mille paludi, questa
miniera irrequieta,
questo vaso di tenerezze
mal esaudite
Amelia Rosselli
L’esperienza vissuta dal "corpo proprio" investe uno dei nodi essenziali della psicopatologia, come discorso della psiche e discorso sulla psiche, costituendo uno dei problemi più appassionanti dell’indagine antropofenomenologica. Anche dopo il più accurato studio neuropsicologico delle cosiddette "agnosie corporee", va riconosciuto che questo tipo di indagine e di riflessione schiude l’orizzonte ad una inequivocabile dimensione antropologica, cioè ad esperire il corpo come presa di coscienza che ci sottende nella nostra mondanità. Anche dove l’oggettivazione sembrerebbe la cosa più scontata ed ovvia, la riflessione fenomenologia ci porta inevitabilmente a recuperare quell’insopprimibile istanza "prossima all’io" che fa del corpo il cardine essenziale della presenza-al-mondo, e che ci fa intendere la corporeità senza riprodurre il dualismo soggetto-oggetto. Maurice Merleau-Ponty, al cui pensiero chiunque si occupi di corporeità deve riferirsi, ha inteso sempre rinviare alla capacità di esperire il proprio corpo come soggetto ed oggetto nel medesimo tempo, con un’irriducibile "ambiguità", come una vera struttura dialettica che è il nostro trascorrere, la nostrastoria. In "Le visibile e l’invisible" (Paris, Gallimard, 1964) egli pone il riconoscimento del proprio io (corporeo) come simultaneo alla scoperta dell’alterità dell’altro. La scoperta dell’identità viene posta fin dall’inizio in una dimensione intersoggettiva (che davvero richiama il marceliano esse est coesse). E, specie dopo la lezione del Gestaltismo, si deve dire che neppure nelle alterazioni più "localizzabili" dell’esperienza del corpo si può trascurare il versante (obbligato) di tale risonanza nell’integrazione generale di questi disturbi "neurologici"; risonanza che fa del corpo l’esperienza primaria della presenza-al-mondo, dallo schema corporeo allo schema del Sé, da Oliver Sachs ad Hilde Bruch, donde l’esserci è sempre "embodiment" (Zaner).
Si può allora dire, con Sartre, che il mio corpo non è un corpo, uno dei tanti oggetti-corpo; esso è irriducibilmente ed originariamente mio perché fa tutt’uno con il soggetto che io sono. Il mio corpo è intriso di soggettività, è corpo-soggetto, non è solo schema o qualcosa che io ho: io sono il mio corpo. Questa precisazione rende necessario chiarire la distinzione tra "corpo vissuto e mondanizzato" (in tedesco, Leib) e "corpo anatomico o compagine somatica" (Korper), distinzione necessaria per uscire dall’equivoco della psicosomatica (Calmieri, 1995).
Nell’esistere, nella presenza, nel Dasein ci si muove costantemente fra i due poli dell’ "avere un corpo" e dell’ "essere un corpo". La prima esperienza accentua soprattutto il momento riflessivo, la seconda soprattutto il momento pre-riflessivo (ante-predicativo), e costituisce la coscienza incarnata in quanto esserci-al mondo: "mon corps est aussi ce qui m’ouvre au monde et m’y met en situation" (Merleau-Ponty, Ph. P., pag192), in quanto sorgente originaria del significato, sorgente primaria di ogni senso. Il "corpo vissuto", cui è rivolta una parte fondamentale del pensiero di Merleau-Ponty, va considerato da un triplice punto di vista, e cioè in quanto 1) "appartenente al mondo", 2) "esserci-nel-mondo", 3) "spazio-temporalità impegnata", cioè apertura verso (at) il mondo (Luijpen), intermediarietà.
