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OSSERVAZIONI SULLA IDENTIFICAZIONE PROIETTIVA: ´THROUGH THE LOOKING GLASS”

16 Dic 14

Di Alberto-Merini e Marianna-Bolko

Riassunto. Gli autori prendono in considerazione il concetto di identificazione proiettiva in quanto meccanismo di difesa che prevede il passaggio concreto, in particolari condizioni, di materiale psichico d91 paziente all'analista e viceversa. Nelle loro osservazioni gettano un ponte tra l'identificazione proiettiva e la folie a deux, la telepatia, e gli strani accadimenti che sopravvengono nel corso della terapia col paziente grave. Le osservazioni cliniche riguardanti queste situazioni rimandano tutte al tema del “contagio psichico” e al discorso sulla possibilità di una comunicazione extrasensoriale tra inconsci. IL dibattito sul “contagio” è a tutt’oggi aperto: secondo gli autori, sarebbe auspicabile uscire dalla logica dello scontro e porre invece una particolare attenzione al dato clinico, consentendo in tal modo un ulteriore allargamento dell'indagine sui fattori terapeutici in psicoanalisi.

Summary. The authors consider the concept of projective identification as a defence mechanism which involves, under particular conditions, a real passage of psychic material from patient to analyst and viceversa. With their observations, they bridge projective identification and folie à deux, telepathy and all the weird events which occur during the therapy of the severly ill patient. Clinical observations regarding these situations refer to the subiect of “psychic contagion” and the debate over the possible existence of an extrasensorial communication between unconscious systems. This debate is still open: in the authors' opinion, it would be useful to avoid quarreling and to shift all the attention to the clinical data, thus allowing to enlarge the discussion over the therapeutic factors in psychoanalysis.

Il concetto di identificazione proiettiva, attirando l'attenzione sulla relazione, ha rappresentato e rappresenta uno stimolo significativo a liberare il pensiero e la pratica psicoanalitica dalla visione unipersonale del modello pulsionale. D'altra parte l'identificazione proiettiva appare una sorta di inestricabile intreccio di questioni anche contraddittorie, tanto che si può concordare con Kulish (1986) quando afferma che

chiedere a un concetto psicoanalitico di essere una fantasia, una difesa, un tipo di relazione oggettuale e anche una forma di comunicazione significa chiedergli troppo.

È in dubbio inoltre che il concetto di identificazione proiettiva contiene in sé elementi che vanno nella direzione del "perturbante", del Unheimlich di Freud (1919) e non è detto che tali elementi siano i meno interessanti. Nella nostra relazione prenderemo in considerazione l'identificazione proiettiva come meccanismo di difesa cos" come si manifesta all'interno della relazione paziente-analista.
Sandler (1987) ha storicamente distinto lo sviluppo del concetto di identificazione proiettiva in tre fasi. La prima, legata a Melanie Klein, riferisce l'identificazione proiettiva a

processi di cambiamento nelle rappresentazioni psichiche del Sé e dell'oggetto… [Si può pensare che] la concretezza delle sue formulazioni voglia indicare processi immaginati come concreti… Melanie Klein non ritiene che l'identificazione proiettiva produca una modificazione nell'oggetto reale.

La seconda fase è legata soprattutto alla Heimann e a Racker. Questi autori

hanno significativamente arricchito il concetto di identificazione proiettiva collegandolo alle identificazioni dell'analista con le rappresentazioni del Sé e dell'oggetto presenti nelle fantasie inconsce del paziente; tale identificazione ha determinati effetti sulla controtraslazione… le formulazioni di questi autori (…) sono un ampliamento dell'originaria teorizzazione della Klein nella quale l'identificazione proiettiva avviene all'interno della vita di fantasia del soggetto (e produce in fantasia una distorsione dell'immagine dell'analista) (Sandler, op. cit.).

La terza fase è legata a Bion. Per questo autore

i diversi aspetti delle fantasie inconsce del paziente non sono più oggetto di identificazione dell'analista, [ma viene descritto] come un processo in cui l'esteriorizzazione di parti del Sé o dell'oggetto interno avviene direttamente nell'oggetto esterno… [ciò che Bion] descrive è un concreto "mettere all'interno dell'oggetto" (Sandler, op. cit.).

