1 – Riflessioni sul romanzo
Ogni contatto tra esseri umani, anche indiretto, anche superficiale, lascia in ciascuno una traccia duratura. Una traccia, ovviamente, di profondità diversa da caso a caso, ma che, comunque, finché rimane confusa e incomprensibile, viene avvertita come una sorta di lacuna o incongruenza nel mondo interno. Questo libro (come la Recherche proustiana) cerca di restituire una storia e un’anima a personaggi, morti da molto tempo, la cui influenza, tuttavia, trasmessa attraverso tre generazioni, persiste nell’animo di Quentin Compson, il principale narratore. Il libro non racconta soltanto una vicenda, narra anche la storia di come la vicenda stessa, passando di bocca in bocca e di mente in mente, è stata man mano costruita o ricostruita, sviluppandosi ed acquistando progressivamente coerenza. Non mancano accenni a incertezze e contraddizioni che vengono superate nel corso della ricostruzione; è la “rêverie” dei narratori (il nonno ed il padre di Quentin, Quentin stesso con l’amico Shrieve) a conferire coerenza e “verità” alla storia, attraverso la restituzione di un senso ed alla sintesi delle tracce che i personaggi della vicenda hanno lasciato nel loro animo. È per questo motivo, credo, che Romolo Rossi parla di “epistemologia narrativa” come parte del contenuto del romanzo [comunicazione personale].
L’inizio della storia, l’evento che da un senso a tutto quanto viene narrato, compare nella seconda metà del romanzo. È questo, mi pare, un procedimento impiegato spesso da Faulkner: il senso di molte vicende rimane incerto o oscuro, fino a quando compare un aspetto della storia che conferisce significato, retrospettivamente, a quanto è già stato raccontato. Qui tutto inizia con la brutale mortificazione subita da Sutpen, allora quattordicenne, quando si rende conto di colpo dell’arroganza dei potenti e del carattere miserabile della sua condizione. Ciò provoca non solo un (parziale) risveglio dall’innocenza giovanile, ma anche la costruzione di un progetto di riscatto cui dedicherà la sua intera esistenza: il suo obbiettivo è diventare egli stesso come il proprietario terriero che lo ha mortificato ed essere lui possessore di schiavi sottomessi ed umiliati, anziché vivere schiavo dell’impotenza e dell’umiliazione. A questo progetto egli subordina o sacrifica ogni altro interesse o affetto e ciò si rivela motivo sia del suo successo, sia della sua rovina: come Macbeth dall’ebbrezza del potere, anche Sutpen è come abbagliato dalla prospettiva della ricchezza e della proprietà terriera; ciò (insieme alla sua innocenza parzialmente conservata) fa sì che egli ignori o fraintenda le conseguenze delle sue azioni sull’animo di chi lo circonda: avendo ripudiato la prima moglie e il primo figlio (scopre il loro sangue negro, e sui negri egli ha proiettato la mortificazione da lui stesso vissuta, e con la quale non vuole avere più nulla a che fare), s’illude di aver chiuso la vicenda sistemando le cose sul piano economico e legale. Non si rende conto dell’odio implacabile suscitato nella donna offesa e del bisogno inestinguibile di ritrovare il padre che egli ha indotto nel figlio Bon. Avendo considerato i figli Henry e Judith esclusivamente come parte del suo disegno, non si rende conto delle conseguenze che la deprivazione affettiva ha prodotto nell’animo dei ragazzi: passioni primitive, incontrollabili, desideri incestuosi. Tutto questo fa sì che Sutpen, come Macbeth, finisca per distruggere con le sue stesse mani il “regno” da lui conquistato e la discendenza che avrebbe dovuto dominarlo. Alla fine della vicenda, di Sutpen rimane solo il suo ultimo rampollo: Jim Bond, un ragazzo negro idiota, miserabile, reietto, alla ricerca di una casa da cui è stato espulso e che non esiste più.
2 – Citazioni dal testo e note a margine (queste ultime tra parentesi quadre ed in corsivo)
1 – pag. 13: la supposizione di Quentin sul perché Rosa Coldfield sente il bisogno di raccontare la storia di Sutpen e sua: per far sapere “…perché Iddio ci fece perdere la Guerra [di secessione]: che solo col sangue dei nostri uomini e le lacrime delle nostre donne Egli poteva fermare questo demonio e cancellare dalla faccia della terra il suo nome e la sua stirpe…” [Le truppe nordiste vittoriose che pongono fine al dominio di Sutpen (e con lui di tutti i proprietari di schiavi e terreni a lui simili) fanno venire in mente l’esercito che avanza verso il castello di Macbeth e pone fine all’impresa mostruosa e temeraria di questo personaggio] – pag. 31: Rosa Coldfield, in visita dalla sorella Ellen Sutpen: “… intenta ad ascoltare lo spirito e la presenza viva di quella casa, poiché ora vi si era trasfuso qualcosa della vita e del respiro di Ellen oltre che di lui [il marito Thomas Sutpen], spirando un lungo suono neutro di vittoria e disperazione, di trionfo e anche di terrore…” [Vittoria e disperazione, trionfo e terrore: parti del mondo interno di Thomas Sutpen che hanno come “impregnato” l’ambiente]
2 – pag. 37, 38: descrizione di Sutpen alla sua prima comparsa a Jackson – pag. 39: Sutpen “… a quell’epoca egli era completamente schiavo della sua impazienza segreta e furiosa, della sua convinzione acquisita da quella sua recente esperienza sconosciuta [il primo fallimento del suo progetto di divenire proprietario di terreni e di schiavi e di generare una stirpe di proprietari], del bisogno di fretta, del tempo che gli sfuggiva tra le mani, che doveva sospingerlo per i cinque anni successivi… fino a circa nove mesi prima della nascita di suo figlio…” [“Schiavo” dell’impazienza e della fretta di realizzare il suo progetto, divenute acute dopo il primo fallimento; schiavitù che lo rende insensibile o cieco verso qualsiasi altra esigenza umana, propria o degli altri]
3 – pag. 79, 80: Sutpen, portati i suoi terreni a rendere il massimo del loro valore, “… era accettato [dal paese]; evidentemente aveva ormai troppo denaro per essere respinto”. Recitava una parte di “arrogante benessere” [Arroganza come surrogato di una sicurezza di sé derivante da piena accettazione da parte degli altri: questi, in realtà, lo hanno accettato solo per il suo denaro] – pag. 85: Rosa, impegnata nel preparare un corredo per la nipote Judith, si procura le stoffe di nascosto nel negozio del padre “… con quell’arditezza amorale, quella tendenza al brigantaggio propria delle donne…” – pag. 87: dopo la rottura tra Sutpen e il figlio Henry per il rifiuto del primo di Bon come fidanzato della figlia Judith, la madre Ellen è “… distrutta… per l’urto della realtà che entrava nella sua vita” – “… tra Henry e Judith c’era stata una relazione più stretta della tradizionale fedeltà di fratello e sorella… qualcosa come quella fiera rivalità impersonale fra due cadetti di un reparto d’assalto che… sfiderebbero la morte l’uno per l’altro, non già per l’altro ma per la compatta saldezza del reparto…” [Il rapporto tra i due fratelli non è tra due individui distinti, che si riconoscono reciprocamente come tali: la loro rivalità è “impersonale”; si sacrificano l’uno per l’altro “non già per l’altro, ma per il reparto”. Sembrano entrambi assorbiti, scomparendo come individui distinti, da un’entità sovra-individuale: dalla fantasia (o illusione), legata al “disegno” paterno, di ciò che avrebbe dovuto divenire la discendenza come prolungamento del genitore] – pag. 88: sguardo non già di sofferenza, ma di “smarrita incomprensione” negli occhi della madre Ellen dopo la delusione che l’ha colpita mortalmente
4 – pag. 106: rapporto tra Henry Sutpen e Charles Bon: quest’ultimo visto come “… l’uomo che lui [Henry] vorrebbe essere se potesse diventare, per metamorfosi, l’amante, il marito [della sorella]; dal quale vorrebbe essere deflorato… se potesse diventare per metamorfosi la sorella… Forse questo si svolse non nella mente di Henry ma nella sua anima” [Fantasie incestuose e omosessuali: già presenti nelle prime impressioni di Henry di fronte a colui che si rivelerà come suo fratello] – pag. 109: “… dovette essere Henry a sedurre Judith, non Bon: a sedurla… mediante quella telepatia con cui da piccoli parevano a volte precorrere l’uno le azioni dell’altra così come due uccelli lasciano un ramo nello stesso istante; quel rapporto quale potrebbe esistere tra due persone… abbandonate alla nascita su un’isola deserta: l’isola in questo caso era Sutpen’s Hundred: la solitudine, l’ombra di quel padre con cui non solo il paese ma perfino la famiglia materna aveva ipotizzato un armistizio anziché accettarlo e assimilarlo” [“Telepatia”: comunicazione empatica da inconscio a inconscio tra fratelli posti entrambi in situazione d’isolamento e deprivazione affettiva. Emergono, e vengono comunicate e condivise, fantasie di tipo incestuoso ed omosessuale, in contrasto con il “progetto” paterno ed emerse dalla freddezza paterna] – pag. 110: dubbi, espressi da Quentin e dai suoi interlocutori, che il matrimonio morganatico di Bon con una “sanguemisto” sia stato motivo sufficiente a giustificare l’opposizione di Sutpen al matrimonio – pag. 111: sempre riguardo allo stesso fatto: “… Non spiega niente, ecco. O forse è così: loro non spiegano e noi non siamo tenuti a sapere. Noi abbiamo vecchi racconti tramandati di bocca in bocca; riesumiamo da vecchi bauli… lettere… in cui uomini e donne che un giorno vissero e respirarono sono adesso mere iniziali o soprannomi coniati da qualche affetto ora incomprensibile…; noi vediamo confusamente delle persone, le persone nel cui sangue e seme vivente noi stessi giacevamo in un sonno d’attesa… tornate a compiere i loro atti di semplice passione e semplice violenza, impervie al tempo e inesplicabili… Loro ci sono, eppure manca qualcosa…” [Gli attori ed artefici della nostra preistoria, da cui ha tratto origine la nostra storia, hanno lasciato intorno a noi (e in noi) tracce confuse e incomprensibili; eppure si sente la necessità di restituire a queste ombre del passato una storia e un’anima, come se un’incompletezza o un’incongruenza in questo lavoro si traducesse in una lacuna lasciata in noi stessi – vedi anche pag. 240: l’ingiunzione tramandata di generazione in generazione di riparare la mortificazione narcisistica; pag. 284: la metafora del ciottolo caduto nell’acqua e degli anelli che si formano] – pag. 112: per Sutpen, Bon era “… l’uomo in cui, dopo averlo visto una volta… ravvisò una minaccia potenziale al coronamento… trionfale dei suoi antichi sacrifici e della sua ambizione, minaccia di cui era evidentemente tanto sicuro da sobbarcarsi un viaggio di seicento miglia [a New Orleans, la città di Bon] per comprovarla…” – pag. 113: Sutpen a New Orleans, alla ricerca di quel qualcosa (a questo punto della narrazione ancora ignoto) che lo indurrà ad opporsi al matrimonio di Judith e Bon: “… chissà a che cosa pensava, che cosa aspettava, quale momento, giorno, per andare a New Orleans a trovare ciò che sin da principio pareva sicuro di trovare? Egli non aveva nessuno a cui dirlo, a cui parlare del suo timore e sospetto. Non si fidava di nessuno… lui che non aveva l’affetto di nessun uomo e di nessuna donna… gli toccava quella solitudine di disprezzo e sfiducia che il successo porta a chi se l’è guadagnato perché era forte e non semplicemente fortunato” [Un altro aspetto che avvicina Sutpen a Macbeth: la solitudine prodotta dal disprezzo per le esigenze altrui (che egli ha sacrificato per perseguire il suo