RIASSUNTO
L’Autore esamina una situazione particolarmente frequente di “noncompliance” alle cure, in cui l’inerzia, l’autolesionismo e l’attaccamento alla malattia del paziente oppongono serie difficoltà ad ogni sforzo terapeutico. Viene considerato un caso clinico in cui tali alterazioni psicocomportamentali erano parte di uno stato depressivo insorto acutamente. L’analisi del caso, facilitata dal confronto con il modello letterario del “Riccardo II” di Shakespeare, ha consentito di rilevare alcuni aspetti particolari della patogenesi: il sistema di valori, tipicamente narcisistico, del “tutto o nulla”, il difficile rapporto con il tempo, la particolare relazione che s’instaura con il terapeuta capace di rompere l’isolamento in cui il paziente tende a porsi.
Parole chiave: Noncompliance, Depressione, Rapporto terapeutico.
SUMMARY
The Author considers a very common noncompliance-to-treatment situation in which the patient’s indolence, self-destructive behaviour, and attachment to his illness cause serious impediments to therapeutic efforts. A clinical case is considered in which such symptoms were part of an acute depressive state. The analysis of this case was facilitated by a comparison with the literary model of Shakespeare’s ‘Richard II’. It pointed out some aspects of pathogenesis: the value system, typically narcissistic, of ‘everything or nothing’, a difficult relationship with time, the particular relationship with the therapist who is able to break through the patient’s isolation.
Key words: Noncompliance, Depression, Therapeutic Relationship
I Casi clinici “difficili”
Alcune persone, anche non manifestamente depresse, presentano, in caso di malattia, comportamenti capaci di frustrare ogni possibile sforzo terapeutico: non chiedono aiuto o si rivolgono al medico troppo tardi, danno prova d’incredibile negligenza riguardo alle cure o agli esami prescritti, talora semplicemente rifiutano di curarsi. Anche riguardo agli altri aspetti importanti della loro vita (famiglia, lavoro, rapporti sociali), costoro, da un certo momento in poi, dimostrano spesso la stessa incuria che hanno nei confronti della salute.
Un esempio: il Sig. D, sessantenne, semi-pensionato, benestante, ha svolto in passato (ed, in parte, svolge nel presente) un ruolo lavorativo di grande prestigio ed autorevolezza; coniugato con una donna di vent’anni più giovane, vede spesso una figlia nata da un precedente matrimonio. Egli sembra essere diventato, quasi di colpo, un’altra persona. Di solito intraprendente, decisionista, pieno d’interessi, amante della buona tavola e delle compagnie, diviene, in breve tempo, come spento: sempre meno attivo, egli tende ad isolarsi, a trascorrere gran parte della giornata a letto. Poiché il paziente lamenta intensa astenia, oltre ad altri vaghi disturbi fisici, e presenta un preoccupante calo ponderale, si sospetta inizialmente una grave affezione somatica. Gli accertamenti eseguiti, tuttavia, confermano solo l’esistenza d’una sindrome ipertensiva, già diagnosticata da tempo, e di turbe cardiache di non grave entità; disturbi, quindi, non correlabili all’inerzia ed alle alterazioni della cenestesi. Nel frattempo, viceversa, si evidenziano altre gravi alterazioni psicocomportamentali: pur in assenza di una rilevante depressione dell’umore manifesta, il Sig. D inizia ad apparire svogliato e negligente nel sottoporsi agli accertamenti prescritti e nel seguire le cure, ad esprimere sfiducia riguardo all’efficacia delle terapie, a rimanere, nonostante le rassicurazioni dei curanti, nella ferma convinzione che la sua salute sia gravemente ed irrimediabilmente compromessa. Nello stesso tempo, il paziente manifesta crescente disinteresse e mancanza di riguardo per i famigliari trattando malamente, ad esempio, moglie e figlia quando esse insistono nel convincerlo ad alimentarsi. Per la sua incuria, le condizioni fisiche del Sig. D tendono effettivamente ad aggravarsi ed a rischiare di complicarsi. Inerzia, autolesionismo, ostinazione, assenza di un vero desiderio di guarire sembrano rendere inutile qualsiasi tentativo di migliorare la situazione del sig. D o di pazienti simili e rendere pericolosissima l’eventualità di malattie intercorrenti. Si tratta di casi di noncompliance apparentemente irrisolvibili e, purtroppo, tutt’altro che infrequenti. Proviamo a lasciarli provvisoriamente da parte per tornarvi dopo aver ascoltato che cosa l’Artista ci suggerisce su un personaggio non meno ostinato e non meno autolesionista del Sig. D. Si tratta del Riccardo II di Shakespeare [1].
