La maggior parte di essi furono individuati e chiariti da Freud sulla base delle sue dettagliate osservazioni cliniche e del suo intuito, in particolare quelli relativi all’atteggiamento e alla predisposizione mentale dell’analista. Egli parlò ad esempio di neutralità, ossia il fatto che il curante non deve prendere le parti o avallare specifici aspetti del materiale o della personalità del paziente (equidistanza da Io, Es e Super-Io). Dice Freud: «[…] non voler prendere nota di nulla in particolare e nel porgere a tutto ciò che ci capita di ascoltare la medesima attenzione fluttuante si stia ad ascoltare e non ci si preoccupi di tenere a mente alcunché» (Freud, 1912). L’analista dovrebbe semplicemente evidenziare e ripresentare al paziente questi aspetti, come uno specchio: «Il medico deve essere opaco per l’analizzando e, come una lastra di specchio, mostrargli soltanto ciò che gli viene mostrato» (Freud, 1912). In seguito, con gli ulteriori sviluppi della psicoanalisi, si porrà maggiormente l’accento anche sul versante della partecipazione affettiva profonda e personale del clinico dinnanzi al materiale del paziente (controtransfert), non vista più solo come un’interferenza potenziale ma anche come un importante strumento di comprensione, cercando alla fine di mantenere un equilibrio tra un’attività osservativa-interpretativa (funzione Io-osservante) ed una empatico-partecipativa (funzione Io-partecipante) (Savaral, 1988).
Collegata alla neutralità c’è la riservatezza, ossia il principio per cui l’analista deve mostrare poco di sé (non solo visivamente) affinché venga fuori il paziente ed il suo mondo interno: «[…] è inopportuno, per il superamento e le resistenze nel malato, che il medico gli offra la possibilità, facendogli confidenze sulla propria vita, di gettare uno sguardo sui difetti ed i conflitti psichici di cui pure egli soffre» (Freud, 1912).
Altro cardine poi di quest’assetto mentale dell’analista, collegato in modo indiretto ai primi due, è l’atteggiamento astinente, che lo porta a non soddisfare le richieste e i bisogni del paziente proponendo piuttosto una riflessione su di essi e quindi un loro differimento, al fine di favorire lo sviluppo della capacità di elaborazione psichica. La regola dell’astinenza vale però anche per l’analista, che non deve usare il paziente per soddisfare i propri bisogni inappagati di vario genere[1]. Il clinico comunque dovrà sempre oscillare tra un atteggiamento più astinente e uno più accogliente sulla base della capacità elaborativa, della struttura psichica e della motivazione o stato del paziente in quel preciso momento del trattamento (Savaral, 1988).
L’insieme di questi elementi interni ed esterni che definiscono il setting servono a favorire il processo psicoanalitico, ossia l’esplorazione dell’inconscio del paziente al fine di interpretarlo e integrarlo meglio nella personalità cosciente. Essi nella loro fissità costituiscono i binari lungo i quali è poi possibile individuare ciò che si muove, ossia i movimenti dello psichismo nel corso della cura (Etchegoyen, 1984). Il setting costituisce dunque qualcosa che contiene, che delimita e argina, che aiuta a evidenziare le interferenze al corretto lavoro psicologico che provengono dalla psiche del paziente e del clinico. Ogni manipolazione del setting diventa così tendenzialmente un errore tecnico o un acting dell’analista, in quanto non è funzionale alla comprensione dell’inconscio del paziente. Il setting potrà sì variare nel corso di un trattamento, ma solo sulla base di importanti dati di realtà attentamente vagliati dal clinico e non sulla base dei desideri o bisogni interni del paziente (Etchegoyen, 1984).
Non dobbiamo dimenticare comunque che il setting, con la sua costanza e prevedibilità, svolge anche l’importante ruolo di sostegno narcisistico al paziente; la sua presenza continua e affidabile rimanda in un certo senso all’esperienza relazionale simbiotica con la madre, dalla cui lenta interiorizzazione si sviluppa la capacità di tollerare l’angoscia. Ma accanto a questa caratteristica diciamo più “materna”, vi è quella appunto più “paterna” di limite chiaro, di realtà immodificabile e fissata fin dall’inizio che frustra il paziente e con la quale spesso questi si scontrerà in modo ambivalente, scisso o disorganizzato a seconda del suo livello evolutivo (Bleger, 1967).
