“La parola padre” è l’opera di Gabriele Vacis, che grazie alla sua forza evocativa e alla sua realizzazione continua a girare all’Italia e all’estero, giungendo fino a Roma al Teatro Piccolo Eliseo. È uno spettacolo nato grazie alla produzione e alle attrici della compagnia dei Cantieri Teatrali Koreja di Lecce nell’ambito del Progetto Archeo.S, finanziato dal Programma di Cooperazione Transfrontaliero IPA Adriatico, il cui obiettivo è salvaguardare il patrimonio comune territoriale e culturale di quei luoghi che si affacciano sul Mar Adriatico. Ha già vinto il Premio Best Actress Apollon 2012, l’XI International Theatre Festival Apollon di Fier (Albania) e il Premio “Adelaide Ristori” (Mittelfest 2014) migliore attrice a tutte le interpreti.
Al di là dei dati tecnici che si possono reperire direttamente dal sito di Koreja (http://www.teatrokoreja.it), non è senz’altro facile recensire uno spettacolo dello spessore emozionale e tematico come “La parola padre”. Lo dice già il titolo, lo spettatore avrà da fare i conti con la propria parola ‘padre’, pronunciata in diverse lingue e attraversata da vissuti differenti.
Sei giovani donne coetanee e provenienti da contesti e storie diverse si incontrano in uno dei tanti non-luoghi di questo tempo, un aeroporto, e il loro viaggio attraverserà un dialogo pieno di spazi e luoghi di memorie, evocazioni e racconti del passato che hanno riflessi sull’oggi e sul futuro.
Irina Andreeva (Bulgaria), Alessandra Crocco (Italia), Aleksandra Gronowska (Polonia), Anna Chiara Ingrosso (Italia), Maria Rosaria Ponzetta (Italia), Simona Spirovska (Macedonia) parlano, urlano ricordi, si confidano, ridono vagando negli antri della loro memoria infantile e adolescenziale e scrutando orizzonti di futuro. Figura costantemente presente è il padre che ha segnato la storia della tragedia greca, della letteratura, della filosofia e, senza dubbio, della psicoanalisi, basta semplicemente pensare a Freud, Jung e Lacan che nei loro diversi approcci non hanno messo da parte il tema della paternità tra padri immaginari, simbolici e reali.
Dalle interviste fatte a Gabriele Vacis e rese pubbliche dai giornali in occasione dello spettacolo emerge che le attrici sono state selezionate durante un giro di seminari tenuti da Koreja per l’Europa centro orientale. Vacis si è soffermato in lunghi dialoghi e interviste psicoanalitiche con domande sulla figura del padre, il rapporto con la patria e, di conseguenza, per le tre dell’Europa orientale con il comunismo, i ricordi dell’infanzia, i sogni e le paure.
Il regista si è soffermato soprattutto su una domanda cruciale: quando hanno provato paura, sentimento dominante del nostro tempo, e quando si sono sentite al sicuro?
Paura e sicurezza infatti sembrano i temi dominanti dello spettacolo messo in scena da Vacis. L’ora e mezza della “Parola padre” può valere più di diverse ore trascorse su un lettino psicanalitico. Accompagna nelle strade dell’infanzia, fa ricordare le strette di mano, amorevoli e no, del padre e degli adulti, rievoca le attese giganti di un mondo adulto, gli spaesamenti, le paure notturne dell'uomo nero, la ricerca del sé, i primi innamoramenti sbagliati, il superamento della figura del padre super.
Padre in bulgaro si dice БАЩА, in polacco OJCIEC, in macedone ТАТКО, lingue diverse di paesi con storie differenti che però rimandano al medesimo concetto con cui ciascuna ragazza deve fare i conti indipendentemente dalle proprie origini. Insieme alle sei attrici, anche gli spettatori si trovano costretti a pronunciare il nome del padre e ripercorrere vissuti emozionali del passato, superando tabù, resistenze e timori.
Per una il padre è il giudice supremo, per un’altra è addirittura Alessandro il Macedone a cui deve la forza e i conflitti della propria terra, per un’altra ancora il crudele, per un’altra il papà imbattibile che, inevitabilmente, crescendo scoprirà fragile.