II “Riccardo II”
Il dramma narra la storia dell’ultimo legittimo erede al trono dei Plantageneti: Riccardo II, la cui deposizione ed il cui assassinio costituiranno la premessa della sanguinosa “guerra delle due rose”. La vicenda è nettamente divisa in due parti nella prima delle quali il protagonista Riccardo II pone le basi per la propria autodistruzione, per poi compierla nella seconda. Monarca all’inizio dispotico e privo di scrupoli, ma anche di prudenza, egli colpisce duramente la famiglia del cugino Bolingbroke (il futuro Enrico IV) dapprima mandandolo in esilio e poi confiscandone i beni. Mentre, però, egli è impegnato a combattere i ribelli d’Irlanda, Bolingbroke sbarca in Inghilterra, trovandovi il sostegno degli zii e dei più potenti feudatari del paese. Al ritorno, venuto a conoscenza della rivolta e inizialmente ancora convinto della propria invincibilità, Riccardo è, tuttavia, preso di colpo dallo sconforto e dal pessimismo. Egli arriva a congedare il suo seguito ed a dichiarare esplicitamente di lasciare i soldati liberi di passare al nemico [1: III, II, vv. 211 – 218]. Ai primi segni di possibilità di sconfitta, questo personaggio crolla completamente, dimostrando di aver rinunciato del tutto alla lotta prima ancora di averla iniziata. Divenuto un essere debole, imbelle ed in balìa degli eventi da lui stesso provocati, Riccardo arriva ad accettare di abdicare. Rinchiuso in prigione, egli continua a manifestare la sua amarezza in un lungo monologo ed in un colloquio con uno staffiere che, rimastogli fedele, è venuto a trovarlo. Bruscamente, tuttavia, il protagonista della vicenda ritrova la combattività e la fierezza dei suoi giorni migliori: è il momento in cui si accorge che lo si vuole avvelenare. Egli per la prima volta maledice il suo nemico Bolingbroke e, strappata un’arma dalle mani di un guardiano, muore combattendo fieramente contro i suoi assassini.
Colpisce particolarmente, nelle vicende del dramma, il brusco cambiamento che avviene nel protagonista ai primi segni di una possibile sconfitta. Ancora poco prima del crollo, egli si dice certo che la sacralità della corona ed una protezione come magica che egli si attende dalla sua terra-madre lo porteranno fatalmente alla vittoria. Per Riccardo un Re, per la sua stessa natura, non può aver nulla in comune con una persona qualsiasi. Perciò, riconosciuta la possibilità d’essere vinto e, con essa, sentimenti di debolezza e d’impotenza che potrebbero appartenere ad un comune mortale, egli dice ai seguaci: “…in tutto questo tempo voi mi avete frainteso. Io vivo di pane, proprio come voi; provo desideri, assaporo il dolore, ho bisogno di amici. Così asservito, come potete venirmi a dire che sono un re?…” [1: III, II, vv. 174 – 177]. Con la corona, questo personaggio sembra aver perso non solo l’onnipotente sentimento di fusione con la terra-madre, ma anche la sua stessa identità: a Northumberland, che lo chiama ancora “mio signore”, egli risponde; “Non tuo signore, uomo arrogante e offensivo, né signore di alcuno. Non ho più nome né titolo. No, neppure il nome che mi fu dato al fonte battesimale…” [1: IV, I, vv. 253 – 255]. Non esistono, per lui, mezze misure: se non è più re, non è più neppure un individuo con un nome.
Al di fuori della corona non ci sono, per questo triste personaggio, altre risorse e si comprende facilmente il perché: Riccardo non ama nessuno, non cerca nessuno cui chiedere appoggio, o consolazione, o incoraggiamenti. Esistono solo due persone che dimostrano di volergli bene: la Regina e lo staffiere che compare alla fine del dramma. La prima è, da lui, a mala pena presa in considerazione. Quanto al fedele servitore, che ha affrontato non poche difficoltà ed anche pericoli per vedere ancora una volta il suo Re, ormai in prigione, Riccardo dimostra di averlo sempre ignorato. Alcuni indizi portano a supporre che questa sia la stessa situazione affettiva in cui il protagonista del dramma è cresciuto. Sappiamo dalla storia e da quanto viene adombrato nei dialoghi del dramma che Riccardo II divenne Re all’età di dieci anni per la morte prematura del padre, il “Principe Nero”. Della madre non risulta alcuna notizia sicura; quel che è certo è che egli, fin dalla nascita erede al trono, crebbe sotto la tutela fredda o francamente ostile degli zii, circondandosi molto presto di cortigiani adulatori. Né le lusinghe di questi ultimi, né la presenza minacciosa dei parenti possono, quindi, aver offerto al giovane Riccardo materia per una relazione affettiva autentica, capace di fornirgli un vero sostegno e di favorire la sua crescita; una relazione, soprattutto, in grado di restituirgli un’immagine di sè realistica. Egli forgiò la rappresentazione di se stesso e del mondo sulle menzogne dei cortigiani. E’ il ripudio di tutto questo che Riccardo esprime nel momento culminante della scena dell’abdicazione. Avendo perso, con la corona, la sua stessa identità, egli, quasi nel tentativo di ritrovarsi, chiede gli sia portato uno specchio, ma il viso che vi scorge gli appare, ora, come estraneo, troppo poco segnato dal dolore: “…O specchio adulatore, come i miei cortigiani del buon tempo andato: stai cercando d’illudermi…” [1: IV, I, vv. 278 – 280]. E’ il viso d’un uomo che si credeva potente ed ignorava la propria vulnerabilità: “Una ben fragile gloria brilla su questa faccia: la faccia di un uomo fragile quanto la sua gloria” [1: IV, I vv. 286, 287]. Esprimendo, quindi, la sua immensa delusione e la sua rabbia, Riccardo getta a terra lo specchio. E’ questo, secondo il giudizio unanime, il punto più drammatico dell’intera tragedia.
