Percorso: Home 9 Clinica 9 Un brodo di linguaggio. Lacan e la questione della significazione.

Un brodo di linguaggio. Lacan e la questione della significazione.

6 Lug 19

Di Fabio-Milazzo
«[…] l’uso del linguaggio proprio del sociopatico,
 paradossalmente,
 coincide con la nozione standard che comunemente si attribuisce al linguaggio,
la nozione, cioè, che intende il linguaggio come mezzo di comunicazione puramente strumentale,
ossia come un insieme di segni che trasmettono significati.
Il sociopatico usa il linguaggio:
in questo senso non ne è implicato ed è insensibile alla dimensione performativa
»
S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, p.35

Un soggetto parlato dall’Altro: lo strutturalismo.
Secondo Lacan il mitico abbandono dello stato di indifferenza primordiale, quello del «corps morcelé»,  e la castrazione successiva, con l’emergere dei ruoli sessuali, consente al soggetto di aprirsi all’Altro, la dimensione discorsiva del Simbolico. Après-coup la possibilità di articolare linguisticamente il trauma originario è la condizione per l’emergere del soggetto come Uno che si contrappone all’Altro. Il linguaggio dunque non è -in prima istanza- uno strumento, ma la condizione di possibilità della soggettività, ciò che dispone lo spazio di emergenza per la differenza sessuale. La perdita dell’oggetto primordiale scava uno spazio d’attesa che dispone l’individuo verso il mondo delle percezioni, la realtà significata attraverso il linguaggio. Catturato sulla catena il soggetto risulta irrimediabilmente diviso e con lui anche il suo pensiero, lo sguardo sul mondo che, lungi dall’essere trasparente e disinteressato, è non meno oggetto di sfasatura. Come dovrebbe essere chiaro è lo stesso linguaggio ad essere scisso e a non poter dire la verità- tutta sulla struttura che lo mette in riga. Ciò che Lacan chiama il Reale è proprio l’attestazione di questa impossibilità da cui «il carattere fondamentalmente deludente dell’ordine simbolico»[1] che del linguaggio è il registro d’elezione.
Da qui se ne deve dedurre che il legame tra Lacan e la «scienza del linguaggio» è necessario? Certo, la tesi sull’«inconscio strutturato come un linguaggio» ha legato indissolubilmente il suo nome a quello di Benveniste, Jakobson e, soprattutto, De Saussurre, il linguista ginevrino autore del fondamentale «Cours de linguistique générale». Lo stesso Jean Claude Milner[2] ha insistito sul legame tra Lacan e la linguistica evidenziando gli indiscutibili debiti teorici; la centralità del termine «significante» sembrerebbe chiudere il discorso, eppure, da parte nostra, riteniamo che il legame tra psicoanalisi e linguistica sia più complesso e che nel caso di Lacan si debba più propriamente parlare di utilizzi finalizzati all’elaborazione clinica piuttosto che di una condivisione epistemologica. Affermazioni come quelle contenute nel Seminario XVIII sembrerebbero dar ragione alla nostra tesi:
 
«L’interesse, l’ondata di interesse che ho contribuito ad apportare alla linguistica è, a quanto pare, un interesse da parte di gente ignorante. Beh, è già qualcosa. Se prima erano ignoranti, adesso si interessano. Sono riuscito a interessare degli ignoranti a qualcosa che non rientrava nel mio obiettivo, perché della linguistica, vi dirò, io me ne frego. Quello che a me interessa direttamente è il linguaggio, perché penso che è con il linguaggio che ho a che vedere quando devo fare una psicoanalisi»[3] .
 
