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Analisi didattica e potere. La trasformazione di un metodo di insegnamento-apprendimento in strumento di potere della psicoanalisi istituzionalizzata

12 Feb 20

Di Johannes-Cremerius

Versione riveduta e ampliata della relazione tenuta a Milano il 3 giugno 1988 nell'ambito del III Convegno del Collegamento Psicoanalitico Internazionale)

 

Difficilmente gli uomini non abusano del potere che è stato loro concesso.
(A. France, cit. da Freud, 1937c, p. 532)

Il metodo migliore per comprendere la psicoanalisi, spiegava Freud nel 1922 (1923a, p. 439), è quello di ripercorrerne la nascita e lo sviluppo. Su questo punto è bene però essere scettici. Quanta fedeltà alla storia ci si può aspettare da coloro che scrivono da sé la loro storia? Non sono anche loro soggetti agli stessi meccanismi di rimozione, pensiero magico e idealizzazione, così come lo sono i nostri pazienti, quando raccontano la storia della loro vita? Con che rapidità poesia e realtà si mescolano poi tra loro? Alla fine del proprio autoritratto ci si vede così come ci si vuole vedere. È stato Freud a mettere mano per primo a questo modo tendenzioso di scrivere la storia. Il modo in cui egli si presenta ai giovani, in termini dell'eroe solitario, elevato in un'atmosfera mitica e perseguitato da tutti, richiama l'Antico Testamento. Fino al momento in cui studiosi estranei alla psicoanalisi non cominciarono a scriverne la storia, gli allievi e i seguaci di Freud hanno continuato a scrivere di storia della psicoanalisi seguendo la strada da lui inaugurata. Jones è un impressionante esempio di ciò. Lo stesso caso Eissler mostra come anche le teste più critiche possano cadere in questa deformazione. Nel descrivere il lento svilupparsi del distacco tra Freud e Jung, egli (Eissler, 1965) sottovaluta il significato della provocazione consistente nel fatto che Jung, a quel tempo ancora presidente dell'Associazione Psicoanalitica Internazionale (IPA), non fosse stato da Freud invitato a far parte del comitato segreto dei portatori dell'anello.

Nell'ambito di questa letteratura storica fatta in casa l'istituzionalizzazione della psicoanalisi viene presentata come una necessità. "De facto" lo scopo era ben altro, e cioè la creazione di un'organizzazione internazionale orientata nel senso della politica di potere. La storia di queste mire di potere è la storia segreta dell'IPA, e di una storia segreta si tratta perché è una storia vergognosa. Ciò che causa vergogna ha a che fare col prezzo che Freud e molti suoi seguaci furono disposti a pagare per ogni ulteriore passo compiuto in questa direzione. Tutto ciò ha inizio, nel caso di Freud, con la sua complicità con Jung contro Sabina Spielrein. Nonostante egli fosse al corrente di quale "bricconata" Jung avesse commesso, scese a patti con lui contro la vittima, dal momento che "a capo del movimento deve esserci uno psichiatra ufficiale e un non ebreo" (Stekel, 1911). Poco tempo dopo gli venne in mente di associare la psicoanalisi all'Ordine internazionale per letica e la cultura di recente fondato da Knapp (Lettere tra Freud e Jung, 1974). Il prezzo che egli in questo caso avrebbe dovuto pagare ha a che fare con il regolamento di tale associazione: l'ordine di Knapp sosteneva tra le altre cose "l'igiene sociale, e in particolare razziale" (Forel, 1910). Ed è Jung che nella sua lettera dell11 febbraio 1910 lo mette in guardia, anche se per altri motivi, dall'entrare in questo rapporto. Sta di fatto che il prezzo più grosso Freud lo pagò nel 1918, allorché scese a patti con la psichiatria militare. Se di "prezzo più grosso" parlo è perché fu proprio in questo caso che egli venne meno nella maniera più drastica al principio fondamentale della psicoanalisi, e cioè quello di voler realizzare il proprio compito ponendosi in opposizione alla società. È anche singolare il fatto che lo stesso Freud, nel suo sconsiderato perseguire l'idea di una Internazionale psicoanalitica, non accusi né vergogna né colpa. L'unico sentimento che egli esprime a proposito del patto con la psichiatria militare è un senso di rammarico legato al fatto che la guerra giunga a termine nel momento in cui il mondo, attraverso il trattamento psicoanalitico delle nevrosi di guerra, incominciava ad interessarsi alla psicoanalisi (lettera a Ferenczi del 17-12-1918: Jones, ed. it. 1977)(1). Se ci fosse ancora un dubbio sul fatto che la psicoanalisi istituzionalizzata si sia organizzata come una comunità religiosa, qui è ora di metterlo da parte. Se è vero che carattere essenziale delle comunità religiose è l'accettazione acritica di tutto ciò che il capo dice e fa, è altrettanto vero che purtroppo non ci risulta che nessuno dei membri dellIPA abbia messo il "maestro" davanti a questa contraddizione, o che nessuno di essi ne sia di conseguenza uscito.

Ancora: per quanto poco Freud si sia sentito imbarazzato per questo patto, tanto più ne sembrano toccati gli attuali funzionari dell'IPA. Così ad esempio Gillepsie, nella sua presentazione della Storia dellIPA attraverso i suoi congressi (Opuscolo informativo dell'IPA, 1987), non fa menzione alcuna degli avvenimenti connessi col congresso di Budapest. Perfino il tema di tale congresso, La psicoanalisi e le nevrosi di guerra, viene da lui tralasciato. Che i funzionari dell'IPA si sentano imbarazzati non significa d'altronde che essi abbiano modificato il loro orientamento, e cioè che siano da allora preoccupati di accordare tra di loro principi psicoanalitici e prassi istituzionale. Proprio in questi giorni stiamo rivivendo qualcosa di analogo: soltanto le pressioni giudiziarie costringono l'American Psychoanalytic Association a decidersi per l'ammissione al training anche degli psicologi, dopo che essa per decenni aveva di fatto cercato di impedire la cosa con argomenti dell'ordine della politica di potere.

Io voglio cercare di mostrare in che modo il training analitico ed il suo caposaldo, e cioè l'analisi didattica, divengano, nell'ambito del movimento psicoanalitico, strumento di politica di potere, nonché in che modo il fine del movimento psicoanalitico, e cioè il suo orientamento in direzione di una politica di potere, anche qui si ponga nel senso di giustificare i mezzi: l'analisi didattica si trasforma in un rituale di sottomissione e viene stravolta nel senso dell'indottrinamento. Io cercherò dunque di sostituire il mito della psicoanalisi istituzionalizzata, e cioè che essa offra possibilità di formazione psicoanalitica e che sia la sede del dibattito scientifico, con la concreta realtà delle cose.

È cosa nota che la ricerca storica in campo psicoanalitico è impedita dal fatto che non si dà accesso alla maggior parte dei documenti, in quanto parte degli archivi che li custodiscono devono rimanere chiusi fino al prossimo secolo inoltrato. Inoltre, è vero che decisioni fondamentali nel campo del training non sono state documentate per niente oppure solo in maniera incompleta, e questo perché il piccolo ed elitario circolo di persone che condusse questo tipo di trattative operò a porte chiuse e non era per niente interessato ad una loro diffusione (cfr. Balint, 1948). È così che a me non rimane altro che mettere insieme materiali dispersi in luoghi remoti, oppure nascosti in altri contesti, ponendoli quindi in rapporto gli uni con gli altri. Questo tipo di lavoro dà luogo a nuovi punti di vista e rende possibili nuove interpretazioni.

