I – Premessa
Verso l’oggetto primo d’amore ognuno di noi è debitore anche della propria esistenza soggettiva: è dall’incontro dei nostri bisogni narcisistici primari con le capacità di comprensione empatica dell’oggetto che prende forma il Sé Nucleare, il centro della vita interiore di ciascuno [I, 14, 15]. In condizioni sane, questo stesso oggetto promuove e favorisce lo sviluppo delle funzioni psichiche che garantiscono l’equilibrio interiore ed un adeguato rapporto con la realtà. Si tratta delle capacità di sedare le tensioni emotive, di rappresentare e rendere pensabili le emozioni, di dominarle e utilizzarle [I, 14, 3]; capacità che, all’inizio, sono come “date in prestito” dall’oggetto arcaico e poi vengono gradualmente interiorizzate divenendo, in parte, autonome. La maturazione psichica, tuttavia, non consiste in un vero e proprio cambiamento, ma in una stratificazione di livelli mentali progressivamente più evoluti [I, 9, pag. 561 e seg.]; ciò significa che, negli strati più profondi, persiste uno stato di unione con un oggetto arcaico idealizzato ed interiorizzato che continua ad offrirci le proprie funzioni riequilibratrici ed a sostenere il Sé Nucleare. A questo rapporto si può ritornare occasionalmente, soprattutto in caso di crisi delle risorse adulte, in una sorta di “regressione al servizio dell’Io”. Ciò avviene nel corso di esperienze d’ispirazione creativa, di rapimento di fronte a manifestazioni di bellezza e grandiosità, di estasi mistica. In tali circostanze, si prende temporaneamente distanza dalla banalità e dal carattere prosaico della vita quotidiana, e ci s’immerge in una dimensione ideale che fa parte del nostro mondo interno. Se sane, queste esperienze arricchiscono la vita interiore riplasmando e rendendo più evolute le funzioni mentali riequilibratrici e ripristinando il contatto con il Sé Nucleare. Condizione perché ciò avvenga è che, attraverso la regressione, si possano ritrovare le tracce di un antico rapporto idealizzabile, sano ed autentico. Se questo non è possibile, un’alternativa è l’aridità della “pensée opératoire”; oppure, se a suo tempo l’investimento narcisistico idealizzante non ha incontrato nella realtà un oggetto adeguato, lo trova nell’immaginazione “inventandolo”. È questo il caso di molte forme di delirio.
II – “Il Monaco Nero”
Quando, nell’esporre la storia di un’affezione psichiatrica, l’Autore dimostra di possedere, oltre che la precisione e l’attenzione ai dettagli di un Clinico, anche la sensibilità di un Artista, egli ci offre un modello prezioso, un “paradigma”. In mancanza di questo, descrizioni della malattia in termini astratti, come pure storie cliniche “asettiche” che si limitino a registrare “fatti oggettivamente rilevabili”, si dimostrano inadeguate e facilmente fuorvianti: non ci consentono di comprendere ciò che più conta in una cura, ossia l’esperienza vissuta del paziente. Un valido “paradigma” dell’esperienza vissuta nel corso di una psicosi delirante-allucinatoria ci è offerto da “Il Monaco Nero” [II, 4], pubblicato nel 1894 da Anton Cechov, scrittore e medico.
All’inizio della narrazione troviamo il protagonista (Andrej Kovrin, un ricercatore universitario) in un evidente stato di crisi: “affaticato”, con i “nervi rovinati”, egli non riesce più a proseguire gli studi cui sinora si era dedicato con grande impegno. Sente, ora, il bisogno di ripetere il percorso della sua vita passata. Dapprima, si reca nell’antica tenuta della sua famiglia dove egli aveva trascorso la prima infanzia, essendo rimasto presto orfano di entrambi i genitori. Raggiunge, poi, il genitore adottivo: Egor Pesockij, un proprietario terriero la cui vita è interamente dedicata alla cura della sua tenuta; cura in cui egli coinvolge la sua unica figlia Tanja. A dispetto del cattivo carattere di questo personaggio (fanaticamente attaccato al proprio frutteto, pronto a sacrificare tutto e tutti pur di mantenerlo efficiente, incline ad un sentimentalismo sdolcinato e ad improvvise esplosioni di collera), Kovrin ritrova, accanto a lui, le liete sensazioni del passato, cui ora si aggiunge la simpatia, e successivamente l’amore, per Tanja. Questo gli consente di ritrovare la forza per tornare agli studi e riprendere la stessa vita che conduceva in città; una vita molto attiva, benché “nervosa e agitata”.
Il ritrovato benessere, tuttavia, è interrotto da un intenso turbamento. Ciò avviene bruscamente, una sera, quando a Kovrin capita d’ascoltare la serenata di Braga, eseguita da Tanja e dagli amici di lei in una lontana stanza della casa. La musica e soprattutto le parole della serenata, che Kovrin riesce ad intendere a fatica, lo sconvolgono, lo lasciano “irrequieto ed estenuato”. Subito dopo, Kovrin sente il bisogno di raccontare a Tanja una strana leggenda: un Monaco nero, vissuto mille anni fa, per un curioso effetto ottico ha prodotto un’immagine, anzi un “miraggio”; questo ne ha prodotto un altro e da quest’ultimo ne è nato un altro ancora e così via. La serie dei miraggi vaga per l’universo, fino a quando, tornata sulla terra, è destinata a rendersi di nuovo visibile agli uomini; e questo sta per avvenire. Lasciata Tanja, cui la leggenda non è piaciuta, Kovrin s’allontana dalla casa e, oltrepassato un fiume, percorre il sentiero che si dirige ad occidente, verso quello che gli appare come “il luogo ignoto e misterioso dove poco prima era calato il sole”. Qui fa la sua prima comparsa l’allucinazione: all’orizzonte compare a Kovrin un “turbine” che si muove con “terribile rapidità” verso di lui. Egli si scansa e s’accorge che quel fenomeno atmosferico ha assunto le sembianze di un monaco, vestito di nero, che lo guarda con aria “carezzevole” e, al tempo stesso, “furbesca”. La visione sparisce subito.
La comparsa del “Monaco” suscita in Kovrin dapprima euforia, poi stanchezza, inquietudine e dubbi. Solo la seconda comparsa dell’allucinazione restituisce al personaggio serenità e rafforza enormemente la sua autostima, suscitando in lui la certezza delirante della propria grandezza, dell’immortalità e di un rapporto privilegiato con Dio destinato a durare in eterno. Segue un periodo di relativo benessere e vivacità interiore: Kovrin sposa Tanja e si dedica con energia al proprio lavoro, che ora assume il significato di testimonianza della sua grandezza e dell’ispirazione divina. Presto, tuttavia, Kovrin entra nuovamente in crisi: nel suo ultimo dialogo con il Monaco prima della “cura”, egli esprime il disagio che gli suscita una gioia continua, innaturale, che non lascia spazio ad altri sentimenti. Esprime anche il timore che, come avvenne a Policrate, troppa felicità possa essere pericolosa, possa suscitare l’ira degli dei. Questo dialogo avviene nella camera da letto, accanto a Tanja ancora addormentata. La donna si sveglia e, accorgendosi che il marito sta parlando concitatamente con una poltrona vuota, gli si avvicina spaventata. L’abbraccio di Tanja, tuttavia, non comunica a Kovrin comprensione e conforto, ma solo il tremore di lei. L’uomo s’accorge che il Monaco è scomparso e, leggendo la paura negli occhi della moglie, si rende conto di colpo d’esser pazzo. Cechov, a questo punto, salta la narrazione di quanto accaduto nel corso della cura, e ci presenta un Kovrin profondamente mutato sia nell’aspetto, sia nell’animo: sciupato, imbolsito nei movimenti, egli sembra aver perduto acutezza d’ingegno ed abbandonato ambizioni e ideali. È divenuto litigioso, aggressivo soprattutto nei confronti di moglie e suocero. Il deterioramento del rapporto con Tanja si spinge fino alla rottura.
La comparsa di un’emottisi inaugura l’ultima fase della vita del personaggio. Egli si affida alle cure di una donna, più vecchia di lui, che lo tratta “come un bambino”. Il suo umore è ora divenuto “tranquillo e sottomesso”; si è rassegnato alla sua mediocrità e si dedica a piccoli lavori di poco conto. Il crollo finale avviene in un albergo sul mar Nero, dove Kovrin si trova in vacanza con la nuova compagna. Qui egli viene raggiunto da una lettera in cui Tanja gli annuncia la morte del suocero e la rovina del suo frutteto, lo maledice e gli augura la morte. Una “inquietudine simile alla paura” s’impadronisce di lui (cui, per le precarie condizioni di salute, era stato raccomandato d’evitare forti emozioni), e la fine è vicina. Ma, ancora un’ultima volta, a soccorrerlo interviene la serenata di Braga, eseguita da vicini dell’albergo, e, con essa, la ricomparsa del delirio e del Monaco Nero. Questi, mentre un fiotto di sangue esce dalla gola di Kovrin e gl’impedisce di parlare, lo guarda con occhi carezzevoli, gli sussurra parole di conforto e d’incoraggiamento riguardo alla sua grandezza ed alla vita ultraterrena che l’attendono. Quando la compagna di Kovrin si sveglia, egli era già morto e “sul suo volto era impresso un sorriso beato”.
III – Esperienza vissuta del delirio
-I prodromi – All’inizio del racconto, ci vengono descritti i prodromi della malattia di Kovrin: “si era affaticato e si era rovinato i nervi”. I medici del suo tempo, non sospettando la gravità dell’affezione preannunciata da quei sintomi, si limitarono a prescrivergli “riposo e distrazioni”. Oggi, in modo ancor più sbrigativo, gli prescriveremmo ricostituenti e blandi antidepressivi. Quel che spesso manca in noi medici, allora come oggi, è la capacità di comprendere il significato intimo di sintomi apparentemente banali attraverso un’approfondita immersione empatica nel mondo interno del paziente; comprensione, questa, che renderebbe possibile un intervento precoce e più efficace. Vediamo quel che, in proposito, ci suggerisce Cechov. Con rapide pennellate, egli ci dipinge il quadro di un uomo estenuato dagli sforzi di sostenere un’autostima fragile; di medicare, attraverso un’attività di studio faticosa, sfibrante, una ferita narcisistica profonda ed antica. È come se il valore professionale e culturale conquistato nella vita adulta dovesse sopperire a ciò che era mancato a Kovrin nelle fasi precedenti della vita. Tutto questo, tuttavia, ad un certo punto fallisce per l’esaurimento delle sue energie. Le manifestazioni di sofferenza del personaggio subiranno varie trasformazioni nel corso della vicenda, ma l’elemento d’“invarianza” resterà la profonda ferita narcisistica e l’inadeguatezza di tutte le risorse attivate per sopperirvi. Il successivo prodotto di trasformazione è uno stato ipomaniacale. Kovrin tenta di affrontare la sua crisi attraverso la regressione: si reca, dapprima, nella tenuta della sua prima infanzia; ma, non avendovi trovato nulla che lo possa aiutare, raggiunge il vecchio genitore adottivo Egor, la figlia di lui Tanja ed il loro frutteto. Qui egli pensa di riscoprire quella famiglia ideale che, in realtà, non aveva mai posseduto. Sono anche le parole che Tanja gli rivolge a farglielo credere:
“…vorrei, Andrjuska, che ci consideraste come vostri parenti. Ne abbiamo il diritto …mio padre vi adora. Talvolta mi pare che ami più voi che me. È orgoglioso di voi…” A Kovrin “venne d’un tratto in mente che nel corso dell’estate egli poteva affezionarsi a quell’essere piccolo, debole e chiacchierino [Tanja], rimanerne affascinato e innamorarsene” [II, 4, pag. 827].
Kovrin, a questo punto, canta d’impulso i versi dell’Onegin, che alludono chiaramente ad una situazione triangolare edipica. L’illusione di un “paradiso ritrovato” consente a Kovrin di riattivare, nel profondo, il “progetto euforico” di un totale controllo sugli oggetti arcaici [I, 21, pag. 17]. In questo caso, più che di un triangolo edipico, si tratta dell’illusorio recupero di una “triade narcissique” idealizzata [I, 11] di cui Egor “orgoglioso” di Kovrin (sentimento che sarà ereditato anche dal Monaco Nero) è una componente essenziale. Tutto ciò si manifesta come stato ipomaniacale:
“Leggeva e scriveva molto, studiava l’italiano e, quando passeggiava, pensava con piacere che presto si sarebbe messo al lavoro. Dormiva così poco che tutti se ne stupivano; se per caso si addormentava di giorno per una mezz’ora, non dormiva poi per tutta la notte e dopo la notte insonne, come se niente fosse stato, si sentiva sveglio e allegro” [II, 4, pag. 828].
Si tratta, tuttavia, di un equilibrio fragile, che viene rotto bruscamente da un intenso sconvolgimento (sopravvenuto per i motivi di cui si parlerà più sotto) e dal successivo esordio della sintomatologia delirante-allucinatoria. L’elemento di maggiore fragilità è qui costituito dall’idealizzazione, da parte di Kovrin, del padre adottivo Egor. Essa è differente dal tipo di idealizzazione che fa parte di una vita affettiva sana: in quest’ultima, vengono ad essere accentuate nel loro valore (ed isolate dai difetti) caratteristiche dell’oggetto positive e reali. In questo caso, una sana relazione con l’oggetto ed il contatto con la realtà consentono di ridimensionare gradualmente l’idealizzazione dell’oggetto stesso, e di promuovere l’evoluzione verso un rapporto più realistico, senza che ciò causi rotture o scissioni nel modo di percepire e sentire. Al contrario, l’idealizzazione del padre adottivo da parte di Kovrin è “sine materia”, priva di supporto reale e fondata sul diniego delle caratteristiche negative di quest’uomo. Egor è, sì, “orgoglioso” di Kovrin, ma solo perché vede in lui il continuatore del suo fanatico attaccamento al frutteto; nel contempo, egli ignora completamente le qualità reali del figlio adottivo. Le altre caratteristiche di questo personaggio – egoista, ossessivo, fanatico, incline a mascherare con una sdolcinatezza inopportuna la sua costante aggressività, soggetto ad improvvise esplosioni di collera, privo di capacità di comprensione empatica verso i congiunti – lo avvicinano al tipico “primal parent” incomprensibile, persecutorio e pervaso di distruttività, che s’incontra nel trattamento di bambini che hanno subìto abusi [I, 24, pag. 214]. Come quei bambini, anche Kovrin deve aver subìto, nell’infanzia trascorsa con Egor, esperienze traumatizzanti e le disconosce come tali.
-L’esordio – L’idillio della “triade narcissique” ed il sostegno che esso aveva offerto alla vita soggettiva di Kovrin s’interrompono bruscamente; accade una sera, in cui egli si trova solo nella sua camera e gli capita d’ascoltare, attutita dalla lontananza, la serenata di Braga. Comprendendone, con un certo sforzo, le parole, egli s’accorge che esse stesse parlano di un suono indistinto udito nella notte:
“… una fanciulla dall’immaginazione malata aveva udito di notte nel giardino dei suoni misteriosi, a tal punto belli e strani che ella dovette riconoscerli come un’armonia sacra che era incomprensibile per noi mortali e per ciò se ne volava di nuovo in cielo…” [II, 4, pag. 829].
Kovrin, a questo punto, si alza ed “estenuato” si mette “a camminare per il salotto, poi per la sala…”. “Estenuazione” e irrequietezza segnano, dunque, la rottura dell’equilibrio precario che, per un breve periodo, aveva sostenuto un relativo benessere in questo personaggio. Energie e serenità ricompariranno solo più tardi, in concomitanza con il delirio e le allucinazioni.
Cechov non ci dice altro, in modo esplicito, su questo sconvolgimento di Kovrin che segna l’inizio della vera e propria malattia. In linea generale, tuttavia, sappiamo che l’esordio di una sintomatologia delirante è immediatamente preceduto da vissuti che segnalano un incipiente distacco dalla realtà. Talora si tratta di un episodio di Depersonalizzazione-Derealizzazione [I, 1, pag. 302], che frequentemente rappresenta la “anticamera” di diversi tipi di patologia psichiatrica [I, 4, pag. 1077]. Altre volte si passa direttamente ad un vissuto di “Wahnstimmung” [I, 12]. Comune ad entrambi è una sensazione d’irrealtà, d’inquietudine, di perdita del sentimento di familiarità che, di solito, si unisce alla percezione dell’ambiente abituale. Caratteristica associata è anche la difficoltà che il paziente prova nel tentare di descrivere le proprie sensazioni [I, 1, pag. 303]. La differenza è che nella Depersonalizzazione-Derealizzazione il distacco dall’ambiente e/o da se stessi avviene solo nella sfera affettiva, mentre l’esame di realtà è conservato; questo, al contrario, viene perso nella Wahnstimmung, che ha anche un carattere più globale, coinvolgendo l’intera percezione del mondo e non una singola esperienza. Alla base di questi vissuti c’è una défaillance di quelle “funzioni riequilibratrici” (cui si accennava più sopra) che normalmente assicurano la stabilità emotiva e favoriscono l’esercizio dell’esame di realtà [I, 4]. Si tratta, più esattamente, delle “self-soothing functions” (funzioni auto-calmanti e auto-confortanti) che tendono a ripristinare l’equilibrio emotivo quando questo è scosso da fatti traumatici o, in generale, da ferite narcisistiche [I, 14]. In questo stesso ambito rientra sicuramente anche la “funzione alfa” [I, 3], concetto affine e in parte sovrapponibile a quello di “self-soothing functions”: funzione di filtro-modulazione dell’intensità degli stimoli emozionali e di associazione alle risposte emotive di un elemento sensoriale rappresentabile che le rende “pensabili”. In conseguenza dell’attività della funzione alfa, si forma una sequenza di elementi inseribili nel pensiero (elementi alfa) che, legati insieme, costituiscono il “pensiero onirico della veglia”. Questo è definibile come “sogno emotivo” dell’esperienza che si sta vivendo; “sogno”, per lo più inconscio, che si fa continuamente [I, 5, pag. 73, 74]. Il sogno, in questo modo di vedere, non è soltanto “custode del sonno”, come nella classica concezione freudiana, ma anche della veglia, in quanto esso protegge il pensiero cosciente e l’esercizio dell’esame di realtà dall’irruzione di emozioni incontenibili. Il prodotto di una “funzione alfa” (sia essa efficiente o difettosa), ossia una sequenza di “elementi alfa” più o meno perfetti, e quello dell’attività onirica (o di rêverie) che lavora su di essa, non accedono, di regola, alla coscienza; tuttavia essi possono essere indirettamente pensati o raccontati attraverso “derivati narrativi”. Questi contengono rappresentazioni distorte, in vario grado, rispetto alla realtà emotiva degli elementi originari [I, 5, pag. 77, 78]. Possiamo considerare come “derivato narrativo” la leggenda del “Monaco Nero” che Kovrin racconta a Tanja; derivato narrativo di quanto avvenuto nella mente del personaggio nel corso del suo recente sconvolgimento e subito dopo. Rivediamola:
“… Mille anni fa, un monaco vestito di nero camminava per un deserto, non so dove in Siria o in Arabia… A parecchie miglia dal luogo dove egli passava, dei pescatori videro un altro monaco nero che lentamente si muoveva sulla superficie di un lago. Questo secondo monaco era un miraggio (…) Dal miraggio sorse un altro miraggio, poi dal secondo un terzo, cosicché l’immagine del monaco nero si trasmise all’infinito da uno strato dell’atmosfera all’altro (…) adesso erra per l’universo intero, senza potersi mai trovare in condizioni di poter sparire (…) la sostanza e il maggior interesse della leggenda sta in questo che, esattamente mille anni dopo che il monaco avrà camminato nel deserto, il miraggio ricadrà nell’atmosfera terrestre e si mostrerà agli uomini. E pare che il migliaio di anni sia già alla fine (…) non riesco a ricordarmi di dove mi è venuta in testa questa leggenda. L’ho forse letta? L’ho udita? O forse il monaco nero l’ho veduto in sogno?…” [II, 4, pag. 829].
La leggenda anticipa il contenuto del delirio e delle allucinazioni che esordiranno subito dopo. Si può notare, innanzi tutto, che Kovrin da un rapporto triangolare è regredito ad uno duale. Infatti non è più tanto l’affetto verso gli altri due membri della famiglia adottiva a sostenere in lui benessere e autostima, quanto un rapporto privilegiato con un unico personaggio: con il Monaco e, per il tramite di questo, con Dio. Il “suono misterioso udito nella notte” della serenata di Braga, la “armonia sacra incomprensibile per noi mortali” (per noi bambini) ha evocato in Kovrin una “scena primaria” per lui particolarmente traumatizzante [I, 24, pag. 215]. Egli, rimasto orfano di entrambi i genitori nella prima infanzia, non ha potuto giovarsi della comprensione affettuosa dei familiari. Gli è mancata, cioè, quella vicinanza affettiva attraverso cui la scoperta della sessualità dei genitori, quale evento separativo, viene mitigata nei suoi effetti conturbanti ed, anzi, contribuisce ad introdurre alla situazione edipica e, successivamente, alla vita adulta. Al contrario, per Kovrin, la scena primaria è coincisa con una separazione definitiva e intollerabile. Ecco perché, con la rottura di una “triade narcissique” idealizzata, egli non può che regredire ad un rapporto duale con un oggetto arcaico o con un suo sostituto. La leggenda del Monaco Nero rappresenta il derivato narrativo di tale ritorno interiore ad un’epoca remota, in cui Kovrin conta di ritrovare un più valido sostegno alle funzioni riequilibratrici della sua mente. Sono evidenti altri due particolari: l’immagine del Monaco appartiene, sì, a una persona reale, ma vissuta “mille anni fa”. Ciò che viene percepito è un fenomeno ottico, un “miraggio”, ossia una percezione senza oggetto. In secondo luogo, Kovrin vive se stesso come spettatore passivo della narrazione (letta, udita, vista in sogno); non considera neppure come ipotesi che essa sia frutto di un’attiva costruzione della sua fantasia. Questi aspetti, come si vedrà più sotto, caratterizzano come tale il delirio di Kovrin.
-Ruolo del delirio nella vita interiore – Talora le funzioni riequilibratrici della mente non riescono a conferire alle percezioni un carattere di realtà e di familiarità; a volte anche di “pensabilità” delle “protoemozioni” risvegliate dagli stimoli esterni. Ciò, come detto più sopra, accade in rapporto a ferite narcisistiche non facilmente rimarginabili, a situazioni traumatiche o a stimoli che evocano traumi antichi, come la serenata di Braga per Kovrin. In queste circostanze, si regredisce ad un rapporto di unione con un oggetto arcaico idealizzato, il quale ritorna a “darci in prestito” (come faceva originariamente) le sue capacità di calmare, confortare, contenere e rendere “pensabili” le emozioni. È evidente, qui, l’analogia con lo “emotional refueling” dell’infanzia [I, 17]: il bambino, anche se sano ed in una fase avanzata del processo di separazione-individuazione, ritorna periodicamente a sedersi sul grembo e tra le braccia della mamma, e da questo contatto trae conforto e ristoro nei momenti di stanchezza e di crisi. Le forme di “regressione al servizio dell’Io”, cui si accennava più sopra, sono non soltanto analoghe, ma rappresentano anche l’eredità di quell’antico abbraccio, in quanto esso influenza la qualità delle esperienze successive. Si potrebbe parlare di una versione adulta dello “emotional refueling” (questa volta con un oggetto interiorizzato più che con uno esterno); esso, come il suo progenitore infantile, può avere carattere sano, oppure patologico. L’esperienza che più chiaramente rimanda ad una regressione del genere è quella religiosa. Freud riconduceva il “sentimento oceanico” proprio della “unio mistica” ad una fase precoce, anteriore alla differenziazione dell’Io dal mondo esterno. Esso, come la nostalgia della protezione offerta dai genitori, a suo avviso rimanda al “sentimento d’impotenza dell’infanzia” [I, 9, pag. 565] e ad una debolezza dello stesso genere, persistente nell’età adulta. Si tratta, secondo il padre della psicoanalisi, di esperienze regressive che minano l’indipendenza e la maturità dell’Io adulto [I, 8]. Diversa è la posizione di Kohut, più ben disposto nei confronti della religione. Secondo quest’ultimo Autore, delle esperienze religiose (di quel continuum che va dal semplice raccoglimento nella preghiera fino all’“estasi mistica”), esistono varianti sane e patologiche. Nelle prime, l’esperienza “ha inizio negli aspetti maturi della personalità, non costituisce una risposta automatica allo stress, è controllabile, liberamente scelta e tollera il differimento” [I, 16]. In altre parole: si tratta di forme di regressione sotto il controllo dell’Io. Le varianti patologiche, al contrario, si manifestano come intenso e frequente desiderio di fusione arcaica cui l’individuo può cedere in modo incontrollato; in alternativa, il soggetto può porre in atto condotte di evitamento di ciò che evoca il suddetto desiderio, per timore della regressione e della perdita di padronanza di sé [I, 20, pag. 187]. Le stesse caratteristiche delle varianti sane e patologiche si possono riscontrare nelle altre forme di unione o fusione arcaica regressiva menzionate all’inizio. Nell’ispirazione creativa, l’unione con l’oggetto arcaico lenisce il senso di solitudine di chi s’avventura senza guida in territori dove nessun altro ha ancora messo piede. Il Poeta, come lo Scienziato innovativo, si sente “tutt’uno” con la propria attività creativa, perdendo temporaneamente la percezione dello spazio, del tempo e della propria individualità. Una giusta misura manca nelle varianti patologiche: qui l’Io non è più padrone dell’esperienza, ne diviene schiavo; un esempio è mirabilmente descritto ne “La ricerca dell’Assoluto”, dove un’appassionata indagine scientifica acquista un carattere compulsivo ed autodistruttivo [II, 2]. Analoghe considerazioni valgono per il “rapimento” di fronte a manifestazioni di bellezza o grandiosità, dove la perdita di controllo dell’Io può spingersi fino alla “sindrome di Stendhal”.