Lacan sostiene che «i linguisti, i linguisti universitari, intendono in definitiva arrogarsi il privilegio di parlare del linguaggio»[4] ma, questa, per l’appunto è solo una pretesa irragionevole che non riesce ad intaccare l’intenzione lacaniana di fare «della linguistica un uso metaforico»[5] e non una celebrazione del suo «campo scientifico» il cui «statuto in questione è universitario»[6] e, quindi che «non può essere definito altrimenti che dal consenso di tutti coloro che sono accreditati in quel campo scientifico»[7].  «L’oggetto linguistico spetta ai linguisti definirlo»[8] e solo per questo Lacan si appoggia alle loro analisi facendone la fase propedeutica per analisi che hanno come fine sempre soltanto la pratica clinica. Il termine «significante» è indubitabilmente un debito teorico che Lacan ha contratto con Ferdinand De Saussurre, padre della linguistica contemporanea, ma l’uso fattone si discosta dall’impianto teorico-concettuale del linguista assumendo un valore e una finalità propria in relazione a quel «discorso, il nostro discorso scientifico [che] non trova il reale se non in quanto esso dipende dalla funzione del sembiante»[9]. L’unico discorso da indagare, anche attraverso la boite à outils della linguistica, è quell’artefatto che mostra l’impossibilità di ogni referenza tra parole e cose, in quanto «il significante è identico allo statuto del sembiante»[10]. A ben vedere è il linguaggio stesso a risultare un artefatto che può e deve essere indagato, anche con i mezzi della linguistica, purché sia chiaro che non sussiste alcun rimando ad un presunto mondo oggettivo posto al di fuori del soggetto conoscente. La critica ad ogni realismo ingenuo è radicale ma questo non fa di Lacan un «pernicioso idealista»[11], quanto un attento indagatore di quell’«apparato che è il discorso».[12] Non esiste nessun noumeno che attende il soggetto conoscente al di là del discorso e «la verità non è il contrario del sembiante. La verità è quella dimensione o demansion […] che è strettamente correlativa a quella del sembiante. La demansione della verità supporta quella della sembiante»[13]. Ogni fatto, in quanto effetto di discorso è un artefatto, «perché, per il discorso, non c’è niente di fatto, se posso dire così, non c’è di fatto se non il fatto di dirlo. Il fatto enunciato è insieme il fatto di discorso. Ecco cosa indico con il termine artefatto»[14]. Ogni fatto è costituito di parole, quindi la verità altro non è che un sembiante prodotto da relazioni discorsive di cui si devono indagare, anche attraverso le leggi della linguistica, le leggi d’emergenza. «Non c’è Altro dell’Altro, non c’è vero sul vero»[15] e l’unica possibilità per «far parlare la verità» è porre sotto la lente d’ingrandimento il «sembiante come oggetto proprio con cui si regola l’economia del discorso»[16]. Questo perché «non c’è che sembiante di discorso. Tutto ciò che è discorso non può che spacciarsi per sembiante, e nel discorso non si edifica niente che non sia alla base di quello che si chiama il significante»[17]. Quindi cos’è questo sembiante cui Lacan dedica il titolo del seminario XVIII? «Il significante è identico allo statuto del sembiante»[18].
L’inconscio è fatto di significanti che organizzano sintatticamente il mondo-possibile, da cui si comprende perché per Lacan ci sia «quel caro significante che si dice, si dice, si dice lacaniano quando si vuol dire che l’ho [Lacan ] indebitamente soffiato a De Saussure»[19]. Per valorizzare i debiti e i prestiti teorici che legano Lacan a De Saussure bisogna rapidamente attraversare la rivoluzione copernicana del linguista  ginevrino. Secondo quest’ultimo il segno linguistico è costituito da significante e significato[20], da una parte materiale, il suono, e una concettuale. In «questa entità psichica a due facce» gli elementi sono tra di loro legati in maniera inscindibile e si rinviano vicendevolmente piuttosto che indirizzarsi verso una realtà esterna; ciò ha scavato un solco difficilmente colmabile tra le parole e le cose, rivoluzionando così i termini del processo di significazione che, in prima istanza, non designa la realtà ma un insieme di relazioni interne al segno discorsivo. Il «ritorno a Freud» di Lacan muove da questa rivoluzione copernicana della linguistica