L'opera di sistematizzazione del training fu inaugurata con un colpo di timpano. Nessuno fu però da essa stimolato ad una attenzione critica. Il colpo di timpano, in coincidenza col IX Congresso internazionale di psicoanalisi, svoltosi a Bad Homburg nel 1925, consistette nella'gganciare il training psicoanalitico all'appartenenza all'IPA. In altre parole: il candidato alla fine del training non ottiene nessun certificato che lo attesti, e cioè nessun certificato di abilitazione, ma diviene membro dell'IPA solo attraverso un ulteriore colloquio (Ferenczi, lettera circolare, 1920). Si tratta dunque di un'associatura forzata, in quanto soltanto chi era membro dell'IPA poteva chiamarsi psicoanalista. In questo modo la psicoanalisi divenne proprietà privata dell'IPA. Con tale decisione Freud segnò una fatidica autorete: ciò che egli aveva concepito in termini di una nuova scienza dell'uomo e di un'impresa illuminata a beneficio di tutti gli uomini, scomparve nel ghetto a carattere politico-associazionistico dell'IPA, e nelle sue locali scuole professionali, alle quali l'opinione pubblica non ha accesso alcuno. Questo accoppiamento trasformò la questione del training in una questione dell'istituzione, e quindi in una questione di potere e di influsso dell'organizzazione sul potere. Si formò dunque una Commissione internazionale sul training come organo centrale dell'IPA – fino allo scioglimento, avvenuto nel 1925, del Comitato segreto, di fatto identico alla Commissione suddetta -, che dora in poi avrebbe provveduto ad organizzare il training. Però questa commissione si occupò di questi problemi non in maniera psicoanalitica, ma in termini amministrativi. La commissione non funzionava secondo regole psicoanalitiche ma secondo regole politiche (cfr. Wittenberger, 1987). A questo punto anche l'analisi didattica viene politicizzata. Quello che era un metodo di insegnamento-apprendimento diventa un preminente strumento di potere, mentre il candidato diventa oggetto di interessi dell'ordine della politica di potere. Fino al 1938 nessuno si accorse che un tal modo di condurre l'analisi di formazione offendeva i principi di base della teoria psicoanalitica, e che coloro che amministravano la psicoanalisi ne stavano distruggendo l'essenza.

All'Istituto psicoanalitico di Berlino le cose andavano in questo modo:

  • l'analisi didattica diventa una arte obbligatoria del training
  • un gruppo di analisti anziani organizza l'istituto di training in maniera gerarchico-autoritaria
  • tale gruppo agisce come una lega segreta, le sue decisioni non vengono discusse con gli altri membri dell'istituto
  • esso si trasforma dunque in un'élite, quella degli analisti didatti
  • gli analisti didatti costituiscono il comitato di training, il quale dispone senza ascoltare il parere degli altri membri dell'istituto
  • questo comitato smista gli analizzandi tra gli analisti didatti
  • esso decide inoltre, in base al rapporto dell'analista didatta, quando l'analisi del singolo candidato sia sufficientemente progredita da consentirgli di partecipare alle ulteriori tappe del training
  • e infine è ancora il comitato di training a decidere quando l'iter formativo del candidato possa considerarsi concluso.

Come possiamo vedere, il primo istituto di training nella storia della psicoanalisi era già organizzato secondo il sistema del "training chiuso". La sua struttura era gerarchico-autoritaria. L'analisi didattica ormai politicizzata. Ed è proprio in questa forma che esso fu poi adottato dalla maggior parte dei gruppi psicoanalitici nazionali.

Se l'analisi didattica era stata da Freud originariamente concepita come un metodo di insegnamento-apprendimento, come metodo di "ammaestramento" del principiante, cioè come luogo in cui quest'ultimo poteva convincersi del modo di funzionare dell'inconscio e della rimozione, essa dopo il 1920 diventò uno strumento inteso al conseguimento degli scopi del movimento psicoanalitico. Freud, preoccupato per il futuro della sua opera, pervenne dopo la prima guerra mondiale all'idea di analizzare egli stesso tutti coloro che avrebbero rappresentato la psicoanalisi nei diversi paesi del mondo. Essi avrebbero dovuto dirigere in qualità di leader i vari "gruppi locali", nonché fare in modo che le sue idee rimanessero conservate nella loro purezza. L'analisi didattica divenne quindi un metodo per trasmettere direttamente agli adepti la "dottrina pura" del suo fondatore. Freud nutriva la speranza che coloro che sarebbero stati da lui stesso personalmente analizzati sarebbero stati in futuro protetti dall'eresia. A chi non viene in mente in un tale contesto l'appello di Cristo ai suoi discepoli: "Andate in tutto il mondo e portate la mia dottrina a tutti i popoli"? Di conseguenza, a partire dal 1920, Freud vedrà ben pochi pazienti. Egli è cioè il primo analista didatta di professione. Per ordine di Freud, Sachs dovette svolgere lo stesso ruolo a Berlino. Anche Sachs non vide quasi più un paziente. Nel primo paio danni della sua attività berlinese egli analizzò 25 persone, del tutto oppure in parte, allo scopo di formare nuovi analisti. Nell'ambito di questo programma di formazione di futuri funzionari, lanalisi didattica doveva logicamente diventare "il banco di prova dell'attitudine professionale", in quanto naturalmente non tutti erano qualificati al punto da coprire tali posizioni direttive. L'analisi didattica, afferma Freud, "deve consentire al didatta di giudicare se il candidato può essere ammesso a un ulteriore ammaestramento" oppure no (Freud, 1937c, p. 531). Questo pensiero di Freud divenne da allora in poi una linea direttiva di molti analisti didatti. Così scrive Paula Heimann nel 1954:

È in primo luogo responsabilità dell'analista didatta decidere se il candidato sia veramente una persona adatta per la professione di analista (Heimann, 1954)

Da qui alla messa da parte della discrezione non si trattò che di compiere un piccolo passo, come del resto mostrano la sopra riportata citazione da Freud e laffermazione di McLaughlin, (per cui rimando alla nota 3). Una volta in atto il salto di tutti gli ostacoli connessi con i principi psicoanalitici, un legame personale tra analizzando e analista viene comunque ancora perseguito:

Né è da sottovalutare infine il beneficio derivante dal durevole rapporto psichico che si stabilisce di solito tra lanalizzando e il suo iniziatore

scrive Freud nel 1912 (1912e, pp. 537-538)(2).

Sta di fatto che prima dell'inizio della professionalizzazione della psicoanalisi, e cioè intorno al 1924, questa affermazione di Freud veniva letta in modo diverso. Ancora nel 1919 Freud mette in guardia i colleghi dal fare dell'analizzando una propria "proprietà privata", e avanza con insistenza l'esigenza che l'analizzando non debba essere educato "ad assomigliarci", ma al contrario, "a liberarsi e realizzare compiutamente la sua stessa natura". A questo punto però in questione non era più un metodo di apprendimento-insegnamento, ma la formazione di futuri funzionari e dirigenti dei gruppi psicoanalitici locali. Che alla fine, in caso di conflitto tra associazione psicoanalitica e singolo candidato, quest'ultimo dovesse credere ad essa, non ci meraviglia più. In una lettera dell'11-10-1924 indirizzata a Paul Federn, Freud esprime il concetto seguente: se il didatta, nel corso dell'analisi, viene a capo del fatto che il candidato è portatore di un

errore insanabile, tale cioè da rendere sconsigliabile la sua ammissione nell'associazione, allora il dovere della discrezione (nei confronti del candidato) deve lasciare il posto all'obbligo di non danneggiare la cosa (e cioè l'associazione) (cfr. Federn, 1972)(3)

Laddove l'analisi didattica viene inserita in un piano dell'ordine della politica di potere, non è distante una sua contemporanea utilizzazione anche a scopo di indottrinazione. Nel 1926 Freud formula l'affermazione seguente: l'analisi didattica deve provvedere ad un'estesa omogeneizzazione dell'equazione personale" dell'analizzando, cosicché si possa un giorno conseguire una soddisfacente concordanza tra gli analisti (Freud, 1926e, p. 387)(4). Hanns Sachs e Franz Alexander, riprendendo in mano questo postulato di Freud, affermano nel 1930, l'uno e cioè Sachs – come somma della sua decennale esperienza di analista didatta presso l'Istituto di Berlino – che

la psicoanalisi ha bisogno di qualcosa di simile al noviziato della Chiesa (Sachs, 1930, p.53), – e l'altro, cioè Alexander, che – l'analisi didattica deve fornire la garanzia che il nuovo sapere che essa permette di conseguire venga correttamente amministrato e utilizzato (Alexander, 1930)