Ci piace riprendere il sottotitolo della nostra relazione, Through looking glass, che tutti avranno riconosciuto come quello del libro di Carrol (1871), per assumerlo come metafora dell'ultima fase della identificazione proiettiva:

Lo specchio cominciò a liquefarsi in una splendente nebbia d'argento. Un istante dopo Alice attraversò lo specchio e saltò leggera nella stanza…

Dallo specchio che ci descrive Carrol, possiamo risalire allo specchio di Schafer (1983):

È uno specchio attivo, che trasforma le immagini: non è affatto uno specchio, dunque. La metafora non è ben scelta

e, infine, allo specchio di Freud (1912):

Il medico deve essere opaco per l'analizzato e, come una lastra di specchio, mostrargli soltanto ciò che gli viene mostrato.

L'identificazione proiettiva quindi come lo specchio che Alice attraversa. È questo lo specchio che più ci interessa. 

Un rilevante successo ha avuto la proposta di Ogden (1979) di distinguere l'identificazione proiettiva in tre fasi: proiezione, pressione interpersonale e reinternalizzazione. Vogliamo attirare l'attenzione sulla seconda fase, che sembra essere il punto più originale dell'ipotesi di Odgen: la pressione interpersonale. Quest'ultima infatti doterebbe l'identificazione proiettiva di un elemento nuovo rispetto agli altri meccanismi difensivi tradizionalmente considerati intrapsichici e quindi privi di influenza sull'analista. La fortuna dell'ipotesi di Odgen sta nell'avere fornito agli psicoanalisti il modo di far quadrare il cerchio: mettere insieme i modelli della pulsione e della relazione, laddove Greenberg e Mitchell (1983) hanno definitivamente dimostrato la loro incompatibilità. Come abbiamo già osservato (Bolko e Merini 1988) infatti la soluzione di Odgen mette d'accordo tutti perché il meccanismo dell'identificazione proiettiva rimane intrapsichico e, nel contempo, ne viene sottolineata la valenza relazionale, interpersonale. Tuttavia, a nostro avviso, è privo di senso fare ricorso al modello relazionale solo per un meccanismo difensivo e, più in generale, per un solo fatto psicoanalitico. Nel modello interpersonale (nei modelli interpersonali) infatti, cambia l'ottica del transfert, del controtransfert… in breve, cambia il rapporto paziente-analista in quanto questi ultimi diventano persone che si influenzano l'una con l'altra. (Il problema, casomai, riguarda l'integrazione della storia personale del paziente con quanto accade nell'hic et nunc della situazione analitica senza aggirare l'ostacolo, ad esempio, attraverso la "verità narrativa", Spence, 1982). Eppure Freud aveva scoperto la resistenza e dedotto i meccanismi difensivi proprio attraverso l'influenza che la prima aveva su di lui: "questa insistenza mi costava fatica …" (Freud e Breuer, 1892-35). Peraltro Freud, i cui interessi si andavano centrando sui processi intrapsichici, abbandonò rapidamente il campo intersoggettivo eliminando il soggetto della scena: solo in tal modo, egli riteneva, era possibile osservare la genesi della nevrosi nel transfert. «Il transfert è la ripetizione del passato dimenticato» (Freud, 1914): in tal modo il paziente «ci squaderna dinanzi un pezzo di storia della sua vita» (Freud, 1938).
Come abbiamo già osservato (Bolko e Merini 1986, Merini, 1990) dal tempo di Freud molte cose sono cambiate, eppure abbiamo l'impressione che per la maggioranza degli analisti i meccanismi difensivi siano rimasti ancorati al modello pulsionale, privi cioè di un valore intersoggettivo, comunicativo. Laddove con Gill (1984) possiamo affermare che

il paziente non si limita ad esperire la citazione analitica in modo che corrisponde alle sue preconcezioni sia inconsce che consce. Egli si comporta in modo tale da far s" che il terapeuta giustifichi queste preconcezioni, dando loro, di volta in volta, maggiore verosimiglianza … [il terapeuta] può cosi arrivare a comportarsi in modo tale da giustificare sempre più e rendere plausibili le preconcezioni del paziente.