ma non si esaurisce in essa. De Saussure distingue il «significato» dal «significante»: il primo è l’immagine concettuale che il segno esprime, il secondo è il supporto fisico sul quale poggia il significato; il legame che tiene insieme i due elementi è arbitrario anche se non può sussistere l’uno senza l’altro: «così l’idea di “sorella” non è legata da alcun rapporto interno alla sequenza di suoni s-ӧ-r che le serve in francese da significante; potrebbe anche esser rappresentata da una qualunque altra sequenza: lo provano le differenze tra e lingue e l’esistenza stessa di lingue differenti: il significato “bue” ha per significante b-ӧ-f da un lato e o-k-s (Ochs) dall’altro lato della frontiera»[21]. Il rapporto che lega significante e significato è evenemenziale e arbitrario perché contingente nel suo essere legato ad una certa epoca, ad una certa comunità di parlanti e, soprattutto, non è «necessario». Basti pensare al concetto di «cane» per il quale abbiamo diversi significanti per le diverse lingue: dog, chien, gou, pes, etc. Al di fuori di una certa communitas questo rapporto cambia non essendo necessario. Tra concetto e supporto fisico non c’è alcun legame dovuto, nessuna ragion d’essere: il loro stare insieme è l’effetto di una emergenza epocale, dei rapporti posizionali e differenziali che si strutturano tra gli elementi segnici lungo l’asse sincronico «della catena significante […] in cui la lingua mi è comune con altri soggetti»[22]. In un sistema così descritto ad un significato corrisponde un significante e non è possibile rappresentarsi l’uno senza fare riferimento all’altro. Il segno linguistico, come articolazione binaria inscindibile, produce i suoi effetti di significazione naturalmente[23], secondo un rinvio che celebra il significato facendone implicitamente l’effetto trainante di una convenzione cui il significante si adatterebbe. Viene frantumato il nesso che lega il segno al mondo attraverso la subordinazione del primo agli effetti differenziali che legano i due poli dell’algoritmo: significante e significato.
Lacan radicalizza gli assunti saussuriani relativi all’arbitrarietà del rapporto parole/cose e ribalta la priorità riconosciuta al significato dal linguista ginevrino. L’algoritmo si scrive: significante su significato, «dove il su risponde alla sbarra che ne separa le sue tappe»[24]. C’è una «barriera resistente alla significazione»[25] che trancia in due l’algoritmo rendendo l’essere un effetto dello scorrimento sulla catena del significante. E’ la differenza tra i significanti a produrre la significazione che si configura nei termini di un valore differenziale tra elementi che singolarmente non possono significare loro stessi. La sbarra dell’algoritmo comprime lo scivolamento dalla parte del significante che non interagisce più con il significato ma lo produce come scarto di successivi spostamenti che devono essere indagati nel transfert: «il discorso dell’analista non è nient’altro se non la logica dell’azione»[26]. Di quale azione? Ma di quella che produce incessantemente lo scivolamento significante. La celebre critica di Derrida riguardante un presunto «logocentrismo» veicolato attraverso «un supplemento di quadrato la cui apertura complica il calcolo»[27] non coglie nel segno. La rappresentazione della scena sempre mancante in quanto rimandata attraverso le disseminazione, ma in realtà sempre presente nella forma di contenuto raddoppiato, non individua un eccesso di stabilità proprio perché il significante, preso nella sua singolarità, non rimanda all’identico ma piuttosto al diverso del rapporto attraverso il quale produce significazione. Nessuna stabile presenza anima il significante, poiché non c’è mai un solo significante ma sempre almeno due legati da un rapporto differenziale, lo stesso che retrospettivamente consideriamo essere l’effetto della castrazione. Il presunto strutturalismo di Lacan, che queste affermazioni potrebbero giustificare, può essere individuato in una intuizione: è «più facile comprendere l’inconscio considerando il funzionamento di un sistema a cui si attribuisca il minor numero possibile di proprietà specifiche»[28]. Le proprietà minime sono quelle che costituiscono la catena come sistema differenziale che tende verso la significazione:
 