Cosa questo significhi lo possiamo desumere da quanto affermato da Eitingon ancora nel 1925, e cioè:

La nostra associazione deve salvaguardare ciò che il nostro maestro ha creato da precoci ibridazioni, e cosiddette sintesi con altri campi, e con metodi di ricerca e di lavoro di altra natura (Eitingon, 1925)

L'atteggiamento radicalmente antiscientifico che qui trova espressione non è solo opinione privata di Eitingon: esso è cioè la base sulla quale i membri dell'IPA nel 1910 si erano trovati uniti. In quell'occasione, nella sua relazione inerente alla fondazione dell'Associazione psicoanalitica internazionale, Ferenczi disse che l'affiliazione ad essa doveva fornire la garanzia che ad essere utilizzato fosse veramente il procedimento psicoanalitico di Freud, e non un metodo escogitato a proprio uso e consumo. Affinché tutto ciò potesse essere garantito, egli pretese che il presidente fosse dotato di pieni poteri straordinari, compresa la nomina e la destituzione di analisti, e l'approvazione di tutti gli scritti di psicoanalisi redatti dai singoli membri prima della loro pubblicazione ( Ferenczi, 1910-11). Con Freud egli si trovava in pratica d'accordo sul fatto che:

il punto di vista della psicoanalisi non conduce a un egualitarismo democratico; essa doveva piuttosto rappresentare un'élite secondo lo schema della regola filosofica di Platone (Jones, vol.2, p. 96)

Il concetto élitario, e cioè il concepire se stessi quali membri di un ordine, si è fino ad oggi mantenuto: anche oggi è l'élite degli analisti didatti del singolo istituto a scegliere, escludendo da tale scelta gli altri membri dell'istituto, i nuovi didatti. Se Ferenczi aveva lasciato credere che in questione fosse un controllo reciproco dei singoli membri nel senso di un reciproco aiuto, Freud nel 1914, parlando per la prima volta del Movimento psicoanalitico, chiarirà il fatto che ciò è da intendersi nel senso di un controllo dall'alto verso il basso.

Ritenevo necessario istituire un'associazione ufficiale perché temevo gli abusi che in nome della psicoanalisi sarebbero stati commessi non appena essa fosse divenuta popolare. Doveva esserci una sede competente a dichiarare "con tutte queste fandonie la psicoanalisi non ha niente a che fare, questa non è psicoanalisi". Ritenevo però che un capo dovesse esserci. Sapevo fin troppo bene quali errori attendevano chiunque affrontasse i problemi dell'analisi e speravo che si sarebbe riusciti ad evitarne molti istituendo un'autorità disposta ad istruire e a vigilare (Freud, 1914a, p. 416)

Questa autorità doveva dunque essere rappresentata da un comitato. Al pari degli organi corrispondenti presenti all'interno dei sistemi totalitari, tale compito doveva rimanere segreto:

In primo luogo c'è comunque da tener presente questo: questo compito dovrebbe rimanere strettamente segreto, sia per quanto riguarda la sua esistenza che le sue azioni, scrive Freud a Jones (Jones, vol.2, p. 197, sottolineatura mia, J.C.)(5).

Se il fine dell'analisi didattica è quello di formare analisti identificati con l'analisi, allora tale forma giustifica anche lo strumento dell'indottrinazione. L'indottrinazione presuppone però dottrina e dogma – Freud parla di scibboleths – . Freud è dunque ora costretto a riformulare i suoi assunti teorici di base, i suoi paradigmi, in forma di dogmi: in questione sono naturalmente l'assunto di processi psichici inconsci, il riconoscimento della teoria della resistenza e della rimozione, e l'apprezzamento della sessualità e del complesso edipico. Nell'ambito della tecnica di trattamento si ha una sacralizzazione delle regole (la regola fondamentale diviene una regola sacra; 1916-17, p. 289), e la trasformazione di processi tecnici, come ad esempio la "messa allo scoperto" della scena primaria (Freud, 1915b) oppure la realizzazione del "primato genitale", come processi obbligatori. "Chi non sappia accettarli tutti, scrive Freud nel 1923, non dovrebbe annoverarsi tra gli psicoanalisti" (Freud, 1923a, p. 451), e sarebbe loro avversario (Freud, 1905a). Il Movimento psicoanalitico deve difendere questi dogmi e "proteggersi da imitazioni", così come poter dare informazioni autentiche "su quanto deve essere autorizzato a chiamarsi psicoanalisi", scrive Freud a Bleuler (Clark, 1980). Qui diviene evidente il modo in cui scienza e potere si intrecciano a vicenda, un modo cioè fatale per la scienza. Singoli concetti, interi pezzi di teoria, tecniche, vengono assoggettati a vincoli estranei ad essi e rinforzati, in quanto essi devono rendersi funzionali al consolidamento dell'idea comunitaria. La psicoanalisi finisce col coincidere col movimento psicoanalitico. Dopo la fuoriuscita di Adler e del suo gruppo dalla Società del mercoledì, Freud pretende che nessun membro del suo gruppo possa partecipare da allora in avanti agli incontri del gruppo di Adler, senza mettere in gioco la sua appartenenza al circolo freudiano (Nunberg/Federn, 1979).

Nell'ambito dei processi di controllo e di osservazione che a questo punto vengono messi in moto allo scopo di mantenere i gruppi locali in una certa linea, e di riconoscere in tempo eventuali elementi deviazionistici e poterli poi denunciare come rinnegati e apostati, l'analisi didattica, o per essere più precisi, l'analista didatta, consegue una funzione del tutto nuova, e cioè una funzione analoga a quella dell'inquisitore impegnato nelle lotte che la Chiesa nel Medioevo conduceva per difendersi contro dissidenza ed eresia. Di questa ulteriore funzione dell'analisi didattica veniamo a conoscenza da una lettera indirizzata da Landauer a Westermen-Holstijn nell'ottobre 1933. Landauer in essa scrive che Karl Abraham, "allo scopo di sanare i pesanti conflitti in atto" all'interno dell'Istituto psicoanalitico di Berlino aveva chiamato Hanns Sachs, "il quale ne aveva preso in analisi i membri più in vista…e li aveva riportati su binari normali" (cfr. Brecht et al., 1985, p. 57). Egli, Landauer, prosegue poi dicendo di voler ora intraprendere un'analoga operazione nell'ambito dei gruppi psicoanalitici olandesi, dei quali dichiara di avere l'impressione che anch'essi abbiano urgente bisogno di un'azione di risanamento. Nella sua risposta, Westerman-Holstijn lo mette dunque in guardia "dal fare la figura di una sorta di capo mandato dall'esterno come analista addetto ad operazioni di risanamento" (ibidem, p. 57)(6).

Sono poi stati raggiunti gli scopi e i fini che Freud aveva demandato all'analisi didattica? È l'analisi didattica diventata una barriera contro eterodossia e dissidenza? Bernfeld indica che questo non è proprio il caso. Anzi, che proprio i fautori di questo sistema di training, "che si erano aggrappati in maniera così scrupolosa proprio a tale prerogativa difensiva dell'analisi didattica- Alexander, Rado, Horney, Fromm, Reich, Fromm-Reichmann -" si separarono dallIPA e percorsero le proprie strade, che dall'IPA stessa non furono accettate (Bernfeld, 1962). Un numero imprecisabile di movimenti di scissione hanno di fatto fino ad oggi caratterizzato la comunità psicoanalitica.