Fatta questa premessa, ritorniamo a Kovrin ed al primo manifestarsi della sua psicosi delirante-allucinatoria, ossia di un tentativo di regressione che, nel suo caso, sfugge al controllo dell’Io:
“All’orizzonte, come un turbine o come una tromba, si alzava dalla terra fino al cielo un’alta colonna nera. I suoi contorni erano indecisi, ma fin dal primo istante si poteva capire che essa non stava ferma, ma si moveva con terribile rapidità e si dirigeva precisamente là, diritto verso Kovrin, e quanto più avanzava, tanto più si faceva piccola e distinta. Kovrin si gettò da una parte… Un monaco vestito di nero… gli passò accanto… I suoi piedi scalzi non toccavano terra… si volse verso Kovrin, chinò la testa e gli fece un sorriso carezzevole e nello stesso tempo furbesco. Ma che viso pallido, terribilmente pallido e magro!” [II, 4, pag. 830]
La visione riproduce ancora alcuni particolari della minacciosa “scena primaria” evocata dalla serenata di Braga: il simbolismo fallico della “alta colonna” della tromba d'aria che “si erge” e cambia dimensioni ed il precipitarsi del monaco nero su Kovrin, significativo di un’identificazione passivo-femminile del personaggio [I, 24, pag. 220]. Lo spaventoso turbine, tuttavia, si trasforma nel Monaco Nero il quale, nel corso del delirio, porterà a Kovrin non una minaccia, ma un sostegno alla sua vita soggettiva. L’allucinazione, come spesso succede, dice alcune verità su sé stessa: compare un “turbine”, immagine che, insieme ad altre consimili (vortice, gorgo, mulinello, ecc.) si presenta frequentemente nelle associazioni d’idee spontanee e nelle risposte al Rorschach dei pazienti a rischio di suicidio [I, 18]. Si tratta della rappresentazione simbolica di una forza regressiva ed autodistruttiva che minaccia di “risucchiare” l’Io in fasi anteriori della vita e di fargli perdere il controllo della mente – Per inciso, la Letteratura ha spesso usato la stessa immagine: il vortice che pone fine alla temeraria avventura dell’Ulisse dantesco, il Maelstrom di E. A. Poe, il “scenderemo nel gorgo muti” di Cesare Pavese, ecc. [II, 1, 9, 8] – il “turbine” di Kovrin è una forza autodistruttiva perché lo riporterà regressivamente ad un “emotional refueling” anomalo che, anziché ripristinare l’integrità della sua vita interiore e restituirlo rinfrancato alla vita adulta e reale, lo farà perdere nell’esperienza immaginaria. Inoltre, il Monaco rivolge a Kovrin un sorriso, oltre che carezzevole, anche “furbesco”: è qui segnalato l’(auto)inganno.
Al ritorno a casa, il viso di Kovrin è divenuto “ispirato” e “raggiante”; lui stesso è avvertito dagli ospiti come “interessante”. La sola comparsa del Monaco ha animato la vita interiore del protagonista, suscitandogli uno stato di euforia: in contrasto con la compostezza del suo comportamento abituale, egli ora si scatena nella danza. Tornato nella sua stanza, tuttavia, compaiono in Kovrin stanchezza e dubbi:
“La piacevole eccitazione con la quale poco prima aveva ballato e ascoltato la musica ora lo snervava… Si alzò e cominciò a camminare per la camera, pensando al monaco nero. Gli venne in mente che, se lui solo aveva visto quel monaco strano e soprannaturale, ciò significava ch’egli era malato ed era arrivato già alle allucinazioni. Questa constatazione lo spaventò, ma non per molto. “Mi sento bene e non faccio del male a nessuno; vuol dire che nelle mie allucinazioni non c’è nulla di male” pensò e tornò a sentirsi bene…” [II, 4, pag. 831].
Kovrin non avverte in modo immediato che la visione del Monaco è un prodotto della sua mente; lo deduce dal fatto che gli altri non hanno visto la stessa immagine. Allo stesso modo, come si è visto, raccontando la “leggenda” del Monaco Nero, Kovrin non sente che la narrazione è frutto della sua fantasia, gli pare d’averla ascoltata o letta; che, insomma, gli sia pervenuta dal mondo esterno e non da lui stesso. È questa la caratteristica che distingue il delirio di cui soffre Kovrin da altri tipi di affezioni deliranti strutturalmente più vicine al sogno ed alla reazione delle persone sane ad esperienze conturbanti. In questi ultimi casi, come si è detto, la risposta estrema a situazioni estranee e inquietanti è il ritorno da chi fu la prima fonte dei sentimenti di familiarità e conforto. Il bambino lo fa rifugiandosi tra le braccia accoglienti della mamma; l’adulto fa qualcosa di simile ritornando ad unirsi con l’oggetto arcaico nel sogno, nella preghiera o in altre esperienze regressive dello stesso genere. I pazienti simili a Kovrin, attraverso la regressione, non riescono a trovare le tracce di un antico rapporto confortevole, ma quelle di un’antica esperienza incomprensibile e sconvolgente; anziché la fonte prima dei sentimenti di familiarità, ne trovano una di vissuti d’estraneità: uno straniero, uno “xenos” [I, 13, pag. 753]. Quest’oggetto s’impone all’Io come elemento del mondo esterno del tutto estraneo ad ogni elaborazione mentale; con esso non è possibile stabilire nessi associativi con esperienze passate, non è, quindi, assimilabile o interiorizzabile e neppure può essere oggetto di un vero e proprio lavoro onirico [I, 13, pag. 749]. Di fronte a questa presenza esterna, aliena, minacciosa nei confronti dell’integrità soggettiva (il “turbine” di Kovrin), il delirante non può far altro che tentare di contrapporre ad essa (o trasformarla in) un’altra presenza, pure essa estranea, ma forgiata sulla base delle necessità di sopravvivenza, allucinando l’appagamento dei propri bisogni narcisistici: compare il Monaco Nero. La minaccia diventa allettamento irresistibile, e ciò sottrae l’esperienza al controllo dell’Io ed alla realtà. Quanto rimane in Kovrin di aderenza alla realtà (la consapevolezza che la sua è stata un’allucinazione) viene cancellato dall’autoinganno: se è pur vero che l’allucinazione “lo fa star bene” e che egli “non fa del male a nessuno”, Kovrin tuttavia ignora che il suo male lo sta isolando dai suoi simili; lo sta assorbendo completamente, privandolo dell’effettivo sostegno che altri potrebbero offrirgli. La seconda allucinazione segna il trionfo definitivo dell’autoinganno, ed il dubbio cede il posto alla certezza delirante:
“… non esisti? – domandò Kovrin [al Monaco] – Pensala come vuoi – disse il monaco – Io esisto nella tua immaginazione e la tua immaginazione è una parte della natura, dunque io esisto nella natura”. E più avanti lo stesso Kovrin, rivolgendosi al Monaco: “… perché mi guardi con tanto entusiasmo? Ti piaccio?” – Il Monaco: “Sì. Tu sei uno di quei pochi che con tutta giustizia si chiamano eletti di Dio. Tu servi la verità eterna. I tuoi pensieri, i tuoi propositi… tutta la tua vita portano in sé il segno divino e celeste, poiché sono consacrati al ragionevole e al bello, cioè a quello che è eterno” – Kovrin: “… ma è forse accessibile agli uomini la verità eterna, se non esiste una vita eterna?” – Il Monaco: “C’è una vita eterna… un grandioso e splendido avvenire attende voi uomini…” [II, 4, pag. 833]. E più avanti il Monaco aggiunge: “…come puoi sapere che gli uomini di genio, nei quali crede tutto il mondo, non abbiano anch’essi visto dei fantasmi?… Amico mio, sono sani e normali soltanto gli uomini del volgo e del gregge…” [II, 4, pag. 834]
Tramite il Monaco, Kovrin si scopre “eletto di Dio”, portatore di divina “verità eterna”, testimone della “immortalità degli uomini”. Vengono, così, smentite la subitanea perdita del proprio valore e la brutale scoperta della precarietà dell'esistenza vissute nella catastrofe originaria (la morte dei genitori); esperienze che il successivo rapporto col padre adottivo Egor, per i limiti di questo personaggio, non potè certo aver corretto nel loro impatto emotivo. Il potente sostegno offerto al Sé grandioso dalle “rivelazioni” del Monaco e la possibilità d’essere partecipe della grandezza divina restituiscono alla vita di Kovrin nuovo slancio: egli sposa Tanja e riprende con rinnovato impegno il suo lavoro:
“Quello che aveva detto il monaco nero sugli eletti di Dio, sulla verità eterna, sul luminoso avvenire dell’umanità, ecc., conferiva al suo lavoro un’importanza speciale, straordinaria e riempiva la sua anima d’orgoglio e della coscienza della propria altezza…” [II, 4, pag. 836].
-Crisi del delirio e “guarigione” – La costruzione delirante, tuttavia, entra bruscamente in crisi, come non reggendo al suo stesso peso. Kovrin esprime il suo disagio in un dialogo col Monaco cui chiede disperatamente un ultimo aiuto:
“… anch’io, come Policrate, incomincio ad essere un po’ inquieto della mia felicità. Mi pare strano di non provare che gioia dal mattino alla sera, essa mi colma tutto e soffoca ogni altro sentimento. Non so più cosa sia la tristezza, il dolore o la noia (…) Lo dico sul serio: incomincio ad essere perplesso” [II, 4, pag. 836]. E più avanti: “E se d’un tratto gli dei si adirano?… Se essi mi levassero le comodità e mi costringessero a soffrire il freddo e la fame?” [II, 4, pag. 837].
Cechov qui, per bocca del suo personaggio, ci descrive con grande precisione un elemento di fragilità e d’instabilità di questo tipo di delirio. Kovrin, per appagare i propri bisogni narcisistici primari, si è affidato all’oggetto di un’allucinazione, a un fantasma. Questi è privo delle qualità che solo una persona reale può possedere: sensibilità, capacità di guardare il soggetto dall’esterno e imperfezioni. In particolare, il Monaco appaga il bisogno di “mirroring”, ossia la necessità del Sé grandioso di trovare una conferma “rispecchiandosi” nello sguardo materno. Gli occhi di una madre reale offrono, sì, un necessario “glance of joy” di fronte alle conquiste del bambino [I, 16], ma rimandano anche comprensione, bonaria ironia, o preoccupazione di fronte a quelle debolezze o imperfezioni del soggetto che solo un osservatore esterno può vedere. In questo modo, essi preparano ad una percezione realistica di sé. Una madre non sufficientemente equilibrata, o un fantasma, possono rimandare, col loro sguardo, solo un’immagine idealizzata e falsa del soggetto. Questi avverte di non riuscire realmente a “raggiungere” se stesso attraverso la rappresentazione che gli viene offerta. Lo sforzo di “trovarsi” lo distoglie da tutto il resto ed in esso si perde. È quanto avviene a Narciso il quale, rispecchiandosi nella fonte di cui la madre Liriope era la ninfa (metafora dello sguardo materno), vi trova un’immagine splendida; ma non gli basta vederla, la vuole toccare, vuole congiungersi ad essa ed essa lo inghiotte [I, 25, pag. 24 e seg.]. Oltre a questo, una madre reale ed equilibrata sa temperare, con la propria capacità di comprensione empatica, gli effetti che le sue inevitabili imperfezioni producono sul bambino. Ciò conferisce un carattere “ottimale” (anziché traumatico) alle frustrazioni e le rende capaci di favorire l’evoluzione verso un rapporto più realistico del figlio sia con lei, sia con se stesso. Sia riguardo alla percezione di sé, sia a quella dell’oggetto, il Sé perviene gradualmente a riconoscere ed accettare che “l’ideale non è ideale” (I, 17), ossia che un rapporto realistico col mondo comporta non solo gioia, ma anche “tristezza, dolore e noia”. Alludendo a Policrate, Kovrin esprime la sua sensazione che troppa felicità possa essere “pericolosa”. Il fantasma del Monaco Nero offre, ai bisogni narcisistici del personaggio, un appagamento innaturale, una felicità illimitata priva di “frustrazioni ottimali”. Ciò significa che, se non riesce a persistere indefinitamente senza evolversi, essa è destinata a crollare, ed è quanto effettivamente avviene. Il Monaco Nero fallisce nel suo compito di sostituire l’originario “xenos”, questo riemerge. I sentimenti di persecuzione, frustrazione e rabbia, scissi e proiettati, si palesano sotto forma di “ira degli dei”.
Quest’ultimo dialogo col Monaco avviene nella stanza da letto, accanto a Tanja che dorme ancora: Kovrin non ha più usato la consueta prudenza che sinora gli aveva consentito di mantenere segrete le sue visioni. Subito, perciò, viene scoperto:
“Tanja frattanto si era svegliata e guardava il marito con stupore e spavento. Egli parlava, rivolto alla poltrona, gesticolava e rideva; i suoi occhi scintillavano e nel suo riso c’era qualcosa di strano” – Tanja a Kovrin: “Andrjuska, con chi parli?”… Tanja abbracciò il marito (…) Il tremito di lei si comunicò anche a lui. Egli guardò ancora una volta la poltrona che ormai era vuota e sentì a un tratto una gran spossatezza… si spaventò e prese a vestirsi (…) Solo ora, guardandola, Kovrin comprese tutto il pericolo della sua situazione, comprese che cosa significassero il monaco nero e le conversazioni con lui. Adesso si rendeva conto chiaramente d’essere pazzo” [II, 4, pag. 837].
Il delirio aveva già cominciato ad entrare in crisi indipendentemente da influenze esterne, ma ciò che spinge Kovrin a riconoscerlo di colpo come tale e a ripudiarlo è il tremito comunicato anche a lui dall’abbraccio della moglie, la paura che egli legge negli occhi di lei. In virtù di ciò, egli comincia già a “guarire” ancor prima che la sua “cura” abbia inizio. Non è chiaro il motivo per cui Kovrin, a questo punto, riveli a Tanja la sua follia: possiamo pensare ad un indebolimento delle capacità critiche, ma è anche probabile che, dato il suo stato di crisi, egli stia inconsapevolmente chiedendo aiuto. La risposta di Tanja non può essere di comprensione empatica, come forse il pover’uomo s’attendeva, ma di paura; paura che si comunica anche a lui. Sentendosi respinto dalla moglie, Kovrin scopre con terrore d’esser pazzo, ossia escluso da ogni contatto empatico col consorzio umano.
Ai tempi di Kovrin e di Cechov non esistevano ancora farmaci antipsicotici; non risulta, inoltre, che al protagonista della storia sia stato imposto un lungo periodo di ricovero ospedaliero. Eppure, terminata la “cura”, ritroviamo un Kovrin divenuto del tutto simile agli odierni pazienti “impregnati di farmaci” e/o “istituzionalizzati”: pallido, pingue, rallentato e impacciato nei movimenti, sciupato nel viso. Anche il carattere ed il comportamento sono profondamente mutati: la sua vivacità è scomparsa, l’immaginazione inaridita: i fiori, gli alberi non gli “parlano” più:
“I pini arcigni… che l’anno prima l’avevano veduto così giovane, così allegro e vivace, ora non mormoravano più, ma si ergevano immobili e muti, come se non lo riconoscessero. In realtà la sua testa era rasa, non aveva più i suoi lunghi e bei capelli, la sua andatura era fiacca e il volto, in confronto all’anno avanti, era divenuto più grasso e più pallido” [II, 4, pag. 837].
Avendo perso, con il delirio, la sua capacità di “volare alto”, Kovrin ora si perde in “minuzie e meschinità”. È divenuto stizzoso, litigioso, intollerante; non fa altro che tormentare in tutti i modi moglie e suocero. Ad essi egli muove continui rimproveri:
“Perché, perché mi avete curato? I preparati al bromuro, l’ozio, i bagni caldi, la sorveglianza, la paura puerile per ogni boccone, per ogni passo: tutto questo, alla fine mi porterà all’idiozia. Ero uscito di senno, ero affetto da megalomania, però ero allegro, vivace e persino felice, ero interessante e originale. Ora sono più ragionevole e più serio, ma in cambio sono come tutti: una mediocrità, e mi annoio di vivere…” [II, 4, pag. 838].
A Tanja, Egor ed ai curanti, Kovrin rinfaccia soprattutto d’aver inaridito quella fonte d’arricchimento interiore che lo rendeva “speciale”, diverso dalle persone comuni:
“Come furono fortunati Budda e Maometto o Shakespeare che i loro buoni parenti e i dottori non li curassero delle estasi e delle ispirazioni… Se Maometto avesse preso le gocce di bromuro per i nervi, avesse lavorato solo due ore al giorno e bevuto latte, quell’uomo straordinario avrebbe lasciato dietro di sé una memoria uguale a quella del suo cane. I dottori e i buoni parenti, in fin dei conti, fanno sì che l’umanità incretinisca, che la mediocrità sia stimata genio…” [II, 4, pag. 838].
Kovrin coglie qui l’affinità tra ciò che sta alla base dell’ispirazione poetica o dell’estasi mistica dei grandi personaggi e ciò che ha prodotto, in lui, il delirio: il contatto regressivo con un oggetto arcaico idealizzato. In lui si tratta, è vero, di un “sostituto” delirante-allucinatorio di tale oggetto, non avendolo egli trovato nella realtà né nel mondo interno; tuttavia era tutto ciò che Kovrin possedeva per dare vitalità alla sua vita interiore. L’oggetto idealizzato sostitutivo è stato semplicemente soppresso, senza che al personaggio sia stata data la possibilità di trovare qualcosa di più valido. La sua protesta, quindi, è in gran parte giustificata.
-Il crollo finale – Lasciata Tanja, la rabbia cede il posto ad un’ultima fase della vita del personaggio: Kovrin, ammalatosi di tubercolosi, divenuto mansueto e tranquillo, si affida alle cure di una nuova compagna, una donna più vecchia di lui. Ambizioni e ideali l’hanno abbandonato, e la sua vita è ormai divenuta solo un’attesa della fine. Il decorso della malattia di Kovrin è simile a quello di un altro delirante della storia della letteratura: il Don Chisciotte [II, 5]. In entrambi, cessato il delirio grazie a “cure” inadeguate, l’esaltazione della follia cede il posto ad una quieta e triste rassegnazione. Sia l’animo, sia il corpo dei due personaggi perdono completamente di vigore, si spengono; la morte è inevitabile. Le loro vicende ci fanno capire il motivo del tenace attaccamento dei pazienti all’oggetto del loro delirio e la resistenza che essi oppongono a “trattamenti” il cui unico scopo è privarli di quell’oggetto. Sappiamo da tempo che il delirio è un sintomo a carattere “reintegrativo”: esso, pur rimanendo all’interno della patologia, è un tentativo di guarigione che consente il ripristino di una qualche oggettualità dopo la “disoggettivazione” psicotica iniziale [I, 7]. Tramite la regressione, il delirio consente di recuperare un contatto con l’oggetto arcaico idealizzato (o con un suo sostituto più o meno “riuscito” come tale) e sappiamo che da tale contatto dipende l’integrità psico-fisica del soggetto. Il bambino piccolo, privato a lungo dell’affetto e delle cure materne, va incontro ad una “depressione anaclitica” che comporta un coinvolgimento somatico mortale [I, 26]. Non diversa è la sorte delle persone adulte private dell’oggetto arcaico interiorizzato o di un suo sostituto: esso, all’interno della mente, continua a svolgere le stesse funzioni della mamma.
La differenza tra Kovrin e Don Chisciotte è che quest’ultimo muore confortato dalla presenza e dall’affetto di parenti e amici. Al contrario, il personaggio cecoviano si trova, da solo, a dover leggere quella lettera della moglie che lo pone di fronte all’odio della donna e, ancora una volta, alla morte e all’abbandono delle persone che egli aveva amato. È solo dal suo mondo interno che Kovrin, tramite la ricomparsa del delirio, riesce a trarre l’estrema consolazione e la forza che gli consentono d’affrontare la morte “con un sorriso beato” [II, 4, pag. 841]
IV – Trattamento: cosa curare e cosa rispettare
-Meccanismi di una cura sbagliata – Se, anziché limitarci al rilievo della scomparsa dei sintomi, prestiamo attenzione alla situazione complessiva di Kovrin dopo la “cura”, dobbiamo ammettere che questa è stata un fallimento: la mente del malato si è deteriorata, il suo organismo si è debilitato al punto di contrarre un’affezione mortale. Si ha la sensazione che si sia cercato con tutti i mezzi di far cessare il delirio, senza prestare la dovuta attenzione alle altre possibili conseguenze del trattamento. Le gocce di bromuro, la dieta a base di latte, i bagni caldi (insomma gli strumenti terapeutici del tempo) non producevano certo un effetto antipsicotico specifico, eppure hanno influenzato il decorso della malattia. Viene, perciò, da chiedersi in virtù di quali meccanismi la terapia abbia “funzionato”. La spiegazione ci viene offerta nel momento in cui, come si è visto più sopra, Kovrin si rende conto della paura che il suo delirio suscita nella moglie ed inizia a “guarire” prima ancora d’aver iniziato a curarsi. Che la propria sofferenza incontri repulsione, anziché comprensione empatica, terrorizza quest’uomo, lo fa ripiombare nell’incubo della solitudine e dell’abbandono che egli aveva vissuto fin dall’infanzia. Tutto ciò inizia a legare l’esperienza delirante ad un potente “condizionamento avversativo”; il che spinge Kovrin a distogliersi dalla visione del Monaco ed a riconoscere che la sua esperienza è stata pazzia. Dobbiamo presumere che il personaggio abbia incontrato anche nei curanti la stessa intollerante repulsione, unita al freddo distacco dell’ambiente medico, ed ecco perché la “terapia” ha fatto il suo corso. Un condizionamento avversativo simile (benché, nel caso della cura, inconsapevole) è ciò che sta alla base delle pratiche di “brain washing”; si tratta di legare l’esperienza da sopprimere a ciò che il soggetto più teme al mondo: per Winston Smith, il protagonista di “1984”, si tratta del ratto, il suo oggetto fobico [II, 7]; per Kovrin dell’isolamento e dell’abbandono. In entrambi, il terrore spinge a ripudiare e tradire la fonte prima dell’amore e dell’attaccamento alla vita: per Winston è Julia, la reincarnazione attuale dell’oggetto arcaico idealizzato, per Kovrin è il Monaco Nero, il sostituto dello stesso oggetto. Quanto alla repulsione e all’intolleranza che spingono i curanti a trattamenti inadeguati di questo genere (facendone anche parte), esse sono riconducibili ad una risposta controtransferale che sarà trattata ampiamente più sotto.
Il problema di una psichiatria concentrata sui sintomi, e cieca di fronte all’esperienza vissuta del paziente, rimane di grande attualità. Ai nostri giorni, l’intensificarsi di vertenze legali e conflitti legati all’attività terapeutica, i controlli sempre più pressanti, la conseguente esigenza dei curanti di presentare a tribunali ed amministrazioni prove “a discolpa” che abbiano il carattere indiscutibile dell’oggettività; tutto questo spinge i terapeuti ad ignorare il mondo soggettivo del paziente, favorisce una sorta di “alexitimia diagnostica” [I, 23]. Questo è anche reso possibile dall’uso di farmaci antipsicotici che, agendo direttamente sul substrato organico dei deliri e delle allucinazioni, consentono di “bypassare” l’esperienza soggettiva del malato. Si tratta di realtà che non esistevano ancora ai tempi di Cechov. Ciò che, quindi, dobbiamo chiederci è se queste nuove realtà, sovrapponendosi a quanto descritto dall’Autore, lo abbiano sottratto alla nostra osservazione.