progetto di riscatto) e da diffidenza riguardo all’affetto degli altri (che egli disprezza, da cui si sente disprezzato e cui egli attribuisce la sua stessa cinica freddezza)] – pag. 116: “…incredibile davvero che [Sutpen] aspettasse proprio il Natale..” per esprimere la sua opposizione al matrimonio di Bon e Judith [Valore simbolico della festa della Natività come evento lieto trasformato, in modo perverso, in maledizione?] – pag. 118, 119: Henry verso Bon: “… oggetto di quella completa devozione capace di qualsiasi rinuncia che solo un giovane, mai una donna, dà a un altro giovane o uomo…” – Judith verso Bon, sedotta “…come se in realtà fosse stato il fratello a incantare la sorella, a sedurla in favore della propria immagine sostitutiva che camminava e respirava nella persona di Bon…” – Bon verso Judith e Henry: “… Bon non solo amava Judith alla sua maniera, ma amava anche Henry e, credo, in un senso più profondo che non semplicemente alla sua maniera. Forse nel suo fatalismo amava di più Henry, vedendo forse nella sorella soltanto l’ombra, il ricettacolo femminile con cui consumare l’amore il cui vero oggetto era il giovane (…) forse si trattava di qualcosa di più che non Judith o Henry: forse la vita, l’esistenza ch’essi rappresentavano. Perché chissà quale quadro di pace poté vedere in quel monotono stagno provinciale…” [Cerca di trovare, nella fantasia di un’unione omosessuale e incestuosa con i fratelli, un modo per raggiungere quella famiglia che gli è mancata e quell’appagamento narcisistico che solo una famiglia può dare] – pag. 123: seduzione operata su Henry da parte di Bon: gli mostra, come cosa a lui nota, di cui conosce il proprietario (fingendo di credere che anche Henry lo conosca) “… una facciata con le imposte chiuse… qualcosa che sapeva di piaceri segreti e curiosi e inimmaginabili”; gli offre stimoli che, eludendo le sue capacità critiche, vanno a toccare “…qualche primitivo e alogico fondamento di tutti i sogni e tutte le speranze viventi in ogni giovane maschio…” – pag. 131: timore di Henry che Bon sposi di nascosto Judith per essere costretto a “… vivere il resto dei suoi anni sapendo d’essere lieto d’aver subìto quel tradimento con la gioia del vile di potersi arrendere senza essere stato debellato…” – pag. 133, 134: Judith e Sutpen, dopo la rottura con Bon e Henry, non si scambiano parole su quel che ciascuno dei due sa del figlio e fratello e dell’ex-fidanzato: “…Non avevano bisogno di parlare. Si somigliavano troppo. Erano come diventano due persone quando evidentemente si conoscono tanto bene e sono tanto affini che il potere, il bisogno di comunicare mediante il linguaggio si atrofizza per il disuso…” – pag. 139, 140: Judith porta alla nonna di Quentin l’unica lettera superstite di Bon: “… “Vuoi che la tenga io?” “Sì” disse Judith. “Oppure distruggetela. Come volete, leggetela se volete oppure non leggetela se volete. Perché si fa così poca impressione, vedete. Tu vieni al mondo e tenti e non sai perché, solo continui a tentare e vieni al mondo insieme a un mucchio di altre persone, tutta aggrovigliata a loro, come loro tentando, dovendo muovere braccia e gambe con cordicelle, solo che le stesse cordicelle sono legate a tutte le altre braccia e gambe e gli altri tentano tutti quanti e neanche loro sanno perché, tranne che le cordicelle s’impicciano tutte a vicenda, come sarebbe a dire cinque o sei persone tutte intente a cercare di fare una stuoia sullo stesso telaio, solo che ciascuna vuol tessere la stuoia secondo il proprio disegno; e non può avere importanza, lo sapete, sennò Coloro i quali impiantarono il telaio avrebbero predisposto le cose un po’ meglio, eppure deve avere importanza purché tu seguiti a tentare o a dover continuare a tentare e poi tutt’a un tratto è finita e tutto quel che ti rimane è un blocco di pietra con qualche scalfittura sopra, purché ci sia stato qualcuno a ricordarsi di far scalfire e collocare il marmo, o che ne abbia avuto il tempo, e ci piove sopra e il sole ci splende, e dopo un po’ non si ricordano neppure il nome e quello che le scalfitture tentavano di dire, e non ha importanza. E così forse se tu potessi andare da qualcuno… e dargli qualcosa – un pezzo di carta – qualcosa, qualunque cosa, non certo perché abbia un significato in sé e gli altri non debbono neppure leggerlo o tenerlo, nemmeno preoccuparsi di buttarlo via o distruggerlo, almeno sarebbe qualcosa giusto perché sarebbe accaduto, sarebbe ricordato quand’anche solo passando da una mano all’altra, da una mente all’altra, e sarebbe almeno una scalfittura, qualcosa, qualcosa da poter lasciare un segno su qualcosa che “fu” una volta per il motivo che può morire un giorno, mentre il blocco di pietra non può essere “è” perché non può mai diventare “fu” perché non può mai morire…” – pag. 141: lo scopo della consegna della lettera è “…fare quella scalfittura, quel segno imperituro sul vuoto volto dell’oblio a cui siamo tutti condannati…” [Ogni essere umano, venuto al mondo “senza sapere perché”, sente il bisogno di “tentare”: questo verbo privo di complemento oggetto sembra indicare uno sforzo di raggiungere qualcosa che non si sa cosa sia e che potrebbe essere definito genericamente, da chi guarda la cosa dall’esterno, come l’acquisizione di una vita soggettiva significativa, di un’esistenza autentica come individuo. Anche gli altri “tentano”, ciascuno interferendo sulla possibilità dei propri simili di raggiungere il loro scopo. Le “cordicelle” con cui ciascuno muove i propri atti s’ingarbugliano con quelle altrui: lo scopo del libro sembra, appunto, quello di dipanare la matassa, restituendo a ciascuno lo scopo del suo tentativo, ossia l’essere dotato di un’anima e di una storia. Ma per la maggior parte delle persone lo sforzo, la serie di tentativi, viene troncata dalla morte. Non rimane più altro che un blocco di marmo, con incise delle “scalfitture” che finiscono per non significare nulla. Tuttavia se un segno, una traccia, passa, anziché ad una pietra, ad una mente (qualcosa che, proprio in quanto perisce, è vissuto, mentre il marmo, che non perisce mai, non può “essere”), questa “scalfittura” mentale ha una qualche remota possibilità di acquisire significato, e ciò potrebbe segnare l’inizio tardivo di un’esistenza che non è mai cominciata]
5 – pag. 153: il contatto della mano di Clytie, che cerca d’impedire a Rosa di salire al piano di sopra, dove Bob giace, assassinato da Henry: “… nel contatto della carne c’è qualcosa che abroga, taglia netto e diritto per le tortuose vie intricate dell’ordinamento decoroso, e nemici e amanti lo conoscono bene questo qualcosa perché esso li fa tali; – contatto, sì, contatto di quella che è la cittadella intima dell’ “Io sono” centrale, privato…” – pag. 155: Rosa, parlando a se stessa a proposito dell’assassinio di Bon e della gelida reazione di Judith: “Sì, svegliati, Rosa; svegliati – non da ciò che era, da ciò che soleva essere, ma da ciò che non era stato, non avrebbe mai potuto essere…” – pag. 164; “… quell’ “avrebbe potuto essere” che costituisce lo scoglio solitario a cui ci aggrappiamo nel vortice della realtà insopportabile” – pag. 167: Bon scomparso “senza lasciar traccia di sé, neppure lacrime” – pag. 176 Sutpen, alla fine della guerra “tornato a casa con niente, a trovar niente, quattro anni meno di niente” [L’esito finale del progetto eroico e folle di questo personaggio, viene già anticipato in questo secondo, terribile fallimento; ma per il momento Sutpen non si arrende ancora] – pag. 177: Rosa: “… ancora bambina, ancora in quel corridoio uterino dove il mondo non giungeva nemmeno come eco vivente ma come ombra incomprensibile, dove col quieto e non allarmato stupore di una bambina osservavo i grotteschi gesti da miraggio di uomini e donne – mio padre, mia sorella, Thomas Sutpen, Judith, Henry, Charles Bin – detti onore, principio, matrimonio, amore, perdita, morte…” [I bambini sono capaci di avvertire stupore, ma si tratta di stupore “quieto e non allarmato” perché sono ancora animati da fiducia; più tardi, quando le realtà adulte susciteranno allarme ed esse appariranno “grotteschi gesti da miraggio” (ossia significativi di illusioni), la curiosità verrà gradualmente sostituita da scettica accettazione e l’allarme stesso da rassegnazione] – pag. 180: Sutpen, descritto da Rosa, mentre le dichiara la sua proposta di matrimonio: “…lui che parlava non di me o di amore o matrimonio, e nemmeno di se stesso e non a lucidi mortali in ascolto e non per sanità mentale, ma alle stesse buie forze del fato ch’egli aveva evocato e sfidato…” – pag. 187: “… lui non era posseduto da nessuno e niente al mondo, non lo era mai stato, non lo sarebbe mai stato, nemmeno da Ellen, nemmeno dalla nipotina di Jones. Perché lui non era inserito in questo mondo. Era un’ombra ambulante. Era l’abbacinata immagine da pipistrello del suo tormento, proiettata in alto dalla feroce lanterna demoniaca di sotto la crosta terrestre…” [Dopo i primi due fallimenti del suo progetto di riscatto per sé e la propria discendenza, Sutpen vedendo Rosa come possibile moglie e madre di nuovi figli, considera il matrimonio con lei come parte integrante del suo ultimo, disperato tentativo. Né Rosa, né alcuno dei presenti, né la nipotina di Jones (che prenderà il posto di Rosa) sono da lui considerati come persone che lo possono “prendere” in un rapporto (e definire come persona “di questo mondo”), ma solo come mezzi per raggiungere il suo scopo. È con il suo progetto di riscatto (la sua tormentosa e demoniaca sfida ad un “fato” che lo vorrebbe diseredato e umiliato) che egli ha un rapporto esclusivo; esso rappresenta l’unico, tragico contenuto della sua vita]
6 – pag. 198: il tentativo di Sutpen, conscio delle sua vecchiaia, di “liberarsi” del suo progetto di riscatto: “… per lui ora non c’era più bisogno d’essere un demonio, ma solo un vecchio pazzo impotente accortosi alfine che il suo sogno di ripristinare Sutpen’s Hundred non solo era vano, ma che quanto gliene rimaneva non sarebbe mai bastato a mantenere lui e la sua famiglia…” – pag. 199: “… lui decise che forse sbagliava ad essere libero e così ci si ributtò dentro [la sua seduzione della nipote di Wash Jones] e poi decise che sbagliava a non esser libero e così ne rivenne fuori [probabilmente la provocazione che lo portò ad essere assassinato] – pag. 202: Sutpen, ebbro, raggiungeva “… quella senile condizione di impotente e furioso rifiuto della sconfitta…” – pag. 203: Sutpen, di fronte alla nipote di Wash che ha appena partorito: “… abbassò lo sguardo su madre e figlia e disse: “Be’, Milly, peccato che tu non sia una cavalla come Penelope. Ti potrei dare un posto nella stalla” e si voltò e uscì…” [Ennesima manifestazione di temeraria arroganza? Di rifiuto di una figlia femmina? Provocazione che prevede quale sarà la tragica reazione? Probabilmente tutte queste cose] – pag. 221: le crisi pantoclastiche del figlio di Bon: dava prova di “… una forza composta di pura, disperata volontà e inaccessibilità al castigo…”. Solo il nonno di Quentin riusciva ad intuire, alla base di tale comportamento, “… la presenza di quella furiosa protesta, quell’accusa all’ordine celeste, quel guanto scagliato in faccia a ciò che è con una furiosa e indomabile disperazione…” [Il figlio di Charles Bon (Charles Etienne St. Valery), vissuto, fino alla morte della madre, sotto una campana di vetro, in uno stato di passivizzante appagamento narcisistico, è preso, di fronte al brutale crollo del suo mondo, da una forma di rabbia narcisistica a carattere primitivo e d’intensità inaudita; rabbia contro tutto e tutti] – pag. 232: Quentin, cui il padre ha raccontato la storia di Rosa Coldfield da lui ricostruita, così dice a se stesso: “… Ma tu non ascoltavi, perché sapevi già tutto, l’avevi già appreso, assorbito in un certo modo senza bisogno di discorsi per il solo fatto di esserci nato e vissuto vicino, in sua compagnia, , come desiderano e fanno i bambini: quanto stava raccontando tuo padre non ti disse molto ma piuttosto colpì, parola per parola, le corde vibranti del ricordo…” [Conoscenza intuitiva, trasmessa da inconscio a inconscio, derivante da un residuo di rapporto fusionale ancora rilevante nei bambini]