Sono gli analisti al termine dell'analisi didattica davvero liberi da somiglianze con il loro didatta? Questa sembra essere piuttosto l'eccezione. Per esempio, nell'ambito del'lIstituto psicoanalitico di Londra, presso il quale ci sono tre diverse scuole, i candidati vengono in genere a far parte della scuola alla quale il loro didatta appartiene. Nella Repubblica Federale Tedesca (RFT) invece non esistono kleiniani, e questo in quanto dopo la guerra, e anche più tardi, non ci furono analisti didatti di tale orientamento. Una tendenza di questo tipo è facilmente riconoscibile in tutti gli istituti dell'IPA. Balint ad esempio parla del fatto che in genere attorno agli analisti didatti si costituiscono gruppi in forma di clan, e che inoltre nei loro confronti si stabiliscono legami affettivi molto tenaci, che portano ad una condizione di infantilizzazione, e che, indipendentemente dal fatto che essi portino con sé amore oppure odio, avvelenano il clima della comunità psicoanalitica (cfr. Balint, 1948)

Ha forse l'analisi didattica prodotto molto più "conoscenza di sé", più "autocontrollo", nonché "un grado maggiore di normalità psichica e di correttezza" – e questi erano i desiderata di Freud – negli psicoanalisti? Anche questa funzione essa non l'ha svolta. Verso la fine della sua vita Freud si esprimerà con rassegnazione in una lettera a Lou Andreas Salomé in termini "degli analisti, molti dei quali purtroppo hanno visto poco mutata dall'analisi la loro sostanza umana" (cfr. Eros e conoscenza, 1983). E inoltre, in uno scritto del 1937: "È incontestabile che gli analisti non sempre hanno raggiunto nella loro stessa personalità quel tanto di normalità psichica alla quale intendono educare i loro pazienti" (Freud, 1937c, p. 530)(7).

Freud verso la fine della sua vita cade nell'interrogativo dell'analisi didattica stretto tra la Scilla del pensare nell'ordine della politica di potere e la Cariddi della realtà psicoanalitica. Se nel 1937, in Analisi terminabile e interminabile, il suo testamento politico, egli sottolinea la funzione di controllo che l'analisi didattica svolge nell'ambito del training, e cioè :"il suo scopo principale è quello di consentire al didatta di giudicare se il candidato può essere ammesso a un ulteriore addestramento" (Freud, 1937c, p. 531), sua figlia Anna redige un anno più tardi una dura critica nei confronti dell'"analista nel contesto didattico", in cui ella imputa proprio a questo scopo la causa dell'insufficienza dell'analisi didattica. Ora, dal momento che questo scritto non può essere rivolto contro il padre, mi sembra il caso di ammettere che Freud abbia cambiato la sua opinione, e si sia associato alle opinioni della figlia. Sta di fatto che in questo scritto Anna Freud perviene a un giudizio spietato circa la pratica dell'analisi didattica: l'analista didatta commette di fatto ogni singolo errore, che noi nell'ambito di un'analisi terapeutica qualificheremmo come errore grave. Tutto ciò avrebbe come conseguenza cattivi risultati dell'analisi didattica e relazioni di transfert non risolte, che a loro volta influenzano in maniera decisiva l'atteggiamento scientifico degli analizzandi. Questo scritto ebbe un curioso destino. Esso fu pubblicato per la prima volta soltanto dodici anni più tardi, e cioè nel 1950, in una rivista israeliana di secondo piano e difficilmente reperibile, e rimase quindi quasi del tutto sconosciuto ai circoli psicoanalitici più vasti fino al 1968 (Anna Freud, 1950/1968)(8). Il destino di questo scritto ci induce a supporre che esso andasse in senso contrario agli interessi politici della psicoanalisi istituzionalizzata. In pratica, qui come in molte altre questioni, ad esempio quella dell'analisi laica, l'ttica del movimento psicoanalitico, orientato nel senso della politica di potere, messa originariamente in moto da Freud stesso, finì con l'imporsi contro di lui. Ora, queste tendenze contraddittorie le possiamo capire meglio, se richiamiamo alla mente quali distorsioni Freud stesso per anni aveva portato avanti, mettendo semplicemente da parte nella prassi principi e regole da lui stabiliti nei suoi scritti (Cremerius, 1981).

Molti famosi analisti hanno a loro volta criticato l'analisi all'interno del contesto didattico in maniera altrettanto dura quanto Anna Freud. Con tutto ciò non è però cambiato proprio niente. Anche gli autori che hanno smascherato la struttura di potere dell'istituzione come causa del male che l'affligge hanno inciso poco. Intendo riferirmi al famoso atto di accusa contro l'analisi didattica scritto da Bernfeld nel 1952, e, per quanto riguarda un'epoca più recente, alla breve ma fondamentale critica di Mc Laughlin, che passo a citare:

Come analisti noi dobbiamo domandarci – scrive Mc Laughlin – per quali motivi rimaniamo fedeli in maniera così ostinata a un modello da noi per altri versi giudicato non analitico. Non si può fare a meno di sospettare che alcuni dei fattori inconsci in gioco abbiano a che fare con l'autorità, col potere, col prestigio personale e con la propaganda di preferenze teoriche. Devono proprio esserci forti moventi inconsci se ci permettiamo di portare avanti pratiche che altrimenti condanniamo (Mc Laughlin, 1967)

Come ha fatto fino ad ora fronte a questa critica la psicoanalisi istituzionalizzata? Ancora oggi la maggior parte delle Società psicoanalitiche praticano il "sistema di training chiuso", in cui cioè l'analisi didattica è parte del training controllato. Soltanto tre associazioni all'interno dell'IPA hanno introdotto il "sistema aperto", in cui cioè al posto dell'analisi didattica si richiede un'analisi personale che non cade sotto la responsabilità dell'Istituto: in questione sono le Associazioni francese, canadese e svizzera. Nel loro ambito, per essere ammesso al training, il candidato deve avere già alle spalle l'analisi personale, oppure essere sufficientemente progredito in essa; solo allora egli può essere ammesso a partecipare ai corsi teorici. Nell'ambito del sistema chiuso l'analisi didattica è invece parte controllata del training. In questo caso, per quanto riguarda il problema del fare rapporto a questo proposito da parte del didatta al comitato di training, c'è un ampio ventaglio di possibilità, che va dal non fare rapporto per niente al fare rapporto soltanto parziale, oppure solo nei casi estremi, fino al fare obbligatoriamente e regolarmente rapporto. In quest'ultimo caso, afferma Wallerstein,

è l'istituto a fare propria l'intera e definitiva responsabilità per la formulazione di tutti i fini, sia terapeutici che professionali, che in un'analisi appropriata devono essere conseguiti. Il ruolo dell'analista didatta consiste allora soltanto nell'espletare il mandato collettivo dell'istituto, e nel convincere poi quest'ultimo del fatto che tale compito sia stato realizzato in misura soddisfacente. (Wallestein, 1987)