L’azione dei farmaci antipsicotici sui sistemi monoaminergici cerebrali è sufficiente a spiegare la (apparente) scomparsa di deliri e allucinazioni? Il caso di Rosa suggerisce un’altra possibile interpretazione. Si tratta di una paziente sulla tarda cinquantina, nubile, di professione insegnante. Si presentò a chi scrive lamentando una sintomatologia apparentemente banale: astenia, affaticabilità, sporadici disturbi del sonno; sintomi precedentemente trattati con blandi antidepressivi, farmaci ipnoinducenti ed una superficiale psicoterapia “di sostegno”. Ciò che indusse il sottoscritto ad accertamenti più approfonditi fu, innanzi tutto, la presenza, tra i farmaci prescritti dal precedente terapeuta, di un pur modesto dosaggio di antipsicotici. Rosa, inoltre, insisteva perché le fossero concessi colloqui più frequenti e comunicava un intenso bisogno d’aiuto. Nel corso di alcuni mesi, la paziente iniziò a parlare sempre meno dei sintomi e sempre più della sua vita: Rosa soffriva la solitudine (non aveva amici, aveva perso i contatti coi parenti) nella stessa misura in cui soffriva la presenza intrusiva e pettegola di vicini e colleghi. Soffriva soprattutto il suo lavoro, ridotto ad un fatto “burocratico”, nel quale banalità e ripetitività avevano ucciso le ambizioni e gli ideali con cui da giovane lo aveva iniziato. Ma esisteva un’altra dimensione della sua vita di cui tardava a parlare. Sembrava come tastare prudentemente il terreno, come per capire quali potessero essere le reazioni del sottoscritto alla rivelazione di ciò che Rosa riteneva la causa della sua stanchezza. Per accenni sempre più frequenti, mi descrisse la fatica di dover combattere, ogni giorno, contro un complotto ordito per danneggiarla da una potente e misteriosa organizzazione. Ne ignorava i motivi, e questo rendeva ancor più difficile la sua lotta: ogni azione, anche la più semplice, incontrava ostacoli inattesi, creati ad arte dall’organizzazione per renderle la vita invivibile. È chiaro che l’organizzazione rappresentava per Rosa lo “xenos” che la paziente cercava di fronteggiare contrapponendo ad esso la protezione dei terapeuti. Quest’alleanza, finora, non le era riuscita, tuttavia l’organizzazione aveva “riempito” la sua vita conferendole un’importanza, pur negativa, che altrimenti le sarebbe mancata. Lo stesso sentimento di futilità della sua esistenza, che Rosa avvertiva a tratti, grazie al delirio acquistava il significato di danno procuratole intenzionalmente dai persecutori, del fatto che essi odiavano e temevano il suo valore. A questo punto, la paziente iniziò in misura crescente ad idealizzare il sottoscritto, vissuto come potente ed affidabile protettore. La fiducia accordatagli gli rese possibile il lavoro terapeutico d’individuare e sottolineare l’importanza di quanto di valido esiste nella vita di Rosa (l’amore per la cultura, l’attenzione e la sensibilità verso gli allievi), rafforzandone così l’autostima ed apportando nuovo vigore al suo mondo interno. La sintomatologia delirante, nel frattempo, s’attenuò, pur non scomparendo del tutto. Paradossalmente, Rosa interpretò in chiave delirante anche la stessa attenuazione del delirio: l’organizzazione avrebbe cessato di perseguitarla perché, sapendo che lei s’era affidata al sottoscritto, i nemici temevano che questi venisse a conoscenza dei loro atti ostili.
Il punto su cui è importante, qui, soffermarsi è il motivo per cui la sintomatologia delirante era apparentemente scomparsa prima di tornare a palesarsi nell’ultima cura. Rosa lo descrive con chiarezza, parlando del precedente terapeuta: “Era una persona simpatica; parlava volentieri con me e le sue cure [i blandi antidepressivi, i ricostituenti] mi facevano bene. Però un giorno, quando gli ho accennato ai miei guai [gli atti di persecuzione della “organizzazione”], è cambiato di colpo: i suoi occhi erano diventati cattivi, la sua voce era fredda; subito mi ha aggiunto l’Aloperidolo alla cura. Un’altra volta, in cui ero tornata sull’argomento, è successa la stessa cosa; e allora ho capito che, sui miei guai, era meglio stare zitta e parlar d’altro. Facendolo, mi ha ridotto un poco alla volta il nuovo farmaco, pur senza toglierlo del tutto, e le cose sembravano tornate come prima. Però le cure non mi facevano più bene”. Qui il “condizionamento avversativo” è consistito, al primo manifestarsi del delirio, nel privare bruscamente di simpatia e calore umano una persona che tanto soffre la solitudine; è consistito anche nel subordinare la protezione del curante, di cui Rosa ha così bisogno, all’assunzione di un farmaco antipsicotico dagli effetti soggettivi piuttosto sgradevoli. Sia che il delirio venga dissimulato, come nel caso di Rosa, sia che venga ripudiato, come in quello di Kovrin, l’effetto “collaterale” di queste terapie è di erigere una barriera tra il paziente e il curante. È esattamente l’opposto di quanto si verificò nell’ultima cura e che si rivelò effettivamente terapeutico: l’apertura di un nuovo canale di comunicazione. Attraverso di esso, fu possibile aiutare la paziente a spiegarsi e capirsi (ossia a porre sotto il controllo dell’Io la propria esperienza) e nel contempo soddisfare, in parte ed in maniera alternativa al delirio, i bisogni narcisistici di rafforzare l’autostima e d’essere partecipe delle qualità di un oggetto idealizzato.
In casi di questo genere, quindi, la risposta controtransferale di repulsione e intolleranza crea un condizionamento avversativo nei confronti del delirio. Essa è legata a (e rafforzata da) un fattore culturale: il modo in cui la mentalità corrente considera la percezione della realtà. Su questo è necessario aprire una parentesi.
-La “realtà” del terapeuta e quella del delirante – È opinione di molti che lo scopo del trattamento del delirio consista nel “riportare alla realtà” il paziente. S’intende, con questo, che, alla fine, il modo di vedere il mondo dei terapeuti (che si presumono sani) debba prevalere su quello dei malati. Ma siamo sicuri che la persona sana sia interamente aderente alla realtà? Se ciò non è vero (come chi scrive intende illustrare), il rischio è che l’alterata percezione della realtà, propria del terapeuta, s’imponga su quella del delirante, indipendentemente dalle (e in contrasto con le) esigenze interiori di quest’ultimo; ciò è l’opposto di quel che ragionevolmente possiamo considerare una cura.
Esiste un aspetto della realtà intollerabile per la maggior parte delle persone (o per tutti?): la realtà della separazione dall’oggetto arcaico; ciò accomuna sia il paziente delirante, sia molte persone sane. Quel che distingue queste ultime è che il disconoscimento della separazione, in loro, non si manifesta come vero e proprio delirio, ma come “quasi-delusion”, ossia una scissione della mente in due distinti settori in cui trovano spazio l’esame di realtà e, rispettivamente, la convinzione che se ne discosta [I, 25] – concetto, questo, che rappresenta un’estensione ad altri ambiti di quella “Ich Spaltung” individuata da Freud a proposito della sfera sessuale [I, 10] – L’impossibilità d’accettare la separazione dall’oggetto arcaico si manifesta, tramite “quasi delusion”, in almeno tre importanti aree della vita di ciascuno: nelle convinzioni religiose, nell’esperienza dell’amore e nell’atteggiamento di fronte alla morte.
L’oggetto arcaico è mantenuto in vita in almeno una delle qualità idealizzate che gli vengono attribuite; esse vengono ritrovate, in varia misura, in oggetti, persone o idee che appartengono alla vita presente. Si tratta dell’onnipotenza, della perfezione e dell’immortalità. Di queste, le prime due sono le meno necessarie. Lo si vede chiaramente nelle caratteristiche attribuite, nel corso della storia, all’immagine di Dio, immagine influenzata (o creata) dalla proiezione in una dimensione trascendente di ciò che si è creduto di percepire nell’oggetto primo d’amore. Le divinità dell’antichità non erano dotate di vera onnipotenza: il potere era distribuito tra i vari dei e questi agivano spesso in modo indipendente gli uni dagli altri e dal loro stesso padre. Sovrastava tutti, poi, il dominio di un Fato contro cui persino Zeus nulla poteva. Una vera onnipotenza sarà attribuita a Dio solo con l’avvento delle religioni monoteistiche. Quanto ad una vera perfezione, questa comparirà solo tardivamente, con l’avvento del Cristianesimo. Gli dei delle religioni politeistiche, ed anche il Dio dell’Antico Testamento – capricciosi, bizzarri, dispotici, fondamentalmente infantili – erano tutt’altro che perfetti. Solo l’immortalità, ossia la garanzia che Egli non si separerà mai da noi esseri umani, ha rappresentato costantemente la caratteristica essenziale di Dio. Ogni possibile convinzione circa l’esistenza, ma anche l’inesistenza, di un’entità sovrannaturale esprime il diniego della separazione dall’oggetto arcaico. Esso accomuna, pur con modalità opposte tra loro, sia i credenti (“l’oggetto arcaico è eterno e non ci lascerà mai, neppure dopo la morte”), sia gli atei (“l’oggetto arcaico non è mai esistito e quindi non può esserci stata, né ci sarà mai, alcuna separazione”). Quanto agli agnostici, qui il diniego riguarda l’importanza emotiva dell’esistenza o dell’inesistenza di un’entità superiore; come se potesse costituire un fatto irrilevante una convinzione (nell’uno o nell’altro senso) capace di condizionare la visione del mondo e della vita.
Nell’amore, qualcosa dell’onnipotenza originaria, si può trovare nei poteri straordinari che la persona amata esercita sul soggetto. Il paziente Dott. X soffriva di violente cefalee che limitavano fortemente le sue possibilità di lavoro ed in tutti gli altri ambiti della sua vita. Pur essendo un medico preparato, ad un certo punto trovò, per il suo male, un rimedio poco “scientifico”, ma di un’efficacia che non aveva mai conosciuto: si trattava dei bizzarri massaggi che la fidanzata (priva di conoscenze mediche) gli praticava in zona cervicale. Non dimentichiamo, poi, il potere quali “muse ispiratrici” che le donne amate (Lesbia, Beatrice, Laura) hanno sempre esercitato sulla creatività dei Poeti. Quanto alla “perfezione” originaria, se ne possono trovare tracce nell’immagine idealizzata che l’innamorato si crea della persona amata e nel sentimento d’insostituibilità che si avverte nel rapporto d’amore. Sono sentimenti destinati ad affievolirsi man mano che il rapporto evolve e che una percezione realistica del partner prende gradualmente il posto dell’immagine originaria. Per inciso, ciò non esclude che il rapporto possa, in seguito, fondarsi saldamente sulla capacità di capirsi e su interessi e progetti comuni. Tuttavia, come sostiene Proust, la Dea (o il Dio) che la persona amata era per noi originariamente, sopravvive nelle profondità dell’animo ed i lontani riflessi dei sentimenti che ci aveva suscitato continuano ad illuminare il rapporto [II, 10]. A resistere, nell’ambito di un “quasi-delusion” che ammette la contemporanea presenza del suo opposto, è un sentimento vicino a quello di “immortalità”: la certezza (avvertita e, al tempo stesso, negata) che non potremo mai lasciare, né essere lasciati. Certezza che la formula rituale cerca di limitare (“uniti finchè morte non vi separi”), ma che diventa assoluta quando costituisce un vero e proprio delirio: qui la morte, anziché come definitiva separazione, viene intesa come definitivo ricongiungimento; ciò è alla base di molti “suicidi a due” di amanti infelici e di molti omicidi-suicidi quale paradossale risposta all’abbandono.
Riguardo all’atteggiamento verso la morte, nelle persone sane un quasi-delusion assicura il mantenimento dell’equilibrio interiore: la scissione della mente in due distinti settori rende possibile l’essere consapevoli della realtà della possibile fine quanto basta per prendere le precauzioni necessarie per evitarla (o almeno per non andarcela a cercare noi stessi); nel contempo, il diniego della nostra possibilità di morire assicura una tranquillità che non sarebbe garantita in altro modo. Più in superficie, sappiamo di poter morire; sappiamo ad esempio che, in un percorso in automobile, nulla può assicurarci la certezza assoluta che non incorreremo in incidenti mortali. Ci accontentiamo di ridurre il rischio al minimo assicurandoci che la vettura sia in ordine, che stiamo rispettando le regole di prudenza, ecc.; che, insomma, il rischio cui andiamo incontro sia “calcolato”. Tuttavia non si può negare che, nel contempo, non avvertiamo il sentimento di un rischio poco probabile, ma la certezza che arriveremo incolumi alla meta. Questo quasi-delusion è facilitato dal fatto che la nostra morte non è rappresentabile [I, 6]. Allora viene da chiedersi come mai alcune persone siano tormentate dall’ossessione fobica o dal timore ipocondriaco della morte. Kohut ha dato una risposta a questo quesito riconducendo la paura (non giustificata oggettivamente) della morte a quella dell’abbandono e della solitudine [I, 15]. Si tratta di persone che hanno subìto un’esperienza traumatizzante di deprivazione del sostegno empatico altrui e che temono il ripetersi di tale eventualità.
Come sempre, la comprensione del Poeta ha anticipato di molto quella del Clinico:
“… Ove più il sole
Per me alla terra non fecondi questa
Bella d’erbe famiglia e d’animali
E quando vaghe di lusinghe innanzi
A me non danzeran l’ore future,
Né da te, dolce amico, udrò più il verso
E la mesta armonia che lo governa
…………………………………………
Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
Che distingua le mie dalle infinite
Ossa che in terra e in mar semina morte? [II, 6]
Come si vede, non una parola viene qui spesa per descrivere direttamente l’angoscia di “non esserci più”: la perdita, al contrario, riguarda tutto ciò che, nel mondo esterno, ha sostenuto e allietato la vita soggettiva del Poeta (i suoi “oggetti-sé” idealizzati) e questo è l’unico modo per potersi rappresentare, attraverso un’esperienza vissuta, quella del “non esserci più”. Un paziente, che in passato era stato in cura dal sottoscritto, nel corso di alcune settimane gli lasciò in segreteria telefonica messaggi in cui, con voce sempre più angosciata, annunciava la prossima fine della madre, poi degli altri familiari, poi degli amici. Solo più tardi si venne a sapere che chi, in realtà, aveva contratto una grave malattia ed era prossimo a morire, era lui stesso.
C’è chi sostiene che la morte è l’unica certezza; chi scrive ritiene che ce ne sia almeno una seconda: la nostra impossibilità d’accettarla; e questo in quanto il termine della vita rappresenta la definitiva separazione dall’oggetto arcaico interiorizzato e dagli oggetti-sé idealizzati che lo rappresentano nel mondo esterno. Quando tale separazione viene evitata, la fine della propria esistenza “corporea” può essere accolta senza timore. È il caso degli eroi, dei martiri e, in generale, di chi lascia tra i sopravvissuti qualcosa di sé che influenzerà potentemente la loro vita: può essere un’idea, un modello di comportamento, uno scopo idealizzato, ecc. Si tratta, comunque, di qualcosa che appartiene ad una dimensione ideale e che rimanda, pertanto, all’originario rapporto con l’oggetto arcaico idealizzato: in questi casi, il soggetto s’identifica con l’oggetto antico, o ne diviene il portavoce, e rimane, come tale, unito a chi sopravvive.
Spesso il terapeuta non è consapevole del proprio “quasi-delusion” e dell’inevitabilità, per la maggior parte delle persone, di nutrire una “doppia convinzione” dello stesso genere, anche se diversa da individuo a individuo e diversa da quella del curante. Questo alimenta, nei confronti del delirio, un’intolleranza influenzata anche da fattori culturali. La mentalità comune – in misura e modi diversi nelle varie culture ed epoche storiche – possiede concezioni non realistiche, ingiunzioni di condividerle, divieti di contrastarle; oppure, nelle culture più evolute, aperture verso convinzioni differenti. Tutto ciò viene interiorizzato, nella mente di ciascuno, nell’istanza superegoica. Symington, al riguardo, cita la fondamentale osservazione di Talcott Parsons:
“… il ruolo del Superio, quale parte della struttura della personalità, dev’essere inteso come relazione tra la personalità e la cultura dominante nel suo complesso. Tramite esso, diviene possibile uno stabile sistema d’interazione sociale. Freud pose correttamente l’accento sui valori morali di cui il Superio è il depositario, ma la sua concezione fu troppo ristretta: non solo i valori morali, ma tutte le componenti della cultura condivisa sono interiorizzate come parte della struttura della personalità…” [I, 27, pag. 287].
Nell’incontro di terapeuta e paziente, si stabilisce un “campo interpersonale” (altrimenti definito come “personalità congiunta” o “condivisa” [I, 27]) come risultato della fusione di una parte di ciascuna delle due personalità. Il contatto della soggettività del curante con quella del malato – più esattamente, delle aree della personalità di ciascuno che sono non condivise, personali ed individuali – può essere ostacolato o favorito da una “istanza superegoica condivisa”, che fa parte della dimensione intersoggettiva, ed i cui divieti, ingiunzioni o sollecitazioni (mutuati in gran parte dalla cultura dominante) possono impedire o facilitare la comunicazione e la reciproca comprensione. Nel Superio si stratificano diverse componenti con differenti gradi di evoluzione: quelle più primitive tendono a soffocare sentimenti e pensieri spontanei e ad imporre quelli dominanti nel gruppo di appartenenza; viceversa, le componenti più evolute svolgono una funzione di sostegno al sentimento di sé ed alla libera attività dell’Io, essendo il prodotto dell’interiorizzazione di tutto ciò che, nei genitori e nella cultura di appartenenza, favorì la nascita, la valorizzazione e l’evoluzione di un individuo separato [I, 19]. Tutto ciò può tradursi in capacità di comprensione empatica, oppure intolleranza, nei confronti del delirante, a seconda del maggiore o minore grado di consapevolezza e di libertà interiore acquisite dal terapeuta. Nei casi peggiori, prevale la convinzione che “riportare il paziente alla realtà” (la “realtà” così come concepita dall’opinione dominante o da quella personale del terapeuta) sia l’unico scopo del trattamento del delirio; e questo adottando strumenti e strategie che non possono essere considerati terapeutici. Il curante, in queste situazioni, rivela la stessa intolleranza ed assenza d’empatia che appartengono al delirante.
-Aspetti fenomenici-sintomatologici ed esperienza vissuta del delirio – L’ossequio all’imperativo di riportare il delirante alla “realtà”, ignorando la funzione che il delirio svolge all’interno della vita interiore, è in rapporto alla “alexitimia diagnostica” [I, 22] cui si accennava più sopra. L’assenza, nel terapeuta, di contatto con le proprie emozioni e con quelle del paziente, l’attenzione rivolta unicamente ai “dati oggettivamente rilevabili” (le dichiarazioni del malato circa quel che prova, il suo comportamento, la testimonianza dei parenti); tutto questo impedisce di capire il mondo interno della persona sofferente; di comprendere, ad esempio, che se il paziente oppone resistenza al trattamento, ciò non è espressione della sua “follia”, ma dello sforzo disperato di difendere l’unica forma d’equilibrio interiore di cui, in quel momento, egli è capace.
Romolo Rossi, che pure fu tra i promotori dell’introduzione del DSM nel nostro paese, lo considera un valido strumento di comunicazione, ma ne sconsiglia un uso clinico [I, 23]. Nel manuale, vengono individuate le entità nosografiche sulla base dell’associazione, con frequenza statisticamente significativa, di “dati osservabili”, ossia principalmente sintomi. Si prescinde deliberatamente da ogni forma di teoria etiologica e psicopatologica, perché ciò favorisce la comunicazione tra operatori di diverso orientamento. Tuttavia quel che si nota – ed in misura crescente nelle ultime edizioni – è che i “dati osservabili” coincidono sempre più con i fatti “oggettivamente” rilevabili. Come se fatti soggettivi – uno stato d’animo, una motivazione interiore del paziente – rilevabili dal clinico tramite la propria capacità di comprensione empatica, non fossero “dati osservabili”, ma illazioni teoriche. Questo significa negare l’esistenza dell’empatia, ossia dell’unico strumento d’indagine che ci consente di cogliere gli avvenimenti della vita interiore del paziente. L’empatia si avvale, è vero, dei dati oggettivi osservabili, ma opera su di essi una sintesi non riconducibile ad una semplice somma dei dati stessi; molti di essi, oltre al resto, sono oggetto di percezioni “subliminali”. Se ci dimentichiamo che una persona ha un’anima, possiamo meticolosamente descrivere, ad esempio, un fenomeno caratterizzato da secrezione delle ghiandole lacrimali, singulti, particolari atteggiamenti mimici. Tuttavia è solo l’empatia che ci permette di definire tale fenomeno come “pianto”, cogliendone anche le varie possibili sfumature (pianto di dispiacere, di commozione, di rabbia, ecc.): non si tratta di una forma di conoscenza esclusivamente fondata su dati percettivi, ma di una comprensione “per causas” [G. B. Vico citato in I, 27] che ci consente, ricordando i motivi di un nostro comportamento simile a quello cui stiamo assistendo, di “metterci nei panni” della persona osservata.
Si riportano, qui sotto, i criteri diagnostici del DSM-5 su due importanti affezioni deliranti:
I – Disturbo Psicotico Breve
A. Presenza di uno (o più) dei seguenti sintomi. Almeno uno di essi deve essere 1, 2 o 3:
Verso l’oggetto primo d’amore ognuno di noi è debitore anche della propria esistenza soggettiva: è dall’incontro dei nostri bisogni narcisistici primari con le capacità di comprensione empatica dell’oggetto che prende forma il Sé Nucleare, il centro della vita interiore di ciascuno [I, 14, 15]. In condizioni sane, questo stesso oggetto promuove e favorisce lo sviluppo delle funzioni psichiche che garantiscono l’equilibrio interiore ed un adeguato rapporto con la realtà. Si tratta delle capacità di sedare le tensioni emotive, di rappresentare e rendere pensabili le emozioni, di dominarle e utilizzarle [I, 14, 3]; capacità che, all’inizio, sono come “date in prestito” dall’oggetto arcaico e poi vengono gradualmente interiorizzate divenendo, in parte, autonome. La maturazione psichica, tuttavia, non consiste in un vero e proprio cambiamento, ma in una stratificazione di livelli mentali progressivamente più evoluti [I, 9, pag. 561 e seg.]; ciò significa che, negli strati più profondi, persiste uno stato di unione con un oggetto arcaico idealizzato ed interiorizzato che continua ad offrirci le proprie funzioni riequilibratrici ed a sostenere il Sé Nucleare. A questo rapporto si può ritornare occasionalmente, soprattutto in caso di crisi delle risorse adulte, in una sorta di “regressione al servizio dell’Io”. Ciò avviene nel corso di esperienze d’ispirazione creativa, di rapimento di fronte a manifestazioni di bellezza e grandiosità, di estasi mistica. In tali circostanze, si prende temporaneamente distanza dalla banalità e dal carattere prosaico della vita quotidiana, e ci s’immerge in una dimensione ideale che fa parte del nostro mondo interno. Se sane, queste esperienze arricchiscono la vita interiore riplasmando e rendendo più evolute le funzioni mentali riequilibratrici e ripristinando il contatto con il Sé Nucleare. Condizione perché ciò avvenga è che, attraverso la regressione, si possano ritrovare le tracce di un antico rapporto idealizzabile, sano ed autentico. Se questo non è possibile, un’alternativa è l’aridità della “pensée opératoire”; oppure, se a suo tempo l’investimento narcisistico idealizzante non ha incontrato nella realtà un oggetto adeguato, lo trova nell’immaginazione “inventandolo”. È questo il caso di molte forme di delirio.
II – “Il Monaco Nero”
Quando, nell’esporre la storia di un’affezione psichiatrica, l’Autore dimostra di possedere, oltre che la precisione e l’attenzione ai dettagli di un Clinico, anche la sensibilità di un Artista, egli ci offre un modello prezioso, un “paradigma”. In mancanza di questo, descrizioni della malattia in termini astratti, come pure storie cliniche “asettiche” che si limitino a registrare “fatti oggettivamente rilevabili”, si dimostrano inadeguate e facilmente fuorvianti: non ci consentono di comprendere ciò che più conta in una cura, ossia l’esperienza vissuta del paziente. Un valido “paradigma” dell’esperienza vissuta nel corso di una psicosi delirante-allucinatoria ci è offerto da “Il Monaco Nero” [II, 4], pubblicato nel 1894 da Anton Cechov, scrittore e medico.