Questa mondanità essenziale dell’uomo, questa radicale appartenenza mondana (la Weltlichkeit des Ichs, di Jurg Zutt), non significa tuttavia che noi siamo, in senso biologico meramente riduttivo, una parte del mondo, uno dei tanti elementi interessati in un gigantesco processo causale democriteo. La relazione tra l’uomo ed il mondo è un’ininterrotta vicenda diacronica, è un continuo transito dialettico. E il corpo appunto è processualità dialettica, che non conosce sintesi se non provvisorie (cfr. qui M. Richir, Nous sommes au monde, Gallimard , 1989); e Ludwig Binswanger: "il nostro corpo costituisce la ed è contemporaneamente costituito dalla nostra mondanità; esso è originariamente mondano". La coscienza incarnata è essere al mondo con l’intermediario del corpo, agente ed agito; e significa realizzare nel proprio peculiare ritmo esistenziale le estasi della temporalità, esperendole in un’individualità irripetibile ed irriducibile. La struttura ante-predicativa del corpo è chiaramente espressa dal vissuto nei primi stadi dell’età evolutiva (come indicato anche da notissimi indirizzi psicoanalitici): tutto lascia supporre che l’infante non solo non distanzia il suo orizzonte "oggettuale" dal proprio corpo ma, all’interno di se stesso, non riesce a distaccarsi dall’agire immediato. Si pensi a Jean-Luc Nancy ed al toccare.
E’ in tal modo possibile dire davvero che il corpo proprio implica in sé l’ "appartenenza", è l’essere costantemente esperito come mio: di esso riconosco in ogni momento l’inalienabile possesso, da esso non posso allontanarmi, non posso allontanarlo, neppure se lo sento estraneo, pesante, indifferente, ostile, spregevole, odioso. Mai il mio corpo perde la qualifica dell’appartenenza, che gli consente di essere una perenne e misteriosa sorgente di significati, di "donazione di senso", di quella "Sinngebung" husserliana che precede ogni simbolizzazione, ogni pensiero concettuale, ad un livello puramente vissuto (S. Briosi). Il mio corpo, così, diviene perennemente e preminentemente campo di espressione e campo di relazione: in ogni momento gli occhi, le mani, le dita, il volto, con tutti i loro infiniti movimenti o, meglio, moti, realizzano le mie intenzioni già prima che io le pensi (è questa appunto la sfera ante-predicativa, di cui parlano i fenomenologi), nella continua comunicazione di me corpo col mondo.
Ma, come intermediario nell’incontro con l’altro, il corpo significa anche la possibilità per l’altro di ritirarsi da me, di nascondersi a me, di velarsi, di occultarsi, di chiudersi o addirittura serrarsi, di ferire comunque la mia abitualità corporea, cioè quel dato primario del corpo, datomi come ovvio (la Selbstverstandigkeit di W. Blankenburg), per cui lo sento sempre invariabilmente me stesso, me stesso "in carne ed ossa", anche in situazioni d’eccezione. Forse si deve pensare che alla base di certe sindromi di depersonalizzazione somato-psichica (Callieri e Felici) si possa ritrovare una flessione della abitualità; spesso, quasi paradigmaticamente, il soggetto si lamenta di non sentirsi più lo stesso di prima, come se il suo corpo non fosse più suo, come se egli non ne avesse più la disponibilità. Si pensi anche a certe modalità dell’esprimere schizofrenico, ebefrenico, catatonico, artistico, delirante; ma anche, senza giungere a tanto pesante psicopatologia, si pensi alle modalità esistenziali della ritrosia, della vergogna, del pudore (De Vincentiis e Callieri), dell’ipocondria (Wulff), delle somatofobie; si pensi soprattutto al fastidio, al disagio profondo, inquietante, opprimente, all’ossessionante pensiero del "sentirsi satura di corporeità", pensiero tormentoso e perenne che impregna la giovane esistenza anoressica, per la quale il corpo è sempre percettivamente presente ed incalzante nella sua opacità: il sentirsi troppa di alcune giovani che appetiscono l’assoluta magrezza, nella mitizzazione delle figure della leggerezza (Ripa di Meana).
In circostanze particolari, il mio corpo si fa massicciamente presente ovvero si rivela e si estende al di fuori dell’oscurità solita, dell’adombramento abituale: significative, al riguardo, talune situazioni polarmente diverse; ad esempio il corpo mi si rivela "positivamente" nello sforzo vittorioso contro una resistenza, nello sdraiarsi dopo un faticoso lavoro, nel distendersi sulla sabbia al sole, nel dissetarsi dopo una lunga marcia, nella carezza del desiderio, fervida ed indugiante, nello svolgersi crescente di una azione sessuale, etc…In queste circostanze, e in tante altre consimili che trapungono l’esistere quotidiano, io sono in toto il mio corpo e il corpo diviene totalmente io (je n’est un autre — Lacan). Ancora meglio: non è che qui il mio corpo mi si faccia semplicemente presente, giacchè "in lui" io mi attuo e realizzo completamente, anche se solo in lui, cioè soltanto nella dimensione della corporalità: tanto è vero che ne traggo accesi sentimenti di pienezza e di sicurezza, di godimento e di piacere, di distensione e di soddisfazione, senza splitting alcuno, senza cesure o gaps.