«Se il nome del sistema qualsiasi è quello di struttura, il nome del sistema qualsiasi ricondotto alle sue proprietà minime è quello di catena. […] Non considerare un elemento qualsiasi se non nella prospettiva delle proprietà minime che ne fanno l’elemento di un sistema è l’ingiunzione che stenografa in Lacan il nome di significante. Questo nome è evidentemente e consapevolmente preso a prestito dalla linguistica, ma non è utilizzato come in linguistica»[29].
 
 
Quali sono queste proprietà? Sono quelle che regolano la logica della catena come sistema le cui parti si co-implicano: «non vi è catena se non di significanti; non vi è organizzazione di significanti se non nella catena»[30]. Da ciò consegue che l’effetto di significazione non è prodotto dal singolo significante, come ancora ipotizzabile alla luce dell’algoritmo saussuriano e come lascia intendere la critica di Derrida, ma dalla differenza tra due elementi che si succedono in un inesorabile divenire, così da poter parlare di una metafisica deltra” centrata sugli effetti prodotti dal gioco di presenze e assenze sulla catena.
 Dunque, il significante di per sé non significa nulla se non quella mancanza entro cui continuamente si dispone, sulla scia del tratto-unario, nel percorso di scivolamento. Nello spazio vuoto della «mancanza-a-essere» (manque-à-être), nel luogo dell’attesa perenne prodotta dalla castrazione, si dispone il significante nella sua oscillazione continua, nella sua tensione verso l’Altro. Si tratta di vedere quali sono le relazioni che organizzano la logica della catena e i suoi effetti di significazione.
 