7 – pag. 240: Sutpen racconta al nonno di Quentin come nacque il suo progetto di emancipazione: “… Il suo guaio era l’innocenza. Tutt’a un tratto egli scoprì non già quel che voleva fare ma quel che doveva fare, e doveva farlo volente o nolente, perché se non lo faceva sapeva che non avrebbe mai più potuto vivere con se stesso per il resto della sua vita, vivere con quanto tutti gli uomini e le donne morti per fare lui gli avevano lasciato dentro affinché lui a sua volta lo tramandasse, con tutti i morti in attesa e intenti a scrutare se lo faceva bene…” [Il suo progetto nasce da un sentimento di “dovere”, ossia dall’ingiunzione interiorizzata di antenati morti senza essersi realizzati, vissuti solo per “fare lui”. Ingiunzione categorica di sanare una mortificazione narcisistica trasmessa di generazione in generazione trasgredendo la quale la vita diventa inaccettabile, “non si può vivere con se stessi”; fallito il suo progetto, infatti, Sutpen andrà incontro alla morte – vedi anche nota pag. 111 e pag. 284: la traccia lasciata dai progenitori; ] – pag. 241: Sutpen ragazzino, sceso dalle montagne “…allora non immaginava che esistessero tutti gli oggetti desiderabili che qui c’erano, o che i possessori degli oggetti non solo potessero guardare dall’alto in basso coloro i quali non ne avevano, ma essere sostenuti in tale atteggiamento non solo dagli altri possessori di oggetti ma da quegli stessi che non ne possedevano” – pag. 246, 247: Sutpen, nella stessa epoca: “Aveva non solo imparato la differenza tra uomini bianchi e uomini neri, ma stava imparando che c’era una differenza tra uomini bianchi e uomini bianchi (…) Egli aveva cominciato a capirlo senza esserne però ancora consapevole. Pensava ancora che dipendesse solo da dove e come venivi al mondo; se eri fortunato o sfortunato; e che i fortunati erano ancor più lenti e riluttanti degli sfortunati a trarne vantaggio o credito, o a sentire che tale condizione desse loro alcunché di più della mera fortuna; e pensava ancora che semmai avrebbero avuto per gli sfortunati un senso di maggiore tenerezza di quanto gli sfortunati ne avrebbero mai dovuto provare per loro” – pag. 248: Sutpen, incantato di fronte al lusso del proprietario terriero “… raccontò come strisciasse fra l’intrico dei cespugli nel prato e si appiattasse a spiarlo” – pag. 249: “… non solo non aveva ancora perduto l’innocenza, non aveva ancora scoperto di possederla. Non invidiava quell’uomo [il ricco proprietario terriero] più di quanto avrebbe invidiato un montanaro che per combinazione avesse un bel fucile. Avrebbe desiderato il fucile, ma avrebbe personalmente sostenuto e confermato l’orgoglio e il piacere che dava al proprietario di possederlo perché non avrebbe potuto concepire che il proprietario approfittasse in maniera così grossolana della fortuna che dava il fucile a lui anziché a un altro da dire ad altri uomini: “Siccome io posseggo questo fucile, le mie braccia e gambe e ossa sono superiori ai vostri”…” – pag. 250: Sutpen, mandato dal padre alla casa del proprietario per trasmettergli un messaggio, rifletteva su “…come finalmente stesse per vederla dall’interno (…) non dubitando mai che l’uomo avrebbe avuto altrettanto piacere di mostrargli il resto dei suoi beni quanto ne avrebbe avuto il montanaro di mostrare il corno da polvere e lo stampo da proiettili annessi al fucile. Perché lui era ancora innocente (…) prima che il negro scimmiesco venuto alla porta avesse finito di dire quanto disse [che l’ingresso principale della casa era riservato ad altri e non a lui, e questo prima ancora di sapere per che motivo si era presentato], a lui parve quasi di dissolversi…” [Sembra che qui si collochi l’inizio dell’intera, tragica vicenda di Sutpen e della sua famiglia. Orfano di madre dalla prima infanzia, il padre figura inconsistente (il suo rapporto privilegiato era con la bottiglia anziché con i familiari), Sutpen si era conservato “innocente” ossia bisognoso d’aiuto, ingenuo, incline ad aspettarsi che gli altri, nei confronti suoi e dei suoi bisogni, si sarebbero comportati come buoni genitori. Questo soprattutto riguardo alla necessità di un rapporto con un oggetto idealizzato, dotato di qualità positive e di beni desiderabili: come pensava avrebbe fatto il montanaro proprietario di un buon fucile, allo stesso modo Sutpen si aspettava che il proprietario terriero lo rendesse, in qualche modo, partecipe delle sue fortune (ad esempio facendolo entrare nella sua casa e mostrandogliela); ciò gli avrebbe permesso di “sostenere e confermare l’orgoglio” del possessore senza che nascessero in lui sentimenti d’invidia o di rivalità ostile, anche perché dall’altro si aspettava modestia e benevolenza (tenerezza), anziché superbia e arroganza. Dalla brutale disillusione inizia la crisi di Sutpen che lo porterà ad adottare il progetto di riscatto come scopo della sua vita, all’identificazione con l’aggressore (che schiavizza e umilia gli altri), alla scissione e proiezione sui negri della parte di lui stesso povera, incapace e mortalmente umiliata ed all’evitamento fobico di qualsiasi contatto o fusione con questa stessa parte di lui; evitamento che lo porterà al ripudio del figlio Bon e (ancor più dell’avversione per l’incesto) al suo opporsi del matrimonio di questi con la figlia Judith; lo porterà, inoltre, ad istigare il figlio Henry al fratricidio] – pag. 256: Sutpen, dopo la disillusione traumatica “… vedeva suo padre e sorelle e fratelli così come doveva averli sempre visti il proprietario, il ricco… come bestiame, creature grevi e sgraziate, brutalmente scodellate in un mondo privo per loro di speranza o scopo, e che a loro volta avrebbero figliato con bruta e cattiva prolissità, popolato… spazio e terra di una razza il cui avvenire sarebbe stato una sequela di abiti ridotti e rattoppati e rifatti (…) e per solo retaggio quell’espressione… che aveva scrutato qualche dimenticato progenitore senza nome che da ragazzetto aveva bussato a una porta e si era sentito dire da un negro di andare alla porta di servizio…” [Inizia a ripudiare e coprire di disprezzo la sua famiglia (e la parte di lui stesso legata alla famiglia) la cui vita gli sembra fatta solo di povertà e umiliazioni. Il progenitore da cui lui suppone sia nato questo stato di cose è stato dimenticato, ma la mortificazione narcisistica è rimasta e, tramandata di generazione in generazione, è giunta fino a lui] – pag. 262: riguardo al ripudio della prima moglie (e del figlio avuto da lei) “… senza scusarsi, senza chiedere pietà … [Sutpen] disse semplicemente al nonno come avesse messo da parte la prima moglie…: “Trovai che, non per sua colpa, lei non forniva e non poteva fornire aggiunta o incremento alcuno al disegno che avevo in mente, così provvidi a lei e la misi da parte” [Nel suo mondo esiste solo più il suo “disegno”. Ad esso sacrifica tutti i rapporti umani, divenendo incapace di comprensione empatica: avendo restituito alla moglie il “dovuto” (in termini esclusivamente economici) ed avendo persino rinunciato alla parte che gli sarebbe spettata, crede di aver “sistemato” le cose con lei, senza accorgersi d’aver suscitato, nella donna, un intenso risentimento; risentimento ed odio implacabili che contribuiranno a portare Sutpen alla rovina] – pag. 284: sui figli di Sutpen: “… Forse nulla accade una volta per poi finire. Forse l’accadere non è mai per una volta, ma forse come increspature sull’acqua dopo che il ciottolo è affondato, le increspature che avanzano, allargandosi, l’anello unito… all’anello seguente che il primo anello alimenta… e contenga pure questo secondo anello… una diversa molecolarità dell’aver visto, sentito, ricordato…, non importa: l’eco acquatica di quel ciottolo la cui caduta non vide nemmeno si muove pure attraverso la sua superficie…” [vedi nota pag. 111: la traccia lasciata dai progenitori; pag. 240: l’ingiunzione tramandata di generazione in generazione di riparare la mortificazione narcisistica] – pag. 289: “… “tuo padre [di Quentin] – disse Shreve – se sapeva tutto questo [che Bon era figlio di Sutpen] che ragione aveva di dirti che il guaio fra Henry e Bon era costituito dalla sanguemisto?” – “Allora non lo sapeva. Neppure il nonno gli disse tutto…” – “E allora chi glielo disse?” – “Io” [La narrazione viene costruita un pezzo alla volta, acquistando progressivamente coerenza, in base agli apporti che vengono man mano aggiunti dalle generazioni che si succedono] – pag. 290: dopo il riconoscimento di Bon da parte di Sutpen: “… dopo cinquant’’anni l’abbandonato bambino perduto senza nome e senza casa venne a bussarvi e non c’era al mondo nessun negro vestito da scimmia che venisse alla porta a mandar via il bimbo;… fin d’allora, pur sapendo che Bon e Judith non si erano mai visti, egli dovette sentire e udire il disegno – casa, posizione, posterità e tutto – cedere come se fosse stato di fumo, senza rumore, senza creare spostamento d’aria e senza lasciare macerie. E non la chiamava nemesi, colpe del padre che ricadevano su di lui; nemmeno la chiamava malasorte, solo uno sbaglio [Lo scopo della sua vita era stato, appunto, allontanare da sé quel bambino abbandonato e umiliato che era stato un tempo e collocarlo nei negri; ora, con l’arrivo perturbante di Bon, il bambino ritorna ed egli vede, d’improvviso, crollare il suo disegno. Eppure non vede questo fatto come conseguenza di “colpe dei padri” o “nemesi”: nel suo superio c’è solo un’ingiunzione a perseguire il disegno, nessuna condanna o riserva] – pag. 292: supposizione di Quentin che Sutpen avesse tentato di corrompere la mezzosangue, madre di Bon, per allontanarlo: “… un uomo che poteva credere che una donna disprezzata e oltraggiata e adirata si potesse comperare con la logica formale doveva credere pure che la si potesse placare col denaro…” [Persistente innocenza e ingenuità di Sutpen: significativo questo tratto della sua personalità, tenendo conto che le sue scelte (secondo il suo “disegno”) innescano le tragiche vicende sue e della sua famiglia] – pag. 310, 312, 313: il ripudio sprezzante, da parte di Sutpen, della figlia avuta dalla nipotina di Wash Jones dal punto di vista di quest’ultimo, l’assassinio: estrema idealizzazione di Sutpen per tutti gli anni precedenti (“Lui è più grande di tutti quegli yankee che hanno ammazzato noi e i nostri” “… come potevo io vivergli accanto per vent’anni senza essere da lui toccato e cambiato?”), però “… sentì Sutpen dentro casa pronunciare la sua unica frase di saluto, interrogazione e addio alla nipote (…) Wash dovette sentirsi mancar la terra sotto i piedi… pensando quietamente, come in sogno: “Non posso aver sentito quel che so di aver sentito… Ecco perché si è alzato. Per quel puledro. Non per me e per i miei. Non è nemmeno per suo figlio…” …” Segue l’assassinio [Proprio nel momento in cui avrebbe dovuto realizzarsi, nel pronipote, l’agoniata fusione tra lui ed il suo oggetto idealizzato, questi lo delude brutalmente] – pag. 313: gli ultimi momenti di Wash con la nipote, prima dell’omicidio-suicidio – pag. 315: il colloquio immaginario di Wash con Sutpen: “Ma questa non me l’aspettavo, colonnello! (…) Lo sapete bene che no. sapete bene che da nessun uomo vivente mi aspettavo o chiedevo o volevo quello che mi aspettavo da voi…”
