“Qual lungo cammino di tortura ha lei dovuto percorrere prima che l’esperienza disperata del delitto la strappasse [déchire] dall’altra se stessa….” (J. Lacan, 1933)
L’11 dicembre 2006, Rosa Bazzi detta Rosi (domestica) e suo marito Olindo Romano (netturbino) decidono di passare all’atto. Da qualche tempo meditano di uccidere la trentenne che abita al piano di sopra, Raffaella Castagna. Vogliono approfittare dell’assenza del marito di Raffaella, il bell’Azouz Marzouk, che è via per qualche giorno in Tunisia, paese da cui è emigrato. Verso le otto di sera, indossano guanti da cucina, aprono la porta di casa della vicina con una chiave datagli dall’ex-vicino, ma in casa c’è anche la madre di Raffaella: Olindo ammazza madre e figlia. Il piccolo Youssef – figliolo di Raffaella di due anni – piange disperato, e Rosi, che segue il marito, lo alza per i capelli e lo accoltella alla gola – il bambino spirerà dopo mezz’ora di agonia, dissanguato. Rosi ce l’aveva anche con il piccolo, “quel bambino non fa altro che strillare” ripeteva da tempo. Dopo di che i due danno fuoco a varie suppellettili della casa. Una coppia di vicini, di 50 e 60 anni, la signora Cherubini e suo marito Frigerio, notano il fumo, si avvicinano alla porta di Raffaella… Olindo uccide la Cherubini e taglia la gola a Frigerio. Costui non muore: dopo vari giorni di coma si riprende e denuncerà il suo aggressore. Questi però nel frattempo era già stato smascherato dagli inquirenti.
Dopo la mattanza, i due si tolgono i vestiti lordi di sangue e se ne vanno con la loro auto al McDonald di Como, quindici chilometri più in là, consumano panini e conservano lo scontrino – il loro alibi. Poi tornano a casa soddisfatti. “Finalmente, ora si è tranquilli!” esclamano rilassati. “Il fulmine era caduto, il legno bruciato, il sole definitivamente spento” (Paul Eluard). Il tutto in una graziosa palazzina, ex-cascina ristrutturata, al centro di Erba, prospera, anonima cittadina lombarda tra Como e Lecco, cattolica e operosa.
Due giorni dopo i coniugi Romano sarebbero dovuti andare davanti a un giudice, denunciati appunto dalla vicina, Raffaella. Da tempo i Romano accusavano la famiglia del piano di sopra di “fare troppo rumore”. Talvolta Raffaella e Azouz litigavano. Il padre di Raffaella aveva provveduto a far mettere un cuscinetto di moquette tra la casa della figlia e quei vicini così ipersensibili – nulla. Un giorno Olindo nel cortile aveva afferrato brutalmente Raffaella e questa l’aveva denunciato, chiedendo un risarcimento di 5000 euro. Un esborso tremendo! Rosi dirà agli inquirenti: “Eravamo esasperati perché noi eravamo stati aggrediti e finivamo sul banco degli imputati.” Inoltre, si lamenterà poi Rosi, “la Castagna ci prendeva in giro deridendoci. Ci diceva che ci avrebbe carpito del denaro e che poi lo avrebbe buttato via non sapendo cosa farne”. In effetti il padre di Raffaella – Carlo Castagna – è un noto imprenditore, proprietario di una catena di negozi di mobili trendy, noto filantropo; i Castagna sono una delle famiglie più prestigiose di Erba. La domestica e il netturbino si sentono perseguitati dall’ereditiera laureata in psicologia. Meglio ucciderli tutti. Volevano uccidere anche Carlo Castagna, “il più bastardo di tutti”.
Dopo la mattanza, i due si tolgono i vestiti lordi di sangue e se ne vanno con la loro auto al McDonald di Como, quindici chilometri più in là, consumano panini e conservano lo scontrino – il loro alibi. Poi tornano a casa soddisfatti. “Finalmente, ora si è tranquilli!” esclamano rilassati. “Il fulmine era caduto, il legno bruciato, il sole definitivamente spento” (Paul Eluard). Il tutto in una graziosa palazzina, ex-cascina ristrutturata, al centro di Erba, prospera, anonima cittadina lombarda tra Como e Lecco, cattolica e operosa.