La diga della significazione: la lettera.
 
Il soggetto si sviluppa in un brodo di linguaggio, da ciò ne consegue che «il discorso umano non è mai la mera trasmissione di un messaggio, ma asserisce sempre in modo autoriflessivo il patto simbolico basilare fra i soggetti comunicanti»[31]. Ogni presa della parola è un gesto performativo che, ancor prima di voler comunicare qualcosa, dispone le condizioni per l’emergere di uno spazio di condivisione con l’altro.  Lacan chiarisce la sua visione dello scambio discorsivo attraverso una nota formula: «L’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita»[32]. Con ciò vuol dire che la comunicazione prende vita «après-coup», come riflesso di un’istanza restituita dal ricevente all’emittente. Il soggetto che parla è innanzitutto parlato dal «grande Altro», la combinatoria di significanti che si rinviano l’uno verso l’altro generando uno spazio topologico paradossale e anonimo: «E’ come se noi, soggetti del linguaggio, parlassimo e interagissimo alla stregua di marionette, come se i nostri discorsi e i nostri gesti fossero dettati da qualche anonimo agire [agency] onnipervasivo»[33]. La parola emessa si muove in una dimensione anonima e collettiva che coincide con lo spazio dell’intersoggettività, un campo differenziale prodotto dall’irruzione del linguaggio e dalla socializzazione che esso comporta. L’Altro è quindi la «struttura», intesa come articolazione di significanti che si rimandano l’uno verso l’altro in un moto differenziale, che sorregge e rende possibile lo stare insieme degli uomini.
In Lacan la divisione è originaria, insanabile, e l’inconscio non è identificabile diacronicamente come deposito di esperienze passate e iscritte nel profondo, piuttosto è una questione di superficie, l’effetto della cattura del significante sul soggetto. La «spaltung» evoca l’Altro attraverso il significante che di per sé non indica nulla ma che nel suo scivolare inarrestabile produce dei significati. Ma cos’è il significato se questo non è la rappresentazione naturale dell’oggetto? Come già indicato è un effetto che si produce a seguito del movimento del significante sulla catena: un movimento inarrestabile che lo spinge a diventare altro-da-sé. Non appena se ne afferra uno, ecco che immediatamente siamo rinviati ad un altro, e poi ad un altro e poi ad un altro ancora: questa è la catena. Lo scivolamento lungo i binari del discorso è tendenzialmente infinito essendo animato da una domanda impossibile che pulsa la «luce [del significante] nella tenebra delle significazioni incompiute»[34]. L’ essere del significante è solo quello di non essere qualcos’altro. Differenza originaria che si tiene in piedi perché il significante non fa altro che muoversi, che diventare altro-da-sé. Un interrogativo: cosa impedisce lo slittamento di questo significante e, quindi, la deriva psicotica? La «sbarra […], una barriera resistente alla significazione»[35] che assume un valore centrale nella decostruzione dell’«illusione che il significante risponda alla funzione di rappresentare il significato»[36]. «Ciò che è significato non è dunque mai il senso stesso, ciò che è il significato, in un’accezione ristretta, è il concetto, mentre in un’accezione larga è ciascuna cosa che può essere definita dalla distinzione che questo o quell’aspetto del senso mantiene con essa»[37]. Quindi, il significato è sia la cosa designata, il suo concetto, che l’effetto dell’articolazione significante, «lo stato di cose con le sue qualità e relazioni reali»[38], vale a dire l’effetto della posizione sulla struttura. Come afferma Jean-Claude Milner, «la struttura è un minimo […], mostrare come funziona un elemento è già mostrare come funziona la struttura. Si vedono la somiglianza e la differenza rispetto a Saussure: quest’ultimo adotta il concetto di segno e ignora il concetto di struttura»[39]. La logica della catena implica che la «significazione» sia l’effetto «della sostituzione del significante al significante»[40] attraverso il «mantenimento della sbarra» che resistendo alla piena denotazione («Bedeutung») rende possibile lo scivolamento differenziale e l’emergere di quell’effetto di superficie che è il «senso». In questa teoria la «sbarra» riveste un ruolo centrale perché co-stringendo il significante nel suo percorso di scivolamento rende possibile la logica significante, cioè «fa sì che non ci sia che rinvio, differenza, tra i significanti»[41]. E’ la condizione di possibilità del processo, non soltanto perché lo rende possibile ma anche perché ne rappresenta l’argine, il limite che impedisce la «disseminazione» fuori-catena. Qual è il nome di questa «sbarra»? Il suo nome è la «lettera», il rovescio del significante, il suo supporto materiale, meglio: il suo peso specifico.
Questa declinazione del concetto di «lettera», come spesso accade in Lacan che usa riprendere e rimodulare gli elementi della sua particolare grammatica, non è l’unico possibile e nel corso del tempo è andato incontro ad una torsione che ha il suo apice in «Lituraterra»[42]. In quel testo, originariamente pubblicato sul numero 3 della rivista «Littérature» (1971), si definisce la differenza tra il limite, la frontiera, che dovrebbe indicare il confine tra due territori e il litorale che invece rimanda ad un ambito più indistinto, sfumato. La lettera, in «Lituraterra», indica una soglia mutevole soggetta ad erosione ma non per questo a netta separazione, diversamente da quanto ritenuto ai tempi del Seminario su «La lettera rubata»: «La frontiera, certo, separando due territori, simbolizza che sono la stessa cosa per chi li valica, che hanno una misura in comune»[43].  