Che cosa rompe il sia pur fragile equilibrio emotivo di Riccardo e lo porta alla catastrofe? Di lui sappiamo, dagli storici cui s’ispira Shakespeare, che “…nessun sovrano fu, in così grande misura, l’autore della sua stessa sconfitta…” [2]. Il “Riccardo II” racconta, perciò, soprattutto la storia d’un processo interiore che conduce il protagonista, attraverso la dissoluzione del suo stesso potere, al riscatto soggettivo finale. Il dramma inizia con le reciproche accuse di Bolingbroke e Mowbray che alludono entrambe all’omicidio, voluto in realtà dallo stesso Riccardo, dello zio paterno Gloucester. E’ l’accusa per questo fatto, fortemente evocativo di un vero e proprio parricidio, che sembra mettere in moto la vicenda. Negli sviluppi di questa, tre elementi strettamente intrecciati assumono rilievo: la relazione intensamente ambivalente del Re con il suo accusatore Bolingbroke, il rapporto tormentato del protagonista con il tempo ed il suo continuo oscillare tra le due sole alternative per lui disponibili: il “tutto” (il trono legato, secondo lui, alla sacralità della sua persona e ad una sorta di simbiosi onnipotente con la terra-madre) ed il “nulla”. Dopo che Bolingbroke ha formulato la sua accusa, Riccardo inizia a comportarsi in modo piuttosto strano. In più occasioni, parla di Bolingbroke come suo successore al trono, sia pure per definire la cosa assurda e per negarne la possibilità, anche se, sinora, nulla e nessuno avevano potuto suggerirgli tale eventualità. Dopo aver condannato Mowbray, il suo complice, all’espulsione permanente ed il suo accusatore Bolingbroke a solo sei anni di esilio, commette, nei confronti di quest’ultimo (e della potente famiglia dei Lancaster cui egli appartiene), un’imprudenza che ha tutte le caratteristiche di una provocazione: approfittando della morte del padre, ne ordina la confisca dei beni allo scopo di finanziare la campagna militare contro i ribelli d’Irlanda. Esplosa la rivolta in Inghilterra e trovandosi in rapporti di forza sfavorevoli, a Bolingbroke che non ha ancora manifestato altro proposito che riprendersi i suoi beni, Riccardo pare quasi come suggerire la possibilità di usurpare il suo trono e di deporlo. N. Frye, autorevole commentatore di Shakespeare, attribuisce molte di queste stranezze alla straordinaria capacità di anticipare gli eventi futuri che allontana Riccardo da un "timing" realistico nell’affrontare i problemi del presente [3]. Ad esempio, egli appare del tutto sordo alle sollecitazioni di Carlisle che, all’inizio della lotta, lo invita ad agire tempestivamente [1: III, II, vv. 178, 179], oppure a quelle di Aumerle che, in un momento difficile in cui, tuttavia, non è ancora tutto perduto, gli consiglia di prendere tempo con mezzi diplomatici nell’attesa che si creino rapporti di forza più favorevoli [1: III, III, vv. 131, 132]. Si tratta, in entrambi i casi, di richiami ad una dimensione temporale realistica che sembra mancare del tutto in Riccardo. Egli vive immerso come in un’altra dimensione: quella della vicenda interiore, evocata dalle accuse di Bolingbroke, della fantasia infantile di parricidio, di usurpazione del trono paterno (il carro di Fetonte cui Riccardo stesso allude [1: III, III, vv. 178, 179]) e di cui egli anticipa di continuo l’epilogo, cioè la punizione finale della destituzione. Si può supporre che il futuro Enrico IV sia stato il primo a muovere, sia pure in modo vago ed allusivo, un’accusa a Riccardo e che questi abbia, perciò, sentito minacciata la sua fantasia di assoluta intangibilità che aveva contribuito, fino ad allora, ad isolarlo dal mondo. Da questo momento è lanciata la sfida contro chi rappresenta la sua stessa coscienza morale: Riccardo condanna Bolingbroke all’esilio e ne confisca i beni. Tuttavia, anzichè vedere riconfermata la propria intangibilità, egli si sente muovere più volte gravi accuse, persino dal fedelissimo zio York. Il rimprovero di quest’ultimo è d’essersi appropriato illecitamente dell’eredità del cugino, ma l’aver menzionato poco prima il padre (al quale, dice lo zio, Riccardo crescendo è arrivato ad assomigliare nell’aspetto esteriore, ma non nello spirito) sembra alludere ad un’altra, più grave usurpazione. Anche le parole con cui è espressa l’accusa sono ambigue: York rimprovera il nipote d’avere “sottratto al tempo (…) ogni