Il setting analitico quindi, da un lato incita il paziente alla regressione invitando al rispetto della regola fondamentale di associare liberamente in un contesto di cura senza limiti temporali precisi (almeno nel trattamento analitico standard), facendolo distendere sul lettino in una posizione di passività e sottomissione figurata dinnanzi a un terapeuta che sta “più in alto” di lui; dall’altro, invece, impone una continua frustrazione al principio del piacere e quindi la necessità di un comportamento più maturo, “da adulto”, dovendo il paziente adeguarsi, se vuole continuare, alle restrizioni del contesto di cura (orari, onorario, impossibilità di esprimersi tramite l’azione, astinenza dell’analista ecc.) (Spitz, 1955).
In alcuni casi tuttavia una deviazione dal setting classico risulta necessaria, ad esempio quando il paziente sia provato a causa della sua patologia da tensioni eccessive che non riesce a contenere. Sono situazioni in cui la sofferenza mentale di chi è in cura è talmente forte da rompere le barriere interne abitualmente usate per gestire l’angoscia, generando situazioni di esplosività, comportamenti impulsivi fortemente disadattivi, se non addirittura perdita del senso di continuità spazio-temporale e dei limiti del proprio sé (Correale, 1999; Racalbuto 1994; Spitz, 1955)[2]. Inoltre, succede quasi sempre in questi casi che la turbolenza emotiva, la confusione aleggiante nell’ambiente più vicino al paziente, la violenza delle richieste o l’incapacità di tollerare i distacchi dal clinico curante rischiano di mettere seriamente in crisi quest’ultimo a causa dell’eccessivo carico di responsabilità non solo emotiva e intrapsichica, ma anche reale (rischi concreti per l’incolumità del paziente, implicazioni civili e penali, ecc.). Ecco che si rende allora necessaria la collaborazione di un’équipe di colleghi per poter favorire un accoglimento più variegato e continuativo dinnanzi alle forti richieste del singolo o del suo ambiente famigliare; il semplice setting garantito delle sedute col terapeuta non risulta più sufficiente.
È importante che tutto ciò sia percepito dai curanti non come una sconfitta del setting terapeutico tradizionale, ma come un nuovo setting più adeguato alla condizione grave e acuta che ci si trova ad affrontare in queste situazioni (Correale, 1999). Il gruppo allargato dell’équipe serve così in prima istanza a contenere l’esplosività dei vissuti del paziente deviando in parte l’investimento della sua patologia dal singolo terapeuta;[3] in secondo luogo, a sostenere più fortemente l’operato di quest’ultimo; infine, a decifrare ed elaborare ulteriormente i conflitti e la crisi acuta del paziente, grazie allo scambio di informazioni tra colleghi, alle consulenze e alle supervisioni, agli incontri professionali in cui nascono indicazioni possibili o si sviluppano ipotesi di intervento sul caso.
È importante però che anche tale setting allargato si mantenga stabile e chiaro perché possa svolgere effettivamente la sua funzione strutturante. Andranno evitati i tentativi di manipolazione da parte dei pazienti, gli slittamenti di ruoli, le lacune comunicative tra i curanti, e andrà mantenuta il più possibile la continuità delle figure che si occupano del paziente (Correale, 1999). Nei casi gravi, infatti, il gruppo (o l’istituzione) deve prepararsi al rischio di essere sommerso dall’emotività poco organizzata portata da chi soffre e/o dal suo ambiente, e di riproporre in sé quei conflitti che il paziente porta nel suo mondo interno e non riesce a tollerare, proiettandoli potentemente (e spesso efficacemente) su chi si fa carico della sua situazione (ad esempio la scissione massiccia[4] dei propri oggetti interni).
Possiamo dunque immaginare un primo livello di contenimento delle angosce del paziente cosiddetto “difficile” fornito dal clinico curante, e un secondo livello costituito dall’équipe che garantisce sostegno emotivo e incoraggiamento al clinico, ma anche chiarimenti sul piano prettamente cognitivo (ad esempio tramite la supervisione e i gruppi di discussione dei casi).