Due giorni dopo i coniugi Romano sarebbero dovuti andare davanti a un giudice, denunciati appunto dalla vicina, Raffaella. Da tempo i Romano accusavano la famiglia del piano di sopra di “fare troppo rumore”. Talvolta Raffaella e Azouz litigavano. Il padre di Raffaella aveva provveduto a far mettere un cuscinetto di moquette tra la casa della figlia e quei vicini così ipersensibili – nulla. Un giorno Olindo nel cortile aveva afferrato brutalmente Raffaella e questa l’aveva denunciato, chiedendo un risarcimento di 5000 euro. Un esborso tremendo! Rosi dirà agli inquirenti: “Eravamo esasperati perché noi eravamo stati aggrediti e finivamo sul banco degli imputati.” Inoltre, si lamenterà poi Rosi, “la Castagna ci prendeva in giro deridendoci. Ci diceva che ci avrebbe carpito del denaro e che poi lo avrebbe buttato via non sapendo cosa farne”. In effetti il padre di Raffaella – Carlo Castagna – è un noto imprenditore, proprietario di una catena di negozi di mobili trendy, noto filantropo; i Castagna sono una delle famiglie più prestigiose di Erba. La domestica e il netturbino si sentono perseguitati dall’ereditiera laureata in psicologia. Meglio ucciderli tutti. Volevano uccidere anche Carlo Castagna, “il più bastardo di tutti”.
- Follia?
Questa strage ha impressionato profondamente l’opinione pubblica. Folle di vacanzieri si recano sui luoghi del delitto. Crea raccapriccio soprattutto l’uccisione del piccolo Youssef. Eppure Rosi e Olindo (43 e 45 anni) non hanno il physique du rôle dei mostri: due facce rotondette alquanto banali, esemplari eloquenti del ceto subalterno di cui sono parte; “gente quieta i Romano, silenziosi” dicono increduli i vicini. Olindo in particolare ha l’aria del brav’uomo, pare essersi lasciato trascinare da una moglie brianzola che i vicini tacciono di “isterichina”, dati i suoi non infrequenti litigi col vicinato. Nulla a che vedere, ad esempio, con il fascino tenebroso di Anthony Hopkins quando incarna Hannibal Lecter. Ci si chiede che cosa abbia trasformato due scoloriti vicini di casa, un po’ scorbutici, in spietati massacratori. Si domanda ai soliti psichiatri mediatici se non ci sia lo zampino della malattia mentale.
Ahimé, la psichiatria oggi è permeata dal DSM – il manuale diagnostico su cui sempre più le nuove generazioni psichiatriche vengono formate. E il DSM si interessa solo a sintomi e sindromi esplicite, non vede le strutture psichiche: per il DSM la patologia non ha alcun rapporto con i modi di essere “normali”. O si è affetti da un “disordine mentale” perché si hanno i sintomi a, b, c, d…., per almeno sei mesi, oppure niente. Al contrario, Freud interpretava le patologie classificate all’epoca in continuità dinamica con le strutture psichiche della gente detta normale, per cui si può avere un “carattere ossessivo”, ad esempio, senza soffrire specificamente di alcun sintomo ossessivo in senso psicopatologico.
Ma cosa ci impedisce di pensare che l’aver perpetrato un delitto efferato come quello di Erba, e per motivi ai nostri occhi così futili, sia di per sé un atto di follia? La follia sarebbe ciò che spiega certi atti estremi, o non sono questi atti estremi a esprimere follia? Franco Basaglia sfidava i giornalisti all’epoca a scrivere titoli come “Sano di mente uccide il vicino”; ma potremmo anche decidere che l’uccidere il vicino consegni ipso facto l’assassino alla categoria “malato di mente”. Purtroppo tutta la critica, talvolta sottile, dell’anti-psichiatria degli anni 60 e 70 (Laing, Esterson, Cooper, Szasz, ecc.), non ha lasciato traccia: ancor oggi si pensa che la malattia mentale sia qualcosa che si impone oggettivamente, aldilà dei criteri e paradigmi attraverso cui discriminiamo chi è “matto” da chi è “sano”. Il punto quindi non è stabilire se i coniugi Romano siano matti, ma in che modo il loro atto – così intriso dell’odor rancido della piatta normalità – riveli una follia acquattata tra le pieghe dei nostri rapporti sociali. Ognuno di noi conosce un vicino di casa bisbetico, bizzoso, querelante o querulomane – ma solo in rarissimi casi questi massacra dei condomini. Il passaggio all’atto omicida è raro, la follia del con-vivere-con-i-vicini è largamente diffusa.