diritto”, d’aver impedito “che il domani (…) tenga dietro all’oggi” e d’avere, perciò, infranto il principio di “fair sequence and succession” [“leale ordine e successione”] su cui si fonda la sua stessa acquisizione della corona [1: II, I, vv. 195 – 199, la traduzione dell’ultimo verso è mia]. La colpa che Riccardo ha effettivamente commesso nel suo intimo, divenendo re ancora bambino dopo la morte del padre e conservando anche in seguito le sue tendenze predatorie infantili, è d’aver fatto violenza al tempo, inteso come divenire, portando gli aspetti primitivi della sua personalità nel ruolo regale-adulto, annullando il confine fra le generazioni, impedendo, appunto, “che il domani tenga dietro all’oggi”. E’ attraverso una sfida alle leggi del tempo che Riccardo ha creato la sua illusoria grandezza ed è il tempo stesso a metterlo in crisi in modo decisivo. Ciò accade nelle fasi iniziali della rivolta, quando il conte di Salisbury, fedele alla corona, comunica a Riccardo che il giorno prima dodicimila soldati gallesi pronti a combattere per lui, avendo creduto veritiera la notizia della morte del Re, sono passati a Bolingbroke o sono fuggiti. Salisbury, dolendosi che un solo giorno di ritardo abbia causato una tale perdita al suo sovrano, lo invita retoricamente a richiamare “il giorno di ieri”, a dire “al tempo di andare a ritroso” per riavere con sé i dodicimila armati [1: III, II, vv. 68 – 70]. Riccardo, fino a quel momento sicuro di sè ed ottimista, di colpo impallidisce e diviene preda di quello stesso disfattismo di cui poco prima aveva accusato il cugino Aumerle: “…Chiunque voglia salvarsi abbandona la mia cerchia, perché il tempo ha gettato una macchia sul mio orgoglio…[…for time hath set a blot upon my pride]” [1: III, II, vv. 80, 81. La sottolineatura e la traduzione dell’ultimo verso sono miei].
Manca all’immagine di sè di Riccardo, soprattutto per quanto concerne il sentimento del proprio potere, una vera adattabilità alle circostanze. Essa si mantiene rigida, sostanzialmente incapace di evolversi. Egli è “nato” quello che è, un Re, e la considerazione di se stesso è rimasta immutabile fino al suo primo, vero impatto con il tempo. E’ al crollo di tale stato originario, al passaggio da “tutto” ciò che egli era al “nulla” (parole che, come è stato fatto notare [3] ricorrono di frequente, soprattutto nella scena dell’abdicazione) che si assiste nel corso dell’opera. Esso determina, in Riccardo, un completo vuoto interiore che egli colma, innanzi tutto, facendo proprie le stesse forze a lui avverse che l’hanno messo in crisi. Ad Aumerle, che era riuscito, un’ultima volta, a fargli coraggio riguardo agli esiti della lotta, dopo l’arrivo d’una ennesima notizia negativa egli dice: “Accidenti a te, cugino! Perché mi hai stornato dai dolci sentieri della mia disperazione? [that sweet way I was in to despair?]”[1: III, III, vv. 204, 205]. E’ meno doloroso, per Riccardo, ripiegare in se stesso e rassegnarsi a considerare ineluttabile e addirittura volere la propria disfatta, piuttosto che confrontarsi col mondo esterno. L’autolesionismo, l’inerzia nel difendersi gli servono, paradossalmente, per evitare di subire passivamente la sconfitta. Della propria arrendevolezza, nella scena dell’abdicazione, egli finisce per autoaccusarsi: “…e anzi se volgo gli occhi su me stesso, io scopro in me un traditore come gli altri: ho dato qui il mio spontaneo consenso a che si spogli d’ogni pompa la persona di un re; ne ho avvilito la gloria, asservito la sovranità…” [1: IV, I, vv. 246 – 249. La sottolineatura è mia]. Chiudendo gli occhi di fronte a ciò che è “altro da sè”, continuando a viversi come l’unico artefice e dominatore all’interno del proprio mondo soggettivo (anche se artefice e dominatore, ora, di una realtà del tutto negativa), Riccardo preserva un sentimento di grandiosità e, con esso, la forza e la coesione del proprio sè: “Potete spogliarmi di ogni gloria e potere, ma non delle mie pene. Di queste sono sempre re.” [1: IV, I, vv. 191, 192]. L’identificazione con alcune delle realtà a lui avverse, tuttavia, lascia, all’interno della personalità di questo personaggio, come i segni di un’amputazione: ad esempio il tempo. Perso il trono, in prigione, si sente costretto a riconoscere che il suo regno, come una musica stonata, non fu mai accordato