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CESARE LOMBROSO E LE ORIGINI DELL’EUGENETICA ITALIANA. PREGIUDIZI E REALTÁ STORICA

24 Set 16

Di Pierpaolo Martucci
  1. Lombroso, l’antropologia criminale e la “leggenda nera”
 
Una vera e propria “leggenda nera” ha gravato a lungo sulla figura e le opere di Cesare Lombroso. Esistono correnti interpretative che hanno collegato in misura più o meno diretta il darwinismo sociale dei positivisti – e quindi anche la criminologia dei lombrosiani – con il clima culturale rivelatosi poi propizio allo sviluppo del c.d. razzismo “scientifico” del Novecento. L’esempio emblematico è costituito dalla storia del razzismo in Europa di George L. Mosse, ove  Lombroso è descritto come un precursore del progetto nazionalsocialista di rigenerazione razziale e di eutanasia (1).
In realtà  approcci storiografici molto più recenti contestano queste generalizzazioni, che  non tengono conto della complessità e della diversificazione delle posizioni nella Scuola Positiva d’ispirazione lombrosiana e sembrano semplicemente ignorare tutta una serie di fondamentali elementi biografici, a cominciare dall’impegno nel movimento socialista ed alle lucide ed intransigenti prese di posizione contro il militarismo ed il colonialismo.
Se il tanto vituperato darwinismo sociale emerge chiaramente in studiosi di area lombrosiana come Raffaele Garofalo o  Scipio Sighele,  diviene per contro meno conclamato e assai più sfumato nell’evoluzione del pensiero di altri, primo fai i quali Enrico Ferri; lo stesso Lombroso volle sempre differenziarsi dal darwinismo, mentre è provato che aveva avuto una buona e tempestiva conoscenza delle opere del grande naturalista inglese, pur perseguendo un concetto di evoluzione che era prevalentemente il frutto del confluire di idee di autori diversi, da Moleschott a Morel, da Haeckel a Broca, a Spencer.
 
 
 
 
  1. Dall’ atavismo alla degenerazione “utile”
Un primo punto sul quale bisogna fare chiarezza:  fra criminologia lombrosiana ed eugenetica non vi fu alcun rapporto diretto, poiché il discorso eugenico si sviluppò separatamente ed autonomamente, pur nell’ambito della comune matrice positivistica. Occorre anzi rimarcare le differenze fra la teoria atavistica della delinquenza formulata da Lombroso e il più radicale pessimismo antropologico sostenuto da Francis Galton, l’ecclettico studioso inglese cugino di Charles Darwin  che nel 1883 coniò il termine eugenics per intendere un programma di pianificazione e razionalizzazione della riproduzione umana, finalizzato al miglioramento biologico della specie. Un punto fondamentale per comprendere le implicazioni dell’eugenica galtoniana ed ottocentesca in generale,  risiede nel fatto che all’epoca – anche sulla scia delle idee di Lamarck – le teorie dell’ereditarietà e dell’evoluzione non distinguevano tra fattori strettamente biologici e fattori culturali; comportamenti e atteggiamenti morali erano coinvolti nei processi di evoluzione e trasmissione tanto quanto le variazioni biologiche; era quasi un luogo comune, la convinzione, secondo cui comportamenti, abitudini e associazioni mentali si rafforzano mediante ripetizione fino a “solidificarsi” e condensarsi in nuove strutture nervose e a divenire istintivi ed ereditari.