Diversamente, negli anni cinquanta, al tempo dell’«Istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud», ciò che interessa a Lacan è sviluppare la sua logica significante, evocando il funzionamento della struttura e sottolineando quanto l’inconscio sia strutturato dal linguaggio. La «lettera», in quanto sbarra dell’algoritmo, svolge il ruolo fondamentale di impedire qualunque ingenuo riduzionismo basato sul principio di identità e, quindi, sulla possibilità di catturare  la verità della cosa per se stessa. Per questo è il risvolto osceno del significante e determina l’effetto di un dispositivo che «non solo è reperibile, essenziale, per indicare la funzione primaria della verità, ma senza questo riferimento è impossibile qualificare il discorso»[44]. La verità del significante sta quindi nella lettera, l’impossibilità che buca il discorso dal di-dentro impedendo la chiusura del cerchio e, quindi, il pronunciamento della verità-tutta. Essa è sempre sottratta, nascosta alle spalle del significante come condizione del suo incedere, del suo differire, del suo perenne mancare il posto assegnatogli. Possiamo così affermare che il carattere Reale di questa lettera, che Lacan andrà sottolineando, è presente sin dagli anni cinquanta come attestazione di un’impossibilità costituente interna all’ordine simbolico e al suo funzionamento. Se quindi il «trauma del linguaggio»[45] dispone le condizioni per l’emergere della soggettività attraverso la sua cattura nel simbolico, l’inconscio, nella grammatica lacaniana, è il processo di scrittura e di ri-scrittura del trauma in questione. E la verità di questo soggetto non può che essere metonimica, differita, riguardando la posizione assunta nei confronti di ciò che resta fuori dalla catena nei termini di una sottrazione. Il grande problema per questo soggetto è come disporsi nei confronti di una struttura entro cui resta impigliato e che non offre alcuna garanzia considerato che «non c’è nessuna significazione che si sostenga se non nel rinvio a un’altra significazione»[46]. Come evitare il senso di smarrimento e le sue conseguenze? Attaccandosi alla sbarra, cioè imparando a prendere posizione nei confronti della menzogna che questa garantisce impedendo la significazione naturale. Imparare, cioè, un passo dopo l’altro che non c’è altra verità che quella prodotta sulla superfice della catena nei termini di una finzione. Una finzione ben orchestrata, certo, ma pur sempre una finzione, anzi per dirla con Lacan: un sembiante. Si comprende così un po’ di più un interrogativo di Lacan e la risposta offerta: «Ma questa lettera come bisogna prenderla? In un sol modo: alla lettera. Designiamo con lettera il supporto materiale che il discorso concreto prende dal linguaggio»[47].  Nessuna certezza, nessuna verità, se non quella offerta dalla girandola significante che è un sistema non chiuso che funziona perché c’è sempre una casella vuota da occupare, quella entro cui scivola il significante gravato dal suo peso specifico, dalla sua consistenza materiale: «non vi è struttura senza serie, senza rapporti tra termini di ciascuna serie, senza punti singolari corrispondenti a questi rapporti; ma soprattutto che non vi è struttura senza casella vuota, che fa funzionare tutto»[48]. «L’Uno come tale è l’Altro»[49], in quanto tensione tra almeno due elementi che non possono identificarsi se non per differenza, attraverso un continuo rinvio che consiste nell’occupazione temporanea della casella vuota, lo spazio liberato «e non collocato, non conosciuto, occupante senza posto e sempre spostato»[50].
La lettera in quanto mancanza è l’essenza paradossale di questa struttura che funziona in virtù di una casella vuota, l’eccezione che impedisce al sistema di chiudersi e completarsi. Questa «altro non è […] che ciò che manca al suo posto»[51], il segno della mancanza in quanto tale e della domanda che si apre in questa apertura, che, per certi versi, coincide con la verità della struttura stessa. Verità che Lacan definisce non-tutta, impossibile a dirsi, poiché  sfugge ad ogni tentativo di cattura, proprio come il significante il cui essere abbiamo visto configurarsi solo per il fatto di non essere altro. E’ il caso delle tacche sull’osso del cacciatore, o delle «placchette smaltate» affisse su «due porte gemelle» per indicare la differenza tra i posti assegnati agli uomini e alle donne «per soddisfare fuori casa i [loro] bisogni naturali»[52]. La struttura produce significazione per differenza sull’asse orizzontale e non è possibile assumere alcun punto di vista privilegiato, esterno al sistema, per catturare la verità dell’insieme simbolico. Il significante che indica il posto assegnato agli uomini non è arbitrario semplicemente perché non c’è alcun riferimento naturale in grado di giustificarlo: è tale solo per differenza rispetto al posto assegnato alle donne. Da qui una constatazione: la differenza è originaria e la sbarra è l’argine che impedisce ogni ingenuo rinvio a presunti significati naturali, facendo della significazione un effetto della permutabilità infinita dei significanti sull’asse orizzontale della catena. Nessuna regola è in grado di assegnare i posti a-priori poiché questi si rinviano a vicenda determinando così la significazione: l’uomo si dirigerà verso il proprio posto dopo aver riconosciuto che non è quello assegnato alle signore. Una struttura di rimando continuo, questa appena descritta, che ha tra le sue conseguenze logiche l’impossibilità della chiusura in forma di tutto. «Non c’è metalinguaggio. Qualsiasi logica è falsata se parte dal linguaggio-oggetto»[53] – afferma Lacan – perché ogni catena discorsiva funziona in virtù di un’eccezione che la rende possibile, consentendo il rimando tra i significanti, ma al contempo la buca decompletandola. Il discorso è particolarmente interessante perché teorizza dal punto di vista logico una verità fatta propria dalla psicoanalisi fin dall’origine: la divisione del soggetto e la sua impossibile unità con se stesso. «Non c’è metalinguaggio» perché ogni verità espressa sull’uomo, sulla sua gettatezza («Geworfenheit»), deve essere pronunciata attraverso significanti che producono il loro effetto di significazione mediante il rinvio ad altri significanti, senza che si possa chiudere il cerchio, né uscire dalla catena di differenze che producono la significazione. Ogni verità che avanza pretese meta-discorsive si scontra dunque con l’aporia di dover essere pronunciata attraverso almeno due significanti che non consentono rimandi autoreferenziali. Da qui ne consegue che il discorso sull’Altro, essendo agganciato ad una mancanza che è originaria, non può essere esaurito dato che manca il punto di vista privilegiato, esterno al sistema, da cui poter pronunciare tutta-la-verità. Constatazione, questa, con cui deve fare i conti non soltanto la psicoanalisi ma, più in generale, ogni psico-sapere che pretende di affrontare la sofferenza dell’anima attraverso le formule fissate in un qualunque libretto d’istruzioni preconfezionato.