ai bisogni dell’epoca. Ora quello stesso tempo della realtà, da lui ignorato, s’è impadronito di lui e scandisce solo più il ritmo delle sue lacrime. Egli si sente disumanizzato, ridotto come certi pupazzi meccanici a guardia degli orologi [1: V, IV, vv. 47 – 60]. Nulla, all’interno della sua fantasia, gli restituisce il sentimento di completezza d’un tempo: “…Ma chiunque io sia, né io né alcun uomo che possa dirsi uomo sarà contento di nulla finchè non avrà il sollievo di sentirsi nulla” [1: V, IV, vv. 39 – 41]. Il mondo immaginario in cui Riccardo credeva di vivere essendo o possedendo “tutto”, ha subito l’irruzione della realtà esterna e si è, in gran parte frantumato nel “nulla”. Ora solo la morte, intesa come ricongiunzione alla madre terra, può ricomporre la frattura tra “tutto” e “nulla” e ripristinare l’unità originaria [4]. Ed è, in effetti, solo morendo, con la spada in pugno strappata ai suoi assassini, che Riccardo recupera il suo orgoglio ed il senso di un suo posto nel mondo: “In alto, in alto anima mia! Il tuo trono è in alto, lassù…” [1: V, V, 111].
III Debolezze d’un Re e d’un paziente
Ritorniamo al Sig. D; anch’egli, come il personaggio shakespeariano, sembra cambiare bruscamente personalità: l’uomo sicuro di sé, autorevole, deciso, che egli era sempre stato, pare completamente scomparso lasciando rapidamente il posto ad un essere debole, inerte, sfiduciato. Simile a quello di Riccardo II, dopo il crollo, è il pessimismo oggettivamente ingiustificato, totale, non limitato, nel Sig. D, agli esiti della malattia e all’efficacia del trattamento. Identici sono, nel personaggio e nel paziente, l’inerzia e l’autolesionismo. Unica, notevole differenza: lo status sociale del Sig. D è rimasto immutato non avendo, egli subìto alcuno scacco né sul lavoro, né, apparentemente, in altri ambiti. Nel corso di alcuni colloqui psicoterapici, tuttavia, emerge dal rapporto transferale un’altra caratteristica, comune a Riccardo II ed al Sig. D, che consente di ricostruire con maggior precisione la storia della malattia di quest’ultimo. Si tratta dell’intransigenza emotiva legata al sistema di valori, tipicamente narcisistico, del “tutto o nulla” [5]. Quando, dopo aver acquistato dimestichezza con il sottoscritto, ritorna a far capolino nel Sig. D la speranza, egli comincia, sempre più di frequente, ad alludere al suo desiderio (in realtà pretesa) che il curante sia dotato del potere taumaturgico di ridargli rapidamente un completo benessere. Quello che m’induce a frustrare quest’aspettativa è che il paziente dimostra di sentirsi autorizzato, per le grandi capacità che mi attribuisce, a rimanere passivo nell’attesa della guarigione che, così crede, io gli procurerò in ogni modo. L’avergli chiarito che, senza la sua collaborazione, non è possibile alcun risultato provoca l’effetto immediato di far ripiombare il Sig. D in un cupo sconforto. Emerge che senza la mia garanzia incondizionata della guarigione, egli non riesce più a credere alle mie cure ed a collaborare. Mi è, però, possibile fargli notare il carattere intransigente del suo atteggiamento e convincerlo a cercare di capire se una posizione emotiva del genere ha avuto una parte importante nella sua storia. Ne ottengo conferma: dalla vita e da se stesso, in passato, il Sig. D aveva sempre preteso il massimo e si era anche illuso d’ottenerlo. Notando una certa reticenza a parlare della propria vita sentimentale e sessuale, richiamo in più riprese la sua attenzione su questo fatto ed ottengo, infine, la confessione d’un vero e proprio “segreto patogeno”: qualche tempo prima, pensando d’aver scoperto un tradimento della consorte, egli, nella sua intransigenza, aveva cessato del tutto di credere all’affetto e alla fedeltà della donna, ma ciò aveva causato l’inizio del suo crollo. Quindici anni più indietro, quando già cominciava ad insorgere in lui la “crisi della mezza età”, l’essere riuscito a conquistare questa persona, di vent’anni più giovane e dotata di straordinaria bellezza, gli aveva restituito una grande fiducia nella propria desiderabilità e nel proprio vigore sessuale (a quest’ultimo, il sig. D aveva sempre collegato la sua vitalità corporea complessiva). Ora, questa fiducia crollava completamente e, con essa, veniva a mancare il principale fondamento del suo temperamento ipertimico.