A questo punto non mi resta che terminare questa ricerca di tracce storiche, e rivolgermi alla situazione odierna. Sta di fatto che da anni, in innumerevoli conferenze, si discute del problema dell'analisi didattica. Forse la funzione di tutte queste attività congressuali consiste nel far fronte al progressivo imporsi del problema reale con un fare solo apparente, e quindi in un'azione di tipo sedativo. Depone in questo senso il fatto che la soluzione prospettata da molti analisti famosi, e cioè quella di sganciare l'analisi dal training, e di porla in forma di analisi personale prima di esso, non viene realmente presa in mano. Una funzione sedativa la svolgono anche le proposte intese a migliorare l'analisi didattica. Una di esse parte ad esempio dalla riflessione che l'analisi didattica ha tenuto troppo poco conto delle modificazioni intervenute nella teoria e nella pratica analitiche. Si dovrebbero innanzitutto soddisfare molto di più nell'analisi didattica i bisogni narcisistici all'insegna di un get along together (Simenauer, 1984). Un altro orientamento parte invece dal punto di vista che nell'analisi didattica i conflitti precoci non vengano elaborati in misura sufficiente. In pratica, se luna vede la salvezza dell'analisi didattica nell'elaborazione dei bisogni narcisistici, e l'altra nella elaborazione della posizione depressiva nel senso di M.Klein (Appy, 1987), è vero che entrambe ripongono la loro speranza in un "quanto più profondo, tanto meglio". La quale speranza ancora regge, pur essendo ormai chiaro che laddove si procede secondo questa massima, come ad esempio nei gruppi sudamericani, in cui si analizza secondo M. Klein, i risultati dell'analisi didattica non sembrano essere migliori che da noi. Le condizioni ostili e distruttive in cui versano quei gruppi documentano questo in maniera convincente. Del resto, il richiamo in direzione di procedimenti più lunghi e più profondi è vecchio quanto la stessa analisi didattica. Sta di fatto che ogni volta che la sua scarsa efficienza lascia perplessi, la speranza si dirige nel senso di un suo prolungamento e approfondimento. Al momento attuale, in cui nella Repubblica Federale Tedesca l'analisi didattica comporta mille e più ore di lavoro, e cioè dieci volte di più che nel 1937 quando Freud si lamentava della sua inefficienza, e copre quindi anche il primo anno di vita dell'analizzando, il confine di questa speranza sembra già quasi raggiunto. Questo però non impedisce che ancora persista la speranza in direzione di un lavoro ancora più lungo e approfondito. L'analisi pre-natale ci promette dunque inattese nuove possibilità! Da parte mia non posso condividere la richiesta di una maggiore profondità portata avanti da Appy e Simenauer-Lukacs rinfacciò ai tedeschi il fatto di appiattire, attraverso l'approfondimento, l'analisi -. Se d'altronde mi imbarcassi nel cercare di comprendere l'incresciosa situazione dell'IPA dal punto di vista dell'analisi didattica istituzionalizzata, allora imputerei la cosa all'analisi in linea di principio insufficiente del complesso edipico. Infatti, nella misura in cui esso rimane irrisolto, diminuisce la facoltà conoscitiva, e odio, gelosia e rivalità fallica finiscono col determinare i rapporti nell'ambito delle nostre associazioni(9).

Nessuno per giunta riflette seriamente su che cosa possa significare per la vita di un uomo il fatto di trovarsi, negli anni della sua maggiore attività e creatività, e cioè trai 28 e i 35 anni oppure 38, e cioè dai sette ai dieci anni, ampiamente tagliato fuori dai problemi del mondo esterno a causa di un processo a carattere introspettivo, nonché il fatto di vivere, per tutto questo tempo, in un rapporto regressivo nei confronti di un oggetto deformato dalla traslazione. Non sono qui forse in gioco le fantasie tipiche dei genitori autoritari, e cioè di genitori convinti del fatto che il passaggio attraverso una loro lunga ed approfondita influenza rappresenti la miglior forma di preparazione alla vita? Qui, in pratica, si rendono nuovamente evidenti le componenti anacronistiche del sistema di training psicoanalitico, che si rivela dunque come un relitto del 19° secolo. La stessa Università tedesca, strutturata com'è in maniera autoritaria, appare progressista e molto meno repressiva, a paragone del nostro sistema. Essa non ha cioè la pretesa di ammettere allo studio delle materie che hanno a che fare con l'uomo, medicina, pedagogia, teologia, candidati esaminati in base alle loro qualità umane, alle loro attitudini caratteriali nei rapporti interpersonali, alla loro libertà da conflitti, alla loro maturità, alla loro attendibilità, ecc. L'università trasmette sapere specialistico. Il rischio professionale è cosa propria di ciascuno. L'Università, l'Alma Mater, rifiuta, al contrario del training dell'IPA, il ruolo materno, e abbandona il laureato all'avventura del suo proprio sviluppo.

E adesso passiamo pure ad un altro aspetto. Il risultato della lunga analisi didattica è che nessuno dei candidati che l'ha completata può prima dei 45 anni prendere con autorità la parola all'interno della psicoanalisi istituzionalizzata a proposito delle questioni scientifiche inerenti alla nostra disciplina. Se si pensa al fatto che il carattere della creatività si modifica nelle varie fasi della vita, e cioè che essa è di regola burrascosa, aggressiva e radicale tra i 20 e i 35 anni, e che in genere essa assume tratti più tranquilli e conservatori dalla mezza età in poi, questo vuol dire che nell'ambito del nostro sistema la creatività dei giovani si trova ampiamente messa da parte. Segue forse il sistema in questo caso un'inconscia tendenza alla quiete e all'ordine? Non utilizza forse esso inconsciamente l'esperienza psicoanalitica che gli uomini nascono incendiari e finiscono pompieri, come G. Shaw formulò la cosa una volta, al fine della stabilità della sua struttura conservatrice?

Da parte mia, mi spiego la situazione caotica e contraddittoria in cui la discussione a proposito dell'analisi didattica viene condotta tra l'altro anche con il fatto che essa risparmia all'istituzione il riconoscimento di un dato di fatto che il suo Super-Io non vuole in nessun modo prendere per vero. Io mi riferisco al fatto che l'analisi didattica, nella sua qualità di super-analisi, dà luogo a risultati molto cattivi: quando l'analisi di un gruppo di persone d'élite scelte da tre analisti di primo piano, e condotta da analisti di élite, e cioè gli analisti didatti, in condizioni ottimali, e cioè a 4 sedute settimanali per 7 fino a 10 anni, senza essere nel frattempo minacciati da problemi economici, porta a così poco, allora affiora necessariamente l'interrogativo di fondo relativo all'effetto dell'analisi in generale. Si tratta però di un interrogativo che mette a repentaglio la nostra vita. Non abbiamo forse raccomandato l'analisi alle casse mutue come una forma di terapia superiore alle altre? Cosa succede allora? La contraddizione in pratica continua a persistere: si difende la scarsamente efficiente analisi didattica e al tempo stesso l'efficienza del trattamento psicoanalitico dei pazienti(10).

I critici dell'analisi didattica sottolineano il fatto che essa non può in linea di principio conseguire il suo scopo, e cioè liberare il candidato dai suoi legami edipici e dotarlo di un Io autonomo e forte. Essi additano il fatto che il procedimento di training, insieme all'analisi didattica ad essa ancorata, assomiglia ai riti di iniziazione delle culture primitive e delle società segrete, il cui scopo è appunto opposto a quello sopra riportato. Il loro scopo sarebbe cioè quello di fare in modo che l'iniziando si identifichi con quella stessa società che promuove il rito di iniziazione. Se questo succede, e nell'ambito del training analitico questo succede sorprendentemente bene, l'iniziato vorrà far parte del potere che lo ha iniziato(11).

