di inferenza originali. La struttura gestaltica dello schematismo imagetico è imperativa. Secondo Eva Sweetser (Sweetser, 1991), tre dimensioni dell'esperienza vissuta illustrano l'imperativo inferenziale degli schematismi imagetici e delle proiezioni metaforiche: 1) il dominio socio-fisico; 2) il dominio epistemico e 3) il dominio degli atti di parola[10].
Nel dominio socio-fisico, ad esempio, non possiamo categorizzare fatti e comportamenti in modi che contrastino lo schematismo dei contenitori e dei tracciati. Una cosa più piccola non ne può contenere una più grande, ciò che è fuori non può essere all'interno, una cosa che viene prima, non può essere descritta come successiva, ciò che è lento, non può essere veloce, qualcosa che muove dalla sorgente verso un obiettivo non può invertire la rotta senza subire una ridescrizione del suo dislocamento, e così via[11].
Nel dominio epistemico, un contenuto non può contenere il contenitore, una premessa non può essere inferite dalla conclusione, il frammentato non può essere descritto come il condensato. Infine, nel dominio degli atti di parola, la concatenazione del ragionamento, ad esempio, non può essere organizzata arbitrariamente senza perdere la sua forma, performatività o efficacia pragmatica. Se voglio descrivere qualcosa esistente nel mondo, non posso eleggere in forma anodina il modo in cui enuncio quello che voglio dire. Ugualmente, se enuncio un comando che desidero vedere obbedito, devo seguire le regole di enunciazione, momento dell'enunciazione, forma dell'enunciazione etc., altrimenti il comando non viene più inteso come "comando". Quest'ultimo argomento si rivela anche nell'uso dei verbi modali, indicativi di realtà, possibilità o necessità. Un’affermazione su uno stato di cose non può sostenere di questo stesso stato che sia, simultaneamente, reale e virtuale, possibile e necessario ecc.
La forza ordinatrice dello schematismo imagetico ci conduce ugualmente a discriminare i fatti del mondo, secondo "livelli categoriali di base", che sedimentano la pratica ordinaria di una comunicazione efficace. Con questo, gli autori vogliono sostenere che ogni cultura insegna al soggetto a formare categorie che possano essere rappresentate da una semplice immagine mentale. Ad esempio, la categoria degli oggetti "libro" a livello dei concetti di base, permette che il soggetto azioni una singola immagine mentale quando il termine viene sollecitato nella comunicazione interpersonale.
Il concetto imagetico di base è la forma più economica ed efficiente di comunicazione tra le persone, ed è la sfera degli atti di parola in cui il consenso sul significato è più facilmente raggiungibile. In questa area della comunicazione quasi mai si pone controversia in relazione al referente di ciò che viene detto. Se, tuttavia, lasciamo la regione delle categorie di base sintetizzabili in un'immagine generica, per spostarci nelle regioni subordinate o sovraordinate della stessa categoria, aumenta la possibilità del disaccordo, così come gli sforzi necessari al parlante per farsi intendere. Se si parla di "libro", la maggioranza dei parlanti competenti della lingua italiana può capire immediatamente di cosa si tratta. Tuttavia, se invece di libro, parliamo di una istanza subordinata della categoria più generale come pergamene, papiri, codici o e-book, è probabile che molti parlanti ignorino di quale oggetto si tratti e non riescano a costruire una immagine/concetto generica dell'oggetto in questione. Lo stesso accadrebbe se provassimo a costruire un'immagine generica della categoria sovraordinata “utensili che trasmettono informazione o conoscenza”, perché il polimorfismo degli oggetti contenuti in questo contenitore logico o grammaticale impedirebbe la formazione di una singola immagine del referente della predicazione.
La lunga digressione sulla teoria di Lakoff e Johnson si propone di mostrare come la significatività, ovvero l'attività fisica/mentale che dota cose o eventi di “un senso”, va ben al di là della qualità razionale delle giustificazioni delle condotte intenzionali. Nel caso delle atipie mentali, la natura inedita del comportamento non risiede solo nella precarietà degli argomenti offerti come ragioni o cause della sua manifestazione. Nelle atipie, ciò che si nota è il ricorso a schematismi imagetici e proiezioni metaforiche idiosincratici, rari e poco condivisi dalla maggior parte dei soggetti di una data cultura.