Né ha molto senso la domanda “chi dei due coniugi è il matto?” Da tempo sono noti i deliri a due: una coppia – padre e figlio, madre e figlia, fratelli o sorelle – partecipa a un identico delirio. Talvolta il delirio si propaga in un gruppo intero – come nel 1978 in Guyana, quando si suicidarono tutti assieme 914 adepti del People’s Temple Christian Church del reverendo Jim Jones, uniti dall’angoscia per un’oscura persecuzione. Olindo e Rosi, anime siamesi, paiono saldati nei loro destini, sia psicopatologici che penali. La mia ipotesi è che, anche se in assenza di una patologia paranoica esplicita (le perizie psichiatriche ci diranno forse di più), il loro atto è paranoico.
2. Da Erba a Mans
Comunque del patologico, persino secondo il DSM, in Rosi c’è: la sua ossessione per la pulizia. La casa di Rosi e Olindo è un santuario del Pulito, una camera sterile. Nella loro casa non si vede un grano di polvere. E’ un caso che Rosi faccia la cameriera a ore? Aveva litigato con un’altra vicina perché questa metteva i panni alle finestre: “il pulviscolo poi mi entra in casa”. Anche il loro camper – unico loro possesso oltre la casa – è impeccabilmente pulito. Quando verrà incarcerata, per prima cosa Rosi chiederà di poter lavare i propri panni – e quelli delle altre detenute. Pagano ancora il mutuo della casa, sono fieri di un bel divano comprato a rate, che scadranno nel settembre 2007. Questa coppia immacolata non pare avere amici, i vicini sono impressionati dall’atteggiamento militaresco, rigido e inflessibile di Rosi. Olindo è “un orso”, persona alquanto diffidente, sembra succubo di questa moglie tirata a lucido. Appare un assassino per luce riflessa, una luna illuminata dal sole di odio della brianzola.
Solo un argomento sembra intristire Rosi: il non aver potuto essere madre. Una gravidanza extra-uterina, un’altra non portata a termine. Mentre Raffaella, là sopra, si gode un bellissimo bambino che piagnucola, e le “fa scoppiare la testa”….
Che cosa ci fa sospettare una paranoia in questa donna? L’affinità con altri delitti che sono stati riconosciuti, appunto, come paranoici. Il più celebre è probabilmente il delitto delle sorelle Papin.
Christine e Léa Papin, di 28 e 21 anni, erano da molti anni domestiche a casa di un procuratore legale nella cittadina francese di Mans. Una sera del 1933, a seguito di un banale alterco, le due serve si avventano sulla madre e la figlia del procuratore, le loro padrone. Ad ambedue cavano letteralmente fuori gli occhi dalle orbite mentre erano ancora vive, poi con strumenti di cucina le massacrano, sfondano la loro faccia, dopo aver messo a nudo il loro sesso tagliuzzano le cosce e le natiche dell’una per irrorare del sangue le cosce e le natiche dell’altra. Dopo l’orgia sanguinaria, le due Baccanti si lavano e se ne vanno a dormire spaurite e tranquille, nello stesso letto, dopo aver esclamato “Finalmente un po’ di pulizia!” (Questo umore sereno dopo il massacro, questo senso di profonda liberazione, coglie anche i coniugi Romano.) Prima e durante il processo, negano qualsiasi motivazione comprensibile al loro gesto. Questo fattaccio impressionò enormemente non solo l’opinione pubblica francese, ma anche molti intellettuali, e fino a oggi[1]. Le sorelle Papin sembrano “uscite armate di tutto punto da un canto di Lautréamont….”, scrisse esaltato Eluard. Il tempo passa, ma quel crimine in stile teatro elisabettiano continua a ispirare in Francia film, saggi, storie, meditazioni.