A nostro avviso il paziente esige dal terapeuta il consenso sulla difesa e cerca in tutti i modi di ottenerlo: l'eventuale dissenso infatti, mette in discussione la difesa e i motivi che sono alla base del suo operare. Ma tutto questo non c'entra con l'identificazione proiettiva. O, detto in altro modo, non c'è bisogno di un nuovo concetto per giustificare il controtransfert dell'analista: è più che sufficiente il comportamento verbale e non verbale del paziente, visto in un'ottica relazionale e non meramente pulsionale. Se qualche valore ha l'identificazione proiettiva è nel concetto di Bion, e, aggiungiamo, di Grinberg di un passaggio concreto di materiale psichico dal paziente all'analista e viceversa, in particolari condizioni. I quello che ci proponiamo di discutere attraverso la folie à deux, la telepatia e gli strani accadimenti che sopravvengono nella terapia del paziente grave.
Prima di passare alla seconda parte, vogliamo riportare una breve vignetta clinica che, per Goldstein (1991), rappresenta un tipico esempio di identificazione proiettiva (dal paziente al terapeuta). 

La signora B. iniziò la seduta affermando che le sue condizioni erano gravi e senza speranza. Si mise quindi a parlare della psicoterapia in generale, chiedendosi di quale utilità potesse essere per il paziente grave. Raccontò successivamente una serie di casi in cui professionisti giovani e inesperti avevano sbagliato: a seguito di un grossolano errore di un giovane avvocato aveva perso una considerevole somma di denaro, un intervento effettuato da un chirurgo senza esperienza le aveva lasciato una brutta cicatrice, il giovane commercialista aveva totalmente sbagliato la sua dichiarazione dei redditi. Tutte queste esperienze, concluse la signora B., erano importanti e chiese al dott. A. se anche lui le ritenesse tali. Su questo punto la Signora B. argomentò a lungo, insistendo che il dott. A. si dichiarasse d'accordo. Quindi la Signora B. passò a ricordare svariati errori che il dott. A. aveva commesso nel corso del trattamento, ma disse che non li considerava gravi in quanto si era resa conto che egli aveva terminato la propria formazione psichiatrica da poco tempo. Disse che considerava il proprio caso molto serio, tuttavia era sicura che il dott. A. si sarebbe sforzato al massimo. Peraltro, concluse che aveva sofferto cosi a ]ungo che era sicura che nessuno avrebbe potuto aiutarla. – Al termine della ceduta, il dott. A. si sentì – "inadeguato e pessimista nei confronti del proprio lavoro (…) si chiese se la signora B. non avrebbe fatto meglio a cambiare terapeuta" (Goldstein, 1991). 

Abbiamo una paziente che, con argomentazioni indubbiamente efficaci, convince, almeno temporaneamente, il dott. A. di essere un cattivo professionista. Questo accade perché il dott. A., come afferma Goldstein, si trova "sotto l'influenza dell'identificazione proiettiva …" oppure possiamo immaginare altri motivi? (Tralasciamo per un momento gli eventuali conflitti irrisolti del dott. A.). IL problema è interessante. Dalla descrizione di Goldstein sembra che il terapeuta non abbia fatto interventi di sorta, ma si sia limitato ad ascoltare, prendendo alla lettera ciò che la paziente gli andava dicendo. In questo si è comportato diversamente dalla maggioranza degli analisti che, come osservava Balint (1959), vengono spinti ad interpretare le lamentele del paziente con l'unico fine di farle cessare in quanto fastidiose. Forse, se il risultato delle lamentele è quello che ha sperimentato il dott. A., gli analisti hanno ragione ad interromperle, esercitando cos" una barriera contro di esse. Ma è questa l'unica possibilità? O, pur accogliendo le lamentele, l'analista può essere in grado di mantenere un proprio esame di realtà, una propria capacità di critica? Di fronte ad un paziente che sta esercitando una pressione aperta e verbale affinché il terapeuta si adegui alle sue preconcezioni, si può continuare nella attività analitica, o questa è impedita dalla identificazione proiettiva? Se è cos", non si corre il rischio che l'identificazione proiettiva diventi la spiegazione tuttofare? Vogliamo lasciare aperti questi problemi, aggiungendo solo che la retorica (retoriké techné), "l'arte della parola" "creatrice di persuasione", è vecchia almeno di 2.500 anni (Gorgia, Protagora) e che vi sono intere biblioteche di ricerche sulla capacità dei media di influenzare il pubblico.
Sulloway ci ha portato un esempio illustre, mostrando come Freud si servisse in modo molto puntuale della retorica.