Galton vedeva nell’eugenica la base per una nuova religione scientifica ed evoluzionista, nella quale un individuo poteva essere visto solamente come una manifestazione di un immortale plasma germinale (2), l’unica strategia in grado di contrastare efficacemente l’incombere della degenerazione biologica e sociale, la cui paura dominava il clima politico dell’epoca. E’ bene soffermarsi su questa categoria della degenerazione, che tanta parte avrebbe poi avuto nei progetti eugenetici del Novecento e nella stessa propaganda razzista
Come è noto l’originaria teorizzazione del concetto di degenerazione fu sviluppata dallo psichiatra francese Bénédict- Augustin Morel nel suo celebre trattati del 1857 e del 1860. Nelle sue opere  emergeva l’idea che una serie di fattori patogeni, legati anche a disordini morali, potessero essere stati all’origine di una varietà corrotta della specie umana, con segni di decadimento via via più gravi di generazione in generazione, con attitudini alla malvagità  o alla follia, e tendenza alla sterilità. Il concetto venne ben presto allargato da un altro psichiatra francese, Moreau de Tours, ai più discussi problemi della patologia sociale, con l’affermazione di un legame ereditario fra gli arresti di sviluppo, la pazzia e la nevrosi da un lato, il delitto e la genialità dall’altro. In seguito la categoria  venne ulteriormente estesa oltre l’ambito clinico, sino a divenire un abusato paradigma esplicativo in ambito antropologico, etnologico, storico, sociologico. A livello collettivo, veniva propugnata l’analogia degli aggregati sociali come superorganismi complessi suscettibili di ammalarsi e di disintegrarsi per processi non dissimili da quelli individuali (3).
Soprattutto in Inghilterra, si riteneva che  la sospensione della selezione naturale determinata dalla carità dei filantropi, dai progressi della scienza medica e della sanità pubblica, avesse fatto sì che nel cuore delle metropoli si fossero moltiplicati gruppi di persone contaminate da difetti ereditari, individui disoccupati perché privi di salute, della capacità e la forza di voler lavorare. La debolezza ereditaria dei componenti di queste “classi pericolose” li spingeva verso il crimine e l’alcool; la loro costituzione li rendeva facili vittime della tubercolosi. Era una visione sostenuta fra gli altri dallo psichiatra Henry Maudsley e dai medici carcerari James Bruce Thomson, David Nicolson e George Wilson. Nel 1868, ben prima della pubblicazione de L’Uomo Delinquente, un altro studioso, Thomas Beggs, aveva  illustrato i pericoli letali della degenerazione in una relazione alla Associazione Nazionale per la Promozione delle Scienze Sociali:
«Poveri e criminali sono una classe degenerata; le loro condizioni derivano da difetti di organizzazione; è un fatto che gli uomini, le donne e i bambini che formano le classi pericolose hanno cervelli deboli o malati e sono rachitici, scrofolosi o sfiancati. Essi sono costituzionalmente inadatti o incapaci di imparare o di continuare qualsiasi lavoro fisso o permanente. Ciò è spesso il risultato di una trasmissione ereditaria, alla quale si aggiunge un’infanzia trascurata o la cattiva crescita, talvolta per insufficiente o precaria fornitura di cibo, o per alimenti di qualità inadeguata, o per una precoce indulgenza in comportamenti innaturali o viziosi» (4).
Era necessario agire concretamente per controllare le classi “pericolose” e preservare la nazione dalla decadenza. Una delle proposte, che meglio sembrò rispondere a tali finalità, fu proprio l’eugenica, con l’applicazione dell’evoluzione darwiniana ad unità biologiche collettive (la razza e la popolazione) per contrastare le minacce della degenerazione.
E’ bene tuttavia ribadire che, rispetto al concetto originario  di dégénérescence che si era diffuso in Francia anche fra gli scienziati sociali, l’interpretazione sviluppata da Lombroso fu alquanto diversa e ambivalente. Nella terza edizione de L’uomo delinquente, egli affermava: «Mi sarebbe facile spiegare la genesi del morbo, riunendomi a quella schiera, ormai fatta falange, di alienisti, che sostengono il concetto della degenerazione […] fino a contentarsi di uno dei segni degenerativi anche dei più insignificanti nell’organismo, per ammetterne l’esistenza. Ma, in un’epoca in cui la scienza mira sempre all’analisi, mi pare che questo concetto sia stato allargato di troppo, comprenda troppe regioni del campo patologico, dal cretino fino al genio, dal sordomuto al canceroso, al tisico, per potersi ammettere senza restrizioni; mentre, invece, trovo più accettabile quello dell’arresto di sviluppo che abbiamo veduto avere una base anatomica, e che ci concilia l’atavismo colla morbosità…» (5).  