All’inizio della narrazione troviamo il protagonista (Andrej Kovrin, un ricercatore universitario) in un evidente stato di crisi: “affaticato”, con i “nervi rovinati”, egli non riesce più a proseguire gli studi cui sinora si era dedicato con grande impegno. Sente, ora, il bisogno di ripetere il percorso della sua vita passata. Dapprima, si reca nell’antica tenuta della sua famiglia dove egli aveva trascorso la prima infanzia, essendo rimasto presto orfano di entrambi i genitori. Raggiunge, poi, il genitore adottivo: Egor Pesockij, un proprietario terriero la cui vita è interamente dedicata alla cura della sua tenuta; cura in cui egli coinvolge la sua unica figlia Tanja. A dispetto del cattivo carattere di questo personaggio (fanaticamente attaccato al proprio frutteto, pronto a sacrificare tutto e tutti pur di mantenerlo efficiente, incline ad un sentimentalismo sdolcinato e ad improvvise esplosioni di collera), Kovrin ritrova, accanto a lui, le liete sensazioni del passato, cui ora si aggiunge la simpatia, e successivamente l’amore, per Tanja. Questo gli consente di ritrovare la forza per tornare agli studi e riprendere la stessa vita che conduceva in città; una vita molto attiva, benché “nervosa e agitata”.
Il ritrovato benessere, tuttavia, è interrotto da un intenso turbamento. Ciò avviene bruscamente, una sera, quando a Kovrin capita d’ascoltare la serenata di Braga, eseguita da Tanja e dagli amici di lei in una lontana stanza della casa. La musica e soprattutto le parole della serenata, che Kovrin riesce ad intendere a fatica, lo sconvolgono, lo lasciano “irrequieto ed estenuato”. Subito dopo, Kovrin sente il bisogno di raccontare a Tanja una strana leggenda: un Monaco nero, vissuto mille anni fa, per un curioso effetto ottico ha prodotto un’immagine, anzi un “miraggio”; questo ne ha prodotto un altro e da quest’ultimo ne è nato un altro ancora e così via. La serie dei miraggi vaga per l’universo, fino a quando, tornata sulla terra, è destinata a rendersi di nuovo visibile agli uomini; e questo sta per avvenire. Lasciata Tanja, cui la leggenda non è piaciuta, Kovrin s’allontana dalla casa e, oltrepassato un fiume, percorre il sentiero che si dirige ad occidente, verso quello che gli appare come “il luogo ignoto e misterioso dove poco prima era calato il sole”. Qui fa la sua prima comparsa l’allucinazione: all’orizzonte compare a Kovrin un “turbine” che si muove con “terribile rapidità” verso di lui. Egli si scansa e s’accorge che quel fenomeno atmosferico ha assunto le sembianze di un monaco, vestito di nero, che lo guarda con aria “carezzevole” e, al tempo stesso, “furbesca”. La visione sparisce subito.
La comparsa del “Monaco” suscita in Kovrin dapprima euforia, poi stanchezza, inquietudine e dubbi. Solo la seconda comparsa dell’allucinazione restituisce al personaggio serenità e rafforza enormemente la sua autostima, suscitando in lui la certezza delirante della propria grandezza, dell’immortalità e di un rapporto privilegiato con Dio destinato a durare in eterno. Segue un periodo di relativo benessere e vivacità interiore: Kovrin sposa Tanja e si dedica con energia al proprio lavoro, che ora assume il significato di testimonianza della sua grandezza e dell’ispirazione divina. Presto, tuttavia, Kovrin entra nuovamente in crisi: nel suo ultimo dialogo con il Monaco prima della “cura”, egli esprime il disagio che gli suscita una gioia continua, innaturale, che non lascia spazio ad altri sentimenti. Esprime anche il timore che, come avvenne a Policrate, troppa felicità possa essere pericolosa, possa suscitare l’ira degli dei. Questo dialogo avviene nella camera da letto, accanto a Tanja ancora addormentata. La donna si sveglia e, accorgendosi che il marito sta parlando concitatamente con una poltrona vuota, gli si avvicina spaventata. L’abbraccio di Tanja, tuttavia, non comunica a Kovrin comprensione e conforto, ma solo il tremore di lei. L’uomo s’accorge che il Monaco è scomparso e, leggendo la paura negli occhi della moglie, si rende conto di colpo d’esser pazzo. Cechov, a questo punto, salta la narrazione di quanto accaduto nel corso della cura, e ci presenta un Kovrin profondamente mutato sia nell’aspetto, sia nell’animo: sciupato, imbolsito nei movimenti, egli sembra aver perduto acutezza d’ingegno ed abbandonato ambizioni e ideali. È divenuto litigioso, aggressivo soprattutto nei confronti di moglie e suocero. Il deterioramento del rapporto con Tanja si spinge fino alla rottura.
La comparsa di un’emottisi inaugura l’ultima fase della vita del personaggio. Egli si affida alle cure di una donna, più vecchia di lui, che lo tratta “come un bambino”. Il suo umore è ora divenuto “tranquillo e sottomesso”; si è rassegnato alla sua mediocrità e si dedica a piccoli lavori di poco conto. Il crollo finale avviene in un albergo sul mar Nero, dove Kovrin si trova in vacanza con la nuova compagna. Qui egli viene raggiunto da una lettera in cui Tanja gli annuncia la morte del suocero e la rovina del suo frutteto, lo maledice e gli augura la morte. Una “inquietudine simile alla paura” s’impadronisce di lui (cui, per le precarie condizioni di salute, era stato raccomandato d’evitare forti emozioni), e la fine è vicina. Ma, ancora un’ultima volta, a soccorrerlo interviene la serenata di Braga, eseguita da vicini dell’albergo, e, con essa, la ricomparsa del delirio e del Monaco Nero. Questi, mentre un fiotto di sangue esce dalla gola di Kovrin e gl’impedisce di parlare, lo guarda con occhi carezzevoli, gli sussurra parole di conforto e d’incoraggiamento riguardo alla sua grandezza ed alla vita ultraterrena che l’attendono. Quando la compagna di Kovrin si sveglia, egli era già morto e “sul suo volto era impresso un sorriso beato”.
III – Esperienza vissuta del delirio
-I prodromi – All’inizio del racconto, ci vengono descritti i prodromi della malattia di Kovrin: “si era affaticato e si era rovinato i nervi”. I medici del suo tempo, non sospettando la gravità dell’affezione preannunciata da quei sintomi, si limitarono a prescrivergli “riposo e distrazioni”. Oggi, in modo ancor più sbrigativo, gli prescriveremmo ricostituenti e blandi antidepressivi. Quel che spesso manca in noi medici, allora come oggi, è la capacità di comprendere il significato intimo di sintomi apparentemente banali attraverso un’approfondita immersione empatica nel mondo interno del paziente; comprensione, questa, che renderebbe possibile un intervento precoce e più efficace. Vediamo quel che, in proposito, ci suggerisce Cechov. Con rapide pennellate, egli ci dipinge il quadro di un uomo estenuato dagli sforzi di sostenere un’autostima fragile; di medicare, attraverso un’attività di studio faticosa, sfibrante, una ferita narcisistica profonda ed antica. È come se il valore professionale e culturale conquistato nella vita adulta dovesse sopperire a ciò che era mancato a Kovrin nelle fasi precedenti della vita. Tutto questo, tuttavia, ad un certo punto fallisce per l’esaurimento delle sue energie. Le manifestazioni di sofferenza del personaggio subiranno varie trasformazioni nel corso della vicenda, ma l’elemento d’“invarianza” resterà la profonda ferita narcisistica e l’inadeguatezza di tutte le risorse attivate per sopperirvi. Il successivo prodotto di trasformazione è uno stato ipomaniacale. Kovrin tenta di affrontare la sua crisi attraverso la regressione: si reca, dapprima, nella tenuta della sua prima infanzia; ma, non avendovi trovato nulla che lo possa aiutare, raggiunge il vecchio genitore adottivo Egor, la figlia di lui Tanja ed il loro frutteto. Qui egli pensa di riscoprire quella famiglia ideale che, in realtà, non aveva mai posseduto. Sono anche le parole che Tanja gli rivolge a farglielo credere:
“…vorrei, Andrjuska, che ci consideraste come vostri parenti. Ne abbiamo il diritto …mio padre vi adora. Talvolta mi pare che ami più voi che me. È orgoglioso di voi…” A Kovrin “venne d’un tratto in mente che nel corso dell’estate egli poteva affezionarsi a quell’essere piccolo, debole e chiacchierino [Tanja], rimanerne affascinato e innamorarsene” [II, 4, pag. 827].
Kovrin, a questo punto, canta d’impulso i versi dell’Onegin, che alludono chiaramente ad una situazione triangolare edipica. L’illusione di un “paradiso ritrovato” consente a Kovrin di riattivare, nel profondo, il “progetto euforico” di un totale controllo sugli oggetti arcaici [I, 21, pag. 17]. In questo caso, più che di un triangolo edipico, si tratta dell’illusorio recupero di una “triade narcissique” idealizzata [I, 11] di cui Egor “orgoglioso” di Kovrin (sentimento che sarà ereditato anche dal Monaco Nero) è una componente essenziale. Tutto ciò si manifesta come stato ipomaniacale:
“Leggeva e scriveva molto, studiava l’italiano e, quando passeggiava, pensava con piacere che presto si sarebbe messo al lavoro. Dormiva così poco che tutti se ne stupivano; se per caso si addormentava di giorno per una mezz’ora, non dormiva poi per tutta la notte e dopo la notte insonne, come se niente fosse stato, si sentiva sveglio e allegro” [II, 4, pag. 828].
Si tratta, tuttavia, di un equilibrio fragile, che viene rotto bruscamente da un intenso sconvolgimento (sopravvenuto per i motivi di cui si parlerà più sotto) e dal successivo esordio della sintomatologia delirante-allucinatoria. L’elemento di maggiore fragilità è qui costituito dall’idealizzazione, da parte di Kovrin, del padre adottivo Egor. Essa è differente dal tipo di idealizzazione che fa parte di una vita affettiva sana: in quest’ultima, vengono ad essere accentuate nel loro valore (ed isolate dai difetti) caratteristiche dell’oggetto positive e reali. In questo caso, una sana relazione con l’oggetto ed il contatto con la realtà consentono di ridimensionare gradualmente l’idealizzazione dell’oggetto stesso, e di promuovere l’evoluzione verso un rapporto più realistico, senza che ciò causi rotture o scissioni nel modo di percepire e sentire. Al contrario, l’idealizzazione del padre adottivo da parte di Kovrin è “sine materia”, priva di supporto reale e fondata sul diniego delle caratteristiche negative di quest’uomo. Egor è, sì, “orgoglioso” di Kovrin, ma solo perché vede in lui il continuatore del suo fanatico attaccamento al frutteto; nel contempo, egli ignora completamente le qualità reali del figlio adottivo. Le altre caratteristiche di questo personaggio – egoista, ossessivo, fanatico, incline a mascherare con una sdolcinatezza inopportuna la sua costante aggressività, soggetto ad improvvise esplosioni di collera, privo di capacità di comprensione empatica verso i congiunti – lo avvicinano al tipico “primal parent” incomprensibile, persecutorio e pervaso di distruttività, che s’incontra nel trattamento di bambini che hanno subìto abusi [I, 24, pag. 214]. Come quei bambini, anche Kovrin deve aver subìto, nell’infanzia trascorsa con Egor, esperienze traumatizzanti e le disconosce come tali.
-L’esordio – L’idillio della “triade narcissique” ed il sostegno che esso aveva offerto alla vita soggettiva di Kovrin s’interrompono bruscamente; accade una sera, in cui egli si trova solo nella sua camera e gli capita d’ascoltare, attutita dalla lontananza, la serenata di Braga. Comprendendone, con un certo sforzo, le parole, egli s’accorge che esse stesse parlano di un suono indistinto udito nella notte:
“… una fanciulla dall’immaginazione malata aveva udito di notte nel giardino dei suoni misteriosi, a tal punto belli e strani che ella dovette riconoscerli come un’armonia sacra che era incomprensibile per noi mortali e per ciò se ne volava di nuovo in cielo…” [II, 4, pag. 829].
Kovrin, a questo punto, si alza ed “estenuato” si mette “a camminare per il salotto, poi per la sala…”. “Estenuazione” e irrequietezza segnano, dunque, la rottura dell’equilibrio precario che, per un breve periodo, aveva sostenuto un relativo benessere in questo personaggio. Energie e serenità ricompariranno solo più tardi, in concomitanza con il delirio e le allucinazioni.
Cechov non ci dice altro, in modo esplicito, su questo sconvolgimento di Kovrin che segna l’inizio della vera e propria malattia. In linea generale, tuttavia, sappiamo che l’esordio di una sintomatologia delirante è immediatamente preceduto da vissuti che segnalano un incipiente distacco dalla realtà. Talora si tratta di un episodio di Depersonalizzazione-Derealizzazione [I, 1, pag. 302], che frequentemente rappresenta la “anticamera” di diversi tipi di patologia psichiatrica [I, 4, pag. 1077]. Altre volte si passa direttamente ad un vissuto di “Wahnstimmung” [I, 12]. Comune ad entrambi è una sensazione d’irrealtà, d’inquietudine, di perdita del sentimento di familiarità che, di solito, si unisce alla percezione dell’ambiente abituale. Caratteristica associata è anche la difficoltà che il paziente prova nel tentare di descrivere le proprie sensazioni [I, 1, pag. 303]. La differenza è che nella Depersonalizzazione-Derealizzazione il distacco dall’ambiente e/o da se stessi avviene solo nella sfera affettiva, mentre l’esame di realtà è conservato; questo, al contrario, viene perso nella Wahnstimmung, che ha anche un carattere più globale, coinvolgendo l’intera percezione del mondo e non una singola esperienza. Alla base di questi vissuti c’è una défaillance di quelle “funzioni riequilibratrici” (cui si accennava più sopra) che normalmente assicurano la stabilità emotiva e favoriscono l’esercizio dell’esame di realtà [I, 4]. Si tratta, più esattamente, delle “self-soothing functions” (funzioni auto-calmanti e auto-confortanti) che tendono a ripristinare l’equilibrio emotivo quando questo è scosso da fatti traumatici o, in generale, da ferite narcisistiche [I, 14]. In questo stesso ambito rientra sicuramente anche la “funzione alfa” [I, 3], concetto affine e in parte sovrapponibile a quello di “self-soothing functions”: funzione di filtro-modulazione dell’intensità degli stimoli emozionali e di associazione alle risposte emotive di un elemento sensoriale rappresentabile che le rende “pensabili”. In conseguenza dell’attività della funzione alfa, si forma una sequenza di elementi inseribili nel pensiero (elementi alfa) che, legati insieme, costituiscono il “pensiero onirico della veglia”. Questo è definibile come “sogno emotivo” dell’esperienza che si sta vivendo; “sogno”, per lo più inconscio, che si fa continuamente [I, 5, pag. 73, 74]. Il sogno, in questo modo di vedere, non è soltanto “custode del sonno”, come nella classica concezione freudiana, ma anche della veglia, in quanto esso protegge il pensiero cosciente e l’esercizio dell’esame di realtà dall’irruzione di emozioni incontenibili. Il prodotto di una “funzione alfa” (sia essa efficiente o difettosa), ossia una sequenza di “elementi alfa” più o meno perfetti, e quello dell’attività onirica (o di rêverie) che lavora su di essa, non accedono, di regola, alla coscienza; tuttavia essi possono essere indirettamente pensati o raccontati attraverso “derivati narrativi”. Questi contengono rappresentazioni distorte, in vario grado, rispetto alla realtà emotiva degli elementi originari [I, 5, pag. 77, 78]. Possiamo considerare come “derivato narrativo” la leggenda del “Monaco Nero” che Kovrin racconta a Tanja; derivato narrativo di quanto avvenuto nella mente del personaggio nel corso del suo recente sconvolgimento e subito dopo. Rivediamola:
“… Mille anni fa, un monaco vestito di nero camminava per un deserto, non so dove in Siria o in Arabia… A parecchie miglia dal luogo dove egli passava, dei pescatori videro un altro monaco nero che lentamente si muoveva sulla superficie di un lago. Questo secondo monaco era un miraggio (…) Dal miraggio sorse un altro miraggio, poi dal secondo un terzo, cosicché l’immagine del monaco nero si trasmise all’infinito da uno strato dell’atmosfera all’altro (…) adesso erra per l’universo intero, senza potersi mai trovare in condizioni di poter sparire (…) la sostanza e il maggior interesse della leggenda sta in questo che, esattamente mille anni dopo che il monaco avrà camminato nel deserto, il miraggio ricadrà nell’atmosfera terrestre e si mostrerà agli uomini. E pare che il migliaio di anni sia già alla fine (…) non riesco a ricordarmi di dove mi è venuta in testa questa leggenda. L’ho forse letta? L’ho udita? O forse il monaco nero l’ho veduto in sogno?…” [II, 4, pag. 829].
La leggenda anticipa il contenuto del delirio e delle allucinazioni che esordiranno subito dopo. Si può notare, innanzi tutto, che Kovrin da un rapporto triangolare è regredito ad uno duale. Infatti non è più tanto l’affetto verso gli altri due membri della famiglia adottiva a sostenere in lui benessere e autostima, quanto un rapporto privilegiato con un unico personaggio: con il Monaco e, per il tramite di questo, con Dio. Il “suono misterioso udito nella notte” della serenata di Braga, la “armonia sacra incomprensibile per noi mortali” (per noi bambini) ha evocato in Kovrin una “scena primaria” per lui particolarmente traumatizzante [I, 24, pag. 215]. Egli, rimasto orfano di entrambi i genitori nella prima infanzia, non ha potuto giovarsi della comprensione affettuosa dei familiari. Gli è mancata, cioè, quella vicinanza affettiva attraverso cui la scoperta della sessualità dei genitori, quale evento separativo, viene mitigata nei suoi effetti conturbanti ed, anzi, contribuisce ad introdurre alla situazione edipica e, successivamente, alla vita adulta. Al contrario, per Kovrin, la scena primaria è coincisa con una separazione definitiva e intollerabile. Ecco perché, con la rottura di una “triade narcissique” idealizzata, egli non può che regredire ad un rapporto duale con un oggetto arcaico o con un suo sostituto. La leggenda del Monaco Nero rappresenta il derivato narrativo di tale ritorno interiore ad un’epoca remota, in cui Kovrin conta di ritrovare un più valido sostegno alle funzioni riequilibratrici della sua mente. Sono evidenti altri due particolari: l’immagine del Monaco appartiene, sì, a una persona reale, ma vissuta “mille anni fa”. Ciò che viene percepito è un fenomeno ottico, un “miraggio”, ossia una percezione senza oggetto. In secondo luogo, Kovrin vive se stesso come spettatore passivo della narrazione (letta, udita, vista in sogno); non considera neppure come ipotesi che essa sia frutto di un’attiva costruzione della sua fantasia. Questi aspetti, come si vedrà più sotto, caratterizzano come tale il delirio di Kovrin.
-Ruolo del delirio nella vita interiore – Talora le funzioni riequilibratrici della mente non riescono a conferire alle percezioni un carattere di realtà e di familiarità; a volte anche di “pensabilità” delle “protoemozioni” risvegliate dagli stimoli esterni. Ciò, come detto più sopra, accade in rapporto a ferite narcisistiche non facilmente rimarginabili, a situazioni traumatiche o a stimoli che evocano traumi antichi, come la serenata di Braga per Kovrin. In queste circostanze, si regredisce ad un rapporto di unione con un oggetto arcaico idealizzato, il quale ritorna a “darci in prestito” (come faceva originariamente) le sue capacità di calmare, confortare, contenere e rendere “pensabili” le emozioni. È evidente, qui, l’analogia con lo “emotional refueling” dell’infanzia [I, 17]: il bambino, anche se sano ed in una fase avanzata del processo di separazione-individuazione, ritorna periodicamente a sedersi sul grembo e tra le braccia della mamma, e da questo contatto trae conforto e ristoro nei momenti di stanchezza e di crisi. Le forme di “regressione al servizio dell’Io”, cui si accennava più sopra, sono non soltanto analoghe, ma rappresentano anche l’eredità di quell’antico abbraccio, in quanto esso influenza la qualità delle esperienze successive. Si potrebbe parlare di una versione adulta dello “emotional refueling” (questa volta con un oggetto interiorizzato più che con uno esterno); esso, come il suo progenitore infantile, può avere carattere sano, oppure patologico. L’esperienza che più chiaramente rimanda ad una regressione del genere è quella religiosa. Freud riconduceva il “sentimento oceanico” proprio della “unio mistica” ad una fase precoce, anteriore alla differenziazione dell’Io dal mondo esterno. Esso, come la nostalgia della protezione offerta dai genitori, a suo avviso rimanda al “sentimento d’impotenza dell’infanzia” [I, 9, pag. 565] e ad una debolezza dello stesso genere, persistente nell’età adulta. Si tratta, secondo il padre della psicoanalisi, di esperienze regressive che minano l’indipendenza e la maturità dell’Io adulto [I, 8]. Diversa è la posizione di Kohut, più ben disposto nei confronti della religione. Secondo quest’ultimo Autore, delle esperienze religiose (di quel continuum che va dal semplice raccoglimento nella preghiera fino all’“estasi mistica”), esistono varianti sane e patologiche. Nelle prime, l’esperienza “ha inizio negli aspetti maturi della personalità, non costituisce una risposta automatica allo stress, è controllabile, liberamente scelta e tollera il differimento” [I, 16]. In altre parole: si tratta di forme di regressione sotto il controllo dell’Io. Le varianti patologiche, al contrario, si manifestano come intenso e frequente desiderio di fusione arcaica cui l’individuo può cedere in modo incontrollato; in alternativa, il soggetto può porre in atto condotte di evitamento di ciò che evoca il suddetto desiderio, per timore della regressione e della perdita di padronanza di sé [I, 20, pag. 187]. Le stesse caratteristiche delle varianti sane e patologiche si possono riscontrare nelle altre forme di unione o fusione arcaica regressiva menzionate all’inizio. Nell’ispirazione creativa, l’unione con l’oggetto arcaico lenisce il senso di solitudine di chi s’avventura senza guida in territori dove nessun altro ha ancora messo piede. Il Poeta, come lo Scienziato innovativo, si sente “tutt’uno” con la propria attività creativa, perdendo temporaneamente la percezione dello spazio, del tempo e della propria individualità. Una giusta misura manca nelle varianti patologiche: qui l’Io non è più padrone dell’esperienza, ne diviene schiavo; un esempio è mirabilmente descritto ne “La ricerca dell’Assoluto”, dove un’appassionata indagine scientifica acquista un carattere compulsivo ed autodistruttivo [II, 2]. Analoghe considerazioni valgono per il “rapimento” di fronte a manifestazioni di bellezza o grandiosità, dove la perdita di controllo dell’Io può spingersi fino alla “sindrome di Stendhal”.
Fatta questa premessa, ritorniamo a Kovrin ed al primo manifestarsi della sua psicosi delirante-allucinatoria, ossia di un tentativo di regressione che, nel suo caso, sfugge al controllo dell’Io:
“All’orizzonte, come un turbine o come una tromba, si alzava dalla terra fino al cielo un’alta colonna nera. I suoi contorni erano indecisi, ma fin dal primo istante si poteva capire che essa non stava ferma, ma si moveva con terribile rapidità e si dirigeva precisamente là, diritto verso Kovrin, e quanto più avanzava, tanto più si faceva piccola e distinta. Kovrin si gettò da una parte… Un monaco vestito di nero… gli passò accanto… I suoi piedi scalzi non toccavano terra… si volse verso Kovrin, chinò la testa e gli fece un sorriso carezzevole e nello stesso tempo furbesco. Ma che viso pallido, terribilmente pallido e magro!” [II, 4, pag. 830]
La visione riproduce ancora alcuni particolari della minacciosa “scena primaria” evocata dalla serenata di Braga: il simbolismo fallico della “alta colonna” della tromba d'aria che “si erge” e cambia dimensioni ed il precipitarsi del monaco nero su Kovrin, significativo di un’identificazione passivo-femminile del personaggio [I, 24, pag. 220]. Lo spaventoso turbine, tuttavia, si trasforma nel Monaco Nero il quale, nel corso del delirio, porterà a Kovrin non una minaccia, ma un sostegno alla sua vita soggettiva. L’allucinazione, come spesso succede, dice alcune verità su sé stessa: compare un “turbine”, immagine che, insieme ad altre consimili (vortice, gorgo, mulinello, ecc.) si presenta frequentemente nelle associazioni d’idee spontanee e nelle risposte al Rorschach dei pazienti a rischio di suicidio [I, 18]. Si tratta della rappresentazione simbolica di una forza regressiva ed autodistruttiva che minaccia di “risucchiare” l’Io in fasi anteriori della vita e di fargli perdere il controllo della mente – Per inciso, la Letteratura ha spesso usato la stessa immagine: il vortice che pone fine alla temeraria avventura dell’Ulisse dantesco, il Maelstrom di E. A. Poe, il “scenderemo nel gorgo muti” di Cesare Pavese, ecc. [II, 1, 9, 8] – il “turbine” di Kovrin è una forza autodistruttiva perché lo riporterà regressivamente ad un “emotional refueling” anomalo che, anziché ripristinare l’integrità della sua vita interiore e restituirlo rinfrancato alla vita adulta e reale, lo farà perdere nell’esperienza immaginaria. Inoltre, il Monaco rivolge a Kovrin un sorriso, oltre che carezzevole, anche “furbesco”: è qui segnalato l’(auto)inganno.