Iniziando la seconda parte della relazione, è lecita l'ipotesi che nella folie à deux vi sia una perdita dell'esame di realtà da parte del contagiato [Nota: Con Rapaport (1952) intendiamo per esame di realtà “una funzione preconscia costantemente attiva che automaticamente sceglie le nostre esperienze per orientarci nel comprendere se si tratta di una percezione esterna o intrapsichica – una vera percezione dei sensi o un'illusione; un ricordo o un prodotto dell'immaginazione; e quale posizione occupi all'interno di queste categorie – un vero oggetto o il disegno di un oggetto, il ricordo di un fatto o il ricordo di una fantasia”.]. I fatti sono noti, e pertanto, ci limitiamo ad un breve richiamo.
In una comunicazione orale alla Società e, dopo quattro anni, in due articoli pubblicati quasi contemporaneamente nel 1877 sugli Annales Médico-psychologigues e sugli Archives Générales de Médicine, Laségue e Falret espongono il problema in maniera sistematica, attraverso la presentazione di sette osservazioni personali. Tali autori stabiliscono una serie di regole sulla comparsa e/o scomparsa della folie à deux, regole che, in linea di massima, possono essere considerate ancora valide. Tali regole possono essere cosi riassunte:

1. in condizioni normali non vi può essere trasmissione del delirio da un malato ad un individuo sano di mente; come pure è estremamente raro lo stesso contagio da un paziente all'altro;

2. il contagio può verificarsi solo in alcune particolari condizioni che, appunto, danno luogo alla folie à deux. Tali condizioni sono: a) uno dei due individui, l'elemento attivo il quale è solitamente il più intelligente, crea il delirio e l'impone progressivamente all'altro, l'elemento passivo della coppia. Quest'ultimo, dopo aver cercato di resistere, cede, ma rettifica, corregge il delirio, lo rende più verosimile. Questa nuova formazione delirante, che quindi è modificata rispetto all'originale, diviene il delirio condiviso da entrambi in tutti i particolari tanto che, a questo punto, non è più possibile distinguere clinicamente il malato induttore da quello indotto; b) affinché questa sorta di integrazione del delirio possa realizzarsi nelle due persone, occorre che queste ultime vivano lungamente insieme nello stesso ambiente, dividano la stessa esistenza, gli stessi sentimenti, gli stessi timori e le stesse speranze, isolati da qualsiasi influenza esterna (questo ultimo aspetto è considerato, oggi, problematico);

3. per Laségue e Falret, la separazione dei due malati determina la guarigione dell'elemento passivo, mentre quello attivo, l'induttore, rimane del tutto immodificato (anche questo aspetto, con l'ampliarsi delle esperienze, non è valido per tutti i casi).

Pochi anni dopo, nel 1880 un giovane medico, Regis, si oppone, con notevole forza polemica, alle conclusioni di Laségue e Falret. Per questo autore non vi è mai comunicazione di deliri da una persona all'altra: generalmente si tratta di un delirante e di un povero di spirito, un credulone che non diventa mai un delirante vero e proprio. Nei rari casi in cui entrambi i soggetti sono deliranti si tratta di un delirio che è insorto simultaneamente in due soggetti predisposti, tanto che la separazione non ha alcun effetto favorevole sullo stato mentale di entrambi. Da allora e fino ai giorni nostri centinaia di autori hanno fornito accurate descrizioni di casi di deliri che coinvolgevano due o più persone. A nostro avviso, il motivo fondamentale di questo interesse per dei casi che in fondo non sono eccezionali, sta proprio nel tema del contagio, nella continuamente rinnovata contrapposizione fra coloro che ammettono il contagio e coloro che lo negano.
Anche in ambito psicoanalitico diversi autori si sono occupati della folie à deux: da Hartmann e Stegel (1931), alla Deutsch (1938) a Pulver e Brunt (1961) alla Eckstaed (1983) ecc. È chiaro oggi che le dinamiche descritte alla base della folie à deux, sono tutte inconsce e che il partner secondario non è semplicemente un credulone, ma diviene un vero e proprio delirante o, chiaramente, dal punto di vista clinico, un vero e proprio psicotico.