8 – pag. 322: Bon cresciuto nello spirito di vendetta, allevato agli scopi della vendetta materna – pag. 323: madre di Bon animata “non [da] amarezza e disperazione, giusto implacabile volontà di vendetta” – pag. 325: Bon, sempre riguardo alla madre: “Scoprì che lei perseguiva un certo scopo e lui non solo non se ne curava, non si curava neppure di sapere che cosa fosse; crebbe negli anni e scoprì che lei lo aveva foggiato e temprato a essere lo strumento del piano imprecisato che le rendeva implacabile la mano…” [Non solo gli manca, di per sé, il padre: l’abbandono da parte di questi è anche causa di un polarizzarsi dell’attenzione materna sul risentimento e pure l’affetto della donna viene a mancargli. Egli non viene considerato se non come strumento di vendetta] – pag. 329, 330: la madre di Bon non provava “nessun piacere nella masticazione; il dover masticare era semplicemente un’altra seccatura come pure nessun piacere nel vestire (…) e nessun piacere nella bella figura che lui [Bon]… faceva nei bei calzoni che si attagliavano perfettamente alle sue gambe e nelle belle giacche che si attagliavano alle sue spalle (…) anche tutto questo era giusto una seccatura inevitabile di cui egli doveva sbarazzarsi prima di poterle far del bene proprio come dovette sbarazzarsi del guaio della dentizione e della varicella… per poterle fare del bene” [La volontà di vendetta ha occupato tutto il suo essere; tutto il resto è pura “seccatura”: persino il soddisfacimento dei bisogni vitali, persino la naturale vanità femminile per il suo aspetto e quella materna per la bellezza del figlio. Anche i bisogni di quest’ultimo, connessi alla sua crescita, sono pura seccatura: lo scopo della vita di Bon, per la madre, è solo la vendetta] – pag. 335: il ruolo dell’avvocato e amministratore della madre di Bon: ha dovuto promettere alla donna di non dire mai a Bon chi era suo padre, eppure cerca il modo di avvicinarlo al genitore: “… stava in ufficio a sommare e sottrarre il denaro [si impadronisce del denaro a lui affidato] e ad aggiungere quello che avrebbero ricavato da Sutpen…” – pag. 340: Bon, dopo che Henry gli ha mostrato la lettera dell’avvocato che cerca di far incontrare i due giovani; compare, in lui “un bagliore nella cui fissità egli stette immobile a guardare il volto innocente del giovane che aveva quasi dieci anni meno di lui, mentre una parte di sé diceva: “Lui ha la mia stessa fronte, il mio cranio, la mia mascella, le mie mani” e l’altra diceva: Aspetta. Aspetta. Non puoi saperlo ancora…” …” – pag. 340, 341: la lettera che l’avvocato “… scrisse non appena terminata quell’ultima annotazione nel promemoria, nel “figlia?” [di Sutpen] mentre pensava: “Lui non deve assolutamente saperlo adesso, non bisogna dirglielo prima che lui arrivi là e lui e la figlia…” – non ricordando niente dell’amore giovanile della propria giovinezza e non ci avrebbe creduto se gliene fosse sovvenuta la memoria, eppure disposto a servirsi anche di quello come si sarebbe servito del coraggio e dell’orgoglio, pensando non… alle mani leggere affamate di contatto, ma al fatto che questa Oxford [la sede dell’università dove studiano Henry e Bon] e questa Sutpen’s Hundred si trovavano a una sola giornata di distanza…” [L’organizzazione criminale della sua personalità sembra perfetta: ogni sentimento positivo e sano è cacciato dalla mente o considerato con scetticismo, salvo quando serve per i suoi scopi delinquenziali] – pag. 346: Bon “… sapeva esattamente quello che voleva… il contatto fisico, seppur in segreto, nascosto, il contatto vivente di quella carne scaldata prima che lui nascesse dallo stesso sangue ch’essa gli aveva trasmesso per scaldarci la sua carne, sangue da trasmettere a sua volta ad altre vene e ad altre membra per scorrerci dentro caldo e sonoro dopo la morte di quella prima carne e poi della sua…” [Nell’assoluta assenza di un contatto emotivo, cerca un contatto concreto col padre e con la paternità; quasi che questo contatto fosse condizione per poter egli stesso procreare] – pag. 356: Bon, non trovando Sutpen a casa e comprendendo che si è recato a New Orleans a fare indagini sul suo conto (a trattare con la madre?): “… “Naturalmente non ne era sicuro; doveva andar là per accertarsene”, dicendosi questo ad alta voce, ora, ad alta voce e rapidamente pure, in modo da non udire, da non poter udire il pensiero “Ma se lo sospettava perché non dirmelo? Io l’avrei fatto…” [Si aggrappa a qualsiasi ipotesi che renda ancora possibile pensare che il padre lo voglia riconoscere] – pag. 362: Henry, dopo che il padre gli ha rivelato che Bon è suo fratello: “… doveva aver compreso con estrema disperazione il segreto di tutto il suo atteggiamento verso Bon da quel primo momento istintivo in cui l’aveva visto un anno e un trimestre addietro; lui lo sapeva, eppure non ci credeva, doveva rifiutarsi di crederci” [Comunicazione da inconscio a inconscio e negazione] – pag. 363: la madre di Bon: “… la donna lievemente trasandata dai capelli corvini striati di grigio spettinati… e gli implacabili occhi neri infossati… che Shreve e Quentin avevano pure inventata e che era pure probabilmente abbastanza vera” [Probabile verità e non solo verosimiglianza della rêverie perché essa si alimenta di messaggi comunicati (anche in maniera molto indiretta) da inconscio a inconscio] – “disse… “Dunque si è innamorata di lui” e poi rimase lì seduta a ridere aspramente e insistentemente in faccia a Henry” [La sua aggressività “da strega” (in linea col suo aspetto) è implacabile, anche di fronte all’innocenza di Henry] – pag. 369: “Henry dovette dire: “Ma devi proprio sposarla?…” e Bon diceva: “Lui avrebbe dovuto dirmelo… Gli ho dato tutte le opportunità di dirmelo personalmente. Ma lui non lo ha fatto. Se lo avesse fatto, avrei acconsentito e promesso di non rivedere mai più lei o te o lui. Ma lui non me lo ha detto… Lo disse giusto a te, mi mandò un messaggio allo stesso modo che si manda un servo negro a dire a un mendicante o a un vagabondo di sgomberare” [Un segno, una parola, basterebbero a Bon per sentirsi riconosciuto dal padre e, in cambio, soddisfare i desideri del genitore, anche andandosene. In assenza di ciò, l’unione incestuosa con la sorella diventa inevitabile (atto di vendetta? Modo disperato per raggiungere la famiglia?). L’immagine che Bon usa per descrivere come il padre non si degnò di parlargli direttamente (il servo negro che dice al mendicante di sgombrare) ricorda in modo impressionante l’evento traumatico che segnò la mortificazione narcisistica di Sutpen. Ora questa stessa mortificazione è inflitta al figlio “negro” che lui ha ripudiato; questi rappresenta (scissa e proiettata su di lui) la parte “mendicante” di Sutpen. Bon, sempre per una comunicazione da inconscio a inconscio, lo avverte] – pag. 376: Henry, a proposito del peccato d’incesto che Bon ha intenzione di commettere: “… non sei tu che ci vai [all’inferno], ma noi, noi tre – no: noi quattro. E così finalmente saremo tutti assieme là dove è il nostro posto, poiché quand’anche ci andasse lui solo dovremmo esserci anche noi dal momento che siamo soltanto illusioni da lui procreate, e le tue illusioni fan parte di te come le tue ossa e la carne e la memoria…” [Le “illusioni” legate al disegno di riscatto di Sutpen, hanno segnato la vita dei figli: essi ne sono l’incarnazione e gli esecutori; a volte, debolmente, cercano di ribellarvisi, ma ne rimangono sempre legati] – Bon: “Lui non dovrà neppure chiedermelo; io non farò che toccarlo carne a carne e lo dirò io stesso: Non hai da preoccuparti; lei non mi rivedrà mai” – pag. 383: la definitiva (e decisiva) rivelazione di Sutpen ad Henry: “Lui non deve sposarla, Henry… soltanto dopo la sua nascita… scoprii che sua madre aveva sangue negro” – pag. 385: Bon a Henry: “Dunque è il sangue negro, non l’incesto, che non potete sopportare – Henry non risponde – E non mi ha mandato a dire una parola? Non ti ha chiesto di mandarmi da lui? Non una parola a me, non una parola? Era tutto quel che doveva fare (…) Non c’era bisogno che lo domandasse, lo richiedesse a me. L’avrei offerto io (…) Non aveva bisogno di dirti che sono un negro per fermarmi. Avrebbe potuto fermarmi senza ricorrere a questo” [Sutpen non è in grado di comprendere empaticamente il bisogno che Bon ha di lui, la sottomissione ad ogni suo volere che Bon sarebbe disposto ad accettare pur di avere un contatto, una parola, un segno di riconoscimento. L’incomprensione nasce dal fatto che Bon è portatore di una parte “negra” (meschina, mortificata, inferiore) che Sutpen ha scisso e proiettato e con questa parte di lui non gli è possibile alcun contatto]
9 – pag. 404: di fronte all’incendio della casa e a Clytie che è rimasta a morire al suo interno: “Jim Bond, il rampollo, l’ultimo della sua schiatta [nipote di Bon e pronipote di Sutpen] la vedeva anche lui e ululava con ragione umana ora poiché ora perfino lui poteva capire perché ululasse (…) la casa crollava e spariva in un ruggito, e rimaneva soltanto la voce del negro idiota (…) non rimaneva niente adesso, più niente laggiù tranne quel ragazzo idiota ad aggirarsi fra quella cenere e quei quattro comignoli sfondati e a ululare finché qualcuno non venne a cacciarlo via” [Amara ironia della sorte: l’ultimo rampollo di Sutpen è un negro idiota, povero e reietto. Così si conclude il progetto di riscatto]
Ogni contatto tra esseri umani, anche indiretto, anche superficiale, lascia in ciascuno una traccia duratura. Una traccia, ovviamente, di profondità diversa da caso a caso, ma che, comunque, finché rimane confusa e incomprensibile, viene avvertita come una sorta di lacuna o incongruenza nel mondo interno. Questo libro (come la Recherche proustiana) cerca di restituire una storia e un’anima a personaggi, morti da molto tempo, la cui influenza, tuttavia, trasmessa attraverso tre generazioni, persiste nell’animo di Quentin Compson, il principale narratore. Il libro non racconta soltanto una vicenda, narra anche la storia di come la vicenda stessa, passando di bocca in bocca e di mente in mente, è stata man mano costruita o ricostruita, sviluppandosi ed acquistando progressivamente coerenza. Non mancano accenni a incertezze e contraddizioni che vengono superate nel corso della ricostruzione; è la “rêverie” dei narratori (il nonno ed il padre di Quentin, Quentin stesso con l’amico Shrieve) a conferire coerenza e “verità” alla storia, attraverso la restituzione di un senso ed alla sintesi delle tracce che i personaggi della vicenda hanno lasciato nel loro animo. È per questo motivo, credo, che Romolo Rossi parla di “epistemologia narrativa” come parte del contenuto del romanzo [comunicazione personale].