Lanalisi didattica non può risolvere l'identificazione con l'istituzione e la sua struttura di potere, in quanto è essa stessa prodotto dell'istituzione, alla cui stabilizzazione inoltre contribuisce. Attraverso l'analisi didattica passa la tradizione autoritaria e si conserva la dottrina. In conseguenza di ciò non può certo meravigliare il fatto che tutti coloro che hanno assolto l'obbligo dell'analisi didattica entrano, da esseri conformi all'istituzione, dell'IPA(12). Farò ora ricorso a tre esempi per dimostrare che questo conformismo arriva al punto da abolire ampiamente la percezione della realtà sociale dell'IPA, pur rimanendo al tempo stesso ben conservata la capacità di critica, ad esempio nei confronti di abusi a livello di istituzioni diverse dall'IPA. Sta di fatto che i membri dell'IPA non hanno ad esempio scoperto la doppia morale relativa al diverso comportamento dell'istituzione nei confronti dei funzionari da una parte e dei candidati dall'altra. Se da una parte l'ammissione al training è regolata da severe indagini sul livello di qualificazione, e il procedere nell'ambito dello stesso è continuamente sotto controllo e discussione a livello dei singoli comitati didattici, nel cui ambito vengono prese in considerazione anche eventuali informazioni sulla vita privata del candidato provenienti da diverse fonti, dall'altra non esiste nessun tipo di test sulla qualità e nessun tipo di controllo sui funzionari. Questi ultimi acquistano lo status di didatti non attraverso la loro competenza, non sulla base di criteri precisi, ma attraverso un'operazione di legittimazione: il singolo gruppo locale di didatti sceglie a propria discrezione i nuovi didatti. Sta di fatto che in una tale operazione i punti di vista politico e fisiognomico risultano più decisivi di quello professionale. Nessuno ha influenza su questo sistema di selezione. Così come non esistono criteri di ammissione alla posizione di analista didatta, non esistono nemmeno criteri per valutarne l'attività. I didatti che non se la cavano bene nella loro attività , quelli che si ammalano sul piano psichico, quelli che violano le regole del costume e della decenza, non vengono allontanati dal loro ufficio. La professione di analista didatta è una status acquisito per la vita. Le cose vanno dunque allo stesso modo che nella formazione del clero. Una volta in cammino, non si fa più caso e non ci si ribella più contro il fatto di essere sottoposti, in qualità di novizi, ad ogni tipo di esame, mentre i vecchi rimangono nell'ombra. Sta di fatto che anche negli istituti intitolati ad analisti che come Balint e Mitscherlich hanno criticato l'analisi istituzionalizzata e ne hanno messo in evidenza il carattere antianalitico di struttura di potere, lo status di didatta non è stato sostituito dalla funzione didattica, e cioè la struttura di potere non è stata messa a nudo. Dal momento che questa doppia morale non viene notata, non viene nemmeno scoperto il fatto che l'assemblea dei membri dell'associazione, che si pensa come un organo democratico, ha solo una sovranità apparente. I membri dell'associazione hanno solo un'influenza limitata proprio sulla scelta delle persone destinate ad occupare la posizione chiave, e cioè ad entrare a far parte del comitato centrale sul training. Essi possono scegliere soltanto da un gruppo di didatti che vengono loro presentati, e quindi persone sulla cui nomina essi non hanno alcuna influenza.

Nessuno, nemmeno le persone direttamente interessate, si è fino ad oggi accorto del fatto che noi portiamo avanti sia nell'IPA che nella Società Psicoanalitica tedesca un'ingenua struttura di potere di tipo fallico, con una netta predominanza degli uomini sulle donne. Le posizioni chiave delle associazioni nazionale ed internazionale sono occupate in maniera prevalente da uomini. Soltanto una volta negli 80 anni di storia dell'IPA una donna ne è stata presidente, Phyllis Greenacre, nel 1965, e soltanto per poco tempo; delle 39 associazioni psicoanalitiche nazionali e locali riportate nel roster soltanto 5 sono presiedute da donne; nel 1986 nessuno dei 12 istituti della DPV risulta condotto da una donna. Mentre il rapporto uomini/donne è di circa 50 a 50 a livello di ammissione al training, nella classe dei membri ordinari esso si sposta già fortemente a favore degli uomini, per mostrare infine, a livello di analisti didatti, una forte abbondanza di uomini. Nell'istituto psicoanalitico di Friburgo il rapporto uomini/donne a livello di didatti è di 7 a 1. Quanto questo fenomeno sia inconscio lo possiamo desumere dal fatto che i nostri stessi membri donne, molte delle quali impegnate politicamente e su posizioni critiche nel sociale al di fuori dell'IPA e della DPV, non hanno di fatto preso nota di questa silenziosa repressione.

Per finire un ultimo esempio: i membri dell'IPA per lungo tempo né si sono accorti né hanno criticato la contraddizione contenuta nel documento sugli analisti didatti emesso dall'associazione nel 1986. In esso si dice che gli analisti didatti, e cioè le persone alle quali l'istituzione conferisce la più alta qualifica come insegnanti e come terapeuti, possono venire destituiti dal loro ufficio qualora essi stessi oppure altri nei loro confronti notino "importanti deviazioni dalla teoria e dalla prassi psicoanalitiche". Nessuno è scoppiato a ridere di fronte a questo autogol! In che modo sono dunque ancora possibili la ricerca e lo sviluppo a livello di teoria e di tecnica psicoanalitica se chiunque può denunciare ciò come una deviazione? Sta di fatto che nessuno ha reso esplicito il senso di sorpresa suscitato dall'ingenuo uso della parola "deviazione". Chi parla di deviazione dovrebbe pur definire rispetto a che cosa la deviazione ha luogo. Una tale definizione è però ancora possibile nell'attuale situazione, in cui non c'è più un concetto che sia sicuro e che raccolga un consenso generale nell'ambito della comunità psicoanalitica? Che membri sono dunque questi, che non respingono definitivamente un tale documento?(13)

Cosa possiamo dunque fare per togliere di mezzo questo legame antianalitico fra training e potere? Cosa fare affinché l'analisi didattica possa venir condotta in spirito di piena libertà, in forma di libero incontro tra analista e analizzando, senza costrizione e senza direttive dall'esterno? I tentativi finora attuati dalla psicoanalisi istituzionalizzata nel senso di creare sistemi di training più liberali, come ad esempio nell'ambito delle Associazioni francese, canadese e svizzera, e cioè analisi personale al posto dell'analisi didattica, non hanno consentito né di eliminare il legame tra training e potere né di promuovere una modificazione nel clima di queste istituzioni. Ora, per avvicinarci a questo scopo, è indispensabile una riforma radicale del sistema di training. Una riforma tale da tirare fuori gli istituti di training dalla loro posizione ghettizzata, da aprirli, da consentire loro l'accesso alle scienze dell'uomo, così come esse si configurano a questo punto del XX secolo.

Per poter compiere questo passo gli istituti dovrebbero prendere in considerazione, nell'ambito della discussione degli interrogativi concernenti il training, determinate realtà a loro note, in linea di principio, da parecchio tempo. Queste realtà sono le seguenti:

  • il fatto che non si dà più una definizione vincolante della psicoanalisi – né a livello di teoria psicoanalitica, né a livello di teoria psicoanalitica della tecnica – e che al suo posto esiste "un pluralismo di concetti teorici e di convenzioni di lingua e di pensiero" (cfr. Wallerstein, 1988)
  • il fatto che l'identità dello psicoanalista non può più essere definita in pieno accordo coi paradigmi di Freud (cfr. l'affermazione di E. Joseph alla conferenza di Haslemere, 1976; Joseph, 1979)
  • il fatto che "una scienza che esita a dimenticare i suoi fondatori è una scienza perduta" (così pensa Wallerstein, citando Whitehead, ibidem); allo stesso modo la pensava anche Knight nel 1953: ancora non permettiamo a noi stessi di concepire la psicoanalisi come una science of the mind, invece che come la dottrina del suo fondatore (Knight, 1953)
  • il fatto che sotto il tetto dell'IPA già da molto tempo convivono le teorie psicoanalitiche più disparate, teorie che in parte sono così lontane le une dalle altre che gli esponenti dell'una non comprendono quelli dell'altra. Alcune eliminano "pezzi nodali" della teoria freudiana (vedi Kohut che nega il complesso edipico), mentre altre si sbarazzano del principale concetto informatore dell'opera di Freud (ad es. laddove la teoria del conflitto viene sostituita da una teoria del difetto), oppure altre ancora rielaborano le teorie psicogenetiche di Freud in tal modo (vedi M. Klein che sposta la situazione edipica al primo anno di vita) da far parlare Eissler in termini di una caricatura della teoria freudiana (Eissler, 1965). Ciò che ancora ci unisce, scrive Wallerstein, è il fatto di condividere, nella nostra prassi terapeutica, la concentrazione sulle interazioni cliniche (Wallerstein, 1988)

Riassumendo possiamo dire così: la psicoanalisi istituzionalizzata dovrebbe accettare il fatto che la psicoanalisi è già entrata nello stadio di una "scienza normale" (cfr. Kuhn, 1962) e che si trova in una condizione simile a quella della filosofia all'interno dell'Università, e cioè in una condizione in cui non si dà più il monopolio di una filosofia, ma esiste un pluralismo di concetti filosofici. Da questo dato di fatto essa dovrebbe dunque trarre le conseguenze che ne derivano. Naturalmente anche a livello delle facoltà di filosofia esistono potere e strutture di potere. Però è anche vero che l'iter formativo in esse si configura come un percorso di ricerca e di scoperta di gran lunga più libero da questo punto di vista, e fondamentalmente libero da indottrinamento.