Al di là delle ipotesi formulate dai vari autori, che si collocano tutte in un rapporto esclusivo, di dipendenza, con tutta probabilità di tipo fusionale e con profonde angosce di separazione, resta l'interrogativo di come questo accada, di come il partner abbandoni la propria critica nel settore specifico, di come faccia proprio il delirio dell'altro. Noi riteniamo che l'ipotesi più probabile sia che, in particolari condizioni di intimità, si abbia un passaggio non conscio di materiale psichico patologico da un partner all'altro. Tali condizioni intimità richiamano quelle della relazione terapeutica. In quest'ultima sono stati descritti i "singolari accadimenti", soprattutto nella terapia del paziente grave. Tali accadimenti possono essere subdoli e progressivi come invece improvvisi e allarmanti. Fra i primi si va dal famoso "turbamento" di Jung durante la terapia pionieristica con una giovane schizofrenica, Sabina Spierlein, una sorta di folie à deux per la quale dovette intervenire Freud fino alla recente proposta di Searles (1986) di inquadrare tali accadimenti nella tecnica come "psicosi di controtraslazione limitata e tenuta sotto controllo". Ricordiamo Meltzer (1976) il quale osserva come, con determinati pazienti, possa svilupparsi nel terapeuta una "forma insidiosa di megalomania". Racamier (1980) va nella medesima direzione parlando della "relazione di seduzione narcisistica". Arieti (1974) riferisce di terapeuti i quali, ad un certo punto, non riescono più a riconoscere la patologia di determinati pazienti. Fra gli accadimenti improvvisi, Rosenfeld (1987) parla di momenti nei quali il paziente comunica "a livello non verbale con una forza ipnotica primitiva" ed il terapeuta può sentirsi invaso da emozioni molto violente, non integrate e da sentimenti confusionali. Sono stati descritti nel terapeuta terrori subitanei e razionalmente immotivati (Micati Zecca, 1982; Benedetti, 1980): microreazioni paranoidi perduranti alcune settimane (Merini, 1988); come pure la insorgenza nel terapeuta di sintomi corporei improvvisi e allarmanti (Micati Zecca, 1982; Merini, 1988). Major e Miller (1983) riferiscono come, durante il primo colloquio con un paziente schizofrenico, al terapeuta sia mentalmente apparsa l'immagine di una scena che, con il proseguire del colloquio, è risultata riprodurre in ogni dettaglio l'esordio acuto della malattia del paziente stesso. 

Nella direzione terapeuta paziente, Ferro (1987) ha notato che, attraverso i sogni, i pazienti avevano mostrato di essere a conoscenza del contenuto di sue drammatiche vicende private e dei sentimenti inconsci ad esse collegati. L'autore che ha maggiormente approfondito questa direzione è Searles (1965). Egli mostra, attraverso numerosi esempi clinici, che il paziente schizofrenico risponde ai processi inconsci del terapeuta, vivendoli come se fossero aspetti della propria personalità, sotto forma di allucinazioni, o mettendoli in atto in comportamenti che il paziente stesso trova incomprensibili. Ricordiamo inoltre la sua osservazione che, al Chesnut Lodge, fra i vari terapeuti e i pazienti seguiti in psicoterapia si veniva "non di rado" a configurare "una sorta di folie à deux" caratterizzata da una situazione di simbiosi difensiva e dalla proiezione dell'odio reciproco. Questa tesi la ritroviamo nei già citati Pulver e Brunt come ipotesi patogenetica della folie à deux. Una indubbia testimonianza di trasmissione non conscia e non affidata a canali percettivi, di materiale psichico, è rappresentata dai sogni nei quali il paziente mostra di essere a conoscenza di avvenimenti della vita dell'analista, avvenimenti che per vari motivi, il paziente non può conoscere. Tali sogni vengono generalmente considerati fenomeni telepatici (laddove il citato Ferro li ritiene conseguenza dell'identificazione proiettiva).