Il corpo, invece, mi si rivela "negativamente" quando emerge per ostacolare, per porsi a presenza limitante nello sforzo inane e vacuo, se mi si rivela come peso, come soma gravante, come negativo, puranco come fastidiosa evanescenza: si pensi ai multiformi dolori fisici, prurito urente, trafitture, bruciori, infreddolimenti regionali, mali di testa, si pensi alle innumerevoli forme e modalità di somatizzazioni dell’ansia, al peso della depressione vitale (che il genio poetico di Charles Baudelaire seppe così mirabilmente descrivere), al rallentamento psico-motorio, etc.
In tali occasioni, in codeste emergenze, improvvise eppur abituali, temute o sopportate, il corpo si fa "pesante", è ostacolo, viene esperito come limitante o bloccante il libero dispiegarsi e attuarsi, realizzarsi, proporsi nel mondo e costituentesi come diaframma opaco tra l’io e le cose: queste non vengono più sentite "a disposizione", "a portata di mano" (Heidegger, la Zuhandenheit") ma appaiono irraggiungibili, irraportabili alla propria esperienza vissuta: il corpo si svuota, come in certi stati di autismo ed in particolari condizioni di derealizzazione; per dirla con Blankenburg, il corpo non è più il mio partner, non mi garantisce più l’abitualità nel mondo, non si declina più in "mondanizzazione" (la nota "Verweltlichung", di J. Zutt). Basti qui pensare, per noi medici psicopatologi, alla giovane anoressica allo specchio, alla "Cinquieme Reverie du promeneur solitarie" di Rousseau, alle psichestesie d’allarme sporgenti sul precipizio della fobia, alle minacciose spazializzazioni incombenti a dis-misura.
A volte, il rivelarmisi del "corpo vissuto" non proviene (o per lo meno non mi pare provenire) dalle mie più inavvertite istanze egoiche, ma solamente dal fatto, anche sorprendente, che è proprio l’altro, l’altrui, a rivelarmi il mio corpo, meglio, me-corpo, facendomelo sentire e vivere e sommuoversi nelle profondità più sconosciute ed inesplorate della carne, come a volte accade in certe adolescenze (cfr. Borgna), in certe carnalità d’amore.
Cargnello ha richiamato magistralmente la nostra attenzione, ormai da decenni, su alcune modalità di proporsi del Leib, cioè del corpo-che-sono, di me-gesto, di me-carezza, di me-difesa, di me-chiusura, di me-rifiuto; eccole:
afferrante, cioè io-corpo che afferro ogni altro-da-me dalla parte che mi è concesso di prenderlo, in
senso fisico e traslato;
assumente, che cioè fa propria ogni ricchezza del mondo, impossessandosene con un’oralità
concreta o anche solo metaforica;
comparente, come apparizione fisionomica, che di per se stessa rivela la mia presenza agli altri e per
ciò che è nel suo attuale progetto;
mascherante, che cioè deliberatamente occulta il mio veridico essere;
portante, che "mi" porta nel suo divenire, indipendentemente dal mio volere, ma senza destituirsi
della sua "meità" (la "Meinhaftigkeit" di Kurt Schneider);
gravante, che "mi" pesa e mi intralcia nei miei progetti mondani, costringendomi a trascinarlo,
come gravame.