Freud nel 1926 in verità ebbe l'idea di trasformare gli istituti psicoanalitici in istituti di ricerca. In una tale sede dovevano venire insegnate, accanto alla psicoanalisi, biologia, psichiatria, storia della civiltà, mitologia, psicologa della religione e scienze letterarie (Freud, 1926e, p. 417). D'altra parte questo progetto era ancora contrassegnato dalle vecchie angosce di contatto del movimento psicoanalitico. Non portava gli istituti fuori dalla loro situazione ghettizzata. Il progetto di Freud non tendeva ad entrare in un aperto dialogo con le scienze umane esterne alla psicoanalisi. Come qualsiasi altra giovane scienza anche la psicoanalisi doveva innanzitutto consolidare se stessa, e quindi arricchire le sue teorie con prove derivate da altri ambiti disciplinari. È così che Freud e i suoi primi collaboratori, soprattutto Abraham, Rank e Reik, si misero alla ricerca di conferme a livello di studi di psicologia popolare, religione, biografie ed opere di poeti. Il carteggio Abraham/Freud è pieno di confortanti notizie relative a nuovi reperti ricavati dallo studio di tali testi. Grande è ad es. la gioia di Abraham quando scopre, confrontando sogno e mito, che entrambi sono prodotti della fantasia dell'uomo con lo scopo delle realizzazione del desiderio. A partire da 1912 tale tendenza è ben documentata dalla rivista Imago (cfr. Cremerius, 1969, 1971a, 1971b). Il fatto è che questa fase preliminare diventò cronica. Fino a tutt'oggi gli istituti psicoanalitici recepiscono infatti – così come fanno anche i centri di studio antropologici – i risultati delle altre scienze soltanto attraverso i propri referenti, e quindi assimilano selettivamente soltanto ciò che arricchisce e conferma i concetti che fanno parte della loro tradizione. Anna Freud giustifica l'isolamento degli istituti con il richiamo al fatto che le università, ad esempio, avrebbero rifiutato la psicoanalisi come non scientifica: i suoi metodi sono imprecisi e i suoi reperti non si lasciano dimostrare sperimentalmente (A. Freud, 1978). Oggi questi argomenti hanno perso la loro validità: le università, nella RFT, hanno creato cattedre e reparti clinici per la psicoanalisi, la quale è diventata materia obbligatoria per gli studenti di medicina; a Parigi in psicoanalisi si può conseguire un dottorato, e negli USA ci sono psicoanalisti che svolgono attività di insegnamento nelle cliniche psichiatriche universitarie. È vero che gli istituti psicoanalitici non riescono a trarre vantaggio da questa situazione. Invece di cercare un dialogo con le discipline ad essi vicine, si trattengono nel loro splendid isolation; anzi, essi addirittura guardano ai contatti universitari con preoccupazione e scetticismo. Questo stato di cose arriva al punto che in certi luoghi, dove il cattedratico è membro della DPV, il locale istituto di psicoanalisi non intrattiene alcun legame con lui, e non prende nemmeno atto dei risultati scientifici colà conseguiti.

Il frutto dell'isolamento è la stagnazione. L'esposizione delle posizioni di Freud è spesso niente di più che una pura e semplice esegesi di Freud. Si considera un progresso il semplice fatto di includere nel piano di studi sviluppi della psicoanalisi, come ad es. quelli collegati a, tra gli altri, M. Klein, Kohut, Winnicott. Ma è questo un progresso nel senso della dialettica scientifica? A regola le cose non stanno così: ci si limita a sostituire una dottrina con un'altra. In questo modo sorgono scuole sempre nuove che si affiancano, più o meno isolate, alle altre. Dove si giunge mai ad un confronto critico tra le teorie a cui si rinuncia e le teorie nuove che vengono introdotte? Così, ad esempio, mentre una volta il complesso edipico stava alla fine dello sviluppo infantile, adesso lo si trova collocato all'inizio (M. Klein). Inoltre, attualmente così come in passato, si cerca di dimostrare la verità di una tesi con interpretazioni spesso discutibili di materiale tratto dall'analisi di adulti. Lo spirito scientifico richiederebbe al contrario che ad esempio le esperienze di Piaget, oppure quelle della neurofisiologia. Della sociologia, e di altri ambiti scientifici, venissero prese seriamente in considerazione, consentendo dunque, a seconda dei casi, di rivedere le posizioni legate alla tradizione.

È dunque possibile che in questo modo il potere a livello di training e di analisi didattica venga ridimensionato? Io credo di sì. L'incontro con altre scienze fornirebbe un contrappeso al pericolo dellidentificazione con la dottrina insito nell'analisi didattica, e quindi diminuirebbe il ricorso ad atteggiamenti fideistici e a rapporti improntati alla dipendenza. Un tale incontro renderebbe possibile un atteggiamento aperto e critico, e fornirebbe inoltre stimoli alla ricerca. Un tale atteggiamento dovrebbe anche consentire di superare la condizione di prigionieri all'interno del proprio sistema, e quindi finalmente condurre a sottoporre anche il sistema di training e l'analisi didattica ad una riflessione più critica. E da ultimo è bene ricordare che le istituzioni, così come Freud aveva detto a proposito dello stato, servono non tanto all'eliminazione delle ingiustizie e della violenza, quanto alla loro "monopolizzazione" (vedi da questo punto di vista il documento dell'IPA relativo agli analisti didatti, del 1985, e il perdurare del legame tra training e associazione nell'ambito della DPV).

Appendice: denaro e potere

Per motivi economici, e per altri motivi molto complessi (cfr. Pulver, 1978, e Cremerius, 1985), il numero dei pazienti con cui lo psicoanalista può condurre un'analisi di lunga durata a quattro ore settimanali in setting classico sta diminuendo sempre più in tutti i paesi europei e negli USA. Ciò significa che gli analisti praticanti hanno ben poco spazio per condurre analisi classiche a quattro ore settimanali. Nella RFT quelli che riescono ancora a farlo sono solo il 10% dei membri della DPV afferenti al sistema mutualistico di assistenza della popolazione – a loro volta questi ultimi rappresentano il 96% del totale dei membri dell'associazione stessa. Al contrario, gli analisti didatti continuano a lavorare nel setting classico (Pulver, 1978, e Holder, 1984). Tutto ciò ha anche degli effetti sul piano finanziario: nella RFT gli onorari dei didatti sono tra il 20 e l 80% più alti di quelli relativi ai trattamenti mutuabili. Più importante ancora è comunque il fatto che le analisi didattiche durano oggi mediamente 6-7 anni, mentre le terapie finanziate dalle mutue raramente vanno al di là dei tre anni. In altre parole, il didatta dispone per questo arco di tempo di un reddito al riparo da crisi, al riparo da crisi anche nel senso che il tasso di interruzione è molto inferiore nell'analisi didattica rispetto alle analisi terapeutiche. Non deve quindi meravigliare il fatto che ci siano didatti che hanno in analisi didattica fino a nove colleghi in contemporanea. Anche negli altri paesi europei la situazione è simile. Però, dal momento che non vi è psicoterapia coperta dalle mutue, gli analisti praticanti, e in particolare quelli più giovani, hanno spesso troppo pochi, mediamente pochi, pazienti paganti.