Ricordo per inciso che l’ipotesi atavistica del crimine lombrosiana, quella del primitivo e del selvaggio che c’è nell’uomo doveva suscitare l’interesse di Freud (6) e Jung. Come osserva Delia Frigessi, l’inconscio antisociale dell’uomo civilizzato descritto da Freud non differisce sostanzialmente dal “delinquente atavico” di Lombroso (7).
 Lombroso in seguito, specialmente negli ultimi studi dedicati al rapporto fra genio e degenerazione, constatò che, in certi casi, queste ultime potevano anche comportare aspetti positivi in quanto «compensate da un grande sviluppo in altre direzioni» e perfino dall’esaltazione di alcune facoltà mentali (8). Avviandosi alla costruzione di una teoria più complessa della società, oltre e al di fuori della medicalizzazione, egli riconobbe che la degenerazione produce la creatività nell’uomo geniale e in altri outsider, come i santi e i rivoluzionari che rifiutano l’ordine stabilito e in questo senso costituisce un elemento di progresso. Affermando la dimensione evolutiva della degenerazione Lombroso prese le distanze da Galton, di cui contestava i dati statistici; se per quest’ultimo la selezione naturale deve essere rinforzata da una selezione naturale eugenetica, in Lombroso «l’eugenica è, per così dire, iscritta negli stessi meccanismi evolutivi della selezione naturale, pur nei suoi meccanismi degenerativi» (9).
 Anche la figlia Gina si occupò del problema in un suo scritto del 1906 intitolato significativamente I vantaggi della degenerazione, dove la degenerazione mentale veniva vista come adattamento talvolta utile, in termini di selezione naturale.
Nei lavori più tardi di Lombroso, dopo il 1890, si può osservare una significativa evoluzione, quasi una “svolta epistemologica”  delle sue convinzioni, incluse quelle relative al trattamento dei vari tipi di criminali, ed in particolare del delinquente nato, figura sulla quale più pesantemente gravava l’eredità biologica.  Dalle prime posizioni più radicali e pessimistiche, che non escludevano la pena di morte o la segregazione perpetua come strumento  per l’eliminazione degli incorreggibili, si passa ad un rifiuto  umanitario della sanzione capitale con aperture a strategie di terapia e recupero sociale.
 Così mentre un suo allievo, Angelo Zuccarelli, si dichiarava favorevole alla sterilizzazione di alcuni tipi di criminali come misura terapeutica, Cesare Lombroso, nel Convegno criminologico internazionale tenutosi ad Amsterdam nel 1901, proponeva la “terapia della simbiosi”, intesa come strumento idoneo a neutralizzare le energie criminali di soggetti destinati in caso contrario a diventare delinquenti.  Si trattava di offrire agli individui potenzialmente devianti delle attività lavorative grazie alle quali sarebbero riusciti ad incanalare gli istinti criminosi in modalità socialmente accettate.
In realtà i collegamenti più diretti fra teoriche criminologiche e politiche eugenetiche trovarono fondamento al di fuori dell’Italia e in circuiti addirittura ostili a gran parte del pensiero del fondatore dell’antropologia criminale.
In Germania  il fronte scientifico contrario alle teorie lombrosiane era capeggiato da Franz Von Liszt, il giurista austriaco fondatore della Internationale Kriminalistiche Vereinigung (1889) sostenitore di un approccio criminologico attento alle cause sociali e scettico rispetto al concetto di reo nato come tipo antropologico definito. Tuttavia lo stesso Von Liszt ammetteva la presenza di una predisposizione congenita al crimine in molti individui segnati da “degenerazione congenita”, quali epilettici, primitivi e  pazzi e sosteneva una teoria del diritto penale rivolta alla prevenzione sociale (Sozialpräventive Strafrechtstheorie) e fondata sulla “pena indeterminata” modulata sulla personalità del colpevole, i cui capisaldi erano stati esposti nel 1882 nel c.d. «Programma di Marburgo». In linea con tali presupposti si ponevano le posizioni che sarebbero state sviluppate da Gustav Israel Aschaffenburg, lo psichiatra allievo di Kraepelin,  antagonista di Lombroso e fiero avversario della psicoanalisi il quale, sino all’avvento del nazismo, sarebbe emerso come il più autorevole criminologo tedesco.  Lo psichiatra, in alternativa all’Antropologia Criminale, aveva elaborato la Psicologia Criminale (Kriminalpsychologie), fondata sullo studio dei caratteri psicologici e biologici dei criminali.