Al ritorno a casa, il viso di Kovrin è divenuto “ispirato” e “raggiante”; lui stesso è avvertito dagli ospiti come “interessante”. La sola comparsa del Monaco ha animato la vita interiore del protagonista, suscitandogli uno stato di euforia: in contrasto con la compostezza del suo comportamento abituale, egli ora si scatena nella danza. Tornato nella sua stanza, tuttavia, compaiono in Kovrin stanchezza e dubbi:
“La piacevole eccitazione con la quale poco prima aveva ballato e ascoltato la musica ora lo snervava… Si alzò e cominciò a camminare per la camera, pensando al monaco nero. Gli venne in mente che, se lui solo aveva visto quel monaco strano e soprannaturale, ciò significava ch’egli era malato ed era arrivato già alle allucinazioni. Questa constatazione lo spaventò, ma non per molto. “Mi sento bene e non faccio del male a nessuno; vuol dire che nelle mie allucinazioni non c’è nulla di male” pensò e tornò a sentirsi bene…” [II, 4, pag. 831].
Kovrin non avverte in modo immediato che la visione del Monaco è un prodotto della sua mente; lo deduce dal fatto che gli altri non hanno visto la stessa immagine. Allo stesso modo, come si è visto, raccontando la “leggenda” del Monaco Nero, Kovrin non sente che la narrazione è frutto della sua fantasia, gli pare d’averla ascoltata o letta; che, insomma, gli sia pervenuta dal mondo esterno e non da lui stesso. È questa la caratteristica che distingue il delirio di cui soffre Kovrin da altri tipi di affezioni deliranti strutturalmente più vicine al sogno ed alla reazione delle persone sane ad esperienze conturbanti. In questi ultimi casi, come si è detto, la risposta estrema a situazioni estranee e inquietanti è il ritorno da chi fu la prima fonte dei sentimenti di familiarità e conforto. Il bambino lo fa rifugiandosi tra le braccia accoglienti della mamma; l’adulto fa qualcosa di simile ritornando ad unirsi con l’oggetto arcaico nel sogno, nella preghiera o in altre esperienze regressive dello stesso genere. I pazienti simili a Kovrin, attraverso la regressione, non riescono a trovare le tracce di un antico rapporto confortevole, ma quelle di un’antica esperienza incomprensibile e sconvolgente; anziché la fonte prima dei sentimenti di familiarità, ne trovano una di vissuti d’estraneità: uno straniero, uno “xenos” [I, 13, pag. 753]. Quest’oggetto s’impone all’Io come elemento del mondo esterno del tutto estraneo ad ogni elaborazione mentale; con esso non è possibile stabilire nessi associativi con esperienze passate, non è, quindi, assimilabile o interiorizzabile e neppure può essere oggetto di un vero e proprio lavoro onirico [I, 13, pag. 749]. Di fronte a questa presenza esterna, aliena, minacciosa nei confronti dell’integrità soggettiva (il “turbine” di Kovrin), il delirante non può far altro che tentare di contrapporre ad essa (o trasformarla in) un’altra presenza, pure essa estranea, ma forgiata sulla base delle necessità di sopravvivenza, allucinando l’appagamento dei propri bisogni narcisistici: compare il Monaco Nero. La minaccia diventa allettamento irresistibile, e ciò sottrae l’esperienza al controllo dell’Io ed alla realtà. Quanto rimane in Kovrin di aderenza alla realtà (la consapevolezza che la sua è stata un’allucinazione) viene cancellato dall’autoinganno: se è pur vero che l’allucinazione “lo fa star bene” e che egli “non fa del male a nessuno”, Kovrin tuttavia ignora che il suo male lo sta isolando dai suoi simili; lo sta assorbendo completamente, privandolo dell’effettivo sostegno che altri potrebbero offrirgli. La seconda allucinazione segna il trionfo definitivo dell’autoinganno, ed il dubbio cede il posto alla certezza delirante:
“… non esisti? – domandò Kovrin [al Monaco] – Pensala come vuoi – disse il monaco – Io esisto nella tua immaginazione e la tua immaginazione è una parte della natura, dunque io esisto nella natura”. E più avanti lo stesso Kovrin, rivolgendosi al Monaco: “… perché mi guardi con tanto entusiasmo? Ti piaccio?” – Il Monaco: “Sì. Tu sei uno di quei pochi che con tutta giustizia si chiamano eletti di Dio. Tu servi la verità eterna. I tuoi pensieri, i tuoi propositi… tutta la tua vita portano in sé il segno divino e celeste, poiché sono consacrati al ragionevole e al bello, cioè a quello che è eterno” – Kovrin: “… ma è forse accessibile agli uomini la verità eterna, se non esiste una vita eterna?” – Il Monaco: “C’è una vita eterna… un grandioso e splendido avvenire attende voi uomini…” [II, 4, pag. 833]. E più avanti il Monaco aggiunge: “…come puoi sapere che gli uomini di genio, nei quali crede tutto il mondo, non abbiano anch’essi visto dei fantasmi?… Amico mio, sono sani e normali soltanto gli uomini del volgo e del gregge…” [II, 4, pag. 834]
Tramite il Monaco, Kovrin si scopre “eletto di Dio”, portatore di divina “verità eterna”, testimone della “immortalità degli uomini”. Vengono, così, smentite la subitanea perdita del proprio valore e la brutale scoperta della precarietà dell'esistenza vissute nella catastrofe originaria (la morte dei genitori); esperienze che il successivo rapporto col padre adottivo Egor, per i limiti di questo personaggio, non potè certo aver corretto nel loro impatto emotivo. Il potente sostegno offerto al Sé grandioso dalle “rivelazioni” del Monaco e la possibilità d’essere partecipe della grandezza divina restituiscono alla vita di Kovrin nuovo slancio: egli sposa Tanja e riprende con rinnovato impegno il suo lavoro:
“Quello che aveva detto il monaco nero sugli eletti di Dio, sulla verità eterna, sul luminoso avvenire dell’umanità, ecc., conferiva al suo lavoro un’importanza speciale, straordinaria e riempiva la sua anima d’orgoglio e della coscienza della propria altezza…” [II, 4, pag. 836].
-Crisi del delirio e “guarigione” – La costruzione delirante, tuttavia, entra bruscamente in crisi, come non reggendo al suo stesso peso. Kovrin esprime il suo disagio in un dialogo col Monaco cui chiede disperatamente un ultimo aiuto:
“… anch’io, come Policrate, incomincio ad essere un po’ inquieto della mia felicità. Mi pare strano di non provare che gioia dal mattino alla sera, essa mi colma tutto e soffoca ogni altro sentimento. Non so più cosa sia la tristezza, il dolore o la noia (…) Lo dico sul serio: incomincio ad essere perplesso” [II, 4, pag. 836]. E più avanti: “E se d’un tratto gli dei si adirano?… Se essi mi levassero le comodità e mi costringessero a soffrire il freddo e la fame?” [II, 4, pag. 837].
Cechov qui, per bocca del suo personaggio, ci descrive con grande precisione un elemento di fragilità e d’instabilità di questo tipo di delirio. Kovrin, per appagare i propri bisogni narcisistici primari, si è affidato all’oggetto di un’allucinazione, a un fantasma. Questi è privo delle qualità che solo una persona reale può possedere: sensibilità, capacità di guardare il soggetto dall’esterno e imperfezioni. In particolare, il Monaco appaga il bisogno di “mirroring”, ossia la necessità del Sé grandioso di trovare una conferma “rispecchiandosi” nello sguardo materno. Gli occhi di una madre reale offrono, sì, un necessario “glance of joy” di fronte alle conquiste del bambino [I, 16], ma rimandano anche comprensione, bonaria ironia, o preoccupazione di fronte a quelle debolezze o imperfezioni del soggetto che solo un osservatore esterno può vedere. In questo modo, essi preparano ad una percezione realistica di sé. Una madre non sufficientemente equilibrata, o un fantasma, possono rimandare, col loro sguardo, solo un’immagine idealizzata e falsa del soggetto. Questi avverte di non riuscire realmente a “raggiungere” se stesso attraverso la rappresentazione che gli viene offerta. Lo sforzo di “trovarsi” lo distoglie da tutto il resto ed in esso si perde. È quanto avviene a Narciso il quale, rispecchiandosi nella fonte di cui la madre Liriope era la ninfa (metafora dello sguardo materno), vi trova un’immagine splendida; ma non gli basta vederla, la vuole toccare, vuole congiungersi ad essa ed essa lo inghiotte [I, 25, pag. 24 e seg.]. Oltre a questo, una madre reale ed equilibrata sa temperare, con la propria capacità di comprensione empatica, gli effetti che le sue inevitabili imperfezioni producono sul bambino. Ciò conferisce un carattere “ottimale” (anziché traumatico) alle frustrazioni e le rende capaci di favorire l’evoluzione verso un rapporto più realistico del figlio sia con lei, sia con se stesso. Sia riguardo alla percezione di sé, sia a quella dell’oggetto, il Sé perviene gradualmente a riconoscere ed accettare che “l’ideale non è ideale” (I, 17), ossia che un rapporto realistico col mondo comporta non solo gioia, ma anche “tristezza, dolore e noia”. Alludendo a Policrate, Kovrin esprime la sua sensazione che troppa felicità possa essere “pericolosa”. Il fantasma del Monaco Nero offre, ai bisogni narcisistici del personaggio, un appagamento innaturale, una felicità illimitata priva di “frustrazioni ottimali”. Ciò significa che, se non riesce a persistere indefinitamente senza evolversi, essa è destinata a crollare, ed è quanto effettivamente avviene. Il Monaco Nero fallisce nel suo compito di sostituire l’originario “xenos”, questo riemerge. I sentimenti di persecuzione, frustrazione e rabbia, scissi e proiettati, si palesano sotto forma di “ira degli dei”.
Quest’ultimo dialogo col Monaco avviene nella stanza da letto, accanto a Tanja che dorme ancora: Kovrin non ha più usato la consueta prudenza che sinora gli aveva consentito di mantenere segrete le sue visioni. Subito, perciò, viene scoperto:
“Tanja frattanto si era svegliata e guardava il marito con stupore e spavento. Egli parlava, rivolto alla poltrona, gesticolava e rideva; i suoi occhi scintillavano e nel suo riso c’era qualcosa di strano” – Tanja a Kovrin: “Andrjuska, con chi parli?”… Tanja abbracciò il marito (…) Il tremito di lei si comunicò anche a lui. Egli guardò ancora una volta la poltrona che ormai era vuota e sentì a un tratto una gran spossatezza… si spaventò e prese a vestirsi (…) Solo ora, guardandola, Kovrin comprese tutto il pericolo della sua situazione, comprese che cosa significassero il monaco nero e le conversazioni con lui. Adesso si rendeva conto chiaramente d’essere pazzo” [II, 4, pag. 837].
Il delirio aveva già cominciato ad entrare in crisi indipendentemente da influenze esterne, ma ciò che spinge Kovrin a riconoscerlo di colpo come tale e a ripudiarlo è il tremito comunicato anche a lui dall’abbraccio della moglie, la paura che egli legge negli occhi di lei. In virtù di ciò, egli comincia già a “guarire” ancor prima che la sua “cura” abbia inizio. Non è chiaro il motivo per cui Kovrin, a questo punto, riveli a Tanja la sua follia: possiamo pensare ad un indebolimento delle capacità critiche, ma è anche probabile che, dato il suo stato di crisi, egli stia inconsapevolmente chiedendo aiuto. La risposta di Tanja non può essere di comprensione empatica, come forse il pover’uomo s’attendeva, ma di paura; paura che si comunica anche a lui. Sentendosi respinto dalla moglie, Kovrin scopre con terrore d’esser pazzo, ossia escluso da ogni contatto empatico col consorzio umano.
Ai tempi di Kovrin e di Cechov non esistevano ancora farmaci antipsicotici; non risulta, inoltre, che al protagonista della storia sia stato imposto un lungo periodo di ricovero ospedaliero. Eppure, terminata la “cura”, ritroviamo un Kovrin divenuto del tutto simile agli odierni pazienti “impregnati di farmaci” e/o “istituzionalizzati”: pallido, pingue, rallentato e impacciato nei movimenti, sciupato nel viso. Anche il carattere ed il comportamento sono profondamente mutati: la sua vivacità è scomparsa, l’immaginazione inaridita: i fiori, gli alberi non gli “parlano” più:
“I pini arcigni… che l’anno prima l’avevano veduto così giovane, così allegro e vivace, ora non mormoravano più, ma si ergevano immobili e muti, come se non lo riconoscessero. In realtà la sua testa era rasa, non aveva più i suoi lunghi e bei capelli, la sua andatura era fiacca e il volto, in confronto all’anno avanti, era divenuto più grasso e più pallido” [II, 4, pag. 837].
Avendo perso, con il delirio, la sua capacità di “volare alto”, Kovrin ora si perde in “minuzie e meschinità”. È divenuto stizzoso, litigioso, intollerante; non fa altro che tormentare in tutti i modi moglie e suocero. Ad essi egli muove continui rimproveri:
“Perché, perché mi avete curato? I preparati al bromuro, l’ozio, i bagni caldi, la sorveglianza, la paura puerile per ogni boccone, per ogni passo: tutto questo, alla fine mi porterà all’idiozia. Ero uscito di senno, ero affetto da megalomania, però ero allegro, vivace e persino felice, ero interessante e originale. Ora sono più ragionevole e più serio, ma in cambio sono come tutti: una mediocrità, e mi annoio di vivere…” [II, 4, pag. 838].
A Tanja, Egor ed ai curanti, Kovrin rinfaccia soprattutto d’aver inaridito quella fonte d’arricchimento interiore che lo rendeva “speciale”, diverso dalle persone comuni:
“Come furono fortunati Budda e Maometto o Shakespeare che i loro buoni parenti e i dottori non li curassero delle estasi e delle ispirazioni… Se Maometto avesse preso le gocce di bromuro per i nervi, avesse lavorato solo due ore al giorno e bevuto latte, quell’uomo straordinario avrebbe lasciato dietro di sé una memoria uguale a quella del suo cane. I dottori e i buoni parenti, in fin dei conti, fanno sì che l’umanità incretinisca, che la mediocrità sia stimata genio…” [II, 4, pag. 838].
Kovrin coglie qui l’affinità tra ciò che sta alla base dell’ispirazione poetica o dell’estasi mistica dei grandi personaggi e ciò che ha prodotto, in lui, il delirio: il contatto regressivo con un oggetto arcaico idealizzato. In lui si tratta, è vero, di un “sostituto” delirante-allucinatorio di tale oggetto, non avendolo egli trovato nella realtà né nel mondo interno; tuttavia era tutto ciò che Kovrin possedeva per dare vitalità alla sua vita interiore. L’oggetto idealizzato sostitutivo è stato semplicemente soppresso, senza che al personaggio sia stata data la possibilità di trovare qualcosa di più valido. La sua protesta, quindi, è in gran parte giustificata.
-Il crollo finale – Lasciata Tanja, la rabbia cede il posto ad un’ultima fase della vita del personaggio: Kovrin, ammalatosi di tubercolosi, divenuto mansueto e tranquillo, si affida alle cure di una nuova compagna, una donna più vecchia di lui. Ambizioni e ideali l’hanno abbandonato, e la sua vita è ormai divenuta solo un’attesa della fine. Il decorso della malattia di Kovrin è simile a quello di un altro delirante della storia della letteratura: il Don Chisciotte [II, 5]. In entrambi, cessato il delirio grazie a “cure” inadeguate, l’esaltazione della follia cede il posto ad una quieta e triste rassegnazione. Sia l’animo, sia il corpo dei due personaggi perdono completamente di vigore, si spengono; la morte è inevitabile. Le loro vicende ci fanno capire il motivo del tenace attaccamento dei pazienti all’oggetto del loro delirio e la resistenza che essi oppongono a “trattamenti” il cui unico scopo è privarli di quell’oggetto. Sappiamo da tempo che il delirio è un sintomo a carattere “reintegrativo”: esso, pur rimanendo all’interno della patologia, è un tentativo di guarigione che consente il ripristino di una qualche oggettualità dopo la “disoggettivazione” psicotica iniziale [I, 7]. Tramite la regressione, il delirio consente di recuperare un contatto con l’oggetto arcaico idealizzato (o con un suo sostituto più o meno “riuscito” come tale) e sappiamo che da tale contatto dipende l’integrità psico-fisica del soggetto. Il bambino piccolo, privato a lungo dell’affetto e delle cure materne, va incontro ad una “depressione anaclitica” che comporta un coinvolgimento somatico mortale [I, 26]. Non diversa è la sorte delle persone adulte private dell’oggetto arcaico interiorizzato o di un suo sostituto: esso, all’interno della mente, continua a svolgere le stesse funzioni della mamma.
La differenza tra Kovrin e Don Chisciotte è che quest’ultimo muore confortato dalla presenza e dall’affetto di parenti e amici. Al contrario, il personaggio cecoviano si trova, da solo, a dover leggere quella lettera della moglie che lo pone di fronte all’odio della donna e, ancora una volta, alla morte e all’abbandono delle persone che egli aveva amato. È solo dal suo mondo interno che Kovrin, tramite la ricomparsa del delirio, riesce a trarre l’estrema consolazione e la forza che gli consentono d’affrontare la morte “con un sorriso beato” [II, 4, pag. 841]
IV – Trattamento: cosa curare e cosa rispettare
-Meccanismi di una cura sbagliata – Se, anziché limitarci al rilievo della scomparsa dei sintomi, prestiamo attenzione alla situazione complessiva di Kovrin dopo la “cura”, dobbiamo ammettere che questa è stata un fallimento: la mente del malato si è deteriorata, il suo organismo si è debilitato al punto di contrarre un’affezione mortale. Si ha la sensazione che si sia cercato con tutti i mezzi di far cessare il delirio, senza prestare la dovuta attenzione alle altre possibili conseguenze del trattamento. Le gocce di bromuro, la dieta a base di latte, i bagni caldi (insomma gli strumenti terapeutici del tempo) non producevano certo un effetto antipsicotico specifico, eppure hanno influenzato il decorso della malattia. Viene, perciò, da chiedersi in virtù di quali meccanismi la terapia abbia “funzionato”. La spiegazione ci viene offerta nel momento in cui, come si è visto più sopra, Kovrin si rende conto della paura che il suo delirio suscita nella moglie ed inizia a “guarire” prima ancora d’aver iniziato a curarsi. Che la propria sofferenza incontri repulsione, anziché comprensione empatica, terrorizza quest’uomo, lo fa ripiombare nell’incubo della solitudine e dell’abbandono che egli aveva vissuto fin dall’infanzia. Tutto ciò inizia a legare l’esperienza delirante ad un potente “condizionamento avversativo”; il che spinge Kovrin a distogliersi dalla visione del Monaco ed a riconoscere che la sua esperienza è stata pazzia. Dobbiamo presumere che il personaggio abbia incontrato anche nei curanti la stessa intollerante repulsione, unita al freddo distacco dell’ambiente medico, ed ecco perché la “terapia” ha fatto il suo corso. Un condizionamento avversativo simile (benché, nel caso della cura, inconsapevole) è ciò che sta alla base delle pratiche di “brain washing”; si tratta di legare l’esperienza da sopprimere a ciò che il soggetto più teme al mondo: per Winston Smith, il protagonista di “1984”, si tratta del ratto, il suo oggetto fobico [II, 7]; per Kovrin dell’isolamento e dell’abbandono. In entrambi, il terrore spinge a ripudiare e tradire la fonte prima dell’amore e dell’attaccamento alla vita: per Winston è Julia, la reincarnazione attuale dell’oggetto arcaico idealizzato, per Kovrin è il Monaco Nero, il sostituto dello stesso oggetto. Quanto alla repulsione e all’intolleranza che spingono i curanti a trattamenti inadeguati di questo genere (facendone anche parte), esse sono riconducibili ad una risposta controtransferale che sarà trattata ampiamente più sotto.
Il problema di una psichiatria concentrata sui sintomi, e cieca di fronte all’esperienza vissuta del paziente, rimane di grande attualità. Ai nostri giorni, l’intensificarsi di vertenze legali e conflitti legati all’attività terapeutica, i controlli sempre più pressanti, la conseguente esigenza dei curanti di presentare a tribunali ed amministrazioni prove “a discolpa” che abbiano il carattere indiscutibile dell’oggettività; tutto questo spinge i terapeuti ad ignorare il mondo soggettivo del paziente, favorisce una sorta di “alexitimia diagnostica” [I, 23]. Questo è anche reso possibile dall’uso di farmaci antipsicotici che, agendo direttamente sul substrato organico dei deliri e delle allucinazioni, consentono di “bypassare” l’esperienza soggettiva del malato. Si tratta di realtà che non esistevano ancora ai tempi di Cechov. Ciò che, quindi, dobbiamo chiederci è se queste nuove realtà, sovrapponendosi a quanto descritto dall’Autore, lo abbiano sottratto alla nostra osservazione.
L’azione dei farmaci antipsicotici sui sistemi monoaminergici cerebrali è sufficiente a spiegare la (apparente) scomparsa di deliri e allucinazioni? Il caso di Rosa suggerisce un’altra possibile interpretazione. Si tratta di una paziente sulla tarda cinquantina, nubile, di professione insegnante. Si presentò a chi scrive lamentando una sintomatologia apparentemente banale: astenia, affaticabilità, sporadici disturbi del sonno; sintomi precedentemente trattati con blandi antidepressivi, farmaci ipnoinducenti ed una superficiale psicoterapia “di sostegno”. Ciò che indusse il sottoscritto ad accertamenti più approfonditi fu, innanzi tutto, la presenza, tra i farmaci prescritti dal precedente terapeuta, di un pur modesto dosaggio di antipsicotici. Rosa, inoltre, insisteva perché le fossero concessi colloqui più frequenti e comunicava un intenso bisogno d’aiuto. Nel corso di alcuni mesi, la paziente iniziò a parlare sempre meno dei sintomi e sempre più della sua vita: Rosa soffriva la solitudine (non aveva amici, aveva perso i contatti coi parenti) nella stessa misura in cui soffriva la presenza intrusiva e pettegola di vicini e colleghi. Soffriva soprattutto il suo lavoro, ridotto ad un fatto “burocratico”, nel quale banalità e ripetitività avevano ucciso le ambizioni e gli ideali con cui da giovane lo aveva iniziato. Ma esisteva un’altra dimensione della sua vita di cui tardava a parlare. Sembrava come tastare prudentemente il terreno, come per capire quali potessero essere le reazioni del sottoscritto alla rivelazione di ciò che Rosa riteneva la causa della sua stanchezza. Per accenni sempre più frequenti, mi descrisse la fatica di dover combattere, ogni giorno, contro un complotto ordito per danneggiarla da una potente e misteriosa organizzazione. Ne ignorava i motivi, e questo rendeva ancor più difficile la sua lotta: ogni azione, anche la più semplice, incontrava ostacoli inattesi, creati ad arte dall’organizzazione per renderle la vita invivibile. È chiaro che l’organizzazione rappresentava per Rosa lo “xenos” che la paziente cercava di fronteggiare contrapponendo ad esso la protezione dei terapeuti. Quest’alleanza, finora, non le era riuscita, tuttavia l’organizzazione aveva “riempito” la sua vita conferendole un’importanza, pur negativa, che altrimenti le sarebbe mancata. Lo stesso sentimento di futilità della sua esistenza, che Rosa avvertiva a tratti, grazie al delirio acquistava il significato di danno procuratole intenzionalmente dai persecutori, del fatto che essi odiavano e temevano il suo valore. A questo punto, la paziente iniziò in misura crescente ad idealizzare il sottoscritto, vissuto come potente ed affidabile protettore. La fiducia accordatagli gli rese possibile il lavoro terapeutico d’individuare e sottolineare l’importanza di quanto di valido esiste nella vita di Rosa (l’amore per la cultura, l’attenzione e la sensibilità verso gli allievi), rafforzandone così l’autostima ed apportando nuovo vigore al suo mondo interno. La sintomatologia delirante, nel frattempo, s’attenuò, pur non scomparendo del tutto. Paradossalmente, Rosa interpretò in chiave delirante anche la stessa attenuazione del delirio: l’organizzazione avrebbe cessato di perseguitarla perché, sapendo che lei s’era affidata al sottoscritto, i nemici temevano che questi venisse a conoscenza dei loro atti ostili.