Frammenti di racconto su padre e patria si intervallano con scene ambientate inizialmente nell’atrio di un aeroporto e successivamente in luoghi senza identità che sembrano caratterizzare un inconscio globale.
Non è importante il luogo, ma sono importanti i simboli. Sei ragazze che durante lo spettacolo indossano boxer maschili e con la carta igienica si creano un pene finto fanno facilmente pensare alla fatica di essere donne e mettono lo spettatore implicitamente davanti alle violenze di genere subite in ogni parte d’Europa nel passato e ancora oggi.
Allo stesso modo, sei ragazze che simulano il movimento di un videogioco fanno riflettere sulla rivoluzione della tecnologia che ha meccanizzato e mercificato tanti modi di essere.
Sei giovani donne che ricordano momenti dell’infanzia e piangono, riportano lo spettatore di ogni età nel mondo delle proprie angosce e delle proprie ferite.
Sembra questo il messaggio dominante: c’è una ferita costante con cui dobbiamo fare i conti.
La parola ‘padre’, con tutto ciò che rappresenta, dal papà dell’infanzia al legame con la propria nazione, per molti può essere una ferita che sempre ritorna per eccessi di presenza o assenza.
Le sei ragazze soffrono infatti il ‘padre’ come ciò da cui si devono liberare o ciò che devono riconquistare.
Si alternano rabbia e affetto, memoria e futuro, paura e desiderio come durante una seduta psicanalitica. Presenza costante è, pur con linguaggi diversi, la relazione tra le sei ragazze che parlano una lingua comune, oltre all’inglese: la comprensione delle ferite.
Un altro elemento costante sono delle grandi taniche d’acqua vuote che le ragazze, nei loro movimenti che intervallano una scena con l’altra, muovono, ordinano e fanno cadere.
Spesso evocano il crollo di grandi muri che dividono e l’erezione di altrettanti grandi muri che proteggono che non sembrano essere roccaforti esteriori, ma interiori. Anche la scenografia alterna immagini di difesa e immagini di espropriazione e paura. Si può camminare sull’acqua, altro elemento presente nella sceneggiatura dello spettacolo, e scivolare o indossare un paio di stivali che invece di permetterci di affrontare le pozzanghere, sono pieni di acqua.
Gli stivali pieni, il camminare e lo scivolare non sono certo un simbolo casuale, ma evoca ciò che c’è di fluido e mobile nell’esistenza e, al tempo stesso, costruttivo e distruttivo. Nasciamo nell’acqua dopo aver fluttuato per mesi nel liquido amniotico, ma possiamo anche annegare ed essere travolti dall’acqua.
Allo stesso modo, abbiamo necessità di un padre che dia sicurezza, che orienti, che ci affidi una storia e un’appartenenza identitaria, ma allo stesso tempo, questo non deve essere né un padrone né un supereroe, ma una presenza che dà senso.
Lo spettatore assiste ai dialoghi tra le ragazze e istintivamente vorrebbe intervenire, dire la sua, coinvolgersi e dentro di sé dipinge la propria immagine di padre e di patria. Si domanda e si interpella. Fa i conti con l’assenza di padri di questo tempo. Se credente, si misura anche con la propria immagine di Dio Padre. Nessuno, assistendo allo spettacolo di Vacis, è esente da domande e provocazioni. Chi già, uomo o donna che sia, esercita un ruolo di paternità, intendendo con questo un ruolo di guida o di educazione, è costretto a portare a setaccio i propri modi di accompagnare l’altro.
E grande retroscena in tutto questo è il tempo, il tempo che resta per riappacificarsi e continuare a vivere.
Scena finale sono le lacrime dello spettatore che è tornato bambino, che ha ricordato le proprie ferite, che fa memoria delle proprie origini, che percepisce il tempo che passa, che libera le proprie emozioni. E seguono in risposta gli applausi e, talvolta, le lacrime delle attrici protagoniste che in scena probabilmente si imbattono con i crogioli della propria anima.