Note

  1. "Freud non era d'accordo di soccorrere i nevrotici, che intendevano sottrarsi alla mobilitazione. Egli era del parere che essi dovessero tutti tentare di porsi al servizio dell'interesse generale. Ciò che avrebbe fatto loro bene." ( Jones, vol.2) Gli analisti dell'istituto Goering di Berlino proseguirono in questa tradizione. Essi trattavano nel policlinico dell'istituto soldati, che vi venivano inviati dagli ospedali militari, allo scopo di ristabilire nuovamente le loro capacità di combattimento.
  2. Questo modo di pensare dev'essere stato a suo tempo moneta corrente in campo psicoanalitico. È in questo spirito che Rank formulò (1928) le seguenti considerazioni: "Nella cosiddetta analisi didattica si puÚ anche accettare di dimettere l'allievo una volta pervenuto ad una buona identificazione con l'analista, dal momento che lo scopo che in realtà ci proponiamo è che l'allievo finisca con l'assomigliarci". Oppure, quando Sachs parla di noviziato intende dire la stessa cosa.
  3. Cose sorpassate, storie legate soltanto all'infanzia della psicoanalisi? Proprio per niente! Mc Laughlin nel 1979 affermava quanto segue: " Parlando in concreto va detto che se uno dei casi di chiara inadeguatezza sopra menzionati dovesse capitare alla mia attenzione – e qui l'autore si riferisce a candidati con difetti squalificanti – io sarei obbligato a mettere sia il candidato che l'istituto al corrente della mia impossibilità a procedere in maniera analitica col candidato stesso, e inoltre insisterei, come condizione per l'lteriore permanere del candidato presso l'istituto, per la consultazione di un secondo analista didatta" (Mc Laughlin, 1973)
  4. Chi voglia spiegare questo atteggiamento dell'ordine della politica di potere con il fatto che gli psicoanalisti in quanto minoranza repressa e perseguitata fossero costretti all'ortodossia e alla rigidità si sbaglia di grosso. Sta di fatto che la psicoanalisi raggiunse una posizione di grande potere nell'ambito della Repubblica di Weimar: le sue idee furono riprese ed elaborate dai maggiori scrittori dell'epoca, i libri di Freud passavano per best-seller a livello di biblioteche popolari, e, ciò che rappresenta un punto rilevante anche se meno noto, nel 1925 il trattamento psicoanalitico fu recepito a livello dell'ordinamento tariffario medico prussiano.
  5. In questi pezzi di letteratura si ritrovano quei caratteri del potere che da allora, e cioè dal 1914, caratterizzano la psicoanalisi istituzionalizzata: – la presa di posizione prescientifica che l'istituzione stessa sa che cosa è la psicoanalisi; – il fatto che questo sapere è conservato da un capo, il quale vigila sull'applicazione dell'insegnamento nella sua purezza, e che dissuade chi se ne allontana; – il fatto che questo capo vuole e può preservare da eventuali errori le persone che vogliono apprendere la'nalisi; – inoltre dai discepoli si pretende buon contegno e autodisciplina; – infine, e con questo diviene chiaro al di là di ogni dubbio quale tipo di potere sia qui in questione, e cioè lo stesso tipo di potere da Freud scoperto nell'ambito dei movimenti di massa, chiesa ed esercito, un potere forte e segreto, a capo del quale sta un gruppo piccolo ed elitario, i cui membri indossano i simboli segreti del potere stesso (uniformi, ecc.)
  6. Ho ancora da raccogliere l'interrogativo se tutto questo, che ci appare così non analitico e antianalitico, non possa essere espressione del fatto che sia mancato lo strumento teorico per una comprensione psicoanalitica di questi processi. Naturalmente, dopo il 1915, e cioè dopo che Freud ebbe completato i suoi scritti sulla teoria e sulla tecnica della psicoanalisi, questo è fuori discussione.
  7. Senza dubbio ciò che Freud ha detto sulla differenza tra persone analizzate e persone non analizzate vale anche per l'analisi didattica: "Si ha l'impressione che non avremmo il diritto di meravigliarci se alla fin fine risultasse che la differenza di comportamento tra una persona non analizzata e colui che si è sottoposto ad analisi non è poi così radicale come vorremmo, come ci attenderemmo, e come affermiamo che in effetti sia." (Freud, 1937c, p. 510)
  8. Così non lo citò Thérèse Benedek nella sua relazione del 1969 sull'analisi didattica (Benedek, 1969)
  9. La situazione è davvero caotica. Nello stesso momento in cui risuona il richiamo ad un lavoro più lungo e più approfondito, ci si lamenta del fatto che il rigido sistema di selezione favorisce persone per le quali l'analisi non ha nessuna o soltanto poche possibilità di riuscire. E qui mi riferisco ai "normopati" (Bird, 1969), ai "candidati di imitazione" (Gaddini,1984), e quindi alle persone il cui interesse per la carriera analitica è maggiore di quello per l'analisi personale (Simenauer, 1984). È dunque il sistema che, attraverso i suoi meccanismi di selezione, produce le analisi estremamente lunghe e quelle di scarso successo.
  10. Quanto sia insoddisfacente l'esito dell'analisi didattica lo dimostra il fatto che molti colleghi alla fine del loro training si sottopongono ad una seconda analisi. Dal momento che molti colleghi, afferma Anna Freud, fanno solo una pseudoanalisi, ne incominciano più tardi una seconda, che essi considerano come veramente propria e "autentica" (A. Freud, 1976). Blaya-Perez, in un suo resoconto delle esperienze dei candidati, ha fatto la stessa affermazione di A. Freud: alla pseudoanalisi fa finalmente seguito una seconda "genuina" analisi presso un'analista di propria scelta. (Blaya-Perez, 1986). Anche le rimostranze espresse da Speier sul training psicoanalitico hanno lo stesso tenore (Speier, 1983)
  11. Mentre per il paziente autentico il setting rimane un oltraggio duraturo, contro cui egli si urta, che stimola movimenti transferali, e con cui si può lavorare, il candidato si sottopone invece al setting in maniera anche troppo docile. Egli non sega certo il ramo su cui è seduto, e questo tanto meno quando l'analisi didattica, così come attualmente accade nella RFT rappresenta l'accesso esclusivo ad un'esistenza ben pagata e sicura. E spesso è anche il motivo per il quale nell'analisi didattica le interruzioni sono molto più rare, sia rispetto a quel che succede nelle analisi terapeutiche, che rispetto alle analisi personali che hanno luogo nei "sistemi aperti". Sta di fatto che in quest'ultima situazione incomincia il training soltanto la metà di coloro che originariamente ne avevano fatto richiesta.
  12. M. Balint (1948): "L'analisi didattica offre ampiamente l'opportunità di trasformare un candidato mentalmente indipendente in un seguace appassionato". Widloecher (1983) parla del fatto che esse trasforma i candidati in analisti devoti.
  13. A questo proposito l'abuso di potere della psicoanalisi istituzionalizzata si lascia chiaramente mettere in evidenza: quando in questione è la politica, allora c'è ancora una teoria e una prassi psicoanalitiche definibili. Nell'ambito delle sedute scientifiche della stessa psicoanalisi istituzionalizzata però queste ultime non ci sono più. Ad esempio, Edward Joseph, ex presidente dell'IPA, dichiarò alla conferenza di Haslemere del 1976 che lidentità dello psicoanalista non può più essere definita in accordo coi paradigmi di Freud, e che, in conseguenza della mancanza di chiarezza sui principi e sulla prassi della psicoanalisi, questa identità non la si può più definire in maniera univoca (Meerwein, 1978)

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2 Commenti

  1. antonello.sciacchi16

    L’interazione della
    L’interazione della psicoanalisi con le altre scienze ne favorisce l’evoluzione scientifica, depurandola dalle incrostazioni dottrinarie che i vari maestri, Freud compreso, vi hanno depositato.

    Rispondi
    • Gmdonatolabella

      L’interazione della
      L’interazione della psicoanalisi con le altre scienze ne ostacola l’evoluzione filosofica, psicologica e culturale, impedendo alle “incrostazioni dottrinarie che i vari maestri, Freud compreso,” di contrapporsi a quelle di altri maestri.
      I nuovi criteri di “metodo scientifico” (economici, sociali e basati sull’evidenza) mal si addattano ad una “scienza” che teorizza e verifica emozioni e vissuti, transfert e controtransfert.

      Rispondi

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