Per illustrare la teoria, cito l'esempio di una persona con sindrome di Asperger che non usava rispondere al "buongiorno" quando gli veniva rivolto. Quando ebbe modo di spiegare il suo atteggiamento, affermò che non si comportava secondo le attese per maleducazione o disprezzo per l'interlocutore, ma perché pensava che l'altro aveva detto "buongiorno" di sua spontanea e libera volontà, e che questo lo liberava dall'obbligo di restituire il saluto ricevuto. Una volta giustificato, riuscimmo a "dar senso " a un gesto apparentemente bizzarro e spropositato. Comprendemmo che il soggetto non era riuscito ad appropriarsi in modo efficace delle regole dell'inferenza morale utilizzate dalla maggioranza delle persone. Nonostante la stranezza, tuttavia, l'infrazione all'imperativo dell'inferenza presenta una somiglianza di famiglia con le giustificazioni che può capitare eventualmente di offrire in contesti di interazione sociale simili.
Altra cosa è il comportamento di un ragazzo autistico a basso funzionamento, che per gran parte della sua infanzia, aveva l'abitudine di accendere e spegnere compulsivamente l'interruttore della luce, per motivi incomprensibili a tutti coloro che lo circondavano. Più tardi, in età adulta, ha spiegato quello che succedeva quando era bambino. Il gesto compulsivo aveva la funzione di situarlo nello spazio della sala della sua casa in un modo estremamente particolare. La modulazione di luminosità, per l'alternanza tra luce e buio, gli permetteva di sentire di occupare sempre lo stesso luogo nello spazio in momenti successivi, e in questo modo, di sentirsi rassicurato, autoriflessivamente, della costanza della stessa identità fisico-mentale, malgrado il passare del tempo.
Una volta fornita la spiegazione, possiamo capire il "senso" di ciò che il ragazzo ha vissuto. Tuttavia, anche capendo quello che è successo, tendiamo a qualificare l'episodio – in modo tacito e non tematizzato, naturalmente! – come "disabilità" o “deficit”. La forma atipica in cui sono stati attivati gli schemi imagetici di base del contenitore e del tracciato ci porta a vedere tale atipia come patologica e non come una semplice variazione identitaria, integrabile nel repertorio dei possibili ideali psicologici. Il fatto che il bambino utilizzi, in modo rudimentale, la struttura gestaltica della parte e del tutto, del contenuto e del contenitore, del dislocamento e dell'inazione e così via, ci porta a inferire l'esistenza di problemi di base nella spontaneità senso-motoria e nell'esperienza della “proprietà” dei propri atti, che configurano una patologia. La inscrizione patologica delle atipie, dunque, non si deve solo alla sottoperformance pragmatica del soggetto, ma anche alla distanza tra il suo modo di categorizzare il mondo e seguire le regole di inferenza vincolanti vigenti, nel campo dell'interazione socio-psicologico-morale.
In breve, ritengo che, in prospettiva epistemica, la distinzione tra le atipie accettate come variazioni degli ideali psicologici normativi e quelle etichettate come patologiche, si appoggi, in forma implicita, sul criterio della capacità di utilizzare gli schemi imagetici e le proiezioni metaforiche, secondo i sistemi implicativi predominanti in un determinato contesto culturale. Se la variazione si verifica nell'appropriazione idiosincratica degli schematismi imagetici di base, la dissonanza in relazione al livello ideale è più intenso, il danno all'auto-riflessività è più evidente e la condotta si approssima a ciò che consideriamo patologico. Al contrario, se la variazione avviene nel campo delle proiezioni metaforiche, le motivazioni degli atti intenzionali appaiono più intelligibili e l'atipia è più facilmente accettata come modo di espressione soggettiva, passibile di far parte dell'elenco degli ideali dell'Io culturalmente approvati.
In conclusione, credo che ulteriori ricerche più approfondite su queste forme di organizzazione mentale potrebbero, al contempo, fornire strumenti rinnovati per la pratica terapeutica e per l'arricchimento dei nostri ideali psicologici normativi. Senza contare che la percezione del ruolo della corporeità e delle dinamiche cerebrali nella formazione dell'individualità, da questo punto di vista, può diventare compatibile con la maggior parte delle teorie psicogenetiche. Le diverse voci teoriche potrebbero dialogare in modo più produttivo nella ricerca per comprendere l'affascinante mondo degli schemi imagetici e delle metafore di cui siamo fatti.
Importante questo contributo
Importante questo contributo dello psichiatra-psicoanalista brasiliano JURANDIR FREIRE COSTA, che dirige, all’Università di Rio De Janeiro (UERJ), l’Istituto di Medicina Sociale. Il testo è stato tradotto da ENRICO VALTELLINA (UERJ e Univ. Ca’ Foscari di Venezia). Credo che valga la pena, a partire da questo importante contributo, sollevare un ampio e serio dibattito (qui, su Facebook, su altri siti e su riviste cartacee).
PS
ALCUNI REFUSI IN BIBLIOGRAFIA:
— MERLEAU-PONTY (non Nerleau-Ponty)
— DEVEREUX (non Gevereux)
— CANGUILHEM (non Danguilhem)