Mentre l’"intersoggettività mondana del corpo" si mostra profondamente incrinata nelle declinazioni psicopatiche dell’esistenza, nella corporalità sessuale normale è proprio questa consonanza di rapporto ad esperirsi, più o meno pienamente a riempire questo modo autentico di declinarsi nella relazione interpersonale. Ciò però è possibile soltanto quando il mio corpo non mi si dia come impedimento o come esplicito ostacolo; occorre che esso nella sua pienezza, nella sua solidità o fragilità, nel suo fiorire o appassirsi somatico(si pensi all’ Io-pelle, di Anzieu), nella sua compagine e tessitura, anche se declinante, mi si riveli come mia appartenenza, di cui ho completa disponibilità, non meramente strumentale bensì coesistenziale. Mai, forse, come in una tale situazione di incontro, il corpo-che-sono e il corpo-che-ho tendono a fondersi in inscindibile unità, in indivisibile sinolon, superando le opposte polarità di base e la loro fenomenica dialettica.
A questo corpo fungente inerisce, nella dimensione sessuale, quella fondamentale direzione "verso il fuori" che fonda e costituisce l’aspetto erotico della percezione, la comunicazione col corpo altrui. Ciò è possibile perché il mio corpo, nella sua modulazione esteriore, è ben più di una semplice presenza: è insieme presente e partecipante. Ciò sta ben ad indicare che la percezione non è mai rigorosamente oggettiva ma è piuttosto, husserlianamente, piena di intenzionalità. La sessualità dunque non è soltanto questione di un mero corpo corporeo, ma ad essa inerisce sempre una forma (o modo) di intenzionare l’altro, anche nelle situazioni che appaiono maggiormente destituite del carattere di incontro e più esposte al pericolo dell’oggettivazione radicale del corpo altrui (cosa inevitabile, secondo Sarte). Tale pericolo, più o meno marcate in molte situazioni psicologiche al limite, può essere superato tramite l’apertura ad un’autentica relazione umana, cioè quando il singolo è (o diviene) idoneo a ri-assumere l’altro nella sua intenzionalità, liberando così il "senso" del comportamento, pur sempre sorto a livello del Korper. Qui, sia detto per inciso, va individuata a parer mio la base giustificativa di ogni psicoterapia psicosomatica.
La pubertà e la tarda adolescenza costituiscono momenti particolarmente fragili per le alterazioni psicopatologiche dell’esperienza del corpo e del suo essere mondano. Qui è soprattutto la modalità dell’apparire corporeo a coinvolgere il proprio vissuto somatico, a tutto spessore: si pensi alla gravità del disturbo della "gender identità" (Stoller), si ponga la dovuta attenzione al dilagare dei problemi sollevati dal peso, dalla linea, dalle mode estetiche della figura , si pensi alle trasformazioni puberali somatiche, sovente ossessione ed incubo, alla dismorfofobia, all’esasperazione di certe cosmesi e "rifacimenti" plastici. Certamente l’esperienza (spesso fobica) della possibile deformazione di parti del corpo (naso, seno, anche, cosce, etc…) è rivelatrice di preoccupanti crisi maturative, coinvolgenti l’intera personalità in divenire e manifestantisi in codesto modo per il prevalere di un linguaggio somatico intensamente pervaso di significati emotivi, affettivi, simbolici, "prevalenti", suggestionanti, che ha facilitato le più diverse interpretazioni psicoanalitiche e favorito le spiegazioni psicogenetiche più disparate ed anche contrastanti fra loro.
La dismorfofobia, così minacciosa nel suo significato sovente annunciatore di psicosi dissociativa, sembra riguardare prevalentemente l’aspetto modale dell’ "io sono corpo in quanto apparente". In altri termini, qui l’esser corpo si sposta totalmente dalla centralità del rimanere ben racchiusi e celati in se stessi alla periferizzazione, rimbalzante sulla sfera estetica. Questo "spostamento" (si noti bene) può divenire un transito altamente rischioso, dal momento che quanto si porta alle estreme falde egoiche diviene facilmente passibile di controllo altrui, controllo critico, forse anche ostile e malevolo, cui ci si sente esposti, che umilia e ferisce e dal quale si rende arduo ogni recupero di salvezza. Si potrebbe affermare che, mentre l’ipocondriaco desidera richiamare l’attenzione su se stesso asserendo di non essere "normale", il/la dismorfofobico/a aspira ad apparire nella norma, ma teme in modo assillante ed angustioso che gli altri non possano non notare le sue deficienze, i suoi "difetti".