Nel 1933 sulle sorelle Papin scrisse un articolo sulla rivista surrealista Le Minotaure un giovane psichiatra francese destinato a un futuro di maître à penser: Jacques Lacan. Questi da poco aveva pubblicato una tesi di laurea in medicina sulla paranoia che aveva impressionato psichiatri e scrittori. Lacan applicava seriamente ai deliri, per la prima volta in Francia, le teorie di Sigmund Freud. Egli sosteneva che quello delle sorelle Papin era un delitto paranoico, del resto una delle due, Christine, dopo cinque mesi di prigione aveva presentato una crisi d’agitazione violentissima con allucinazioni terrificanti, cercava di strapparsi gli occhi così come aveva fatto con le sue vittime. Poi depressione, auto-accuse, rifiuto di mangiare, deliri. Il giorno del verdetto, ascolta in ginocchio il giudice quando sentenzia che verrà ghigliottinata sulla piazza di Mans. Secondo Lacan, anche se solo una delle due sorelle finisce col delirare, il loro atto è paranoico.
Il giovane psichiatra afferma che il paranoico elegge come persecutore una persona – per lo più del proprio stesso sesso – che aveva eletto in precedenza, o per altri versi, a sua figura ideale, come proprio Ideale dell’Io. Se io per esempio adoro Berlusconi come l’uomo ideale che vorrei essere, divento paranoico se mi convinco che Berlusconi mi perseguita; ad esempio, che è lui a rubarmi la posta dalla cassetta, ecc…. Il paranoico, variante persecutoria, è perseguitato dal proprio Ideale. In effetti il mio amore per Berlusconi si riflette rovesciato come in uno specchio: lui, anziché amare me, mi odia. Se poi passo all’atto aggressivo – se per esempio mi reco alla villa d’Arcore per accoltellare Berlusconi – è per liberarmi dalla minaccia soffocante che il mio Ideale, rovesciatosi in persecutore, esercita su di me. E’ come impegnare un duello fatale con la mia fulgida immagine allo specchio. Ma, aggiunge Lacan, quest’atto è segretamente auto-punitivo: sotto sotto io paranoico so che verrò acciuffato, processato, condannato. Il delitto paranoico non serve solo a liberarmi dal Persecutore: mira a punire me stesso come persecutore del Persecutore. E perché? Perché – per attenerci al nostro esempio – se è vero che Berlusconi è diventato il mio nemico, conserva malgrado tutto tratti della figura ideale: tentando di uccidere il Berlusconi cattivo, è anche il buono che elimino, cosa per cui vado punito. Nel fondo, il paranoico sa che la malvagità che denuncia nell’altro è un riflesso della propria.
Ammettiamo che quello dei coniugi Romano sia un delitto paranoico. In che senso Raffaella – la vittima designata del massacro – era una figura ideale per i due? E in che misura possiamo considerare questo delitto come un’inconsapevole auto-punizione? Diamo per assodato che la mente (paranoica) sia Rosi, e il marito il suo braccio. In effetti Raffaella aveva tutte le qualità per essere sua figura ideale: rampolla di una famiglia altolocata e pia, si era sposata un bel ragazzo e aveva qualcosa che Rosi non aveva mai potuto avere, un figlio. Sicura di sé, aggressiva – come lo è peraltro Rosi, donna dalla parlantina facile – Raffaella si era sposata contro la volontà dei genitori, secondo il copione classico dell’amore romantico: il matrimonio con Azouz era stato disertato dai suoi genitori, che però in seguito avevano accettato quella coppia. Anche qui peraltro c’è un’analogia con la storia di Rosi: anche costei aveva rotto con la madre, con cui viveva in una palazzina di Canzo; dal 2000 se ne era andata e non le aveva più rivolto una parola. Inoltre Raffaella abitava sopra di lei, e per certe persone vivere al piano di sotto è un grave peso simbolico: la superiorità sociale di Raffaella sembrava spazializzarsi nell’abitazione superiore. La domestica matura che uccide la ragazza di ottima famiglia – si tratta per caso di una sviata lotta di classe?
- Dallo charivari al rogo
Secondo Lacan, la paranoia è ab origine criminale: “ha sempre l’intenzionalità di un crimine, quasi costantemente quella di una vendetta, spesso il senso di una punizione, ovvero di una sanzione derivata dagli ideali sociali, talvolta addirittura si identifica all’atto compiuto della moralità, ha la portata di una espiazione (auto-punizione)”. Tutti elementi che troviamo nella strage di Erba. Rosi e Olindo si vendicano della famiglia dei vicini, li puniscono per una sospetta rumorosità, ma compiendo quest’atto morale essi imboccano un percorso di espiazione.