In occasione del VII Congresso internazionale di Antropologia Criminale, tenutosi a Colonia nell’ottobre 1911 (in seguito non ve ne furono altri), Aschaffenburg sostenne il concetto di “individuo socialmente inadatto”, da lui elaborato in contrapposizione al “reo nato” di estrazione lombrosiana. In questa ampia categoria di “soggetti inferiori”, incapaci di integrarsi nella società, rientravano criminali e folli: da essi la società civile doveva difendersi «sino alle estreme conseguenze». In aderenza ad un’etica che affermava il predominio della società sull’individuo, Ashaffenburg proponeva un programma di lotta alla criminalità che comprendeva provvedimenti di igiene sociale quali la lotta all’alcolismo ed alla promiscuità sessuale, il controllo o la proibizione dei matrimoni fra “inadatti” (epilettici, malati di mente, delinquenti recidivi), ma anche la castrazione e sterilizzazione degli “individui inferiori”.
Le tematiche dell’eugenetica (con la sterilizzazione di recidivi e “inferiori”) e dell’igiene razziale furono ripetutamente dibattute nel Convegno di Colonia, evidenziando tendenze che dovevano portare a gravi sviluppi nei decenni successivi. Tra le poche voci in dissenso vi fu proprio quella di un tedesco estimatore di Lombroso, lo psichiatra Robert Sommer il quale, ricordando gli ultimi approdi del pensiero lombrosiano molto più sistematici e complessi rispetto all’ingenuo biodeterminismo iniziale, dichiarò che lo scopo dell’Antropologia Criminale avrebbe dovuto essere la realizzazione di un diritto penale più umano. Anni prima aveva profeticamente denunciato i pericoli del determinismo scientifico che si stava affermando nella psichiatria germanica: l’affermazione assiomatica che la condotta deviante fosse effetto diretto di una predisposizione congenita (angeborne Anlage) avrebbe offerto allo Stato tutte le basi per giustificare l’instaurazione di un sistema di terrore (terroristicher Staat) (10).
 
  1. I criminologi italiani e l’eugenetica nel periodo fascista
 
Non intendo qui ripercorrere la storia dell’eugenica italiana la cui origine viene solitamente  collocata nel biennio 1912-13 quando, sull'onda del  I Congresso Internazionale di Eugenica, tenutosi a Londra sotto la presidenza di Leonard Darwin, presso l’Università di Genova fu istituita una cattedra di Eugenetica sociale e venne inoltre promossa la nascita della SIPS (Società italiana per il progresso delle scienze) che avrebbe avuto un ruolo importante nel dibattito demografico-razziale ed eugenico nel nostro Paese. Nel 1913, sotto la guida di Giuseppe Sergi e Alfredo Niceforo, si costituì il Comitato italiano per gli Studi di Eugenica.
Mi limito a richiamare le opere di studiosi quali Pogliano (11), Mantovani (12), Cassata (13), che hanno rifiutato la facile equazione eugenica = razzismo ed hanno individuato (soprattutto Cassata) nella seconda metà degli anni Venti la cosiddetta “svolta natalista” che, sulla base di convergenti interessi fra regime fascista e Chiesa Cattolica, portò all'adozione di «un’eugenica “quantitativa”, interessata alla tutela della maternità e alla prolificità delle famiglie piuttosto che alle utopie “qualitative” perseguite dal modello eugenico “nordico”» (14).
In questa fase, le mire imperialistiche fasciste, le posizioni cattoliche e il predominio del socioambientalismo di impronta lamarkiana e del popolazionismo (espansionismo demografico) daranno corpo alla configurazione particolare dell’eugenica italiana, caratterizzata essenzialmente da un tratto “positivo” e vista come il prolungamento della politica di espansione demografica: igiene sociale (lotta alla tubercolosi, alla malaria e all’alcolismo), tutela della famiglia e dell’infanzia, incremento della natività.  Si è molto parlato dell’influenza moderatrice della Chiesa ma è giusto ricordare che in diverse occasioni il rifiuto di misure eugenetiche negative (in primis la sterilizzazione) da parte degli specialisti italiani prese le mosse «dall’idea lombrosiana che nella degenerazione possa manifestarsi in realtà il genio, che i malformati o gli epilettici possano nascondere nelle loro file un Leopardi o un Manzoni» (15).