L’inizio della storia, l’evento che da un senso a tutto quanto viene narrato, compare nella seconda metà del romanzo. È questo, mi pare, un procedimento impiegato spesso da Faulkner: il senso di molte vicende rimane incerto o oscuro, fino a quando compare un aspetto della storia che conferisce significato, retrospettivamente, a quanto è già stato raccontato. Qui tutto inizia con la brutale mortificazione subita da Sutpen, allora quattordicenne, quando si rende conto di colpo dell’arroganza dei potenti e del carattere miserabile della sua condizione. Ciò provoca non solo un (parziale) risveglio dall’innocenza giovanile, ma anche la costruzione di un progetto di riscatto cui dedicherà la sua intera esistenza: il suo obbiettivo è diventare egli stesso come il proprietario terriero che lo ha mortificato ed essere lui possessore di schiavi sottomessi ed umiliati, anziché vivere schiavo dell’impotenza e dell’umiliazione. A questo progetto egli subordina o sacrifica ogni altro interesse o affetto e ciò si rivela motivo sia del suo successo, sia della sua rovina: come Macbeth dall’ebbrezza del potere, anche Sutpen è come abbagliato dalla prospettiva della ricchezza e della proprietà terriera; ciò (insieme alla sua innocenza parzialmente conservata) fa sì che egli ignori o fraintenda le conseguenze delle sue azioni sull’animo di chi lo circonda: avendo ripudiato la prima moglie e il primo figlio (scopre il loro sangue negro, e sui negri egli ha proiettato la mortificazione da lui stesso vissuta, e con la quale non vuole avere più nulla a che fare), s’illude di aver chiuso la vicenda sistemando le cose sul piano economico e legale. Non si rende conto dell’odio implacabile suscitato nella donna offesa e del bisogno inestinguibile di ritrovare il padre che egli ha indotto nel figlio Bon. Avendo considerato i figli Henry e Judith esclusivamente come parte del suo disegno, non si rende conto delle conseguenze che la deprivazione affettiva ha prodotto nell’animo dei ragazzi: passioni primitive, incontrollabili, desideri incestuosi. Tutto questo fa sì che Sutpen, come Macbeth, finisca per distruggere con le sue stesse mani il “regno” da lui conquistato e la discendenza che avrebbe dovuto dominarlo. Alla fine della vicenda, di Sutpen rimane solo il suo ultimo rampollo: Jim Bond, un ragazzo negro idiota, miserabile, reietto, alla ricerca di una casa da cui è stato espulso e che non esiste più.
2 – Citazioni dal testo e note a margine (queste ultime tra parentesi quadre ed in corsivo)
1 – pag. 13: la supposizione di Quentin sul perché Rosa Coldfield sente il bisogno di raccontare la storia di Sutpen e sua: per far sapere “…perché Iddio ci fece perdere la Guerra [di secessione]: che solo col sangue dei nostri uomini e le lacrime delle nostre donne Egli poteva fermare questo demonio e cancellare dalla faccia della terra il suo nome e la sua stirpe…” [Le truppe nordiste vittoriose che pongono fine al dominio di Sutpen (e con lui di tutti i proprietari di schiavi e terreni a lui simili) fanno venire in mente l’esercito che avanza verso il castello di Macbeth e pone fine all’impresa mostruosa e temeraria di questo personaggio] – pag. 31: Rosa Coldfield, in visita dalla sorella Ellen Sutpen: “… intenta ad ascoltare lo spirito e la presenza viva di quella casa, poiché ora vi si era trasfuso qualcosa della vita e del respiro di Ellen oltre che di lui [il marito Thomas Sutpen], spirando un lungo suono neutro di vittoria e disperazione, di trionfo e anche di terrore…” [Vittoria e disperazione, trionfo e terrore: parti del mondo interno di Thomas Sutpen che hanno come “impregnato” l’ambiente]
2 – pag. 37, 38: descrizione di Sutpen alla sua prima comparsa a Jackson – pag. 39: Sutpen “… a quell’epoca egli era completamente schiavo della sua impazienza segreta e furiosa, della sua convinzione acquisita da quella sua recente esperienza sconosciuta [il primo fallimento del suo progetto di divenire proprietario di terreni e di schiavi e di generare una stirpe di proprietari], del bisogno di fretta, del tempo che gli sfuggiva tra le mani, che doveva sospingerlo per i cinque anni successivi… fino a circa nove mesi prima della nascita di suo figlio…” [“Schiavo” dell’impazienza e della fretta di realizzare il suo progetto, divenute acute dopo il primo fallimento; schiavitù che lo rende insensibile o cieco verso qualsiasi altra esigenza umana, propria o degli altri]
3 – pag. 79, 80: Sutpen, portati i suoi terreni a rendere il massimo del loro valore, “… era accettato [dal paese]; evidentemente aveva ormai troppo denaro per essere respinto”. Recitava una parte di “arrogante benessere” [Arroganza come surrogato di una sicurezza di sé derivante da piena accettazione da parte degli altri: questi, in realtà, lo hanno accettato solo per il suo denaro] – pag. 85: Rosa, impegnata nel preparare un corredo per la nipote Judith, si procura le stoffe di nascosto nel negozio del padre “… con quell’arditezza amorale, quella tendenza al brigantaggio propria delle donne…” – pag. 87: dopo la rottura tra Sutpen e il figlio Henry per il rifiuto del primo di Bon come fidanzato della figlia Judith, la madre Ellen è “… distrutta… per l’urto della realtà che entrava nella sua vita” – “… tra Henry e Judith c’era stata una relazione più stretta della tradizionale fedeltà di fratello e sorella… qualcosa come quella fiera rivalità impersonale fra due cadetti di un reparto d’assalto che… sfiderebbero la morte l’uno per l’altro, non già per l’altro ma per la compatta saldezza del reparto…” [Il rapporto tra i due fratelli non è tra due individui distinti, che si riconoscono reciprocamente come tali: la loro rivalità è “impersonale”; si sacrificano l’uno per l’altro “non già per l’altro, ma per il reparto”. Sembrano entrambi assorbiti, scomparendo come individui distinti, da un’entità sovra-individuale: dalla fantasia (o illusione), legata al “disegno” paterno, di ciò che avrebbe dovuto divenire la discendenza come prolungamento del genitore] – pag. 88: sguardo non già di sofferenza, ma di “smarrita incomprensione” negli occhi della madre Ellen dopo la delusione che l’ha colpita mortalmente
4 – pag. 106: rapporto tra Henry Sutpen e Charles Bon: quest’ultimo visto come “… l’uomo che lui [Henry] vorrebbe essere se potesse diventare, per metamorfosi, l’amante, il marito [della sorella]; dal quale vorrebbe essere deflorato… se potesse diventare per metamorfosi la sorella… Forse questo si svolse non nella mente di Henry ma nella sua anima” [Fantasie incestuose e omosessuali: già presenti nelle prime impressioni di Henry di fronte a colui che si rivelerà come suo fratello] – pag. 109: “… dovette essere Henry a sedurre Judith, non Bon: a sedurla… mediante quella telepatia con cui da piccoli parevano a volte precorrere l’uno le azioni dell’altra così come due uccelli lasciano un ramo nello stesso istante; quel rapporto quale potrebbe esistere tra due persone… abbandonate alla nascita su un’isola deserta: l’isola in questo caso era Sutpen’s Hundred: la solitudine, l’ombra di quel padre con cui non solo il paese ma perfino la famiglia materna aveva ipotizzato un armistizio anziché accettarlo e assimilarlo” [“Telepatia”: comunicazione empatica da inconscio a inconscio tra fratelli posti entrambi in situazione d’isolamento e deprivazione affettiva. Emergono, e vengono comunicate e condivise, fantasie di tipo incestuoso ed omosessuale, in contrasto con il “progetto” paterno ed emerse dalla freddezza paterna] – pag. 110: dubbi, espressi da Quentin e dai suoi interlocutori, che il matrimonio morganatico di Bon con una “sanguemisto” sia stato motivo sufficiente a giustificare l’opposizione di Sutpen al matrimonio – pag. 111: sempre riguardo allo stesso fatto: “… Non spiega niente, ecco. O forse è così: loro non spiegano e noi non siamo tenuti a sapere. Noi abbiamo vecchi racconti tramandati di bocca in bocca; riesumiamo da vecchi bauli… lettere… in cui uomini e donne che un giorno vissero e respirarono sono adesso mere iniziali o soprannomi coniati da qualche affetto ora incomprensibile…; noi vediamo confusamente delle persone, le persone nel cui sangue e seme vivente noi stessi giacevamo in un sonno d’attesa… tornate a compiere i loro atti di semplice passione e semplice violenza, impervie al tempo e inesplicabili… Loro ci sono, eppure manca qualcosa…” [Gli attori ed artefici della nostra preistoria, da cui ha tratto origine la nostra storia, hanno lasciato intorno a noi (e in noi) tracce confuse e incomprensibili; eppure si sente la necessità di restituire a queste ombre del passato una storia e un’anima, come se un’incompletezza o un’incongruenza in questo lavoro si traducesse in una lacuna lasciata in noi stessi – vedi anche pag. 240: l’ingiunzione tramandata di generazione in generazione di riparare la mortificazione narcisistica; pag. 284: la metafora del ciottolo caduto nell’acqua e degli anelli che si formano] – pag. 112: per Sutpen, Bon era “… l’uomo in cui, dopo averlo visto una volta… ravvisò una minaccia potenziale al coronamento… trionfale dei suoi antichi sacrifici e della sua ambizione, minaccia di cui era evidentemente tanto sicuro da sobbarcarsi un viaggio di seicento miglia [a New Orleans, la città di Bon] per comprovarla…” – pag. 113: Sutpen a New Orleans, alla ricerca di quel qualcosa (a questo punto della narrazione ancora ignoto) che lo indurrà ad opporsi al matrimonio di Judith e Bon: “… chissà a che cosa pensava, che cosa aspettava, quale momento, giorno, per andare a New Orleans a trovare ciò che sin da principio pareva sicuro di trovare? Egli non aveva nessuno a cui dirlo, a cui parlare del suo timore e sospetto. Non si fidava di nessuno… lui che non aveva l’affetto di nessun uomo e di nessuna donna… gli toccava quella solitudine di disprezzo e sfiducia che il successo porta a chi se l’è guadagnato perché era forte e non semplicemente fortunato” [Un altro aspetto che avvicina Sutpen a Macbeth: la solitudine prodotta dal disprezzo per le esigenze altrui (che egli ha sacrificato per perseguire il suo progetto di riscatto) e da diffidenza riguardo all’affetto degli altri (che egli disprezza, da cui si sente disprezzato e cui egli attribuisce la sua stessa cinica freddezza)] – pag. 116: “…incredibile davvero che [Sutpen] aspettasse proprio il Natale..” per esprimere la sua opposizione al matrimonio di Bon e Judith [Valore simbolico della festa della Natività come evento lieto trasformato, in modo perverso, in maledizione?] – pag. 118, 119: Henry verso Bon: “… oggetto di quella completa devozione capace di qualsiasi rinuncia che solo un giovane, mai una donna, dà a un altro giovane o uomo…” – Judith verso Bon, sedotta “…come se in realtà fosse stato il fratello a incantare la sorella, a sedurla in favore della propria immagine sostitutiva che camminava e respirava nella persona di Bon…” – Bon verso Judith e Henry: “… Bon non solo amava Judith alla sua maniera, ma amava anche Henry e, credo, in un senso più profondo che non semplicemente alla sua maniera. Forse nel suo fatalismo amava di più Henry, vedendo forse nella sorella soltanto l’ombra, il ricettacolo femminile