La funzione auto-punitiva pare emergere dallo stile maldestro, ingenuo, arruffato dell’eccidio. Perché ad esempio bruciare le suppellettili delle vittime, attirando quindi l’attenzione dei vicini, come di fatto è stato? Evidentemente quel rogo era un atto simbolico di purificazione, come quando la chiesa bruciava le streghe o gli eretici: Raffaella era per loro una strega, e quella famiglia – che univa la Lombardia cattolica all’Africa musulmana – era ereticale. Eppure quel gesto rendeva molto più rischioso quel delitto da dilettanti. Si dirà: forse hanno agito così semplicemente perché sono degli stupidi. E’ vero, l’immane riserva di stupidità di tanti nostri simili non va sottovalutata. Ma qui c’è dell’altro. Quando hanno detto a Olindo che Frigerio non era morto, che sarebbe uscito dal coma e avrebbe rivelato quindi chi l’aveva sgozzato, Olindo non ha fatto una grinza. Quella notizia non lo ha affatto gettato nel panico, né i due hanno cercato la fuga nella vicina Svizzera. Anzi, dopo il delitto, tutti avevano visto Rosi più calma, sorridente. “Quando non ci saremo più, vi ricorderete di una vicina di casa come me” ha detto a un vicino. Queste parole alludevano a una uscita di scena…. penitenziaria? E’ come se i due killers se ne fossero rimasti tranquilli aspettando di essere scoperti e arrestati. Come se lo sborsare un paio di migliaia di euro con cui forse avrebbero dovuto risarcire Raffaella non fosse stata una punizione sufficiente per il male di cui sono ricettacolo segreto: sentivano di meritarsi l’ergastolo. E’ come se la severità della punizione che li attende (a meno che gli avvocati non riescano a far riconoscere la loro semi-infermità mentale) fosse la sola alla misura del loro strazio. Il bagno penale emerge come parte integrante, costitutiva, del loro gesto.
Leggere il delitto di Erba come un delitto paranoico non ne annulla il significato sociologico, tutt’altro. Subito dopo la strage, i media avevano gettato il sospetto su Azouz, marito di Raffaella, che aveva già trascorso qualche tempo in carcere per traffico di droga e rapina. Poi si è scoperto che al momento del delitto Azouz era in Tunisia. Allora, da più parti si è interpretato l’atto dei Romano come “delitto xenofobo” o razzista. Qualcuno ha detto “la città intera ha armato le mani di quei due”. Certo è sempre possibile un’interpretazione del delitto in chiave xenofoba.
Nel Medio Evo la censura nei confronti di rapporti considerati irregolari, illegittimi, scandalosi, o addirittura peccaminosi, si esprimeva nello charivari, come lo si chiamava in Francia: gran parte della popolazione scendeva per le strade scampanando a più non posso, producendo insomma gran chiasso. Col rumore si mirava a non far passare sotto silenzio la magagna. E’ il lungo e tumultuoso conflitto tra i Romano e i Castagna-Marzouk una forma privatizzata di charivari? Non è una protesta per un’unione “contro-cultura” (che è il senso vero di quando si dice “contro-natura”)?: la rampolla benestante di famiglia cattolicissima che si mette con un mussulmano arabo impigliatosi nelle reti della malavita.
Non si tratta di escludere queste chiavi, ma di vederle nell’ambito di una dinamica paranoica. Che è sempre, anche, una dinamica sociale.
5. Paranoie condominiali
La paranoia è molto più diffusa nel territorio, come oggi si dice, di quanto non si creda. Talvolta scopriamo che il nostro integerrimo vicino di casa, o il collega irreprensibile che lavora al tavolo accanto al nostro, vive da anni un formidabile delirio. Il paranoico non è sempre il classico tizio che se ne sta con la mano destra infilata sotto la falda sinistra della giacca credendosi Napoleone. Di tanto in tanto questi mondi paranoici del vicino di pianerottolo emergono alla luce del sole – ad esempio, anni fa in Sicilia uno sterminò la famiglia dei vicini convinto che si trattasse di nefasti jettatori. Una volta mi venne a trovare un ingegnere affermato nel suo lavoro: dopo un po’ mi rivelò che quasi ogni notte venivano dei demoni a prelevarlo e a portarlo in volo per il mondo…. Mentre la schizofrenia ci colpisce per il suo carattere di rottura spettacolare, insomma come sacra, la paranoia invece è unta nella banale quotidianità, è secolare e profana.