Quale fu nello specifico la posizione dei criminologi italiani nel periodo fra le due guerre?
Prima di rispondere a questo interrogativo è bene ricordare la particolare situazione della disciplina in quegli anni. Dopo la morte di Cesare Lombroso, nel 1909, non vi furono, tra i continuatori e i collaboratori della sua cerchia, figure in grado di superare, colmare le  carenze della scuola, mantenendo accesa la vivacità delle sue intuizioni, anche perché mancava una rigorosa costruzione ideologico- scientifica che potesse costituire un riferimento comune. Questa circostanza, insieme alla generale crisi del positivismo e ad altri fattori interni ed internazionali determinò una situazione di profonda crisi in conseguenza della quale, dopo la conclusione della prima guerra mondiale la scuola antropologico-criminale italiana dovette affrontare un progressivo isolamento sul piano accademico, culturale ed anche politico, che la costrinse in una posizione essenzialmente difensiva, confinata in un ambito scientifico di tipo medico-legale e psichiatrico.
Il punto più basso della parabola giunse all'inizio del 1936, quando uno speciale decreto del Ministero dell'Educazione Nazionale ordinò l'abolizione dell'insegnamento dell'antropologia criminale in tutti gli atenei d'Italia, un bando che durò per due anni, sino al successo del I Congresso internazionale di Criminologia, tenutosi a Roma nell’ottobre del 1938.
In tale contesto la figura più significativa risulta senz’altro quella dello psichiatra Benigno Di Tullio, allievo del celebre medico legale Salvatore Ottolenghi, uno dei padri fondatori della polizia scientifica nel nostro Paese, al quale nel 1903 era stato affidato l'insegnamento dell'antropologia criminale nella Facoltà di Medicina dell'Università di Roma.
Di Tullio, pur legato alla tradizione lombrosiana e sostanzialmente fedele ad una visione biotipologica della delinquenza, giunse ad esercitare un ruolo significativo nell'evoluzione dell'approccio antropologico-clinico allo studio del delitto.
In un suo manuale del 1931, nel capitolo dedicato alla profilassi e alla terapia della delinquenza costituzionale, Di Tullio manifesta una nettissima contrarietà rispetto all’eugenetica negativa: «non crediamo affatto alla opportunità ed alla stessa utilità di quei mezzi di terapia violenta, che vanno sino alla sterilizzazione, e che dovrebbero tendere a rendere organicamente inoffensivo il delinquente, come se veramente si trattasse, secondo quanto da alcuni si continua ingiustamente a credere, di un individuo preistorico, avente affinità a volte coi rosicanti, a volte coi carnivori, ecc. Trattandosi invece di una personalità solamente difettosa ed incompleta (…) è naturale che anche per tale tipo di delinquente debbano avere efficacia più o meno decisiva quegli stessi mezzi curativi e rieducativi, che valgono per tutte le altre categorie di individui deboli, gracili, difettosi ed anormali in genere» (16).
L’argomentare è coerente con la fiducia di Di Tullio nella “correggibilità del delinquente”, che va trattato terapeuticamente, poiché  la sua predisposizione al delitto è potenziale, non biodeterminata. In una prospettiva relativamente umanitaria Di Tullio aderisce alla dominante concezione ortogenetica e, con un esplicito richiamo al riformismo lombrosiano, sostiene una prevenzione generale della criminalità attraverso la lotta alle cause di degenerazione della razza:  alcolismo, pazzia, sifilide, tubercolosi, insieme alle varie condizioni ambientali di miseria, di ignoranza, di abbandono e di pregiudizi che ne facilitano lo sviluppo e la diffusione. I mezzi sono  «la sorveglianza e la protezione della maternità ed infanzia, l’educazione scolastica, l’educazione fisica, l’educazione e l’igiene sessuale, l’educazione e l’igiene mentale, l’educazione e l’assistenza delle masse e la loro elevazione spirituale». Rispetto alla visita prematrimoniale, il criminologo, pur ammettendola in teoria, la considera in pratica “inattuabile”.