Il punto su cui è importante, qui, soffermarsi è il motivo per cui la sintomatologia delirante era apparentemente scomparsa prima di tornare a palesarsi nell’ultima cura. Rosa lo descrive con chiarezza, parlando del precedente terapeuta: “Era una persona simpatica; parlava volentieri con me e le sue cure [i blandi antidepressivi, i ricostituenti] mi facevano bene. Però un giorno, quando gli ho accennato ai miei guai [gli atti di persecuzione della “organizzazione”], è cambiato di colpo: i suoi occhi erano diventati cattivi, la sua voce era fredda; subito mi ha aggiunto l’Aloperidolo alla cura. Un’altra volta, in cui ero tornata sull’argomento, è successa la stessa cosa; e allora ho capito che, sui miei guai, era meglio stare zitta e parlar d’altro. Facendolo, mi ha ridotto un poco alla volta il nuovo farmaco, pur senza toglierlo del tutto, e le cose sembravano tornate come prima. Però le cure non mi facevano più bene”. Qui il “condizionamento avversativo” è consistito, al primo manifestarsi del delirio, nel privare bruscamente di simpatia e calore umano una persona che tanto soffre la solitudine; è consistito anche nel subordinare la protezione del curante, di cui Rosa ha così bisogno, all’assunzione di un farmaco antipsicotico dagli effetti soggettivi piuttosto sgradevoli. Sia che il delirio venga dissimulato, come nel caso di Rosa, sia che venga ripudiato, come in quello di Kovrin, l’effetto “collaterale” di queste terapie è di erigere una barriera tra il paziente e il curante. È esattamente l’opposto di quanto si verificò nell’ultima cura e che si rivelò effettivamente terapeutico: l’apertura di un nuovo canale di comunicazione. Attraverso di esso, fu possibile aiutare la paziente a spiegarsi e capirsi (ossia a porre sotto il controllo dell’Io la propria esperienza) e nel contempo soddisfare, in parte ed in maniera alternativa al delirio, i bisogni narcisistici di rafforzare l’autostima e d’essere partecipe delle qualità di un oggetto idealizzato.
In casi di questo genere, quindi, la risposta controtransferale di repulsione e intolleranza crea un condizionamento avversativo nei confronti del delirio. Essa è legata a (e rafforzata da) un fattore culturale: il modo in cui la mentalità corrente considera la percezione della realtà. Su questo è necessario aprire una parentesi.
-La “realtà” del terapeuta e quella del delirante – È opinione di molti che lo scopo del trattamento del delirio consista nel “riportare alla realtà” il paziente. S’intende, con questo, che, alla fine, il modo di vedere il mondo dei terapeuti (che si presumono sani) debba prevalere su quello dei malati. Ma siamo sicuri che la persona sana sia interamente aderente alla realtà? Se ciò non è vero (come chi scrive intende illustrare), il rischio è che l’alterata percezione della realtà, propria del terapeuta, s’imponga su quella del delirante, indipendentemente dalle (e in contrasto con le) esigenze interiori di quest’ultimo; ciò è l’opposto di quel che ragionevolmente possiamo considerare una cura.
Esiste un aspetto della realtà intollerabile per la maggior parte delle persone (o per tutti?): la realtà della separazione dall’oggetto arcaico; ciò accomuna sia il paziente delirante, sia molte persone sane. Quel che distingue queste ultime è che il disconoscimento della separazione, in loro, non si manifesta come vero e proprio delirio, ma come “quasi-delusion”, ossia una scissione della mente in due distinti settori in cui trovano spazio l’esame di realtà e, rispettivamente, la convinzione che se ne discosta [I, 25] – concetto, questo, che rappresenta un’estensione ad altri ambiti di quella “Ich Spaltung” individuata da Freud a proposito della sfera sessuale [I, 10] – L’impossibilità d’accettare la separazione dall’oggetto arcaico si manifesta, tramite “quasi delusion”, in almeno tre importanti aree della vita di ciascuno: nelle convinzioni religiose, nell’esperienza dell’amore e nell’atteggiamento di fronte alla morte.
L’oggetto arcaico è mantenuto in vita in almeno una delle qualità idealizzate che gli vengono attribuite; esse vengono ritrovate, in varia misura, in oggetti, persone o idee che appartengono alla vita presente. Si tratta dell’onnipotenza, della perfezione e dell’immortalità. Di queste, le prime due sono le meno necessarie. Lo si vede chiaramente nelle caratteristiche attribuite, nel corso della storia, all’immagine di Dio, immagine influenzata (o creata) dalla proiezione in una dimensione trascendente di ciò che si è creduto di percepire nell’oggetto primo d’amore. Le divinità dell’antichità non erano dotate di vera onnipotenza: il potere era distribuito tra i vari dei e questi agivano spesso in modo indipendente gli uni dagli altri e dal loro stesso padre. Sovrastava tutti, poi, il dominio di un Fato contro cui persino Zeus nulla poteva. Una vera onnipotenza sarà attribuita a Dio solo con l’avvento delle religioni monoteistiche. Quanto ad una vera perfezione, questa comparirà solo tardivamente, con l’avvento del Cristianesimo. Gli dei delle religioni politeistiche, ed anche il Dio dell’Antico Testamento – capricciosi, bizzarri, dispotici, fondamentalmente infantili – erano tutt’altro che perfetti. Solo l’immortalità, ossia la garanzia che Egli non si separerà mai da noi esseri umani, ha rappresentato costantemente la caratteristica essenziale di Dio. Ogni possibile convinzione circa l’esistenza, ma anche l’inesistenza, di un’entità sovrannaturale esprime il diniego della separazione dall’oggetto arcaico. Esso accomuna, pur con modalità opposte tra loro, sia i credenti (“l’oggetto arcaico è eterno e non ci lascerà mai, neppure dopo la morte”), sia gli atei (“l’oggetto arcaico non è mai esistito e quindi non può esserci stata, né ci sarà mai, alcuna separazione”). Quanto agli agnostici, qui il diniego riguarda l’importanza emotiva dell’esistenza o dell’inesistenza di un’entità superiore; come se potesse costituire un fatto irrilevante una convinzione (nell’uno o nell’altro senso) capace di condizionare la visione del mondo e della vita.
Nell’amore, qualcosa dell’onnipotenza originaria, si può trovare nei poteri straordinari che la persona amata esercita sul soggetto. Il paziente Dott. X soffriva di violente cefalee che limitavano fortemente le sue possibilità di lavoro ed in tutti gli altri ambiti della sua vita. Pur essendo un medico preparato, ad un certo punto trovò, per il suo male, un rimedio poco “scientifico”, ma di un’efficacia che non aveva mai conosciuto: si trattava dei bizzarri massaggi che la fidanzata (priva di conoscenze mediche) gli praticava in zona cervicale. Non dimentichiamo, poi, il potere quali “muse ispiratrici” che le donne amate (Lesbia, Beatrice, Laura) hanno sempre esercitato sulla creatività dei Poeti. Quanto alla “perfezione” originaria, se ne possono trovare tracce nell’immagine idealizzata che l’innamorato si crea della persona amata e nel sentimento d’insostituibilità che si avverte nel rapporto d’amore. Sono sentimenti destinati ad affievolirsi man mano che il rapporto evolve e che una percezione realistica del partner prende gradualmente il posto dell’immagine originaria. Per inciso, ciò non esclude che il rapporto possa, in seguito, fondarsi saldamente sulla capacità di capirsi e su interessi e progetti comuni. Tuttavia, come sostiene Proust, la Dea (o il Dio) che la persona amata era per noi originariamente, sopravvive nelle profondità dell’animo ed i lontani riflessi dei sentimenti che ci aveva suscitato continuano ad illuminare il rapporto [II, 10]. A resistere, nell’ambito di un “quasi-delusion” che ammette la contemporanea presenza del suo opposto, è un sentimento vicino a quello di “immortalità”: la certezza (avvertita e, al tempo stesso, negata) che non potremo mai lasciare, né essere lasciati. Certezza che la formula rituale cerca di limitare (“uniti finchè morte non vi separi”), ma che diventa assoluta quando costituisce un vero e proprio delirio: qui la morte, anziché come definitiva separazione, viene intesa come definitivo ricongiungimento; ciò è alla base di molti “suicidi a due” di amanti infelici e di molti omicidi-suicidi quale paradossale risposta all’abbandono.
Riguardo all’atteggiamento verso la morte, nelle persone sane un quasi-delusion assicura il mantenimento dell’equilibrio interiore: la scissione della mente in due distinti settori rende possibile l’essere consapevoli della realtà della possibile fine quanto basta per prendere le precauzioni necessarie per evitarla (o almeno per non andarcela a cercare noi stessi); nel contempo, il diniego della nostra possibilità di morire assicura una tranquillità che non sarebbe garantita in altro modo. Più in superficie, sappiamo di poter morire; sappiamo ad esempio che, in un percorso in automobile, nulla può assicurarci la certezza assoluta che non incorreremo in incidenti mortali. Ci accontentiamo di ridurre il rischio al minimo assicurandoci che la vettura sia in ordine, che stiamo rispettando le regole di prudenza, ecc.; che, insomma, il rischio cui andiamo incontro sia “calcolato”. Tuttavia non si può negare che, nel contempo, non avvertiamo il sentimento di un rischio poco probabile, ma la certezza che arriveremo incolumi alla meta. Questo quasi-delusion è facilitato dal fatto che la nostra morte non è rappresentabile [I, 6]. Allora viene da chiedersi come mai alcune persone siano tormentate dall’ossessione fobica o dal timore ipocondriaco della morte. Kohut ha dato una risposta a questo quesito riconducendo la paura (non giustificata oggettivamente) della morte a quella dell’abbandono e della solitudine [I, 15]. Si tratta di persone che hanno subìto un’esperienza traumatizzante di deprivazione del sostegno empatico altrui e che temono il ripetersi di tale eventualità.
Come sempre, la comprensione del Poeta ha anticipato di molto quella del Clinico:
“… Ove più il sole
Per me alla terra non fecondi questa
Bella d’erbe famiglia e d’animali
E quando vaghe di lusinghe innanzi
A me non danzeran l’ore future,
Né da te, dolce amico, udrò più il verso
E la mesta armonia che lo governa
…………………………………………
Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
Che distingua le mie dalle infinite
Ossa che in terra e in mar semina morte? [II, 6]
Come si vede, non una parola viene qui spesa per descrivere direttamente l’angoscia di “non esserci più”: la perdita, al contrario, riguarda tutto ciò che, nel mondo esterno, ha sostenuto e allietato la vita soggettiva del Poeta (i suoi “oggetti-sé” idealizzati) e questo è l’unico modo per potersi rappresentare, attraverso un’esperienza vissuta, quella del “non esserci più”. Un paziente, che in passato era stato in cura dal sottoscritto, nel corso di alcune settimane gli lasciò in segreteria telefonica messaggi in cui, con voce sempre più angosciata, annunciava la prossima fine della madre, poi degli altri familiari, poi degli amici. Solo più tardi si venne a sapere che chi, in realtà, aveva contratto una grave malattia ed era prossimo a morire, era lui stesso.
C’è chi sostiene che la morte è l’unica certezza; chi scrive ritiene che ce ne sia almeno una seconda: la nostra impossibilità d’accettarla; e questo in quanto il termine della vita rappresenta la definitiva separazione dall’oggetto arcaico interiorizzato e dagli oggetti-sé idealizzati che lo rappresentano nel mondo esterno. Quando tale separazione viene evitata, la fine della propria esistenza “corporea” può essere accolta senza timore. È il caso degli eroi, dei martiri e, in generale, di chi lascia tra i sopravvissuti qualcosa di sé che influenzerà potentemente la loro vita: può essere un’idea, un modello di comportamento, uno scopo idealizzato, ecc. Si tratta, comunque, di qualcosa che appartiene ad una dimensione ideale e che rimanda, pertanto, all’originario rapporto con l’oggetto arcaico idealizzato: in questi casi, il soggetto s’identifica con l’oggetto antico, o ne diviene il portavoce, e rimane, come tale, unito a chi sopravvive.
Spesso il terapeuta non è consapevole del proprio “quasi-delusion” e dell’inevitabilità, per la maggior parte delle persone, di nutrire una “doppia convinzione” dello stesso genere, anche se diversa da individuo a individuo e diversa da quella del curante. Questo alimenta, nei confronti del delirio, un’intolleranza influenzata anche da fattori culturali. La mentalità comune – in misura e modi diversi nelle varie culture ed epoche storiche – possiede concezioni non realistiche, ingiunzioni di condividerle, divieti di contrastarle; oppure, nelle culture più evolute, aperture verso convinzioni differenti. Tutto ciò viene interiorizzato, nella mente di ciascuno, nell’istanza superegoica. Symington, al riguardo, cita la fondamentale osservazione di Talcott Parsons:
“… il ruolo del Superio, quale parte della struttura della personalità, dev’essere inteso come relazione tra la personalità e la cultura dominante nel suo complesso. Tramite esso, diviene possibile uno stabile sistema d’interazione sociale. Freud pose correttamente l’accento sui valori morali di cui il Superio è il depositario, ma la sua concezione fu troppo ristretta: non solo i valori morali, ma tutte le componenti della cultura condivisa sono interiorizzate come parte della struttura della personalità…” [I, 27, pag. 287].
Nell’incontro di terapeuta e paziente, si stabilisce un “campo interpersonale” (altrimenti definito come “personalità congiunta” o “condivisa” [I, 27]) come risultato della fusione di una parte di ciascuna delle due personalità. Il contatto della soggettività del curante con quella del malato – più esattamente, delle aree della personalità di ciascuno che sono non condivise, personali ed individuali – può essere ostacolato o favorito da una “istanza superegoica condivisa”, che fa parte della dimensione intersoggettiva, ed i cui divieti, ingiunzioni o sollecitazioni (mutuati in gran parte dalla cultura dominante) possono impedire o facilitare la comunicazione e la reciproca comprensione. Nel Superio si stratificano diverse componenti con differenti gradi di evoluzione: quelle più primitive tendono a soffocare sentimenti e pensieri spontanei e ad imporre quelli dominanti nel gruppo di appartenenza; viceversa, le componenti più evolute svolgono una funzione di sostegno al sentimento di sé ed alla libera attività dell’Io, essendo il prodotto dell’interiorizzazione di tutto ciò che, nei genitori e nella cultura di appartenenza, favorì la nascita, la valorizzazione e l’evoluzione di un individuo separato [I, 19]. Tutto ciò può tradursi in capacità di comprensione empatica, oppure intolleranza, nei confronti del delirante, a seconda del maggiore o minore grado di consapevolezza e di libertà interiore acquisite dal terapeuta. Nei casi peggiori, prevale la convinzione che “riportare il paziente alla realtà” (la “realtà” così come concepita dall’opinione dominante o da quella personale del terapeuta) sia l’unico scopo del trattamento del delirio; e questo adottando strumenti e strategie che non possono essere considerati terapeutici. Il curante, in queste situazioni, rivela la stessa intolleranza ed assenza d’empatia che appartengono al delirante.
-Aspetti fenomenici-sintomatologici ed esperienza vissuta del delirio – L’ossequio all’imperativo di riportare il delirante alla “realtà”, ignorando la funzione che il delirio svolge all’interno della vita interiore, è in rapporto alla “alexitimia diagnostica” [I, 22] cui si accennava più sopra. L’assenza, nel terapeuta, di contatto con le proprie emozioni e con quelle del paziente, l’attenzione rivolta unicamente ai “dati oggettivamente rilevabili” (le dichiarazioni del malato circa quel che prova, il suo comportamento, la testimonianza dei parenti); tutto questo impedisce di capire il mondo interno della persona sofferente; di comprendere, ad esempio, che se il paziente oppone resistenza al trattamento, ciò non è espressione della sua “follia”, ma dello sforzo disperato di difendere l’unica forma d’equilibrio interiore di cui, in quel momento, egli è capace.
Romolo Rossi, che pure fu tra i promotori dell’introduzione del DSM nel nostro paese, lo considera un valido strumento di comunicazione, ma ne sconsiglia un uso clinico [I, 23]. Nel manuale, vengono individuate le entità nosografiche sulla base dell’associazione, con frequenza statisticamente significativa, di “dati osservabili”, ossia principalmente sintomi. Si prescinde deliberatamente da ogni forma di teoria etiologica e psicopatologica, perché ciò favorisce la comunicazione tra operatori di diverso orientamento. Tuttavia quel che si nota – ed in misura crescente nelle ultime edizioni – è che i “dati osservabili” coincidono sempre più con i fatti “oggettivamente” rilevabili. Come se fatti soggettivi – uno stato d’animo, una motivazione interiore del paziente – rilevabili dal clinico tramite la propria capacità di comprensione empatica, non fossero “dati osservabili”, ma illazioni teoriche. Questo significa negare l’esistenza dell’empatia, ossia dell’unico strumento d’indagine che ci consente di cogliere gli avvenimenti della vita interiore del paziente. L’empatia si avvale, è vero, dei dati oggettivi osservabili, ma opera su di essi una sintesi non riconducibile ad una semplice somma dei dati stessi; molti di essi, oltre al resto, sono oggetto di percezioni “subliminali”. Se ci dimentichiamo che una persona ha un’anima, possiamo meticolosamente descrivere, ad esempio, un fenomeno caratterizzato da secrezione delle ghiandole lacrimali, singulti, particolari atteggiamenti mimici. Tuttavia è solo l’empatia che ci permette di definire tale fenomeno come “pianto”, cogliendone anche le varie possibili sfumature (pianto di dispiacere, di commozione, di rabbia, ecc.): non si tratta di una forma di conoscenza esclusivamente fondata su dati percettivi, ma di una comprensione “per causas” [G. B. Vico citato in I, 27] che ci consente, ricordando i motivi di un nostro comportamento simile a quello cui stiamo assistendo, di “metterci nei panni” della persona osservata.
Si riportano, qui sotto, i criteri diagnostici del DSM-5 su due importanti affezioni deliranti:
I – Disturbo Psicotico Breve
A. Presenza di uno (o più) dei seguenti sintomi. Almeno uno di essi deve essere 1, 2 o 3:
- Deliri
- Allucinazioni
- Eloquio disorganizzato (ad es. frequenti deragliamenti o incoerenza ideativa)
- Comportamento fortemente disorganizzato o catatonico
B. La durata di un episodio del disturbo è di almeno un giorno, ma meno di un mese, con ritorno finale al livello premorboso di funzionamento
C. L’affezione non è meglio interpretabile come Disturbo Depressivo o Bipolare con caratteristiche psicotiche o come un altro disturbo psicotico come Schizofrenia o Catatonia, e non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o ad altra condizione medica [I, 1, pag. 94].
II – Disturbo Delirante
A. Presenza di uno (o più) deliri della durata di 1 mese o più
B. Il criterio A per la Schizofrenia [fase attiva della malattia] non è mai applicabile
Nota: allucinazioni, se presenti, non sono rilevanti e sono legate alla tematica delirante
C. Se si escludono le conseguenze del delirio o le sue implicazioni, il funzionamento mentale non è mai notevolmente danneggiato ed il comportamento mai palesemente bizzarro o strano
D. Se si verifica un episodio depressivo maggiore o maniacale, essi sono stati brevi rispetto alla durata dei periodi deliranti
E. Il disturbo non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o ad altra condizione medica e non è meglio spiegato da altri disturbi mentali, come Disturbo da dimorfismo o Disturbo Ossessivo-Compulsivo [I, 1, pag. 90].
Riguardo alla diagnosi differenziale tra Disturbo Psicotico Breve ed altre affezioni psicotiche, il DSM-5 ci avverte che essa “…è difficile quando si è verificata una remissione dei sintomi psicotici prima di 1 mese in risposta ad efficace trattamento con farmaci” [I, 1, pag. 96]. In altre parole, l’unico criterio distintivo considerato è un “fatto oggettivamente rilevabile”, ossia la durata. Ciò vale, in particolare, per la diagnosi differenziale tra Disturbo Delirante e Disturbo Psicotico Breve quando il sintomo prevalente di quest’ultimo è il delirio. Tuttavia, se si utilizza lo strumento d’indagine ignorato nel DSM-5, ossia l’empatia, possiamo rilevare fatti soggettivi che ci consentono una diagnosi differenziale precoce (senza che ci sia la necessità d’attendere passivamente 1 mese) tra due tipi di affezione delirante, strutturalmente diversi, che richiedono trattamenti specifici differenti; trattamenti che, se iniziati subito, potranno essere più efficaci. Come sarà illustrato ampiamente più sotto, il Disturbo Psicotico Breve (corrispondente, in termini più tradizionali, alla Bouffée Delirante isolata o ad un episodio di Psicosi Delirante Acuta Recidivante) il più spesso è caratterizzato dalla regressione ed è strutturalmente simile al sogno. Al contrario, il Disturbo Delirante (corrispondente alla Paranoia), definito come “delirio più propriamente psicotico”, è più frequentemente caratterizzato dalla “neoformazione delirante” dell’oggetto anziché dalla regressione [I, 13, pag. 748]. Quanto alla “completa remissione dei sintomi in risposta ad efficace trattamento con farmaci”, in questa frase è sottolineato, ancora una volta, che nel DSM-5 si considera “efficace” un trattamento per il solo fatto di far scomparire i sintomi e non di produrre un miglioramento globale nelle condizioni del paziente. A giudizio di chi scrive, inoltre, non può essere considerato “efficace” un trattamento che sopprime un’espressione di sofferenza prima che si sia iniziato a capire il suo significato e ad aiutare il paziente a sanare questa sofferenza.
-Deliri strutturalmente affini al sogno – Un esempio clinico di Disturbo Psicotico Breve: il caso di Mario. Chi scrive conobbe questo paziente in occasione di una consulenza nel reparto ospedaliero in cui Mario si trovava ricoverato per una grave neoplasia. Sulla base di una personalità di per sé incline alla sospettosità e alla collera, il paziente aveva rapidamente sviluppato una sintomatologia delirante con tematiche di persecuzione (un complotto ai suoi danni, con lo scopo d’ucciderlo, cui avrebbero partecipato i familiari, oltre che i medici ed il personale del reparto) e manifestato aggressività, espressa verbalmente a più d’una persona. Pochi colloqui quotidiani, facilitati da un contenimento della sintomatologia prodotto da basse dosi di antipsicotici, furono sufficienti a fargli riacquistare il controllo delle sue emozioni e dell’intera situazione. Fu decisivo il riconoscimento che, benché il sottoscritto respingesse le specifiche accuse rivolte anche alla sua persona, era certo che Mario aveva i suoi buoni motivi per essere irritato con tutti noi. L’impegno a cercare di capire con lui le ragioni del suo malessere soggettivo produsse presto buoni frutti: fu chiaro che Mario non aveva tollerato che gli si nascondesse la verità sulla sua malattia. Da sempre aveva cercato di tenersi lontano da ogni forma di dipendenza passiva e, quando ciò gli era inevitabile, voleva almeno conoscere che cosa stava succedendo ed, attraverso questo, capire se la sua fiducia nelle persone di cui aveva bisogno era ben riposta. Riuscì a reggere molto bene alla notizia delle sue gravi condizioni fisiche, affermando con fierezza d’essere disposto a combattere fino in fondo per la sopravvivenza, ma, nello stesso tempo, di voler essere lui stesso a dare disposizioni su quanto lasciava in eredità e su altre questioni, nel caso avesse perso la sua battaglia contro la morte.
Come in molte affezioni deliranti, anche nel caso di Mario c’è una fase iniziale di intenso sconvolgimento: la neoplasia ha fatto ripiombare quest’uomo in quella condizione di dipendenza passiva che egli ha sempre temuto. In più, Mario è stato anche privato della possibilità d’esercitare un minimo di controllo sulla situazione, conoscendola. In queste condizioni, l’integrità della sua vita soggettiva è fortemente minacciata. Le funzioni riequilibratrici della sua mente non reggono all’impatto delle tensioni emotive; l’attività onirica della veglia, dovendo concentrarsi sul compito di ripristinare l’integrità interiore, cessa di proteggere l’esame di realtà e diviene cosciente. Dapprima Mario vive un incubo: cerca, in chi gli sta intorno, qualcuno che lo aiuti a recuperare il controllo sulla situazione, ma trova solo freddezza ed atteggiamenti elusivi. Come un bambino smarrito alla ricerca disperata del viso familiare della mamma, trova solo volti estranei, non comprensivi, e questi gli appaiono come terribili nemici. Il male che egli sente arrecato alla sua vita soggettiva, grazie alla trascrizione simbolica, diviene minaccia alla sua sopravvivenza fisica. Tuttavia Mario, tramite la regressione, riesce a ritrovare in se stesso le tracce di un antico rapporto che, a suo tempo, seppe confortarlo ed aiutarlo ad essere padrone di sé. Ciò rende possibile quella traslazione positiva sul sottoscritto che gli consente d’uscire dall’incubo e recuperare il suo equilibrio interiore.