Ma questo atto paranoico nel comasco si coagula sul terreno di un orrore dello sporco, a sua volta profondamente connesso alla fobia del vicinato. Per questa coppia assassina, i vicini portano lo sporco (innanzitutto materiale ma, in prospettiva, morale). “Ama il prossimo tuo come te stesso” – raramente si nota che Gesù non chiede di amare l’umanità intera, amare l’umanità è alquanto facile. Chiede di amare i vicini, cosa molto più difficile. Perché i vicini, di solito, ci minacciano.
Sono ben noti i casi di coppie – madre e figlia, o sorelle, o coniugi – che finiscono con il vivere blindati nella loro casa asettica e pulitissima, da cui sempre meno escono, e nella quale a nessuno o quasi è concesso di entrare. In certi casi drappeggiano le maniglie nel loro focolare con nylon o adesivi, per evitare che le loro mani imbarchino i virus circostanti. Passano ore del giorno nella toilette in continue e interminabili abluzioni. (Il magnate e produttore cinematografico Howard Hughes – su cui Scorsese ha fatto un film di successo, The Aviator (2004) – apparteneva a questo tipo.) Giustamente leggiamo questa ipocondria del contatto con lo sporco, la polvere, i corpi altrui, come una gigantesca metafora di evitamento dell’Altro. Altro con l’A maiuscola, appunto, perché non si tratta solo di evitare gli altri poveri mortali: l’Altro si incarna nel prossimo mio, ma resta in trascendenza rispetto a qualsiasi corpo altrui. Chi è ossessionato dalla pulizia teme che l’altro da sé, il diverso – se spazialmente contiguo – possa metterlo in forse, sfaldarlo. L’estraneo, l’altro sesso, l’etnicamente diverso, sono tutte figure di un’alterità che minaccia la coesione e integrazione del proprio Io. E’ la matrice psichica, emotiva e metaforica di ogni xenofobia – temere gli immigrati è un’ossessione ipocondriaca spalmata sul piano sociale. L’ambiente circostante va purificato dalla macchia dell’alterità – perché che cosa è lo sporco se non ciò che è “altro” rispetto a ciò che ammetto come mio proprio? Pulito non è ciò che mi è appropriato? Del resto, in francese propre significa sia “proprio” che “pulito”.
Nel caso di Rosi, l’inquinamento da eliminare non è solo tattile o chimico: è anche acustico. Rosi si sente invasa, penetrata, dai suoni della casa soprastante. Chi non ha avuto a che fare con vicini che protestano sempre perché facciamo troppo rumore? Vicini a cui non basta mai il nostro silenzio? Il punto è che i rumori circostanti ci penetrano, ci invadono, proprio quando siamo troppo interessati a essi. In città siamo attraversati da tanti rumori di cui non ci rendiamo nemmeno conto perché non vi prestiamo attenzione. L’ipersensibilità ai suoni altrui tradisce un segreto interesse, forse lascivo, per la vita del vicino, l’equivalente acustico del voyeurismo – écouteurisme potremmo chiamarlo. Rosi si lamentava che i coniugi di sopra litigassero spesso – ma non anche perché avevano coiti rumorosi? La sofferenza e il godimento del vicino ci turbano perché ci interessano: la contiguità dei loro affetti ci seduce e ci minaccia allo stesso tempo. Così il suono-pagliuzza che proviene dallo spazio dell’altro diventa boato-trave nello spazio nostro. Rosi l’écouteuse doveva trovare maledettamente interessante la vita di colei che ucciderà.