con cui consumare l’amore il cui vero oggetto era il giovane (…) forse si trattava di qualcosa di più che non Judith o Henry: forse la vita, l’esistenza ch’essi rappresentavano. Perché chissà quale quadro di pace poté vedere in quel monotono stagno provinciale…” [Cerca di trovare, nella fantasia di un’unione omosessuale e incestuosa con i fratelli, un modo per raggiungere quella famiglia che gli è mancata e quell’appagamento narcisistico che solo una famiglia può dare] – pag. 123: seduzione operata su Henry da parte di Bon: gli mostra, come cosa a lui nota, di cui conosce il proprietario (fingendo di credere che anche Henry lo conosca) “… una facciata con le imposte chiuse… qualcosa che sapeva di piaceri segreti e curiosi e inimmaginabili”; gli offre stimoli che, eludendo le sue capacità critiche, vanno a toccare “…qualche primitivo e alogico fondamento di tutti i sogni e tutte le speranze viventi in ogni giovane maschio…” – pag. 131: timore di Henry che Bon sposi di nascosto Judith per essere costretto a “… vivere il resto dei suoi anni sapendo d’essere lieto d’aver subìto quel tradimento con la gioia del vile di potersi arrendere senza essere stato debellato…” – pag. 133, 134: Judith e Sutpen, dopo la rottura con Bon e Henry, non si scambiano parole su quel che ciascuno dei due sa del figlio e fratello e dell’ex-fidanzato: “…Non avevano bisogno di parlare. Si somigliavano troppo. Erano come diventano due persone quando evidentemente si conoscono tanto bene e sono tanto affini che il potere, il bisogno di comunicare mediante il linguaggio si atrofizza per il disuso…” – pag. 139, 140: Judith porta alla nonna di Quentin l’unica lettera superstite di Bon: “… “Vuoi che la tenga io?” “Sì” disse Judith. “Oppure distruggetela. Come volete, leggetela se volete oppure non leggetela se volete. Perché si fa così poca impressione, vedete. Tu vieni al mondo e tenti e non sai perché, solo continui a tentare e vieni al mondo insieme a un mucchio di altre persone, tutta aggrovigliata a loro, come loro tentando, dovendo muovere braccia e gambe con cordicelle, solo che le stesse cordicelle sono legate a tutte le altre braccia e gambe e gli altri tentano tutti quanti e neanche loro sanno perché, tranne che le cordicelle s’impicciano tutte a vicenda, come sarebbe a dire cinque o sei persone tutte intente a cercare di fare una stuoia sullo stesso telaio, solo che ciascuna vuol tessere la stuoia secondo il proprio disegno; e non può avere importanza, lo sapete, sennò Coloro i quali impiantarono il telaio avrebbero predisposto le cose un po’ meglio, eppure deve avere importanza purché tu seguiti a tentare o a dover continuare a tentare e poi tutt’a un tratto è finita e tutto quel che ti rimane è un blocco di pietra con qualche scalfittura sopra, purché ci sia stato qualcuno a ricordarsi di far scalfire e collocare il marmo, o che ne abbia avuto il tempo, e ci piove sopra e il sole ci splende, e dopo un po’ non si ricordano neppure il nome e quello che le scalfitture tentavano di dire, e non ha importanza. E così forse se tu potessi andare da qualcuno… e dargli qualcosa – un pezzo di carta – qualcosa, qualunque cosa, non certo perché abbia un significato in sé e gli altri non debbono neppure leggerlo o tenerlo, nemmeno preoccuparsi di buttarlo via o distruggerlo, almeno sarebbe qualcosa giusto perché sarebbe accaduto, sarebbe ricordato quand’anche solo passando da una mano all’altra, da una mente all’altra, e sarebbe almeno una scalfittura, qualcosa, qualcosa da poter lasciare un segno su qualcosa che “fu” una volta per il motivo che può morire un giorno, mentre il blocco di pietra non può essere “è” perché non può mai diventare “fu” perché non può mai morire…” – pag. 141: lo scopo della consegna della lettera è “…fare quella scalfittura, quel segno imperituro sul vuoto volto dell’oblio a cui siamo tutti condannati…” [Ogni essere umano, venuto al mondo “senza sapere perché”, sente il bisogno di “tentare”: questo verbo privo di complemento oggetto sembra indicare uno sforzo di raggiungere qualcosa che non si sa cosa sia e che potrebbe essere definito genericamente, da chi guarda la cosa dall’esterno, come l’acquisizione di una vita soggettiva significativa, di un’esistenza autentica come individuo. Anche gli altri “tentano”, ciascuno interferendo sulla possibilità dei propri simili di raggiungere il loro scopo. Le “cordicelle” con cui ciascuno muove i propri atti s’ingarbugliano con quelle altrui: lo scopo del libro sembra, appunto, quello di dipanare la matassa, restituendo a ciascuno lo scopo del suo tentativo, ossia l’essere dotato di un’anima e di una storia. Ma per la maggior parte delle persone lo sforzo, la serie di tentativi, viene troncata dalla morte. Non rimane più altro che un blocco di marmo, con incise delle “scalfitture” che finiscono per non significare nulla. Tuttavia se un segno, una traccia, passa, anziché ad una pietra, ad una mente (qualcosa che, proprio in quanto perisce, è vissuto, mentre il marmo, che non perisce mai, non può “essere”), questa “scalfittura” mentale ha una qualche remota possibilità di acquisire significato, e ciò potrebbe segnare l’inizio tardivo di un’esistenza che non è mai cominciata]
5 – pag. 153: il contatto della mano di Clytie, che cerca d’impedire a Rosa di salire al piano di sopra, dove Bob giace, assassinato da Henry: “… nel contatto della carne c’è qualcosa che abroga, taglia netto e diritto per le tortuose vie intricate dell’ordinamento decoroso, e nemici e amanti lo conoscono bene questo qualcosa perché esso li fa tali; – contatto, sì, contatto di quella che è la cittadella intima dell’ “Io sono” centrale, privato…” – pag. 155: Rosa, parlando a se stessa a proposito dell’assassinio di Bon e della gelida reazione di Judith: “Sì, svegliati, Rosa; svegliati – non da ciò che era, da ciò che soleva essere, ma da ciò che non era stato, non avrebbe mai potuto essere…” – pag. 164; “… quell’ “avrebbe potuto essere” che costituisce lo scoglio solitario a cui ci aggrappiamo nel vortice della realtà insopportabile” – pag. 167: Bon scomparso “senza lasciar traccia di sé, neppure lacrime” – pag. 176 Sutpen, alla fine della guerra “tornato a casa con niente, a trovar niente, quattro anni meno di niente” [L’esito finale del progetto eroico e folle di questo personaggio, viene già anticipato in questo secondo, terribile fallimento; ma per il momento Sutpen non si arrende ancora] – pag. 177: Rosa: “… ancora bambina, ancora in quel corridoio uterino dove il mondo non giungeva nemmeno come eco vivente ma come ombra incomprensibile, dove col quieto e non allarmato stupore di una bambina osservavo i grotteschi gesti da miraggio di uomini e donne – mio padre, mia sorella, Thomas Sutpen, Judith, Henry, Charles Bin – detti onore, principio, matrimonio, amore, perdita, morte…” [I bambini sono capaci di avvertire stupore, ma si tratta di stupore “quieto e non allarmato” perché sono ancora animati da fiducia; più tardi, quando le realtà adulte susciteranno allarme ed esse appariranno “grotteschi gesti da miraggio” (ossia significativi di illusioni), la curiosità verrà gradualmente sostituita da scettica accettazione e l’allarme stesso da rassegnazione] – pag. 180: Sutpen, descritto da Rosa, mentre le dichiara la sua proposta di matrimonio: “…lui che parlava non di me o di amore o matrimonio, e nemmeno di se stesso e non a lucidi mortali in ascolto e non per sanità mentale, ma alle stesse buie forze del fato ch’egli aveva evocato e sfidato…” – pag. 187: “… lui non era posseduto da nessuno e niente al mondo, non lo era mai stato, non lo sarebbe mai stato, nemmeno da Ellen, nemmeno dalla nipotina di Jones. Perché lui non era inserito in questo mondo. Era un’ombra ambulante. Era l’abbacinata immagine da pipistrello del suo tormento, proiettata in alto dalla feroce lanterna demoniaca di sotto la crosta terrestre…” [Dopo i primi due fallimenti del suo progetto di riscatto per sé e la propria discendenza, Sutpen vedendo Rosa come possibile moglie e madre di nuovi figli, considera il matrimonio con lei come parte integrante del suo ultimo, disperato tentativo. Né Rosa, né alcuno dei presenti, né la nipotina di Jones (che prenderà il posto di Rosa) sono da lui considerati come persone che lo possono “prendere” in un rapporto (e definire come persona “di questo mondo”), ma solo come mezzi per raggiungere il suo scopo. È con il suo progetto di riscatto (la sua tormentosa e demoniaca sfida ad un “fato” che lo vorrebbe diseredato e umiliato) che egli ha un rapporto esclusivo; esso rappresenta l’unico, tragico contenuto della sua vita]
6 – pag. 198: il tentativo di Sutpen, conscio delle sua vecchiaia, di “liberarsi” del suo progetto di riscatto: “… per lui ora non c’era più bisogno d’essere un demonio, ma solo un vecchio pazzo impotente accortosi alfine che il suo sogno di ripristinare Sutpen’s Hundred non solo era vano, ma che quanto gliene rimaneva non sarebbe mai bastato a mantenere lui e la sua famiglia…” – pag. 199: “… lui decise che forse sbagliava ad essere libero e così ci si ributtò dentro [la sua seduzione della nipote di Wash Jones] e poi decise che sbagliava a non esser libero e così ne rivenne fuori [probabilmente la provocazione che lo portò ad essere assassinato] – pag. 202: Sutpen, ebbro, raggiungeva “… quella senile condizione di impotente e furioso rifiuto della sconfitta…” – pag. 203: Sutpen, di fronte alla nipote di Wash che ha appena partorito: “… abbassò lo sguardo su madre e figlia e disse: “Be’, Milly, peccato che tu non sia una cavalla come Penelope. Ti potrei dare un posto nella stalla” e si voltò e uscì…” [Ennesima manifestazione di temeraria arroganza? Di rifiuto di una figlia femmina? Provocazione che prevede quale sarà la tragica reazione? Probabilmente tutte queste cose] – pag. 221: le crisi pantoclastiche del figlio di Bon: dava prova di “… una forza composta di pura, disperata volontà e inaccessibilità al castigo…”. Solo il nonno di Quentin riusciva ad intuire, alla base di tale comportamento, “… la presenza di quella furiosa protesta, quell’accusa all’ordine celeste, quel guanto scagliato in faccia a ciò che è con una furiosa e indomabile disperazione…” [Il figlio di Charles Bon (Charles Etienne St. Valery), vissuto, fino alla morte della madre, sotto una campana di vetro, in uno stato di passivizzante appagamento narcisistico, è preso, di fronte al brutale crollo del suo mondo, da una forma di rabbia narcisistica a carattere primitivo e d’intensità inaudita; rabbia contro tutto e tutti] – pag. 232: Quentin, cui il padre ha raccontato la storia di Rosa Coldfield da lui ricostruita, così dice a se stesso: “… Ma tu non ascoltavi, perché sapevi già tutto, l’avevi già appreso, assorbito in un certo modo senza bisogno di discorsi per il solo fatto di esserci nato e vissuto vicino, in sua compagnia, , come desiderano e fanno i bambini: quanto stava raccontando tuo padre non ti disse molto ma piuttosto colpì, parola per parola, le corde vibranti del ricordo…” [Conoscenza intuitiva, trasmessa da inconscio a inconscio, derivante da un residuo di rapporto fusionale ancora rilevante nei bambini]