Non è questa la sede per affrontare il tema della telepatia in quanto la relazione si amplierebbe a dismisura. D'altra parte, abbiamo analizzato quattro sogni telepatici, riferiti da altrettanti autori, nel capitolo di un recente libro (Bolko e Merini, 1991). È necessario tuttavia almeno un accenno alle difficoltà che da sempre hanno incontrato a procedere insieme la telepatia e la psicoanalisi perché ritroviamo le stesse difficoltà appena si inizia a discutere della identificazione proiettiva nella direzione di Bion e Grinberg. È noto l'interesse di Freud per la telepatia ed è altrettanto nota la violenta opposizione di Jones (per ragioni non solo di politica dell'istituzione). Meno note sono invece le personali difficoltà di Freud a proseguire su tale campo, riferibili ad una riluttanza-ambivalenza-resistenza (sono tutti termini che Freud usa per se stesso) difficoltà che lo portano a numerosi fraintendimenti e dimenticanze proprio riguardo alle proprie ricerche sull'occulto. Ma non è tanto sulle difficoltà di Freud che vogliamo attirare l'attenzione, quanto sul fatto che esse costituiscono un filo rosso che attraversa tutta la storia del pensiero psicoanalitico.
Valgono per tutte le osservazioni di due psicoanalisti, Dennis Farrel ed Elvio Fachinelli. Dennis Farrel, uno psicoanalista nordamericano il quale ha pubblicato nel 1983 su The International Journal of Psychoanalysis due osservazioni personali, riferisce a più riprese le proprie "formidabili resistenze" a lavorare su tali esperienze tanto che, al termine dell'articolo osserva:

Nello stendere questo contributo non ho inteso solo arricchire la letteratura di altri due esempi convincenti di sogni apparentemente telepatici. Volevo soprattutto attirare l'attenzione degli altri psicoanalisti sulla capacità che noi abbiamo di evitare, di dimenticare certe importanti osservazioni…

Elvio Fachinelli, a proposito di alcuni fenomeni telepatici accaduti durante il lavoro analitico e che ha descritto nel libro Claustrofilia (1983), osserva:

Ben presto capitarono altre situazioni intriganti e, diciamolo pure, imbarazzanti … vicende che al primo momento suscitano grande interesse e poi si cacciano via, addirittura si dimenticano o si sminuiscono … È quello che è capitato puntualmente a me e, nel riprendere gli appunti stesi in quel periodo, ho potuto rendermi conto del distanziamento intervenuto, anzi, dell'enorme lavoro di cancellazione effettuato in sordina, nonostante di solito si attribuisca agli psicoanalisti la capacita di superare le proprie rimozioni e i propri rifiuti. Ma tant'è.

Un corollario di queste resistenze è, a nostro avviso, la singolare "ignoranza" che la maggior parte dei colleghi mostra addirittura nei confronti degli scritti di Freud sulla telepatia. È indubbio che esistano difficoltà anche individuali nell'approccio allo studio di eventi mentali che accadono al di la dei limiti convenzionali della nostra psicologia, difficoltà che vengono accentuate anche dall'assenza di una teoria che ci aiuti a comprendere una evidenza che sfida le nostre concezioni psicologiche dell'universo fisico. Resta il fatto che fino ad oggi, rispetto al problematico interesse di Freud, ha avuto la meglio l'atteggiamento rappresentato da Jones. Come abbiamo già osservato (Bolko e Merini, 1988) la prospettiva epistemologica attuale ci porta a chiederci se con Jones abbia trionfato la "ragione" o quanto invece, in nome della ragione, abbia avuto spazio l'irrazionalità di un atteggiamento difensivo, socialmente opportunistico e antiscientifico che ha ostacolato e ritardato la ricerca sull'influenzamento reciproco nella relazione analitica. Abbiamo visto Régis contro Laségue e Falret, Jones contro Freud. Infine, al recente congresso di Gerusalemme sulla identificazione proiettiva, troviamo Kernberg contro Betty Joseph:

Mi chiedo se la Joseph non sottovaluti gli aspetti comportamentali dell'identificazione proiettiva, vale a dire il modo in cui il paziente induce l'affetto nell'analista. Non è per magia. È attraverso aspetti impercettibili del comportamento non verbale, dello stile linguistico ecc., del paziente (Sandler, 1987).

Vogliamo far notare come, seppure in forma più sofisticata, la spiegazione di Kernberg del meccanismo di azione della identificazione proiettiva, non sia altro che la "pressione interpersonale" di Odgen, cos" come abbiamo visto anche nell'esempio di Goldstein.