Eppure, l’orrore – tanto diffuso – per i vicini che impongono la loro presenza è l’altra faccia di una dipendenza essenziale al vicinato: vivere non per i vicini, ma dai vicini. I vicini peccatori, sporchi e caciaroni di cui occorre liberarsi sono anche, nel fondo, il nostro unico mondo, lo spazio in cui ci immaginiamo essere e ci sentiamo esistere. La contiguità spaziale con l’altro, lungi dall’essere tralasciata come casuale, viene promossa a ferrea implicazione esistenziale: se il vicino vive, io morirò – e viceversa. Ma se posso vivere solo grazie alla morte del vicino, allora la sua eliminazione certifica, ahimé, l’indispensabilità della sua presenza. E se poi, come suppongo, il vicino era o avrebbe potuto essere l’immagine ideale di me, io sento di poter esistere solo nel r-esistere a questo mio Ideale che mi schiaccia – Ideale di cui l’altro (il vicino) è l’immagine rovesciata, mostruosa. Qui vediamo come la paranoia in atto delinei una possibilità sempre attuale nello strutturare i nostri rapporti sociali: la tentazione di vedere il concittadino, il prossimo mio, come il mio implacabile nemico, proprio perché la sua presenza mi è indispensabile per essere.
6. Restaurare l’Ordine
Per Freud l’altro – il persecutore – è similis del soggetto paranoico, difatti di solito è del suo stesso sesso. Lacan sottolinea il carattere ideale di questo altro, immagine speculare idealizzata del soggetto stesso. Occorre sottolineare inoltre il carattere di superiorità gerarchica di questo Altro, in quanto garante o interprete di una legge sociale, esterna, trascendente il mondo familiare. Ora, perseguitando il soggetto (paranoico), questo Altro infrange però la legge di cui egli pur dovrebbe essere il garante. Il paranoico più celebre del secolo, il presidente di Corte d’Appello Daniel Paul Schreber – su cui Freud, Benjamin, Canetti, Calasso, e altri scrissero saggi famosi – era convinto di essere allo stesso tempo desiderato e perseguitato da un Altro che più Altro non si può: da Dio stesso. Questi cercava continuamente di sodomizzarlo per trasformarlo lascivamente nella sua amante donna. Ora, Schreber denuncia accoratamente quest’uso improprio del proprio corpo come "contrario all'Ordine del Mondo”. In ogni paranoia c'è una trasgressione, di cui l'Altro è responsabile, all'Ordine del Mondo.
Suppongo che anche per Rosi i Castagna agissero in senso contrario al supposto Ordine del Mondo. La ragazza laureata e di buona famiglia si era sposata con un tunisino “poco di buono” – come Rosi ripeteva – e i benpensanti Castagna avevano finito con il proteggere quella coppia disordinata. Lo charivari non bastava: occorreva un fuoco purificatore.
Entra qui in gioco una legge non scritta che pare svolgere una funzione importante in ciò che chiamerei legalità paranoica. In effetti, di solito i paranoici si rivolgono non a psichiatri ma ad avvocati: per denunciare appunto la persecuzione di cui si sentono oggetto. Questo appello alla giustizia non va ridotto a una semplice reazione di difesa da un supposto attacco. Il paranoico fa appello all'istanza della Legge in quanto questa appare aldilà del rapporto personale tra lui e il persecutore. E’ il tentativo di dare un'assise pubblica a un rapporto che si situa in un registro spaventosamente privato. Il paranoico, quando ferisce o uccide, è un giustiziere.
Nella paranoia il riferimento al pubblico è quindi essenziale. In certe forme oggetto del delirio è spesso un personaggio pubblico, una notorietà. Nella paranoia detta erotomaniaca, il soggetto è convinto di essere desiderato e amato da una personalità in vista, da una star, anche se non l’ha mai incontrata in vita sua. In altre forme piuttosto persecutorie, il paranoico lamenta la diffamazione, la calunnia, la messa in giro di maldicenze nei propri confronti. Insomma, la paranoia è sempre una patologia sociale – sia nel senso che il paranoico investe la società dei propri vissuti, sia nel senso che la nostra vita sociale è intrisa di interpretazioni paranoiche. Come già aveva rilevato Lacan, “Il delirio d’interpretazione è un delirio del pianerottolo, della strada, del foro” (Lacan 1932, p. 212).