Queste modalità dell’apparire corporeo, così vulnerabili nella delicata fase psicologica (specie dello sviluppo dell’Io) della pubertà, si declinano dunque in multiformi esperienze di evitamento, fobiche (dismorfofobiche, ereutofobiche, etc.), nell’investimento lipidico esasperato sulla cosmesi della pelle, dal body building, alle creme, dai massaggi sofisticati alla palestra; e, non da ultimo, in diversi disturbi della condotta orale, dalle manie selettive dietetiche alla bulimia ma, soprattutto, all’anoressia mentale. Quest’ultima, io la intendo non soltanto come una forma particolare, in genere molto grave, di fobia ossessiva (non raramente anche di psicosi), ma anche come una vera appetizione, l’appetizione (addiction) della magrezza, come una vera e propria tossicomania, peculiare, incisiva, ad esplicitazione prevalente sul piano estetico dell’Erlebnis (Jurg Zutt). Qui l’integrità estetica magra del proprio corpo si pone imperativamente, come craving, come scopo perentorio e come unica realtà che interessi e coinvolga vitalmente. In realtà la mondanizzazione (la corporeità) dell’anoressico/a è estremamente scarsa di riferimenti alteregoici e di rimandi dialogici, è tutta assorbita da quel che si appare a se stessi, dall’"imago sui".
Ma è nella depersonalizzazione che si manifesta, con ampie possibilità di studio multidisciplinare, la pregnanza dialettica di essere corpo e di avere un corpo. Nel depersonalizzato i momenti costitutivi spazio-temporali della corporeità sono coartati, discontinui, diasarmonici, deformati. La prima a flettere è l’esperienza della abitualità corporea, per cui i caratteri del proprio corpo, con le sue qualità fisiognomiche e materiche, non sono più scontati, ma devono essere di volta in volta recuperati (spesso senza successo), controllati e riasseriti: per es. il guardarsi e riguardarsi le mani, con un controllo ripetitivo che è soltanto fine a se stesso. Il depersonalizzato coglie immediatamente l’esperienza oscura, ineffabile, del suo non-poter-vivere ogni accadimento della propria sfera esistentiva come avvenimento personale, che cioè lo concerne direttamente. E’, questa, un’esperienza pre-riflessiva, antepredicativa e, nella sua inequivocabile immediatezza, non può essere espressa altrimenti che ricorrendo all’analogia o alla categoria del "come se". Per tale via la auto-osservazione continua del depersonalizzato accentua nell’atteggiamento riflessivo il vanificarsi e il dissolversi dell’immediata compattezza dell’esperienza della realtà ("più mi osservo e più mi sento irreale"); il suo è un disturbato e difficoltoso attuarsi mondano, disancorato dalla spontanea e mobile spazio-temporalità dell’esserci.
Il discorso sulle alterazioni psicopatologiche della corporeità sarebbe vastissimo; pur nella loro sinteticità e incompletezza, le considerazioni qui svolte e gli inquadramenti qui proposti potrebbero offrire spunti utili per mostrare quanto sia rilevante, in questo campo, l’apporto dell’indagine antropo-fenomenologica; questa può aiutare a comprendere la complessa problematica inerente alla medicina psicosomatica e bio-psicosintetica (tema di questo convegno), inerente quindi, toto sensu, all’esperienza del corpo vissuto, alla sua partecipazione globale, olistica, alla vita interiore e di relazione. Non posso qui non ricordare il profondo insegnamento di Roberto Assagioli, illuminante e pionieristico, nonché Paul Ricoeur là dove dice che "il corpo si esprime in quella regione intermedia tra il fisico e il mentale che è il desiderio: confine tra il naturale e il culturale, tra la forza e il senso". Se è vero — come credo – che il corpo vissuto è il luogo della comunicazione e dell’incontro interpersonale, della koinonìa e della communitas, se è vero che esso è il luogo dell’appello dialogico alla con-vocazione, allora non può esservi nessuno che — studioso dell’umano- possa esimersi dall’approfondirne l’indagine e nessuno, forse, che possa restare insensibile di fronte al formidabile cap. 37 di Ezechiele, certamente "di profetico spirito dotato", sulla resurrezione della carne, sconvolgente capitolo che esprime nei secoli l’insopprimibile corporeità del nostro essere umani.
0 commenti