7 – pag. 240: Sutpen racconta al nonno di Quentin come nacque il suo progetto di emancipazione: “… Il suo guaio era l’innocenza. Tutt’a un tratto egli scoprì non già quel che voleva fare ma quel che doveva fare, e doveva farlo volente o nolente, perché se non lo faceva sapeva che non avrebbe mai più potuto vivere con se stesso per il resto della sua vita, vivere con quanto tutti gli uomini e le donne morti per fare lui gli avevano lasciato dentro affinché lui a sua volta lo tramandasse, con tutti i morti in attesa e intenti a scrutare se lo faceva bene…” [Il suo progetto nasce da un sentimento di “dovere”, ossia dall’ingiunzione interiorizzata di antenati morti senza essersi realizzati, vissuti solo per “fare lui”. Ingiunzione categorica di sanare una mortificazione narcisistica trasmessa di generazione in generazione trasgredendo la quale la vita diventa inaccettabile, “non si può vivere con se stessi”; fallito il suo progetto, infatti, Sutpen andrà incontro alla morte – vedi anche nota pag. 111 e pag. 284: la traccia lasciata dai progenitori; ] – pag. 241: Sutpen ragazzino, sceso dalle montagne “…allora non immaginava che esistessero tutti gli oggetti desiderabili che qui c’erano, o che i possessori degli oggetti non solo potessero guardare dall’alto in basso coloro i quali non ne avevano, ma essere sostenuti in tale atteggiamento non solo dagli altri possessori di oggetti ma da quegli stessi che non ne possedevano” – pag. 246, 247: Sutpen, nella stessa epoca: “Aveva non solo imparato la differenza tra uomini bianchi e uomini neri, ma stava imparando che c’era una differenza tra uomini bianchi e uomini bianchi (…) Egli aveva cominciato a capirlo senza esserne però ancora consapevole. Pensava ancora che dipendesse solo da dove e come venivi al mondo; se eri fortunato o sfortunato; e che i fortunati erano ancor più lenti e riluttanti degli sfortunati a trarne vantaggio o credito, o a sentire che tale condizione desse loro alcunché di più della mera fortuna; e pensava ancora che semmai avrebbero avuto per gli sfortunati un senso di maggiore tenerezza di quanto gli sfortunati ne avrebbero mai dovuto provare per loro” – pag. 248: Sutpen, incantato di fronte al lusso del proprietario terriero “… raccontò come strisciasse fra l’intrico dei cespugli nel prato e si appiattasse a spiarlo” – pag. 249: “… non solo non aveva ancora perduto l’innocenza, non aveva ancora scoperto di possederla. Non invidiava quell’uomo [il ricco proprietario terriero] più di quanto avrebbe invidiato un montanaro che per combinazione avesse un bel fucile. Avrebbe desiderato il fucile, ma avrebbe personalmente sostenuto e confermato l’orgoglio e il piacere che dava al proprietario di possederlo perché non avrebbe potuto concepire che il proprietario approfittasse in maniera così grossolana della fortuna che dava il fucile a lui anziché a un altro da dire ad altri uomini: “Siccome io posseggo questo fucile, le mie braccia e gambe e ossa sono superiori ai vostri”…” – pag. 250: Sutpen, mandato dal padre alla casa del proprietario per trasmettergli un messaggio, rifletteva su “…come finalmente stesse per vederla dall’interno (…) non dubitando mai che l’uomo avrebbe avuto altrettanto piacere di mostrargli il resto dei suoi beni quanto ne avrebbe avuto il montanaro di mostrare il corno da polvere e lo stampo da proiettili annessi al fucile. Perché lui era ancora innocente (…) prima che il negro scimmiesco venuto alla porta avesse finito di dire quanto disse [che l’ingresso principale della casa era riservato ad altri e non a lui, e questo prima ancora di sapere per che motivo si era presentato], a lui parve quasi di dissolversi…” [Sembra che qui si collochi l’inizio dell’intera, tragica vicenda di Sutpen e della sua famiglia. Orfano di madre dalla prima infanzia, il padre figura inconsistente (il suo rapporto privilegiato era con la bottiglia anziché con i familiari), Sutpen si era conservato “innocente” ossia bisognoso d’aiuto, ingenuo, incline ad aspettarsi che gli altri, nei confronti suoi e dei suoi bisogni, si sarebbero comportati come buoni genitori. Questo soprattutto riguardo alla necessità di un rapporto con un oggetto idealizzato, dotato di qualità positive e di beni desiderabili: come pensava avrebbe fatto il montanaro proprietario di un buon fucile, allo stesso modo Sutpen si aspettava che il proprietario terriero lo rendesse, in qualche modo, partecipe delle sue fortune (ad esempio facendolo entrare nella sua casa e mostrandogliela); ciò gli avrebbe permesso di “sostenere e confermare l’orgoglio” del possessore senza che nascessero in lui sentimenti d’invidia o di rivalità ostile, anche perché dall’altro si aspettava modestia e benevolenza (tenerezza), anziché superbia e arroganza. Dalla brutale disillusione inizia la crisi di Sutpen che lo porterà ad adottare il progetto di riscatto come scopo della sua vita, all’identificazione con l’aggressore (che schiavizza e umilia gli altri), alla scissione e proiezione sui negri della parte di lui stesso povera, incapace e mortalmente umiliata ed all’evitamento fobico di qualsiasi contatto o fusione con questa stessa parte di lui; evitamento che lo porterà al ripudio del figlio Bon e (ancor più dell’avversione per l’incesto) al suo opporsi del matrimonio di questi con la figlia Judith; lo porterà, inoltre, ad istigare il figlio Henry al fratricidio] – pag. 256: Sutpen, dopo la disillusione traumatica “… vedeva suo padre e sorelle e fratelli così come doveva averli sempre visti il proprietario, il ricco… come bestiame, creature grevi e sgraziate, brutalmente scodellate in un mondo privo per loro di speranza o scopo, e che a loro volta avrebbero figliato con bruta e cattiva prolissità, popolato… spazio e terra di una razza il cui avvenire sarebbe stato una sequela di abiti ridotti e rattoppati e rifatti (…) e per solo retaggio quell’espressione… che aveva scrutato qualche dimenticato progenitore senza nome che da ragazzetto aveva bussato a una porta e si era sentito dire da un negro di andare alla porta di servizio…” [Inizia a ripudiare e coprire di disprezzo la sua famiglia (e la parte di lui stesso legata alla famiglia) la cui vita gli sembra fatta solo di povertà e umiliazioni. Il progenitore da cui lui suppone sia nato questo stato di cose è stato dimenticato, ma la mortificazione narcisistica è rimasta e, tramandata di generazione in generazione, è giunta fino a lui] – pag. 262: riguardo al ripudio della prima moglie (e del figlio avuto da lei) “… senza scusarsi, senza chiedere pietà … [Sutpen] disse semplicemente al nonno come avesse messo da parte la prima moglie…: “Trovai che, non per sua colpa, lei non forniva e non poteva fornire aggiunta o incremento alcuno al disegno che avevo in mente, così provvidi a lei e la misi da parte” [Nel suo mondo esiste solo più il suo “disegno”. Ad esso sacrifica tutti i rapporti umani, divenendo incapace di comprensione empatica: avendo restituito alla moglie il “dovuto” (in termini esclusivamente economici) ed avendo persino rinunciato alla parte che gli sarebbe spettata, crede di aver “sistemato” le cose con lei, senza accorgersi d’aver suscitato, nella donna, un intenso risentimento; risentimento ed odio implacabili che contribuiranno a portare Sutpen alla rovina] – pag. 284: sui figli di Sutpen: “… Forse nulla accade una volta per poi finire. Forse l’accadere non è mai per una volta, ma forse come increspature sull’acqua dopo che il ciottolo è affondato, le increspature che avanzano, allargandosi, l’anello unito… all’anello seguente che il primo anello alimenta… e contenga pure questo secondo anello… una diversa molecolarità dell’aver visto, sentito, ricordato…, non importa: l’eco acquatica di quel ciottolo la cui caduta non vide nemmeno si muove pure attraverso la sua superficie…” [vedi nota pag. 111: la traccia lasciata dai progenitori; pag. 240: l’ingiunzione tramandata di generazione in generazione di riparare la mortificazione narcisistica] – pag. 289: “… “tuo padre [di Quentin] – disse Shreve – se sapeva tutto questo [che Bon era figlio di Sutpen] che ragione aveva di dirti che il guaio fra Henry e Bon era costituito dalla sanguemisto?” – “Allora non lo sapeva. Neppure il nonno gli disse tutto…” – “E allora chi glielo disse?” – “Io” [La narrazione viene costruita un pezzo alla volta, acquistando progressivamente coerenza, in base agli apporti che vengono man mano aggiunti dalle generazioni che si succedono] – pag. 290: dopo il riconoscimento di Bon da parte di Sutpen: “… dopo cinquant’’anni l’abbandonato bambino perduto senza nome e senza casa venne a bussarvi e non c’era al mondo nessun negro vestito da scimmia che venisse alla porta a mandar via il bimbo;… fin d’allora, pur sapendo che Bon e Judith non si erano mai visti, egli dovette sentire e udire il disegno – casa, posizione, posterità e tutto – cedere come se fosse stato di fumo, senza rumore, senza creare spostamento d’aria e senza lasciare macerie. E non la chiamava nemesi, colpe del padre che ricadevano su di lui; nemmeno la chiamava malasorte, solo uno sbaglio [Lo scopo della sua vita era stato, appunto, allontanare da sé quel bambino abbandonato e umiliato che era stato un tempo e collocarlo nei negri; ora, con l’arrivo perturbante di Bon, il bambino ritorna ed egli vede, d’improvviso, crollare il suo disegno. Eppure non vede questo fatto come conseguenza di “colpe dei padri” o “nemesi”: nel suo superio c’è solo un’ingiunzione a perseguire il disegno, nessuna condanna o riserva] – pag. 292: supposizione di Quentin che Sutpen avesse tentato di corrompere la mezzosangue, madre di Bon, per allontanarlo: “… un uomo che poteva credere che una donna disprezzata e oltraggiata e adirata si potesse comperare con la logica formale doveva credere pure che la si potesse placare col denaro…” [Persistente innocenza e ingenuità di Sutpen: significativo questo tratto della sua personalità, tenendo conto che le sue scelte (secondo il suo “disegno”) innescano le tragiche vicende sue e della sua famiglia] – pag. 310, 312, 313: il ripudio sprezzante, da parte di Sutpen, della figlia avuta dalla nipotina di Wash Jones dal punto di vista di quest’ultimo, l’assassinio: estrema idealizzazione di Sutpen per tutti gli anni precedenti (“Lui è più grande di tutti quegli yankee che hanno ammazzato noi e i nostri” “… come potevo io vivergli accanto per vent’anni senza essere da lui toccato e cambiato?”), però “… sentì Sutpen dentro casa pronunciare la sua unica frase di saluto, interrogazione e addio alla nipote (…) Wash dovette sentirsi mancar la terra sotto i piedi… pensando quietamente, come in sogno: “Non posso aver sentito quel che so di aver sentito… Ecco perché si è alzato. Per quel puledro. Non per me e per i miei. Non è nemmeno per suo figlio…” …” Segue l’assassinio [Proprio nel momento in cui avrebbe dovuto realizzarsi, nel pronipote, l’agoniata fusione tra lui ed il suo oggetto idealizzato, questi lo delude brutalmente] – pag. 313: gli ultimi momenti di Wash con la nipote, prima dell’omicidio-suicidio – pag. 315: il colloquio immaginario di Wash con Sutpen: “Ma questa non me l’aspettavo, colonnello! (…) Lo sapete bene che no. sapete bene che da nessun uomo vivente mi aspettavo o chiedevo o volevo quello che mi aspettavo da voi…”