Emerge, a questo punto, che il rapporto con la moglie, più che da tenerezza e comprensione, è stato sempre caratterizzato da reciproca intransigenza. Per il Sig. D, prima del crollo, era un continuo “esame” in cui, per essere considerato “idoneo” all’amore della consorte, egli doveva sempre dare il massimo di sè, primeggiare. Era sempre stato così, con tutte le donne più importanti della sua vita, a cominciare dalla madre. Ricorda che costei, di solito affettuosa, era capace di negargli bruscamente il suo amore al primo insuccesso. Avendo la massima considerazione del figlio, più ancora che del marito, non aveva alcuna comprensione per le sue debolezze. Questa grave carenza non poteva essere compensata dall’atteggiamento del padre, sempre gelido e scostante, né di alcun altro familiare. Come il piccolo Riccardo dall’atteggiamento accattivante dei cortigiani e da quello minaccioso degli zii, anche il Sig. D dagli analoghi comportamenti affettivi dei due genitori non potè trarre materia per una vera relazione identificativa strutturante [2]; una relazione, cioè, capace di fornirgli un efficace “equipaggiamento” emotivo con cui affrontare le contrarietà che la vita può comportare. In una situazione del genere, priva di figure parentali “sufficientemente benevole” ed empatiche, viene soprattutto a mancare un adeguato “mirroring” (rispecchiamento), cioè la funzione, svolta dai genitori quali “oggetti-sé”, di fornire conferma narcisistica al sè grandioso arcaico e di favorire l’evoluzione di esso, attraverso esperienze di perdita rese tollerabili dal carattere ottimale delle frustrazioni e dall’interiorizzazione trasmutante [6], in un sè corporeo e psichico adulto e realistico. Il suo sè potè sostenere la propria forza e coesione interna solo attraverso il mantenimento d’una grandiosità arcaica fondata sul successo (l’equivalente del ruolo regale per Riccardo) e sul “mirroring” inconsistente e menzognero (come per Riccardo quello dei cortigiani) della madre e, successivamente, delle altre donne.
“Tu sei tutto per me” era la frase della madre che inorgogliva il Sig. D nei momenti di trionfo. Per tutta la vita il suo scopo principale rimase quello di continuare a far parte di questo “tutto”, di questo mondo in cui poteva sentirsi tutt’uno con la madre. In effetti, da un punto di vista emotivo profondo, il Sig. D, come Riccardo, è rimasto fissato allo stadio più primitivo, simbiotico, dello sviluppo, all’originaria protorappresentazione del sè fuso con la madre-cosmo [5]. In questa fase, la comparsa di fattori separanti, quali spazio e tempo che s’interpongono fra il soggetto e l’oggetto d’amore, rappresenta un evento catastrofico per un io non ancora organizzato e, quindi, non in grado di percepire che, oltre un certo spazio e un certo tempo, l’oggetto d’amore esiste ancora. Solo con il progredire del processo di separazione-individuazione, si sviluppa la consapevolezza di un “non-qui” e un “non-ora” che evolvono in spazio e tempo misurabili e nell’acquisizione del simbolo fondamentale del “percorso”, cioè del divenire [5]. Tutto questo manca al Sig. D, come al protagonista dell’opera shakespeariana: essendogli emotivamente estraneo, a livello profondo, il divenire, per lui esiste solamente uno “stato” originario (la simbiosi onnipotente con la madre arcaica); “stato” immutabile, che può frantumarsi nel nulla, ma non evolversi in qualcos’altro. Questo è il motivo per cui, al momento del crollo di ciò che sosteneva la loro grandiosità arcaica (soprattutto alla prima, traumatizzante rivelazione della loro impotenza di fronte al fattore “tempo”) viene a crearsi, sia in Riccardo II che nel Sig. D, un vero e proprio vuoto identificativo [2]. Entrambi, per colmarlo, non possono che ricorrere a ciò che resta dello stato originario dopo il crollo, ad un’immagine uguale e contraria, e perciò negativa, di esso; immagine che, per il suo carattere assoluto ed illimitato, ne conserva la stessa grandiosità: Riccardo come “Re delle proprie pene”, il Sig. D come “il più sventurato fra gli uomini”. E’ a questa sua funzione di colmare un vuoto nel mondo interiore che si deve il tenace attaccamento di questi pazienti alla loro malattia.