Il setting classico “singolo paziente-singolo terapeuta” non è più sufficiente in queste circostanze a causa dell’imponenza e del carattere primitivo dei conflitti portati dal paziente e serve invece un gruppo capace di accettare e subire, benché più diluita, la violenza emotiva espressa da lui o dal suo ambiente, pur dovendo, quando necessario, intervenire in maniera decisa e direttiva alle provocazioni o ai rischi palesati dal lavoro clinico, per dare una risposta reale e a volte concreta all’eccesso di quel malessere («perché il paziente esista, è necessario che esista il suo curante» dice Correale, che riprende a sua volta Winnicott).
Tutta l’équipe deve quindi tollerare di essere invasa da una grossa quota di angoscia e di forti emozioni, assorbirla, distribuirla parzialmente tra i suoi membri (cosa ben più salutare che lasciarla concentrare su uno solo di essi), con lo scopo di trovare nel tempo e gradualmente la capacità di elaborare pensieri, immagini, ipotesi di intervento che, restituite a chi necessita di cure, lo strutturino maggiormente e diano un senso al suo malessere. Il riuscire quindi a proporre al paziente una struttura e un insieme di persone come riferimento per la sua sofferenza ha lo scopo di far sedimentare in lui la sensazione che ci siano varie figure che possono farsene carico, stimolando più fortemente la nascita di un primo rapporto di fiducia che, se raggiunto, costituisce già un importante successo terapeutico in situazioni cliniche di questa gravità (Correale, 1999).
Questa forma di setting più allargato, che richiede un’attenzione e una comunicazione reciproca costanti da parte dei curanti (ed è per questo mentalmente più dispendioso), permette però di lavorare con persone che, non avendo avuto una relazione primaria sufficientemente buona e affidabile, non hanno sviluppato un Io abbastanza strutturato da tollerare l’angoscia derivante dal confronto con un setting più esigente – quello classico dei trattamenti individuali – simbolo del limite e di un’alterità a volte frustrante, ma con i quali è necessario prima o poi confrontarsi per crescere psichicamente.
Un setting di questo tipo invece dà a questa tipologia di pazienti la possibilità di integrare molto più gradualmente i propri pensieri e i propri affetti, iniziando a relazionarsi costantemente con un dispositivo di cura multi-professionale (terapeuta, équipe, istituzione) fonte di molteplici possibilità identificatorie e di crescita. Permette inoltre ai curanti, come detto, di diluire condividendole l’angoscia e la maggiore responsabilità insita nel lavoro coi pazienti più gravi.
Come afferma Racalbuto (1994), con questi pazienti non si tratta più tanto di ricordare un passato o di interpretare, secondo gli standard del trattamento psicoanalitico tradizionale, ma di ricostruire una personalità funzionale e più adattabile in base a quanto emerge dal “qui e ora” della situazione terapeutica e del rapporto con l’istituzione; il lavoro psicoanalitico prevede, in questi casi, non tanto una riattivazione e rielaborazione di aspetti rimossi della personalità, bensì una ricostruzione del Sé del paziente che lo renda più capace, a lungo andare, di incontrarsi con la realtà, di adattarsi in modo funzionale, di relazionarsi con altre persone.[5]
Allora non saranno più in primo piano i contenuti della narrazione terapeutica, ma la funzione organizzatrice e strutturante dell’ambiente di cura e della relazione. Lo studio di tali condizioni di lavoro ha permesso così di valorizzare appieno il setting come condizione che agisce silenziosamente nel processo psicoterapeutico.
Si tratta di un elemento che lavora sulla creazione di confini che separano e riducono la confusione del paziente e che permettono al terapeuta e all’équipe curante, in particolare coi pazienti gravi, di comunicare, di costruire una realtà intrapsichica riparandone concretamente gli argini e, insieme a loro, di tracciare un processo di “nascita psicologica”.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Bleger J. (1967), “Psicoanalisi del setting psicoanalitico” in Genovese C. (1988): Setting e processo psicoanalitico, Raffaello Cortina Editore, Milano
Etchegoyen H. (1984), I fondamenti della tecnica psicoanalitica, Astrolabio, Roma
Freud S. (1912), Consigli al medico nel trattamento psicanalitico, Bollati Boringhhieri, OSF
Racalbuto A. (1994), Tra il fare e il dire, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Savaral A. (1988): “La tecnica psicoanalitica e la sua evoluzione” in Trattato di psicoanalisi, A.A. Semi (a cura di), vol. I, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Spitz R.A. (1955) “Traslazione: il setting analitico ed il suo prototipo” in Genovese C. (1988) Setting e processo psicanoanalitico, Raffaello Cortina Editore, Milano.
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