8 – pag. 322: Bon cresciuto nello spirito di vendetta, allevato agli scopi della vendetta materna – pag. 323: madre di Bon animata “non [da] amarezza e disperazione, giusto implacabile volontà di vendetta” – pag. 325: Bon, sempre riguardo alla madre: “Scoprì che lei perseguiva un certo scopo e lui non solo non se ne curava, non si curava neppure di sapere che cosa fosse; crebbe negli anni e scoprì che lei lo aveva foggiato e temprato a essere lo strumento del piano imprecisato che le rendeva implacabile la mano…” [Non solo gli manca, di per sé, il padre: l’abbandono da parte di questi è anche causa di un polarizzarsi dell’attenzione materna sul risentimento e pure l’affetto della donna viene a mancargli. Egli non viene considerato se non come strumento di vendetta] – pag. 329, 330: la madre di Bon non provava “nessun piacere nella masticazione; il dover masticare era semplicemente un’altra seccatura come pure nessun piacere nel vestire (…) e nessun piacere nella bella figura che lui [Bon]… faceva nei bei calzoni che si attagliavano perfettamente alle sue gambe e nelle belle giacche che si attagliavano alle sue spalle (…) anche tutto questo era giusto una seccatura inevitabile di cui egli doveva sbarazzarsi prima di poterle far del bene proprio come dovette sbarazzarsi del guaio della dentizione e della varicella… per poterle fare del bene” [La volontà di vendetta ha occupato tutto il suo essere; tutto il resto è pura “seccatura”: persino il soddisfacimento dei bisogni vitali, persino la naturale vanità femminile per il suo aspetto e quella materna per la bellezza del figlio. Anche i bisogni di quest’ultimo, connessi alla sua crescita, sono pura seccatura: lo scopo della vita di Bon, per la madre, è solo la vendetta] – pag. 335: il ruolo dell’avvocato e amministratore della madre di Bon: ha dovuto promettere alla donna di non dire mai a Bon chi era suo padre, eppure cerca il modo di avvicinarlo al genitore: “… stava in ufficio a sommare e sottrarre il denaro [si impadronisce del denaro a lui affidato] e ad aggiungere quello che avrebbero ricavato da Sutpen…” – pag. 340: Bon, dopo che Henry gli ha mostrato la lettera dell’avvocato che cerca di far incontrare i due giovani; compare, in lui “un bagliore nella cui fissità egli stette immobile a guardare il volto innocente del giovane che aveva quasi dieci anni meno di lui, mentre una parte di sé diceva: “Lui ha la mia stessa fronte, il mio cranio, la mia mascella, le mie mani” e l’altra diceva: Aspetta. Aspetta. Non puoi saperlo ancora…” …” – pag. 340, 341: la lettera che l’avvocato “… scrisse non appena terminata quell’ultima annotazione nel promemoria, nel “figlia?” [di Sutpen] mentre pensava: “Lui non deve assolutamente saperlo adesso, non bisogna dirglielo prima che lui arrivi là e lui e la figlia…” – non ricordando niente dell’amore giovanile della propria giovinezza e non ci avrebbe creduto se gliene fosse sovvenuta la memoria, eppure disposto a servirsi anche di quello come si sarebbe servito del coraggio e dell’orgoglio, pensando non… alle mani leggere affamate di contatto, ma al fatto che questa Oxford [la sede dell’università dove studiano Henry e Bon] e questa Sutpen’s Hundred si trovavano a una sola giornata di distanza…” [L’organizzazione criminale della sua personalità sembra perfetta: ogni sentimento positivo e sano è cacciato dalla mente o considerato con scetticismo, salvo quando serve per i suoi scopi delinquenziali] – pag. 346: Bon “… sapeva esattamente quello che voleva… il contatto fisico, seppur in segreto, nascosto, il contatto vivente di quella carne scaldata prima che lui nascesse dallo stesso sangue ch’essa gli aveva trasmesso per scaldarci la sua carne, sangue da trasmettere a sua volta ad altre vene e ad altre membra per scorrerci dentro caldo e sonoro dopo la morte di quella prima carne e poi della sua…” [Nell’assoluta assenza di un contatto emotivo, cerca un contatto concreto col padre e con la paternità; quasi che questo contatto fosse condizione per poter egli stesso procreare] – pag. 356: Bon, non trovando Sutpen a casa e comprendendo che si è recato a New Orleans a fare indagini sul suo conto (a trattare con la madre?): “… “Naturalmente non ne era sicuro; doveva andar là per accertarsene”, dicendosi questo ad alta voce, ora, ad alta voce e rapidamente pure, in modo da non udire, da non poter udire il pensiero “Ma se lo sospettava perché non dirmelo? Io l’avrei fatto…” [Si aggrappa a qualsiasi ipotesi che renda ancora possibile pensare che il padre lo voglia riconoscere] – pag. 362: Henry, dopo che il padre gli ha rivelato che Bon è suo fratello: “… doveva aver compreso con estrema disperazione il segreto di tutto il suo atteggiamento verso Bon da quel primo momento istintivo in cui l’aveva visto un anno e un trimestre addietro; lui lo sapeva, eppure non ci credeva, doveva rifiutarsi di crederci” [Comunicazione da inconscio a inconscio e negazione] – pag. 363: la madre di Bon: “… la donna lievemente trasandata dai capelli corvini striati di grigio spettinati… e gli implacabili occhi neri infossati… che Shreve e Quentin avevano pure inventata e che era pure probabilmente abbastanza vera” [Probabile verità e non solo verosimiglianza della rêverie perché essa si alimenta di messaggi comunicati (anche in maniera molto indiretta) da inconscio a inconscio] – “disse… “Dunque si è innamorata di lui” e poi rimase lì seduta a ridere aspramente e insistentemente in faccia a Henry” [La sua aggressività “da strega” (in linea col suo aspetto) è implacabile, anche di fronte all’innocenza di Henry] – pag. 369: “Henry dovette dire: “Ma devi proprio sposarla?…” e Bon diceva: “Lui avrebbe dovuto dirmelo… Gli ho dato tutte le opportunità di dirmelo personalmente. Ma lui non lo ha fatto. Se lo avesse fatto, avrei acconsentito e promesso di non rivedere mai più lei o te o lui. Ma lui non me lo ha detto… Lo disse giusto a te, mi mandò un messaggio allo stesso modo che si manda un servo negro a dire a un mendicante o a un vagabondo di sgomberare” [Un segno, una parola, basterebbero a Bon per sentirsi riconosciuto dal padre e, in cambio, soddisfare i desideri del genitore, anche andandosene. In assenza di ciò, l’unione incestuosa con la sorella diventa inevitabile (atto di vendetta? Modo disperato per raggiungere la famiglia?). L’immagine che Bon usa per descrivere come il padre non si degnò di parlargli direttamente (il servo negro che dice al mendicante di sgombrare) ricorda in modo impressionante l’evento traumatico che segnò la mortificazione narcisistica di Sutpen. Ora questa stessa mortificazione è inflitta al figlio “negro” che lui ha ripudiato; questi rappresenta (scissa e proiettata su di lui) la parte “mendicante” di Sutpen. Bon, sempre per una comunicazione da inconscio a inconscio, lo avverte] – pag. 376: Henry, a proposito del peccato d’incesto che Bon ha intenzione di commettere: “… non sei tu che ci vai [all’inferno], ma noi, noi tre – no: noi quattro. E così finalmente saremo tutti assieme là dove è il nostro posto, poiché quand’anche ci andasse lui solo dovremmo esserci anche noi dal momento che siamo soltanto illusioni da lui procreate, e le tue illusioni fan parte di te come le tue ossa e la carne e la memoria…” [Le “illusioni” legate al disegno di riscatto di Sutpen, hanno segnato la vita dei figli: essi ne sono l’incarnazione e gli esecutori; a volte, debolmente, cercano di ribellarvisi, ma ne rimangono sempre legati] – Bon: “Lui non dovrà neppure chiedermelo; io non farò che toccarlo carne a carne e lo dirò io stesso: Non hai da preoccuparti; lei non mi rivedrà mai” – pag. 383: la definitiva (e decisiva) rivelazione di Sutpen ad Henry: “Lui non deve sposarla, Henry… soltanto dopo la sua nascita… scoprii che sua madre aveva sangue negro” – pag. 385: Bon a Henry: “Dunque è il sangue negro, non l’incesto, che non potete sopportare – Henry non risponde – E non mi ha mandato a dire una parola? Non ti ha chiesto di mandarmi da lui? Non una parola a me, non una parola? Era tutto quel che doveva fare (…) Non c’era bisogno che lo domandasse, lo richiedesse a me. L’avrei offerto io (…) Non aveva bisogno di dirti che sono un negro per fermarmi. Avrebbe potuto fermarmi senza ricorrere a questo” [Sutpen non è in grado di comprendere empaticamente il bisogno che Bon ha di lui, la sottomissione ad ogni suo volere che Bon sarebbe disposto ad accettare pur di avere un contatto, una parola, un segno di riconoscimento. L’incomprensione nasce dal fatto che Bon è portatore di una parte “negra” (meschina, mortificata, inferiore) che Sutpen ha scisso e proiettato e con questa parte di lui non gli è possibile alcun contatto]
9 – pag. 404: di fronte all’incendio della casa e a Clytie che è rimasta a morire al suo interno: “Jim Bond, il rampollo, l’ultimo della sua schiatta [nipote di Bon e pronipote di Sutpen] la vedeva anche lui e ululava con ragione umana ora poiché ora perfino lui poteva capire perché ululasse (…) la casa crollava e spariva in un ruggito, e rimaneva soltanto la voce del negro idiota (…) non rimaneva niente adesso, più niente laggiù tranne quel ragazzo idiota ad aggirarsi fra quella cenere e quei quattro comignoli sfondati e a ululare finché qualcuno non venne a cacciarlo via” [Amara ironia della sorte: l’ultimo rampollo di Sutpen è un negro idiota, povero e reietto. Così si conclude il progetto di riscatto]
Tutto bello e sensato. Ma
Tutto bello e sensato. Ma l’epistemolgia narrativa costituisce per me un grande mistero, per altro affascinante. Non è essa stessa una forma di narrazione, realizzata attraverso l’artificio del commento? Provenendo dalla scrittura algebrica, che non è narrativa (non è neppure fonetica ma ideografica), fatico a seguire le elucubrazioni dell’epistemologia narrativa. Gradirei correzioni e chiarimenti.
Ho riferito, così come me
Ho riferito, così come me l’ha detta, l’espressione di Romolo Rossi “epistemologia narrativa”. Ammetto di poter essere stato influenzato dai miei sentimenti di totale fiducia verso colui che annovero fra i miei maestri: Rossi è stato il mio analista ed è un mio grande amico. Per quanto mi riguarda, credo che il concetto di epistemologia si possa anche applicare a tutto ciò che concerne la dimensione soggettiva, allo scopo di definire un tipo d’indagine rigorosa, fondata su osservazioni accurate e suscettibile di verifica sperimentale. Ciò che la distingue dall’epistemologia applicata a ciò che Kohut chiama “estrospezione” è il particolare e insostituibile strumento d’indagine (l’introspezione e l’empatia) e la non totale riproducibilità dell’osservazione, dato che ogni individuo, nella sua dimensione soggettiva, è unico ed irripetibile, come pure unico e irripetibile è ciascun momento della sua evoluzione. Negare la possibilità di un’indagine rigorosa (scientifica) che riguardi la soggettività, come fa qualcuno, rischia di lasciare questo importante aspetto dell’esistenza umana in balìa delle superstizioni e delle religioni fanatiche.