Di cruciale importanza, nel trattamento del Sig. D, è stato il momento in cui il sottoscritto ha messo in crisi la sua “grandiosità negativa” (la convinzione che “nulla e nessuno potrà mai salvarlo”), facendogli presente la possibilità di un TSO quando egli, all’inizio della cura, minacciava di autodistruggersi. Da quel preciso momento si è creato tra noi un rapporto terapeutico. Il malato immerso in una fantasia grandiosa che lo distacca dagli altri, infatti, prova spesso (sempre?) una strana attrazione verso chi minaccia il suo isolamento: lo cerca, lo provoca, lo sfida, come per saggiare i rapporti di forza nel timore (o nella speranza) che costui possa sottometterlo. La clinica e la letteratura offrono numerosi esempi di situazioni del genere: basti ricordare, in “Delitto e castigo”, il rapporto di Raskolnikov con il giudice istruttore Porfirij o quello di Oskar, protagonista del “Tamburo di latta”, con il suo accusatore-amico verso la fine del romanzo. Dal tipo di rapporto che viene a crearsi tra le due persone dipende se il paziente vi troverà la salvezza oppure la rovina. Per tale motivo, oltre che per l’ambivalenza della relazione, proporrei di chiamare “persecutore-salvatore” la persona capace di mettere in crisi il paziente affetto da patologia del narcisismo. Bolingbroke, avendo messo in crisi la fantasia d’intangibilità di Riccardo è chiaramente il suo “persecutore-salvatore”. Qui, tuttavia, fortunatamente per il mio paziente, la sua storia e quella del protagonista del dramma divergono: mentre il primo si avvierà verso un deciso miglioramento delle condizioni cliniche, l’altro incontrerà la catastrofe. Vediamo nei dettagli che cosa ha reso differenti i due destini. Nella fase più precoce dello sviluppo, cui sia il Sig. D che Riccardo II sono fissati, la comparsa d’un elemento estraneo, di un “non-io”, ha, analogamente allo spazio ed al tempo, carattere traumatizzante perché minaccia lo stato di simbiosi. Solo nel corso del processo di separazione-individuazione, tale persecutorio “non-io” evolve in un compiutamente differenziato “altro” [5]. Questo processo viene interrotto sul nascere da parte di Riccardo per l’ovvio motivo che egli, in Bolingbroke, non può vedere una persona affidabile. Dopo che l’incontro con le accuse di parricidio e con la possibilità di sconfitta ha prodotto, in lui, il crollo della simbiosi onnipotente con l’oggetto arcaico, egli si ritira del tutto dalla situazione di confronto con gli oggetti esterni identificandosi con le forze a lui ostili, rifugiandosi nell’autolesionismo: il suo “modo dolce d’essere nella disperazione”. Mette in atto, in altre parole, una fuga dal pieno riconoscimento dell'oggetto traumatizzante; fuga che lo mantiene sostanzialmente al di qua di una relazione d'alterità [2]. Sembra, in generale, che ciò che vi è di assolutamente intollerabile in una perdita traumatizzante (o in una violenza subìta) è, più ancora del danno sofferto, la brusca cessazione del sentimento di controllo sull’ambiente, cioè la brutale ed improvvisa deprivazione degli “oggetti-sé” su cui si fonda l’esistenza soggettiva. La necessità di negare, anche in modo delirante, la perdita di controllo spiega la “identificazione con l’aggressore” come reazione al trauma anche quando, come nel caso di Riccardo, l’aggressione continua ad essere rivolta contro di sè. Nello sviluppo sano, l’accettazione della separatezza (e, quindi, dell’impossibilità d’un controllo assoluto) è dovuta, oltre che alla maturazione dell'apparato cognitivo, all'esperienza incoraggiante della “affidabile capacità dell'oggetto di rispondere empaticamente ai bisogni” [7, la sottolineatura è mia]. E’ soprattutto appoggiandosi all’affidabilità dell’atteggiamento empatico-riparativo ed alla puntualità degli interventi terapeutici che il Sig. D è riuscito ad utilizzare a suo vantaggio il nostro rapporto. Una minore attendibilità avrebbe sicuramente prodotto gli stessi, catastrofici effetti del rapporto fra Riccardo II ed il rivale politico Bolingbroke.