Nel caso di Erba, non sono stati i Romano a rivolgersi alla giustizia, bensì le loro vittime – ma il risultato è lo stesso. I Romano affermano di essersi fatta giustizia da sé, dato che la giustizia sociale non li sosteneva: ma per loro sempre di atto di Giustizia si tratta. Mi chiedo se questa implicazione di un grande pubblico non sia un carattere essenziale di ogni paranoia: essa intreccia sempre due piani incommensurabili, quello del privato spesso molto intimo con quello di un pubblico a cui il soggetto ha accesso solo attraverso i media, lo spettacolo sociale collettivo. E come negare che i Romano siano stati autori di un enorme, per quanto raccapricciante, spettacolo mediatico?
Per ricapitolare, diciamo che in gran parte delle paranoie troviamo questi aspetti:
a) Agente della persecuzione è (di frequente) una persona dello stesso sesso, e per lo più una persona che occupa anche un ruolo sociale o legale superiore. Agli occhi dei Romano il persecutore princeps è l’imprenditore Carlo Castagna, “il più bastardo di tutti”.
b) Il delirio paranoico si sviluppa di solito in una sorta di frontiera logica, nel senso che i personaggi che mette in scena fanno collidere sfere diverse, cioè sfera pubblica e sfera privata; il delirio denuncia insomma un Disordine etico-sociale. Il paranoico di solito si sente scardinato da una rottura di un supposto Ordine del Mondo.
c) L’aurora di ogni paranoia è il sentimento dell'"essere preso in giro"; è una sensazione fondamentale, in quanto essa rileva la presenza di significati doppi e nascosti, anche se il soggetto non sa dire quali. Rosi si lamentava di essere presa spesso in giro da Raffaella.
d) La rilevanza di ciò che Giacomo Contri ha chiamato "il passaggio all'atto giuridico": il paranoico direttamente o indirettamente coinvolge le istituzioni giudiziarie della società, dando al suo dramma privato il carattere di scandalo pubblico e di questione da dirimere di fronte alle istanze della Legge e dell’Ordine costituiti. Nel caso di Erba, questo coinvolgimento giudiziario è passivo, è ciò che con il loro comportamento i due provocano, anche se vivono questo intervento della giustizia come un rovesciamento beffardo della Giustizia.
L’atto paranoico è quindi una tragica soluzione del rapporto problematico tra la nostra supposta identità e l’esistenza del nostro prossimo. “Amo l’umanità, odio la gente” è un’espressione usata in Italia. Eppure i vicini – ogni indagine sociologica lo mostra – sono esseri essenziali per molti di noi: da loro soprattutto ci aspettiamo la stima, ed il vicino che consideriamo migliore di noi (in tutti i sensi) ci detta le nostre preferenze, i nostri gusti, persino i nomi che scegliamo per i nostri figli[2]. Ma proprio perché i vicini danno regola alla nostra esistenza molto di più di quanto non siamo disposti ad ammettere, la loro presenza può rivelarsi radicalmente minacciosa. Come ben mostrò Roman Polanski nel film Le locataire (L’inquilino del terzo piano) del 1976.
Insomma, il mondo è pieno di Rosi e di Olindo – anche se, per fortuna, solo potenziali.
Contri , G. (1987) "Il lavoro di querela", La Psicoanalisi, 1, aprile 1987, pp. 178-189.
Freud, S. (1910) "Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente (Caso clinico del presidente Schreber)", 1910, Opere, vol. 6, Boringhieri, Torino, pp. 339-406; GW, 8, pp. 240-319.
Lacan, J. :
- (1932) De la psychose paranoïaque dans ses rapports avec la personnalité; riedito [anno non segnato] da Seuil, Paris.
- (1933) Motifs du crime paranoïaque. le crime des soeurs Papin, ristampa [anno non segnato] in Editions des Grandes Têtes Molles de Notre Epoque, Paris.
Levitt, S.D. & Dubner, S. J. (2005) Freakonomics, cap. 6, Sperling & Kupfer, Milano.
[1] Jean Genet si ispirò a questo caso creando il suo dramma più famoso, Les bonnes (1947), rappresentato in tantissime lingue. Nel 1963 Nikos Papatakis presenta al festival di Venezia l’applaudito film Les abysses, ispirato anch’esso a quel crimine. Nel 2000 il documentario En quête des soeurs Papin, di Claude Ventura, ricostruisce la storia delle due mitiche assassine. Anche Claude Chabrol si è ispirato in un film – La Cérémonie del 1995 – a quel crimine.
[2] Cfr. Levitt & Dubner (2005).
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