Nel delirio di Mario sono evidenti aspetti affini al sogno: la “drammatizzazione”, ossia la messa in scena di quanto accade nel suo mondo interno, lo spostamento, la trascrizione simbolica e soprattutto la regressione. Questa gli consente di ritrovare in sé l’eredità di un valido rapporto con un oggetto arcaico idealizzato che, assumendo le sembianze del sottoscritto grazie alla traslazione, torna a “dargli in prestito” le proprie funzioni riequilibratrici e successivamente lo aiuta a ripristinare in lui queste stesse funzioni.
Nel caso di Mario, la regressione gli consente di ritrovare in sé un oggetto arcaico intatto; in altri casi, si tratta di un oggetto parzialmente danneggiato, e qui l’intervento terapeutico può favorire gli sforzi del paziente di ripristinarne l’integrità. Ciò può avvenire suggerendo, più che vere e proprie interpretazioni, “fantasie progressive” [I, 2] con cui si introducono elementi riparativi nell’elaborazione mentale del paziente. Si tratta di un’interazione che ricorda il “gioco” d’inventare insieme una storia, come avveniva tra J. Barrie e i suoi piccoli amici nella creazione delle vicende di Peter Pan [II, 3]. In altri casi, trattati qui sotto, non si può contare sulla regressione ai fini terapeutici, e la strategia della cura deve essere differente.
-Deliri più propriamente psicotici – La psicosi di Lucia esordì con una sintomatologia acuta di tipo schizofreniforme (spunti deliranti non sistematizzati, allucinazioni frammentarie, confusione) accompagnata da uno stato d’esaltazione emotiva; quadro sintomatologico che, a seguito di trattamento con antipsicotici (Aloperidolo, in quel periodo) cedette il posto ad una fase di depressione. La successione delle due fasi si ripeté, ad intervalli sempre più brevi, e si resero necessari numerosi ricoveri. Il disturbo, correttamente diagnosticato come Schizoaffettivo, fu scatenato da una disavventura sentimentale che non si riuscì mai a ricostruire con esattezza. Esso sconvolse completamente la vita di questa donna, allora 33enne, che fino a quel momento pareva equilibrata e dotata di valide risorse. Lucia svolgeva la funzione di dirigente in un’azienda pubblica, era molto apprezzata per la sua competenza, socievole, colta, ricca d’interessi e d’iniziative. L’unica carenza, nella sua vita, era segnalata dall’assenza di legami sentimentali: si era istintivamente tenuta lontana dall’amore, come intuendo i pericoli che quest’esperienza avrebbe comportato per lei. Fu qualche tempo dopo l’esordio della malattia che il sottoscritto iniziò a seguirla, dapprima in modo frammentario (Lucia doveva interrompere la cura ambulatoriale per i frequenti ricoveri), successivamente con maggiore continuità; ciò fu possibile quando si trovò l’unico trattamento farmacologico cui la paziente rispondeva in modo adeguato: nel suo caso, Clozapina associata a timoregolatori. Lucia viveva con sollievo il ritorno alla realtà favorito dai farmaci: per lei era come destarsi da un incubo. Si sarebbe detto che il suo caso era differente da quello paradigmatico di Kovrin, se non fosse per ciò che la paziente rivelò nel corso dei colloqui clinici (accettò d’incontrarsi regolarmente col sottoscritto due volte la settimana). Lucia aveva acquisito una sorta di “doppio registro”: aderente, anche da un punto di vista affettivo, alla realtà, tuttavia una parte di lei sembrava come vivere in un mondo separato, fatto di macchinazioni al centro delle quali c’era la sua persona. I due mondi, quello della realtà e quello del delirio, sembravano convivere in lei, senza influenzarsi a vicenda riguardo ai contenuti, tuttavia stabilizzandosi reciprocamente. Di tanto in tanto incontrava qualcuno che assomigliava a un uomo o a una donna con cui aveva avuto a che fare nel passato, e per Lucia diventavano senz’altro la stessa persona. Costui o costei l’avevano seguita per influenzare, in diversi modi, il suo modo di vivere. Non si trattava quasi mai d’influenze ispirate a fini persecutori: in un caso, colui che aveva identificato con un suo collega del passato le lanciava segnali per far capire a Lucia che era meglio, per lei, andare a vivere in un pensionato piuttosto che restare da sola nel suo appartamento. In un’altra circostanza un’amica, misteriosamente ricomparsa, le testimoniava con gesti allusivi che si sarebbe trovata meglio nella mansione d’impiegata piuttosto che di dirigente. In altri casi ancora, si trattava di semplici controlli che tutto stesse procedendo bene. Quel che c’era d’inquietante per Lucia, in questi incontri, era che non era mai chiaro il motivo per cui tutte quelle persone s’interessavano a lei e quale poteva essere lo scopo ultimo che si prefiggevano. Se il sottoscritto provava, con cautela, a interrogarla in proposito, la risposta immancabile di Lucia era: “Non lo so; dovrei chiederlo a loro, ma non oso”. Nella paziente una “xenopatia” [I, 13, pag. 756] – ossia un delirio sistematizzato riguardante influenze esterne per scopi sconosciuti – aveva preso il posto degli spunti deliranti slegati e delle allucinazioni frammentarie della fase acuta della malattia. Il settore psicotico della sua personalità vi trovava un’espressione più coerente, più facilmente delimitabile rispetto al mondo della realtà: esistevano un luogo e una persona che l’aiutavano a salvaguardare i confini tra le due dimensioni, ossia l’ambulatorio psichiatrico, dove poteva parlare liberamente e lasciar spazio al mondo del delirio, ed il sottoscritto, che l’avrebbe aiutata – offrendole un sostegno psicologico, correggendole il suo innato pessimismo, confermandole il valore delle sue buone qualità e prescrivendole farmaci appropriati – a ritornare al mondo reale. L’analogia tra Lucia e Kovrin è che entrambi trovano, in una neocreazione delirante, un sostituto dell’oggetto arcaico mancante. La differenza è che Kovrin riesce a creare un oggetto idealizzato (benché un fantasma, prodotto di un’idealizzazione “sine materia”) che per qualche tempo restituisce vigore, oltre che coesione, alla sua vita soggettiva. Lucia, al contrario, riesce soltanto a riorganizzare il “caos pre-psicologico” in cui era caduta nelle fasi acute e a far assumere ai suoi vissuti psicotici la fisionomia più coerente di una serie di “xenoi” incomprensibili cui la paziente contrappone, con l’aiuto del sottoscritto, l’esame di realtà. In termini bioniani, “protoemozioni” e “protopensieri” (“elementi beta”) inizialmente evacuati, grazie all’azione parziale di una funzione alfa difettosa si organizzano acquistando la fisionomia di uno o più oggetti deliranti: gli “xenoi”. Essi acquisiscono sembianze umane, ma rimangono tuttavia estranei e incomprensibili, essendo costruiti con parti dello psichismo della paziente che sono state sottratte all’integrazione mentale [I, 13, pag. 756]. Si tratta dell’appagamento del bisogno narcisistico d’essere “rispecchiata” e protetta; appagamento non riconosciuto come frutto di una propria richiesta, ma attribuito ad iniziative dell’oggetto delirante e divenuto, perciò, estraneo e incomprensibile.
In questi pazienti, a differenza di quanto accade a Kovrin, il ritorno (parziale) alla realtà è vissuto con sollievo. Tuttavia, in perfetta analogia con le vicende del personaggio cecoviano, è l’instaurarsi di un delirio che restituisce ordine alla vita soggettiva. In questi casi, non si può parlare di un “transfert terapeutico” propriamente detto: non c’è traslazione sulla figura del terapeuta di sentimenti o pulsioni originariamente diretti ad un oggetto antico perché, nel mondo interno di queste persone, l’eredità di tale oggetto è stata sostituita da una neocreazione delirante. Contrapposto a tale neocreazione, il terapeuta appartiene interamente alla realtà e con la realtà egli è incaricato di farsi tramite. In questo ruolo, egli può rafforzare la funzione difensiva dell’esame di realtà che consente al paziente, “aggrappandosi” al mondo esterno, di non essere completamente risucchiato da quello delirante dello “xenos” o, peggio, dal caos pre-psicologico che permane in una parte della sua personalità. In alcuni pazienti, tuttavia, è possibile che una neocreazione delirante coesista con la possibilità di una traslazione narcisistica sulla persona reale del terapeuta: ad esempio, nel caso di Rosa trattato più sopra.
Quanto al contenuto del delirio, è assolutamente necessario che il terapeuta, nei suoi commenti, si attenga a quanto avvertito e comunicato dal paziente. Se egli vi aggiunge qualcosa che il malato ignora – qualcosa che può essere tratto soltanto da un sapere libresco, oppure da conoscenze acquisite trattando altri malati e male applicate al caso in questione – il paziente vedrà, in questo, il segno dell’appartenenza del curante al mondo dello “xenos” e la conseguenza immediata può essere la rottura del rapporto terapeutico [I, 13, pag. 758, 759].
Usando una metafora religiosa, si può dire che i pazienti come Lucia, in assenza di un Padre Eterno che dia alla loro vita soggettiva un ordine ed un valore (positivo o negativo), inventano un “Dio Sconosciuto” imperscrutabile e inquietante cui, in parte, si sottomettono. Altri, più simili a Kovrin, inventano un Dio pietoso e protettivo che, benché in modo imperfetto, svolge le stesse funzioni dell’oggetto arcaico idealizzato di cui essi si sentono privi. È il caso di Nicola, di cui ho già trattato altrove [I, 19]. Questo paziente, affetto da Disturbo Bipolare dell’Umore, nelle fasi normotimiche trovava un sostegno alla propria vita soggettiva in fantasie di tipo pedofilo. In esse, Nicola s’identificava con quel genitore idealizzato (protettivo, affettuoso, disponibile ad un rapporto privilegiato) che, nella realtà, egli non aveva mai posseduto; o, meglio, s’identificava con un genitore immaginario dotato di caratteristiche opposte a quelle dei suoi genitori reali e, nei sogni, egli ne godeva l’affetto proiettandosi nel bambino. In fase maniacale comparve un delirio di grandezza a sfondo mistico. In esso, la grandiosità, “assoluta” ed estesa a tutta la sua vita, dell’essere il “prescelto da Dio” (essere il bambino amato in modo esclusivo e grandemente stimato dal genitore arcaico idealizzato) gli era parsa sanare l’antica ferita narcisistica, rendendo non più necessario il ricorso alla sessualità perversa.
Il compito terapeutico, in questo tipo di delirio, è quello di rafforzare l’esame di realtà come difesa dall’attrazione eccessiva che esercita l’oggetto delirante. Ciò protegge il paziente dalle influenze negative che il delirio può esercitare su quanto nella realtà esterna (famiglia, lavoro, rapporti sociali) sostiene il settore sano della sua personalità. Occorre, tuttavia, non dimenticare che per il malato esiste un altro sostegno indispensabile: quello offerto dall’oggetto arcaico idealizzato ed interiorizzato o, in sua assenza, dalla neocreazione delirante che lo sostituisce. Questo è quanto, nel mondo interno del paziente, occorre rispettare e proteggere. Quando il delirio rappresenta, per il malato, l’unico modo per sottrarsi al “caos pre-psicologico” della disgregazione schizofrenica, l’obbiettivo terapeutico è di rafforzare, in parte, le difese e consolidare il formarsi di un “doppio registro” vicino al “quasi-delusion” delle persone più sane. A tale obbiettivo va subordinato anche l’uso di farmaci antipsicotici: se il tipo e la posologia di questi medicamenti consentono di rafforzare l’esame di realtà senza sopprimere la neocreazione delirante, essi costituiscono un ausilio prezioso al trattamento del delirio. Al contrario, se lo scopo dell’impiego dei farmaci è quello di costringere il malato ad “abiurare il suo Dio”, ossia rinunciare completamente all’oggetto delirante, ciò si pone al servizio dell’intolleranza collettiva e non di obbiettivi terapeutici. Non dimentichiamo che si tratta degli stessi farmaci utilizzati nei regimi politici autoritari per “piegare” i dissidenti.
Anche nelle affezioni deliranti di questo secondo tipo, è bene non perdere di vista la possibilità di obbiettivi terapeutici più ambiziosi. Questi deliri, infatti, possono entrare in crisi. Ciò avviene più frequentemente quando essi sono associati ad un Disturbo dell’Umore (come nel caso di Nicola) o, comunque, quando nel quadro clinico esiste una rilevante componente timica (come in Kovrin). In queste circostanze, il paziente si apre al mondo esterno; oppure possono comparire deliri strutturalmente simili a quelli del primo tipo, affini al sogno, e come tali trattabili. Sebbene più raramente, la stessa cosa può verificarsi anche in affezioni croniche come la Schizofrenia o la Paranoia. Qui manifestazioni deliranti-allucinatorie di tipo onirico, soprattutto nelle fasi acute della malattia, sono spesso interpretabili come tentativi di rompere col funzionamento psicotico abituale [I, 13, pag. 750]. In questi casi, è probabile che il paziente, per il tramite della regressione, abbia raggiunto qualche residuo di un autentico rapporto con un oggetto arcaico idealizzato e, sulla base di ciò, possa sviluppare una traslazione narcisistica utilizzabile a scopi terapeutici. Anche qui, l’obbiettivo della cura non è quello di sopprimere la neocreazione delirante, ma di aiutare il paziente a sostituirla, con la gradualità che gli occorre, con un oggetto idealizzato più efficiente nel soddisfare i suoi bisogni narcisistici.
V – Considerazioni conclusive
All’estremo opposto rispetto all’impostazione fin qui descritta è la “neurologia con sintomi psichiatrici”, ritenuta da Romolo Rossi come “la fine della Psichiatria” [I, 22, pag. 15]. Essa considera la mente come un epifenomeno inerte, incapace di retroagire sul suo substrato organico. La conoscenza della sfera soggettiva, perciò, è ritenuta priva d’interesse ai fini del trattamento di ciò che è alla base dei disturbi psichici. Si potrebbe definire una “psichiatria senza psiche”. Se non si vuole cadere in questo tipo d’aberrazione, è necessario porre al centro della cura la vita interiore del paziente, ed è questo il principale concetto che qui si è voluto affermare. Si riassumono, qui sotto, gli aspetti più importanti di un trattamento del delirio coerente con tale concetto; aspetti che sono stati esposti in questo scritto e che verranno confrontati con l’impostazione della “neurologia dei sintomi psichiatrici”.
Riguardo, innanzi tutto, al recupero dell’esame di realtà e delle capacità d’adattamento, si è detto che ciò può costituire un importante obbiettivo terapeutico solo a condizione che, nello stesso tempo, siano rispettate le esigenze interiori del paziente. Un recuperato contatto col mondo esterno diviene accettabile e gratificante per il soggetto solo se egli, col sostegno terapeutico, vi trova la possibilità di realizzare il proprio “progetto nucleare”, inscritto nel suo Sé Nucleare e specifico per ogni persona. Perché questo avvenga, è necessario che il paziente mantenga (o recuperi) un contatto con un oggetto arcaico idealizzato o con un suo sostituto – sia che questo appartenga al mondo reale, sia che venga prodotto dal suo delirio – perché ciò garantisce l’integrità della sua vita soggettiva ed un contatto con il Sé Nucleare. Viene così preservata la principale fonte d’arricchimento interiore e ciò può assicurare una vita vissuta pienamente e coerente con le inclinazioni individuali di questa persona. Su tutto questo, la “neurologia dei sintomi psichiatrici” dà semplicemente un colpo di spugna, considerando unicamente l’obbiettivo della recuperata aderenza “normale” alla “realtà” e ignorando le esigenze interiori di chi si dovrebbe curare.
Per quanto riguarda la risposta controtransferale del curante, si è qui sostenuto che, se questi non è interiormente libero e conscio dei propri limiti, egli può involontariamente imporre al malato i propri “quasi delusions” e quelli che fanno parte della cultura d’appartenenza. Ciò avviene, talora brutalmente, tramite inconsapevoli condizionamenti avversativi che “puniscono” le manifestazioni deliranti con la freddezza degli atteggiamenti verso il malato e con la somministrazione forzata di farmaci dagli effetti soggettivi sgradevoli. La Psicofarmacologia sperimentale dovrebbe tener conto di questo tipo di meccanismo, specialmente quando la risposta ai medicamenti avviene in tempi e modi diversi rispetto a quelli previsti dall’azione dei farmaci sui sistemi monoaminergici cerebrali. Si pensi a quanto avviene nei reparti ospedalieri, dove i tempi di degenza e quelli d’effettivo contatto col paziente sono ridotti al minimo. Qui, ad ogni manifestazione del delirio, si risponde con la somministrazione di antipsicotici ai cui inevitabili effetti collaterali il paziente spesso non è preparato. Il condizionamento operato dalla comparsa di questi – le discinesie, i sintomi parkinsoniani, l’acatisia o, forse più ancora, l’inerzia psicomotoria – induce il malato a rinunciare ad esprimere le proprie convinzioni deliranti, o anche a pensarle; ciò può avvenire prima della (e indipendentemente dalla) comparsa del vero e proprio effetto antipsicotico dei medicamenti. Il paziente, per tentativi, arriva a comprendere che cosa si vuole che lui dica, o pensi, perché lo si giudichi “migliorato” e gli si riduca la posologia dei farmaci, ed in questo modo gli vengono imposte le convinzioni ritenute “normali”.
Delle tre caratteristiche che, secondo Jaspers, definiscono il delirio – certezza assoluta, impermeabilità alle confutazioni stringenti o all’esperienza concreta, impossibilità del contenuto, ossia inverosimiglianza [I, 12, pag. 103] – si ritiene comunemente che l’ultima non appartenga a tutti i casi: il paranoico, nel suo delirio (di gelosia, o di persecuzione, o erotomanico), ci descrive eventi verosimili, anche se non veri; inoltre, ciò che è ritenuto poco credibile in una cultura o in un’epoca storica, in altre è considerato del tutto verosimile. Se, poi, consideriamo la realtà interiore come altrettanto “vera” quanto lo è quella oggettiva, la validità di questo criterio jaspersiano cade completamente: non solo è verosimile che la persona amata tradisca, o che qualcuno perseguiti o ami segretamente il soggetto, come sostiene il paranoico; lo è altrettanto che, nel suo mondo interno, un Monaco Nero lo conforti e lo incoraggi. Solo se il terapeuta si libera del pregiudizio contro ciò che non è “oggettivamente possibile”, egli può accorgersi che lui ed il paziente vivono immersi in due realtà parallele: quella del mondo esterno e quella della vita interiore. Il “neurologo dei sintomi psichiatrici” ignora ciò che le facoltà introspettivo-empatiche potrebbero suggerirgli a proposito del mondo interno proprio e del paziente; ignora, quindi, che il discostarsi, almeno in parte, dalla realtà oggettiva è inevitabile per la maggior parte delle persone, anche per lui stesso. Ciò fa sì che, di fronte a convinzioni che la mentalità comune ritiene “inverosimili”, lo “psichiatra senza psiche” sia incapace di comprendere le ragioni del paziente. Egli, perciò, assume la stessa posizione di rigida intolleranza e d’impermeabilità alle ragioni altrui che è propria del delirio. Considerando unicamente il dato oggettivo delle dichiarazioni del delirante, la sua unica preoccupazione è di “correggerle”. Ciò facendo, egli finisce per imporre al paziente nuove convinzioni più “verosimili”, ma altrettanto inflessibili e refrattarie alla critica quanto lo sono le sue. Cambiano i contenuti, ma ciò che è più sicuramente patologico nel delirio resta, di fatto, immodificato: la rigidità interiore, l’incapacità di tollerare il dubbio e di aprirsi a nuove ipotesi, ossia la mancanza dei presupposti emotivi di un’autentica aderenza alla realtà, sia quella oggettiva, sia quella del mondo interno.
Queste ultime considerazioni rimandano ad un altro argomento trattato in questo scritto: le difficoltà d’entrare in sintonia con il delirante. Se, quale oggetto della cura, la dimensione soggettiva del paziente ha una posizione centrale, la stessa importanza, tra gli strumenti d’indagine, spetta all’empatia, ossia all’unico modo adeguato per accedere al mondo interno di un’altra persona. Come si è visto più sopra, questa facoltà, pur utilizzata da tutti gli esseri umani, è completamente ignorata dalla “neurologia dei sintomi psichiatrici” e dal DSM-5. Tuttavia i limiti personali del curante, come pure quelli dell’ambiente culturale cui terapeuta e paziente appartengono, creano seri ostacoli alla possibilità di una comprensione empatica in tutti noi, e non solo agli “psichiatri senza psiche”. Quello d’entrare in sintonia, senza delirare, con chi delira è un compito difficile per tutti. L’obbiettivo più arduo da raggiungersi, confrontandosi con le peculiarità di ciascun paziente, è quello di riconoscere (e riconoscersi in) ciò che accomuna il delirante e la maggior parte della persone sane: l’impossibilità d’elaborare completamente il lutto riguardo all’oggetto arcaico, al di là delle innumerevoli forme esteriori con cui essa può manifestarsi. Ciò pone un problema esistenziale angosciante, non risolvibile e perciò difficile da riconoscere: il dover accettare l’inevitabilità della perdita di un oggetto d’amore irrinunciabile, il continuo dibattersi dell’essere umano tra una separazione impossibile ed un ricongiungimento che non potrà mai più avvenire.
C. L’affezione non è meglio interpretabile come Disturbo Depressivo o Bipolare con caratteristiche psicotiche o come un altro disturbo psicotico come Schizofrenia o Catatonia, e non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o ad altra condizione medica [I, 1, pag. 94].
II – Disturbo Delirante
A. Presenza di uno (o più) deliri della durata di 1 mese o più
B. Il criterio A per la Schizofrenia [fase attiva della malattia] non è mai applicabile
Nota: allucinazioni, se presenti, non sono rilevanti e sono legate alla tematica delirante
C. Se si escludono le conseguenze del delirio o le sue implicazioni, il funzionamento mentale non è mai notevolmente danneggiato ed il comportamento mai palesemente bizzarro o strano
D. Se si verifica un episodio depressivo maggiore o maniacale, essi sono stati brevi rispetto alla durata dei periodi deliranti
E. Il disturbo non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o ad altra condizione medica e non è meglio spiegato da altri disturbi mentali, come Disturbo da dimorfismo o Disturbo Ossessivo-Compulsivo [I, 1, pag. 90].
Riguardo alla diagnosi differenziale tra Disturbo Psicotico Breve ed altre affezioni psicotiche, il DSM-5 ci avverte che essa “…è difficile quando si è verificata una remissione dei sintomi psicotici prima di 1 mese in risposta ad efficace trattamento con farmaci” [I, 1, pag. 96]. In altre parole, l’unico criterio distintivo considerato è un “fatto oggettivamente rilevabile”, ossia la durata. Ciò vale, in particolare, per la diagnosi differenziale tra Disturbo Delirante e Disturbo Psicotico Breve quando il sintomo prevalente di quest’ultimo è il delirio. Tuttavia, se si utilizza lo strumento d’indagine ignorato nel DSM-5, ossia l’empatia, possiamo rilevare fatti soggettivi che ci consentono una diagnosi differenziale precoce (senza che ci sia la necessità d’attendere passivamente 1 mese) tra due tipi di affezione delirante, strutturalmente diversi, che richiedono trattamenti specifici differenti; trattamenti che, se iniziati subito, potranno essere più efficaci. Come sarà illustrato ampiamente più sotto, il Disturbo Psicotico Breve (corrispondente, in termini più tradizionali, alla Bouffée Delirante isolata o ad un episodio di Psicosi Delirante Acuta Recidivante) il più spesso è caratterizzato dalla regressione ed è strutturalmente simile al sogno. Al contrario, il Disturbo Delirante (corrispondente alla Paranoia), definito come “delirio più propriamente psicotico”, è più frequentemente caratterizzato dalla “neoformazione delirante” dell’oggetto anziché dalla regressione [I, 13, pag. 748]. Quanto alla “completa remissione dei sintomi in risposta ad efficace trattamento con farmaci”, in questa frase è sottolineato, ancora una volta, che nel DSM-5 si considera “efficace” un trattamento per il solo fatto di far scomparire i sintomi e non di produrre un miglioramento globale nelle condizioni del paziente. A giudizio di chi scrive, inoltre, non può essere considerato “efficace” un trattamento che sopprime un’espressione di sofferenza prima che si sia iniziato a capire il suo significato e ad aiutare il paziente a sanare questa sofferenza.