Osservazioni conclusive e problemi aperti

Le osservazioni cliniche riguardanti la folie à deux, i sogni telepatici,i singolari accadimenti, pur diverse nel loro aspetto fenomenico, trattano tutte, per usare il termine di Laségue e Falret, del "contagio psichico", tanto da rappresentare, a nostro avviso, un insieme forte o una convergenza di dati empirici in favore della trasmissione non conscia di materiale psichico da una persona all'altra. Vogliamo sottolineare che per trasmissione non conscia intendiamo una trasmissione che non si basa su dati percettivo-sensoriali comunque intesi (compresi gli stimoli subliminali, per intenderci), ma che, in una prima approssimazione, va nella direzione dell'osservazione di Freud, a suo dire "incontestabile sotto il profilo descrittivo", che "l'inconscio di una persona può reagire all'inconscio di un'altra eludendo il conscio" (Freud, 1915). Si tratterebbe quindi di una comunicazione extrasensoriale fra inconsci, anche se noi preferiamo sottolineare che ciò che risulta sempre non cosciente, non è il contenuto ma la comunicazione (Bolko, 1990). Infatti il problema è se il contenuto di questa comunicazione arrivi sempre nell'inconscio del ricevente, con possibile successivo passaggio, più o meno deformato, nel conscio (Freud, 1921a; Heimann, 1950) o se il contenuto possa penetrare direttamente nel conscio (Grinberg, 1976).

Questi tipi di comunicazione sono stati ripresi non solo da tutti gli psicoanalisti che si sono occupati di fenomeni telepatici nel corso della analisi (da Ehrenwald a Servadio), ma anche da diversi altri, estranei a tale campo di indagine, come Heimann (1950), Tower (1956), Sandler (1976) ecc. È da precisare subito la complessità e l'indeterminatezza della ricerca sulla comunicazione non conscia. Ad esempio, di fronte a un fenomeno che la chiama in causa con evidenza, quale il sogno che mostra come il paziente sia a conoscenza di fatti privati dell'analista, un ricercatore parla di telepatia (Micati Zecca, 1982) mentre un secondo di identificazione proiettiva (Ferro, 1987).
In precedenza abbiamo ricordato come, a partire dalla questione della folie à deux, questi eventi clinici ripropongano costantemente una situazione di scontro. È un dato interessante che, a nostro avviso, dimostra come i problemi siano ancora del tutto aperti. Ai fini della conoscenza riteniamo utile uscire dalla logica dello scontro, che inevitabilmente viene a configurarsi come lotta fra credenti e non credenti, per porre una particolare attenzione al dato clinico. Abbiamo un precedente illustre di un dato tecnico che è stato possibile trarre dall'oblio, quello del controtransfert: considerato un fatto di cui vergognarsi, era diventato invisibile. 

È possibile che, un giorno, anche la comunicazione non cosciente esca dall'occultamento permettendo cosi un approfondimento dell'indagine sui fattori terapeutici in psicoanalisi. Immaginiamoci che tale momento sia già stato raggiunto e proviamo ad elencare quali problemi potrebbe sollevare l'identificazione proiettiva:

  • l'identificazione proiettiva, la folie à deux e la telepatia sono accadimenti che si possono verificare solo nel campo bi-(multi) personale. Di conseguenza, l'oggetto non sarebbe solo una rappresentanza, ma anche un oggetto reale esterno, come prefigura l'approccio Winnicott-Balint-Modell. Come si colloca questo oggetto reale esterno nella metapsicologia?