IV Trattamento
Questo gruppo di pazienti, definibili come “all or nothing type” scompensati, dopo la perdita del sostegno esterno alla loro grandiosità arcaica [8], conoscono soltanto due possibilità emotive: il ricupero di ciò che per loro è “tutto” (il pieno ed illimitato appagamento narcisistico, la simbiosi onnipotente con l’oggetto arcaico) oppure la dissoluzione nel “nulla” (il crollo depressivo, il suicidio). I bisogni che essi esprimono esplicitamente hanno carattere regressivo e puntano, attraverso una disponibilità che essi vorrebbero illimitata da parte del terapeuta, ad un ricupero del “tutto”. La disperazione che questi malati, appena scompensati, comunicano, l’incombere della possibilità di suicidio, inducono spesso il terapeuta ad accondiscendere alle loro richieste. Essi vorrebbero, tendenzialmente, eliminare ogni limitazione in ciò che ricevono: nel tipo e nella quantità degli interventi , nell’orario, nel costo. La conferma, resa dal terapeuta, della possibilità di trovare una madre “infinitamente disponibile” rappresenta un grave errore, spesso fatale per il paziente [9]. Per quanto gli si offra, ciò sarà sempre meno del “tutto” che il paziente s’aspetta e perciò, nel suo sistema di valori narcisistico, equivalente a “nulla”. La stessa intransigenza affettiva del malato fa sì che il terapeuta deludente si trasformi, ai suoi occhi, dal “salvatore” che egli era, in un “persecutore” che vuole il suo annientamento e la reazione terapeutica negativa può giungere alle estreme conseguenze. Ecco perché il terapeuta con fantasie salvifiche aumenta le possibilità di suicidio del paziente già portato al gesto autosoppressivo [9].
Errori come il voler affrettatamente contrastare la disperazione del paziente, prima che essa possa essere stata espressa, oppure l’esprimere interpretazioni premature, possono portare all’impossibilità d’instaurare una relazione terapeutica. Queste persone vivono, a livello profondo, al di qua di una relazione d’alterità [2]. Esse possono accettare il terapeuta come “altro da loro” (come oggetto separato e non perfettamente controllabile) solo se egli da prova di un’affidabile capacità di provvedere empaticamente ai loro bisogni. Una défaillance nella capacità di comprensione empatica che potrebbe essere tollerata nel curante da parte d’un paziente più evoluto, qui, viceversa, può causare un ritiro su se stesso del malato e vanificare ogni ulteriore sforzo terapeutico. Il paziente di questo tipo richiede, in genere, che per lungo tempo lo “understanding” prevalga sullo “explaining” [6]. Utili misure per favorire lo sviluppo del rapporto terapeutico sono anche l’impiego del farmaco come oggetto transizionale e le cure corporee considerate soprattutto nei loro riflessi psicologici. Questi malati spesso immaginano, scisso dal corpo, un “surviving self” capace, attraverso la morte, di ripristinare con l’oggetto arcaico una simbiosi idealizzata, a-corporea, a-pulsionale e, quindi, priva di minacce ad un totale e perpetuo appagamento narcisistico [10]. Essi, infatti, attribuiscono inconsciamente al corpo le angosce derivanti dal processo di separazione-individuazione. Da questo fatto deriva, oltre che una possibile propensione al suicidio, anche la frequente comparsa di sintomi ipocondriaci, come nel Sig. D. Ecco perché cure corporee adeguate ed intensamente vissute sul piano emotivo, possono ripristinare un buon rapporto col corpo e con chi si è preso cura di esso, aprendo la strada ad un’alternativa alla simbiosi, cioè al rapporto con il terapeuta quale persona reale.
BIBLIOGRAFIA
1. Shakespeare William (1595?) Riccardo II (Garzanti 1995)
2. Tremblais-Dupré Thérèse (1999) Richard II roi-femme-enfant (Revue Française de Psychanalyse Vol. 63, N° 5, pag. 1913)
3. Frye Northrop (1986) Northrop Frye on Shakespeare (Yale University Press)
4. Shengold Leonard (1989) Everything: a poetic meditation on Freud's question, 'what does a woman want?' (Int. J. Psycho-Anal. Vol. 70, n° 3, pag. 419)
5. Shengold Leonard (1991) Father, don't you see I'm burning? (Yale University Press)
6. Kohut Heinz (1977) La guarigione del sè (Boringhieri 1980)
7. Kohut Heinz (1978) The disorders of the Self and their treatment: an outline (The search for the self. Selected writings of Heinz Kohut 1978 – 1981 Vol. 3 – International Universities Press – 1990)
8. Kohut Heinz (1970 circa) On Leadership (The search for the self. Selected writings of Heinz Kohut 1978 – 1981 Vol. 3 – International Universities Press – 1990)
9. Gabbard Glen O. (1994) Psychodynamic Psychiatry in Clinical Practice. The DSM – IV Edition (American Psychiatric Press)
10.Campbell D. (1995) The role of the father in a pre-suicide state (Int. J. Psycho-Anal. Vol. 76, pag. 315)
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