La parola ‘padre’ di Gabriele Vacis
A seguito della recensione, ho avuto occasione di avere un’intervista telefonica con il regista Gabriele Vacis. Per scelta stilistica ho preferito non inserire il dialogo nell’articolo, ma riportare il dialogo che è intercorso tra noi, rispettando lo stile dialogico e interlocutorio del regista. In un tempo in cui si parla spesso della morte del padre, dell’assenza e della fluidità di tale concetto, sembra che invece nella sua opera, nel bene e nel male, la parola ‘padre’ esprima ancora qualcosa di forte.
È piuttosto un auspicio. Mi piacerebbe che i padri tornassero e si assumessero la responsabilità di essere padre. Mi sembra che i padri della nostra generazione abbiano confuso un po’ le carte in tavola. Sono più simili ai figli, capaci di usare le nuove tecnologie e con meno distanze, però è possibile mantenere una figura paterna senza gli addobbi precedenti. Questo vale per i padri e per i maestri. Avere meno addobbi non significa abdicare. Essere padri con meno addobbi è la nostra responsabilità. Possiamo essere la prima generazione di padri non autoritari, ma autorevoli.
Padre è anche la patria e terra di provenienza. Le sei ragazze vivono un rapporto diverso con la propria origine. Fanno parte di una generazione che ancora ha memoria di muri e divisioni in Europa, pensa che fra trent’anni questo spettacolo sarà ancora comprensibile alle nuove generazioni?
Il teatro ha una vita breve. Non si può essere riconosciuti postumi. Niente come il teatro vive come il presente, anche se ci sono spettacoli che continuano a vivere. Forse la sua domanda è più tematica… sui muri…
Sì.
I muri anche se molti dicono che viviamo in un presente liquido continuano ad essere costruiti. Magari sono di filo spinato come quello del Brennero, ma ci sono. Cambiano le forme, ma i muri ci saranno sempre.
Il problema forse è la dimenticanza. Penso agli adolescenti di oggi che non hanno memoria del Muro di Berlino.
Sì. La narrazione è poca e manca la memoria. Penso ai talk show televisivi in cui spesso emerge più che un racconto, una forma di rimozione della realtà con la presenza di falsari che la commentano. Occorre una diversa narrazione e una capacità di portare a memoria.
Teatro, danza e parola e un linguaggio comune: l’emozione. Il suo spettacolo non lascia scampo e non dà possibilità di mettersi in trincea. È questo il suo intento?
Sì. Mi piace molto questa sua definizione di teatro che non lascia scampo e non dà possibilità di mettersi in trincea. Ci sono persone che dicono che sono un ‘pornografo di sentimenti’. Ho bisogno di fare i conti con i sentimenti, di essere stanato e stanare il pubblico. Cerco di farlo con pudore.
Padre per chi crede è anche Dio. Nel suo spettacolo non emerge volutamente questo riferimento?
Questo tema non è emerso dal lavoro con le ragazze e dalle interviste con loro. Dipende dalle persone che sono in scena. Adesso in “Amleto a Gerusalemme”, il nuovo spettacolo con cinque attori palestinesi è emerso. Io sono molto interessato alla questione perché sono tormentato.
Lei come padre come si vive?
Ho una figlia con qualche anno in meno delle ragazze in scena. Io ho sempre cercato di comprendere, di capire. I figli sono sempre imprevedibili. È difficile non proiettare se stessi sui figli, ma cercare di capire cosa è importante per loro. È quello che cerco di fare. Non è facilissimo, perché spesso aspettiamo che ripercorrano le strade che abbiamo loro indicato. Talvolta bisogna attendere e abbracciare, senza giudicare.
Perché sei donne?
Perché ho una figlia femmina. E la riflessione spesso parte dalla nostra vita. Questo è un primo motivo. Poi questo spettacolo è venuto dopo aver messo in scena i Rusteghi di Goldoni in cui gli attori erano solo uomini. Uomini che cercavano di capire le donne e che si mettevano nei panni delle donne.
Fare teatro è mettersi nei panni di…
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