 



[1] Cfr. J.Lacan, Il seminario, libro IV. La relazione d’oggetto (1956-1957), trad.it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1996, p.197
[2] Cfr. J-C. Milner, L’oeuvre claire: Lacan, la science et la philosophie, Seuil, Paris 1995.
[3] Cfr. J.Lacan, Il seminario, libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante (1971), trad.it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1996, p.38.
[4] Ivi, p.35.
[5] Ibidem.
[6] Cfr. J.Lacan, Il seminario, libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante…cit., p.37.
[7] Ibidem.
[8] Cfr. J.Lacan, Il seminario, libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante…cit., p.38.
[9] Cfr. J.Lacan, Il seminario, libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante…cit., p.22.
[10] Ivi, p.9.
[11] Ivi, p.21
[12] Ibidem.
[13] Cfr. J.Lacan, Il seminario, libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante…cit., p.20.
[14] Ivi, p.7.
[15] Ivi, p.8.
[16] Ivi, p.12.
[17] Ivi., p.8.
[18] Ibidem.
[19] Cfr. J.Lacan, Il seminario, libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante…cit., p.80.
[20] Cfr. F.De Saussurre, Corso di linguistica generale…cit., p. 84.
[21] Ivi, p.86.
[22] Cfr. J.Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud  in Scritti, a cura di G.B.Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 499.
[23] L’implicito rinvio ad una presunta realtà esterna è stata notata da Benveniste che ha sottolineato come tale incongruenza falsi il ragionamento di De Saussure: «nessun aggancio naturale alla realtà» è un’affermazione che conferma ciò apparentemente nega, Cfr. E. Benveniste, Natura del segno linguistico in Problemi di linguistica generale , trad.it. di M.V.Giuliani, Il Saggiatore economico, Milano 1994, pp. 63-64. Per un inquadramento generale della questione vedi: S.Traini, Le due vie della semiotica. Teorie strutturali e interpretative, Bompiani, Milano 2006, p.35.
[24] Cfr. J. Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud  in Scritti, a cura di G.B.Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 491.
[25] Ibidem.
[26] Cfr. J. Lacan, Il seminario, libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante…cit., p.55.
[27] Cfr. J. Derrida, Il fattore della verità, trad.it. di F.Zambon, Adelphi, Milano 1989, p. 32-33
[28] Cfr. J. C. Milner, Il periplo strutturale. Figure e paradigmi, ed.it. a cura di B.Chitussi, Mimesis, Milano 2009, p.119.
[29] Ibidem.
[30] Cfr. J. C. Milner, Il periplo strutturale. Figure e paradigmi…cit., p.120.
[31] Cfr. S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, trad.it. di M. Nijhuis, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p.34.
[32] Cfr. J.Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in Scritti, a cura di G.B.Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 291.
[33] Cfr. S. Žižek, Leggere Lacan…cit., p. 30.
[34] Cfr. J.Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud …cit., p.495.
[35] Ivi, p.492.
[36] Ivi, p.493.
[37] Cfr. G.Deleuze, Logica del senso, trad.it. di M.De Stefanis, Feltrinelli, Milano 2005, p. 41.
[38] Ibidem.
[39] Cfr. J.C.Milner, Il periplo strutturale. Figure e paradigmi…cit., p.128.
[40] Ivi, p.510.
[41] Cfr. A.Pagliardini, Jacques Lacan e il trauma del linguaggio, Galaad Edizioni, Giulianova 2011, p.153.
[42] Cfr. J.Lacan, Lituraterra in Altri scritti, trad.it. a cura di A.Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, pp.9-22.
[43] Ivi, p.12.
[44] Cfr. J.Lacan, Il seminario, libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante…cit., p.19.
[45] Questo il titolo di un interessante studio nel quale Alex Pagliardini analizza il legame tra il linguaggio, nelle sue diverse articolazioni, e il trauma istituente la soggettività: A.Pagliardini, Jacques Lacan e il trauma del linguaggio, Galaad Edizioni, Giulianova 2011.
[46] Cfr. J.Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud in  Scritti…cit., p. 492.
[47] Cfr. J.Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud …cit., p.490.
[48] Cfr. G.Deleuze, Logica del senso…cit., p.53.
[49] Cfr. J.Lacan , Séminaire IX. L'identification (1961-1962), lezione del 29 novembre 1961, inedito
[50] Cfr. G.Deleuze, Logica del senso…cit., p.51.
[51] Cfr. J.Lacan, Il seminario su La lettera rubata in Scritti, a cura di G.B.Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 22.
[52] Cfr. J.Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud …cit., p.494.
[53] Cfr. J.Lacan, Il seminario, libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante…cit., p.114.

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    davvero il poco da molti farebbe il bene di tutti…
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