-Deliri strutturalmente affini al sogno – Un esempio clinico di Disturbo Psicotico Breve: il caso di Mario. Chi scrive conobbe questo paziente in occasione di una consulenza nel reparto ospedaliero in cui Mario si trovava ricoverato per una grave neoplasia. Sulla base di una personalità di per sé incline alla sospettosità e alla collera, il paziente aveva rapidamente sviluppato una sintomatologia delirante con tematiche di persecuzione (un complotto ai suoi danni, con lo scopo d’ucciderlo, cui avrebbero partecipato i familiari, oltre che i medici ed il personale del reparto) e manifestato aggressività, espressa verbalmente a più d’una persona. Pochi colloqui quotidiani, facilitati da un contenimento della sintomatologia prodotto da basse dosi di antipsicotici, furono sufficienti a fargli riacquistare il controllo delle sue emozioni e dell’intera situazione. Fu decisivo il riconoscimento che, benché il sottoscritto respingesse le specifiche accuse rivolte anche alla sua persona, era certo che Mario aveva i suoi buoni motivi per essere irritato con tutti noi. L’impegno a cercare di capire con lui le ragioni del suo malessere soggettivo produsse presto buoni frutti: fu chiaro che Mario non aveva tollerato che gli si nascondesse la verità sulla sua malattia. Da sempre aveva cercato di tenersi lontano da ogni forma di dipendenza passiva e, quando ciò gli era inevitabile, voleva almeno conoscere che cosa stava succedendo ed, attraverso questo, capire se la sua fiducia nelle persone di cui aveva bisogno era ben riposta. Riuscì a reggere molto bene alla notizia delle sue gravi condizioni fisiche, affermando con fierezza d’essere disposto a combattere fino in fondo per la sopravvivenza, ma, nello stesso tempo, di voler essere lui stesso a dare disposizioni su quanto lasciava in eredità e su altre questioni, nel caso avesse perso la sua battaglia contro la morte.
Come in molte affezioni deliranti, anche nel caso di Mario c’è una fase iniziale di intenso sconvolgimento: la neoplasia ha fatto ripiombare quest’uomo in quella condizione di dipendenza passiva che egli ha sempre temuto. In più, Mario è stato anche privato della possibilità d’esercitare un minimo di controllo sulla situazione, conoscendola. In queste condizioni, l’integrità della sua vita soggettiva è fortemente minacciata. Le funzioni riequilibratrici della sua mente non reggono all’impatto delle tensioni emotive; l’attività onirica della veglia, dovendo concentrarsi sul compito di ripristinare l’integrità interiore, cessa di proteggere l’esame di realtà e diviene cosciente. Dapprima Mario vive un incubo: cerca, in chi gli sta intorno, qualcuno che lo aiuti a recuperare il controllo sulla situazione, ma trova solo freddezza ed atteggiamenti elusivi. Come un bambino smarrito alla ricerca disperata del viso familiare della mamma, trova solo volti estranei, non comprensivi, e questi gli appaiono come terribili nemici. Il male che egli sente arrecato alla sua vita soggettiva, grazie alla trascrizione simbolica, diviene minaccia alla sua sopravvivenza fisica. Tuttavia Mario, tramite la regressione, riesce a ritrovare in se stesso le tracce di un antico rapporto che, a suo tempo, seppe confortarlo ed aiutarlo ad essere padrone di sé. Ciò rende possibile quella traslazione positiva sul sottoscritto che gli consente d’uscire dall’incubo e recuperare il suo equilibrio interiore.
Nel delirio di Mario sono evidenti aspetti affini al sogno: la “drammatizzazione”, ossia la messa in scena di quanto accade nel suo mondo interno, lo spostamento, la trascrizione simbolica e soprattutto la regressione. Questa gli consente di ritrovare in sé l’eredità di un valido rapporto con un oggetto arcaico idealizzato che, assumendo le sembianze del sottoscritto grazie alla traslazione, torna a “dargli in prestito” le proprie funzioni riequilibratrici e successivamente lo aiuta a ripristinare in lui queste stesse funzioni.
Nel caso di Mario, la regressione gli consente di ritrovare in sé un oggetto arcaico intatto; in altri casi, si tratta di un oggetto parzialmente danneggiato, e qui l’intervento terapeutico può favorire gli sforzi del paziente di ripristinarne l’integrità. Ciò può avvenire suggerendo, più che vere e proprie interpretazioni, “fantasie progressive” [I, 2] con cui si introducono elementi riparativi nell’elaborazione mentale del paziente. Si tratta di un’interazione che ricorda il “gioco” d’inventare insieme una storia, come avveniva tra J. Barrie e i suoi piccoli amici nella creazione delle vicende di Peter Pan [II, 3]. In altri casi, trattati qui sotto, non si può contare sulla regressione ai fini terapeutici, e la strategia della cura deve essere differente.
-Deliri più propriamente psicotici – La psicosi di Lucia esordì con una sintomatologia acuta di tipo schizofreniforme (spunti deliranti non sistematizzati, allucinazioni frammentarie, confusione) accompagnata da uno stato d’esaltazione emotiva; quadro sintomatologico che, a seguito di trattamento con antipsicotici (Aloperidolo, in quel periodo) cedette il posto ad una fase di depressione. La successione delle due fasi si ripeté, ad intervalli sempre più brevi, e si resero necessari numerosi ricoveri. Il disturbo, correttamente diagnosticato come Schizoaffettivo, fu scatenato da una disavventura sentimentale che non si riuscì mai a ricostruire con esattezza. Esso sconvolse completamente la vita di questa donna, allora 33enne, che fino a quel momento pareva equilibrata e dotata di valide risorse. Lucia svolgeva la funzione di dirigente in un’azienda pubblica, era molto apprezzata per la sua competenza, socievole, colta, ricca d’interessi e d’iniziative. L’unica carenza, nella sua vita, era segnalata dall’assenza di legami sentimentali: si era istintivamente tenuta lontana dall’amore, come intuendo i pericoli che quest’esperienza avrebbe comportato per lei. Fu qualche tempo dopo l’esordio della malattia che il sottoscritto iniziò a seguirla, dapprima in modo frammentario (Lucia doveva interrompere la cura ambulatoriale per i frequenti ricoveri), successivamente con maggiore continuità; ciò fu possibile quando si trovò l’unico trattamento farmacologico cui la paziente rispondeva in modo adeguato: nel suo caso, Clozapina associata a timoregolatori. Lucia viveva con sollievo il ritorno alla realtà favorito dai farmaci: per lei era come destarsi da un incubo. Si sarebbe detto che il suo caso era differente da quello paradigmatico di Kovrin, se non fosse per ciò che la paziente rivelò nel corso dei colloqui clinici (accettò d’incontrarsi regolarmente col sottoscritto due volte la settimana). Lucia aveva acquisito una sorta di “doppio registro”: aderente, anche da un punto di vista affettivo, alla realtà, tuttavia una parte di lei sembrava come vivere in un mondo separato, fatto di macchinazioni al centro delle quali c’era la sua persona. I due mondi, quello della realtà e quello del delirio, sembravano convivere in lei, senza influenzarsi a vicenda riguardo ai contenuti, tuttavia stabilizzandosi reciprocamente. Di tanto in tanto incontrava qualcuno che assomigliava a un uomo o a una donna con cui aveva avuto a che fare nel passato, e per Lucia diventavano senz’altro la stessa persona. Costui o costei l’avevano seguita per influenzare, in diversi modi, il suo modo di vivere. Non si trattava quasi mai d’influenze ispirate a fini persecutori: in un caso, colui che aveva identificato con un suo collega del passato le lanciava segnali per far capire a Lucia che era meglio, per lei, andare a vivere in un pensionato piuttosto che restare da sola nel suo appartamento. In un’altra circostanza un’amica, misteriosamente ricomparsa, le testimoniava con gesti allusivi che si sarebbe trovata meglio nella mansione d’impiegata piuttosto che di dirigente. In altri casi ancora, si trattava di semplici controlli che tutto stesse procedendo bene. Quel che c’era d’inquietante per Lucia, in questi incontri, era che non era mai chiaro il motivo per cui tutte quelle persone s’interessavano a lei e quale poteva essere lo scopo ultimo che si prefiggevano. Se il sottoscritto provava, con cautela, a interrogarla in proposito, la risposta immancabile di Lucia era: “Non lo so; dovrei chiederlo a loro, ma non oso”. Nella paziente una “xenopatia” [I, 13, pag. 756] – ossia un delirio sistematizzato riguardante influenze esterne per scopi sconosciuti – aveva preso il posto degli spunti deliranti slegati e delle allucinazioni frammentarie della fase acuta della malattia. Il settore psicotico della sua personalità vi trovava un’espressione più coerente, più facilmente delimitabile rispetto al mondo della realtà: esistevano un luogo e una persona che l’aiutavano a salvaguardare i confini tra le due dimensioni, ossia l’ambulatorio psichiatrico, dove poteva parlare liberamente e lasciar spazio al mondo del delirio, ed il sottoscritto, che l’avrebbe aiutata – offrendole un sostegno psicologico, correggendole il suo innato pessimismo, confermandole il valore delle sue buone qualità e prescrivendole farmaci appropriati – a ritornare al mondo reale. L’analogia tra Lucia e Kovrin è che entrambi trovano, in una neocreazione delirante, un sostituto dell’oggetto arcaico mancante. La differenza è che Kovrin riesce a creare un oggetto idealizzato (benché un fantasma, prodotto di un’idealizzazione “sine materia”) che per qualche tempo restituisce vigore, oltre che coesione, alla sua vita soggettiva. Lucia, al contrario, riesce soltanto a riorganizzare il “caos pre-psicologico” in cui era caduta nelle fasi acute e a far assumere ai suoi vissuti psicotici la fisionomia più coerente di una serie di “xenoi” incomprensibili cui la paziente contrappone, con l’aiuto del sottoscritto, l’esame di realtà. In termini bioniani, “protoemozioni” e “protopensieri” (“elementi beta”) inizialmente evacuati, grazie all’azione parziale di una funzione alfa difettosa si organizzano acquistando la fisionomia di uno o più oggetti deliranti: gli “xenoi”. Essi acquisiscono sembianze umane, ma rimangono tuttavia estranei e incomprensibili, essendo costruiti con parti dello psichismo della paziente che sono state sottratte all’integrazione mentale [I, 13, pag. 756]. Si tratta dell’appagamento del bisogno narcisistico d’essere “rispecchiata” e protetta; appagamento non riconosciuto come frutto di una propria richiesta, ma attribuito ad iniziative dell’oggetto delirante e divenuto, perciò, estraneo e incomprensibile.
In questi pazienti, a differenza di quanto accade a Kovrin, il ritorno (parziale) alla realtà è vissuto con sollievo. Tuttavia, in perfetta analogia con le vicende del personaggio cecoviano, è l’instaurarsi di un delirio che restituisce ordine alla vita soggettiva. In questi casi, non si può parlare di un “transfert terapeutico” propriamente detto: non c’è traslazione sulla figura del terapeuta di sentimenti o pulsioni originariamente diretti ad un oggetto antico perché, nel mondo interno di queste persone, l’eredità di tale oggetto è stata sostituita da una neocreazione delirante. Contrapposto a tale neocreazione, il terapeuta appartiene interamente alla realtà e con la realtà egli è incaricato di farsi tramite. In questo ruolo, egli può rafforzare la funzione difensiva dell’esame di realtà che consente al paziente, “aggrappandosi” al mondo esterno, di non essere completamente risucchiato da quello delirante dello “xenos” o, peggio, dal caos pre-psicologico che permane in una parte della sua personalità. In alcuni pazienti, tuttavia, è possibile che una neocreazione delirante coesista con la possibilità di una traslazione narcisistica sulla persona reale del terapeuta: ad esempio, nel caso di Rosa trattato più sopra.
Quanto al contenuto del delirio, è assolutamente necessario che il terapeuta, nei suoi commenti, si attenga a quanto avvertito e comunicato dal paziente. Se egli vi aggiunge qualcosa che il malato ignora – qualcosa che può essere tratto soltanto da un sapere libresco, oppure da conoscenze acquisite trattando altri malati e male applicate al caso in questione – il paziente vedrà, in questo, il segno dell’appartenenza del curante al mondo dello “xenos” e la conseguenza immediata può essere la rottura del rapporto terapeutico [I, 13, pag. 758, 759].
Usando una metafora religiosa, si può dire che i pazienti come Lucia, in assenza di un Padre Eterno che dia alla loro vita soggettiva un ordine ed un valore (positivo o negativo), inventano un “Dio Sconosciuto” imperscrutabile e inquietante cui, in parte, si sottomettono. Altri, più simili a Kovrin, inventano un Dio pietoso e protettivo che, benché in modo imperfetto, svolge le stesse funzioni dell’oggetto arcaico idealizzato di cui essi si sentono privi. È il caso di Nicola, di cui ho già trattato altrove [I, 19]. Questo paziente, affetto da Disturbo Bipolare dell’Umore, nelle fasi normotimiche trovava un sostegno alla propria vita soggettiva in fantasie di tipo pedofilo. In esse, Nicola s’identificava con quel genitore idealizzato (protettivo, affettuoso, disponibile ad un rapporto privilegiato) che, nella realtà, egli non aveva mai posseduto; o, meglio, s’identificava con un genitore immaginario dotato di caratteristiche opposte a quelle dei suoi genitori reali e, nei sogni, egli ne godeva l’affetto proiettandosi nel bambino. In fase maniacale comparve un delirio di grandezza a sfondo mistico. In esso, la grandiosità, “assoluta” ed estesa a tutta la sua vita, dell’essere il “prescelto da Dio” (essere il bambino amato in modo esclusivo e grandemente stimato dal genitore arcaico idealizzato) gli era parsa sanare l’antica ferita narcisistica, rendendo non più necessario il ricorso alla sessualità perversa.
Il compito terapeutico, in questo tipo di delirio, è quello di rafforzare l’esame di realtà come difesa dall’attrazione eccessiva che esercita l’oggetto delirante. Ciò protegge il paziente dalle influenze negative che il delirio può esercitare su quanto nella realtà esterna (famiglia, lavoro, rapporti sociali) sostiene il settore sano della sua personalità. Occorre, tuttavia, non dimenticare che per il malato esiste un altro sostegno indispensabile: quello offerto dall’oggetto arcaico idealizzato ed interiorizzato o, in sua assenza, dalla neocreazione delirante che lo sostituisce. Questo è quanto, nel mondo interno del paziente, occorre rispettare e proteggere. Quando il delirio rappresenta, per il malato, l’unico modo per sottrarsi al “caos pre-psicologico” della disgregazione schizofrenica, l’obbiettivo terapeutico è di rafforzare, in parte, le difese e consolidare il formarsi di un “doppio registro” vicino al “quasi-delusion” delle persone più sane. A tale obbiettivo va subordinato anche l’uso di farmaci antipsicotici: se il tipo e la posologia di questi medicamenti consentono di rafforzare l’esame di realtà senza sopprimere la neocreazione delirante, essi costituiscono un ausilio prezioso al trattamento del delirio. Al contrario, se lo scopo dell’impiego dei farmaci è quello di costringere il malato ad “abiurare il suo Dio”, ossia rinunciare completamente all’oggetto delirante, ciò si pone al servizio dell’intolleranza collettiva e non di obbiettivi terapeutici. Non dimentichiamo che si tratta degli stessi farmaci utilizzati nei regimi politici autoritari per “piegare” i dissidenti.
Anche nelle affezioni deliranti di questo secondo tipo, è bene non perdere di vista la possibilità di obbiettivi terapeutici più ambiziosi. Questi deliri, infatti, possono entrare in crisi. Ciò avviene più frequentemente quando essi sono associati ad un Disturbo dell’Umore (come nel caso di Nicola) o, comunque, quando nel quadro clinico esiste una rilevante componente timica (come in Kovrin). In queste circostanze, il paziente si apre al mondo esterno; oppure possono comparire deliri strutturalmente simili a quelli del primo tipo, affini al sogno, e come tali trattabili. Sebbene più raramente, la stessa cosa può verificarsi anche in affezioni croniche come la Schizofrenia o la Paranoia. Qui manifestazioni deliranti-allucinatorie di tipo onirico, soprattutto nelle fasi acute della malattia, sono spesso interpretabili come tentativi di rompere col funzionamento psicotico abituale [I, 13, pag. 750]. In questi casi, è probabile che il paziente, per il tramite della regressione, abbia raggiunto qualche residuo di un autentico rapporto con un oggetto arcaico idealizzato e, sulla base di ciò, possa sviluppare una traslazione narcisistica utilizzabile a scopi terapeutici. Anche qui, l’obbiettivo della cura non è quello di sopprimere la neocreazione delirante, ma di aiutare il paziente a sostituirla, con la gradualità che gli occorre, con un oggetto idealizzato più efficiente nel soddisfare i suoi bisogni narcisistici.
V – Considerazioni conclusive
All’estremo opposto rispetto all’impostazione fin qui descritta è la “neurologia con sintomi psichiatrici”, ritenuta da Romolo Rossi come “la fine della Psichiatria” [I, 22, pag. 15]. Essa considera la mente come un epifenomeno inerte, incapace di retroagire sul suo substrato organico. La conoscenza della sfera soggettiva, perciò, è ritenuta priva d’interesse ai fini del trattamento di ciò che è alla base dei disturbi psichici. Si potrebbe definire una “psichiatria senza psiche”. Se non si vuole cadere in questo tipo d’aberrazione, è necessario porre al centro della cura la vita interiore del paziente, ed è questo il principale concetto che qui si è voluto affermare. Si riassumono, qui sotto, gli aspetti più importanti di un trattamento del delirio coerente con tale concetto; aspetti che sono stati esposti in questo scritto e che verranno confrontati con l’impostazione della “neurologia dei sintomi psichiatrici”.
Riguardo, innanzi tutto, al recupero dell’esame di realtà e delle capacità d’adattamento, si è detto che ciò può costituire un importante obbiettivo terapeutico solo a condizione che, nello stesso tempo, siano rispettate le esigenze interiori del paziente. Un recuperato contatto col mondo esterno diviene accettabile e gratificante per il soggetto solo se egli, col sostegno terapeutico, vi trova la possibilità di realizzare il proprio “progetto nucleare”, inscritto nel suo Sé Nucleare e specifico per ogni persona. Perché questo avvenga, è necessario che il paziente mantenga (o recuperi) un contatto con un oggetto arcaico idealizzato o con un suo sostituto – sia che questo appartenga al mondo reale, sia che venga prodotto dal suo delirio – perché ciò garantisce l’integrità della sua vita soggettiva ed un contatto con il Sé Nucleare. Viene così preservata la principale fonte d’arricchimento interiore e ciò può assicurare una vita vissuta pienamente e coerente con le inclinazioni individuali di questa persona. Su tutto questo, la “neurologia dei sintomi psichiatrici” dà semplicemente un colpo di spugna, considerando unicamente l’obbiettivo della recuperata aderenza “normale” alla “realtà” e ignorando le esigenze interiori di chi si dovrebbe curare.
Per quanto riguarda la risposta controtransferale del curante, si è qui sostenuto che, se questi non è interiormente libero e conscio dei propri limiti, egli può involontariamente imporre al malato i propri “quasi delusions” e quelli che fanno parte della cultura d’appartenenza. Ciò avviene, talora brutalmente, tramite inconsapevoli condizionamenti avversativi che “puniscono” le manifestazioni deliranti con la freddezza degli atteggiamenti verso il malato e con la somministrazione forzata di farmaci dagli effetti soggettivi sgradevoli. La Psicofarmacologia sperimentale dovrebbe tener conto di questo tipo di meccanismo, specialmente quando la risposta ai medicamenti avviene in tempi e modi diversi rispetto a quelli previsti dall’azione dei farmaci sui sistemi monoaminergici cerebrali. Si pensi a quanto avviene nei reparti ospedalieri, dove i tempi di degenza e quelli d’effettivo contatto col paziente sono ridotti al minimo. Qui, ad ogni manifestazione del delirio, si risponde con la somministrazione di antipsicotici ai cui inevitabili effetti collaterali il paziente spesso non è preparato. Il condizionamento operato dalla comparsa di questi – le discinesie, i sintomi parkinsoniani, l’acatisia o, forse più ancora, l’inerzia psicomotoria – induce il malato a rinunciare ad esprimere le proprie convinzioni deliranti, o anche a pensarle; ciò può avvenire prima della (e indipendentemente dalla) comparsa del vero e proprio effetto antipsicotico dei medicamenti. Il paziente, per tentativi, arriva a comprendere che cosa si vuole che lui dica, o pensi, perché lo si giudichi “migliorato” e gli si riduca la posologia dei farmaci, ed in questo modo gli vengono imposte le convinzioni ritenute “normali”.
Delle tre caratteristiche che, secondo Jaspers, definiscono il delirio – certezza assoluta, impermeabilità alle confutazioni stringenti o all’esperienza concreta, impossibilità del contenuto, ossia inverosimiglianza [I, 12, pag. 103] – si ritiene comunemente che l’ultima non appartenga a tutti i casi: il paranoico, nel suo delirio (di gelosia, o di persecuzione, o erotomanico), ci descrive eventi verosimili, anche se non veri; inoltre, ciò che è ritenuto poco credibile in una cultura o in un’epoca storica, in altre è considerato del tutto verosimile. Se, poi, consideriamo la realtà interiore come altrettanto “vera” quanto lo è quella oggettiva, la validità di questo criterio jaspersiano cade completamente: non solo è verosimile che la persona amata tradisca, o che qualcuno perseguiti o ami segretamente il soggetto, come sostiene il paranoico; lo è altrettanto che, nel suo mondo interno, un Monaco Nero lo conforti e lo incoraggi. Solo se il terapeuta si libera del pregiudizio contro ciò che non è “oggettivamente possibile”, egli può accorgersi che lui ed il paziente vivono immersi in due realtà parallele: quella del mondo esterno e quella della vita interiore. Il “neurologo dei sintomi psichiatrici” ignora ciò che le facoltà introspettivo-empatiche potrebbero suggerirgli a proposito del mondo interno proprio e del paziente; ignora, quindi, che il discostarsi, almeno in parte, dalla realtà oggettiva è inevitabile per la maggior parte delle persone, anche per lui stesso. Ciò fa sì che, di fronte a convinzioni che la mentalità comune ritiene “inverosimili”, lo “psichiatra senza psiche” sia incapace di comprendere le ragioni del paziente. Egli, perciò, assume la stessa posizione di rigida intolleranza e d’impermeabilità alle ragioni altrui che è propria del delirio. Considerando unicamente il dato oggettivo delle dichiarazioni del delirante, la sua unica preoccupazione è di “correggerle”. Ciò facendo, egli finisce per imporre al paziente nuove convinzioni più “verosimili”, ma altrettanto inflessibili e refrattarie alla critica quanto lo sono le sue. Cambiano i contenuti, ma ciò che è più sicuramente patologico nel delirio resta, di fatto, immodificato: la rigidità interiore, l’incapacità di tollerare il dubbio e di aprirsi a nuove ipotesi, ossia la mancanza dei presupposti emotivi di un’autentica aderenza alla realtà, sia quella oggettiva, sia quella del mondo interno.
Queste ultime considerazioni rimandano ad un altro argomento trattato in questo scritto: le difficoltà d’entrare in sintonia con il delirante. Se, quale oggetto della cura, la dimensione soggettiva del paziente ha una posizione centrale, la stessa importanza, tra gli strumenti d’indagine, spetta all’empatia, ossia all’unico modo adeguato per accedere al mondo interno di un’altra persona. Come si è visto più sopra, questa facoltà, pur utilizzata da tutti gli esseri umani, è completamente ignorata dalla “neurologia dei sintomi psichiatrici” e dal DSM-5. Tuttavia i limiti personali del curante, come pure quelli dell’ambiente culturale cui terapeuta e paziente appartengono, creano seri ostacoli alla possibilità di una comprensione empatica in tutti noi, e non solo agli “psichiatri senza psiche”. Quello d’entrare in sintonia, senza delirare, con chi delira è un compito difficile per tutti. L’obbiettivo più arduo da raggiungersi, confrontandosi con le peculiarità di ciascun paziente, è quello di riconoscere (e riconoscersi in) ciò che accomuna il delirante e la maggior parte della persone sane: l’impossibilità d’elaborare completamente il lutto riguardo all’oggetto arcaico, al di là delle innumerevoli forme esteriori con cui essa può manifestarsi. Ciò pone un problema esistenziale angosciante, non risolvibile e perciò difficile da riconoscere: il dover accettare l’inevitabilità della perdita di un oggetto d’amore irrinunciabile, il continuo dibattersi dell’essere umano tra una separazione impossibile ed un ricongiungimento che non potrà mai più avvenire.
Sarebbe davvero IMPORTATE E
Sarebbe davvero IMPORTATE E BELLO che i lettori di Psychiatry on line Italia collaborassero ATTIVAMENTE alla diffusione dei contenuti della rivista diffondendoli e condividendoli.
Ancora più bello sarebbe se tali lettori esplorando gli archivi di POL.it scoprissero contenuti meritevoli di diffusione e come faccio io regolarmente li proponessero in rete.
Il passaparola fa miracoli se fatto con cuore intelligente e in maniera allargata.
La rivista non ha altri mezzi per essere conosciuta