  • l'identificazione proiettiva sarebbe alla base sia dei singolari accadimenti che della folie à deux. Fra i due tipi di fenomeni clinici vi sarebbe quindi una continuità: più benigni e transitori i primi, più stabili i secondi. È da notare, peraltro, che abbiamo dei casi di folie à deux in cui il delirio dell'indotto guarisce con la separazione, e altri in cui non si modifica o, addirittura, si aggrava. A questo proposito è impressionante il caso delle due gemelle affette da folie a deux che, separate, decedono improvvisamente nello stesso momento, per motivi rimasti sconosciuti nonostante accuratissime indagini (Wilson e Reece, 1964). Nella folie à deux (e nei singolari accadimenti) vi sarebbe solo una modifica dell'Io circoscritta e più o meno transitoria (una inibizione?, una scissione?), come lasciava già intendere De Clérambault (1902-1324), modifica dell'Io che potrebbe essere una distorsione settoriale dell'esame di realtà? Oppure, come sembrano testimoniare i casi di folie à deux che non guariscono con la separazione, l'identificazione proiettiva determina un più profondo ed esteso sovvertimento della struttura? È da ricordare che Freud (1921b) riteneva che nel fenomeno della ipnosi vi fosse una costituzione dell'esame di realtà del soggetto ipnotizzato con quello dell'ipnotizzatore. È noto, inoltre, che con l'ipnosi si possono indurre forme di allucinazione e delirio ed anche violenza fino all'omicidio (Manoli, 1973);

  • l'isolamento prolungato e costante, come elemento esterno o secondario alla patologia di uno e di entrambi i membri della coppia, è nella maggior parte dei casi, invocato come fattore determinante nella genesi della folie à deux. Anche i singolari accadimenti che si verificano nella terapia del paziente grave, accadono nella particolare situazione di intimità ed isolamento che caratterizza la terapia stessa. Si può ritenere che il classico setting psicoanalitico favorisca il passaggio non conscio di materiale psichico, tanto che la terza fase di Ogden, la "reinternalizzazione" che, per l'Autore, è dovuta alla "interpretazione muta", verrebbe a basarsi proprio su questo passaggio? E' da ricordare anche che nella sensory deprivation non solo si generano fenomeni allucinatori e deliranti, ma si osserva anche una esaltazione dei fenomeni telepatici;

  • l'identificazione proiettiva si manifesta quando viene proiettato un materiale con particolari caratteristiche (ad esempio, ciò che Bion chiama gli elementi beta) oppure prescinde da tali caratteristiche? IL ricevente può erigere barriere contro l'identificazione proiettiva? Se s", di che tipo? L'unica difesa conosciuta contro la realtà esterna, ma la realtà percepibile, è il diniego: quest'ultimo può valere anche per stimoli extrasensoriali?

  • l'identificazione proiettiva viene descritta solo in una situazione di vicinanza spaziale, mentre la telepatia anche a grandi distanze: dipende dai punti di osservazione o dalla diversità dei fenomeni? Oppure, l'identificazione proiettiva viene descritta solo in seduta perché, al di fuori di essa, non si potrebbe più parlare di pressione interpersonale comunque intesa (Kernberg) e si dovrebbe quindi ammettere qualcosa d'altro?

  • Viene generalmente riferito che gli effetti della identificazione proiettiva riguardano fondamentalmente emozioni, sentimenti e disturbi del pensiero, mentre la telepatia concernerebbe soprattutto pensieri e accadimenti. Ancora una volta, si tratta di due fenomeni diversi o di gradi diversi dello stesso fenomeno? È da notare che alcuni parapsicologi (ad es. Vassiliev, 1963) affermano che i fenomeni telepatici si estendono dalle vaghe emozioni alla dettagliata riproduzione di avvenimenti: per costoro, quindi, la telepatia coprirebbe anche il classico campo della identificazione proiettiva. Manrique (1978) ha notato sperimentalmente, in casi di folie à deux, la presenza di "comunicazioni che vanno oltre quelle affidate alle comuni vie sensoriali".

Terminiamo la nostra relazione riportando un frammento del discorso di Henry Bergson alla seduta inaugurale della Society for Psychical Research nel 1913:

Noi produciamo elettricità in ogni momento, l'atmosfera è costantemente elettrizzata, circoliamo tra correnti magnetiche; e pur tuttavia milioni di uomini hanno vissuto per migliaia di anni senza supporre l'esistenza dell'elettricità. Noi avremmo ben potuto passare, senza accorgercene, in prossimità della telepatia. Ma poco importa. In ogni caso un punto è incontentabile e cioè che se la telepatia è reale, è anche naturale, e che il giorno in cui noi ne conosceremo le condizioni per avere l'effetto telepatico non sarà più necessario aspettare un "fantasma vivente", cos" come noi oggi per vedere la scintilla elettrica non abbiamo più bisogno di rimetterci alla benevolenza del cielo e allo spettacolo di una scena di tempesta.

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