Risulta di grande interesse anche il riferimento ad un’altra opera: il Dizionario di Criminologia  edito da Vallardi nel 1943. La data è significativa: sono passati alcuni anni dalla svolta fascista in senso marcatamente razzista e antisemita del 1938 e il conflitto mondiale è giunto alla sua fase più aspra, che di lì a poco porterà alla caduta di Mussolini. Fra i tre curatori, accanto al celebre penalista Eugenio Florian, all’antropologo Alfredo Niceforo (un allievo diretto di Cesare Lombroso, già componente del Comitato Italiano per gli Studi di Eugenica, costituito nel 1913 sotto la guida dello psichiatra Giuseppe Sergi ), troviamo Nicola Pende, il medico sostenitore del razzismo biologico e di un'eugenica «mendeliana» ereditarista, vicina ai modelli germanico, scandinavo e nordamericano, che aveva il suo organo ufficiale nella rivista La difesa della razza.
Ebbene, nel Dizionario la parola “eugenica” non compare, mentre è presente la breve (una colonna di testo)  voce Ortogenesi, a firma proprio di Nicola Pende, il quale, rivendicando la paternità del termine, la definisce «la scienza che si occupa della protezione igienica e medica della crescenza fisica e psichica allo scopo di costruire (il corsivo è nel testo originale) l’uomo normale, corretto dagli errori e dalle deviazioni a cui è esposta, durante il suo periodo formativo, la fabbrica umana» (17).  Essa richiede due istituzioni: quella dei “Centri ed istituti di ortogenesi” e quella della “Cartella personale bio-tipologica-sanitaria”, il documento che dovrebbe per ciascuno registrare tutte le caratteristiche biotipologiche individuali per mezzo di successivi accertamenti diagnostici ed esami completi, dalla nascita fino all’età adulta e matura. Pende afferma che «la criminologia preventiva, come la medicina preventiva, come tutta l’assistenza igienica del popolo, non possono che fondarsi su questa base veramente razionale e scientifica della bonifica della razza».
L’altra voce significativa è Sterilizzazione (Eugenetica), che si sviluppa in 14 paragrafi su ben 11 pagine di testo, e che viene definita come «la perdita della facoltà di generare ottenuta artificialmente, tanto nell’uomo come nella donna, a fine di profilassi sociale e razziale». Il Dizionario illustra con ampiezza le  metodologie tecniche della sterilizzazione e le legislazioni vigenti nei diversi Stati. Ciò che rileva è la qualificazione decisamente negativa della pratica: nel paragrafo 10 (Paesi contrari alla sterilizzazione) viene ricordato che in Italia la sterilizzazione non solo non è ammessa, ma costituisce un reato contro l’integrità e sanità della stirpe ai sensi dell’art.552 c.p.. Successivamente viene sviluppato un deciso attacco alle legislazioni  che contemplano la sterilizzazione: «senza entrare in critiche dettagliate (…) le leggi che hanno un fine esclusivamente o anche solo principalmente eugenetico, si erigono su un concetto biologicamente inconsistente: perché non è affatto noto se le principali enunciate infermità, comportanti la sterilizzazione o castrazione, si trasmettono ereditariamente».  La stessa valutazione negativa viene riservata alla sterilizzazione in funzione di difesa sociale «infatti per prima cosa non si potrà certo sostenere che un frenastenico o un alienato, dopo la sterilizzazione o anche la castrazione, migliorerà la sua condotta sociale e diverrà meno pericoloso per la collettività (chè anzi, per certe psicopatie, si è veduto che il quadro si aggrava); né si potrà presumere che, dopo l’intervento, l’operato rivolgerà maggiori cure alla famiglia ed alla prole».
Ma al di là dei rilievi tecnici si avanzano forti riserve «anche dal punto di vista civile e morale»: «siamo del parere che le disposizioni di legge sulla sterilizzazione, ed ancor più quelle sulla castrazione, troppo contrastino con quel diritto oramai acquisito del rispetto all’integrità dell’individuo, anche se effettuate per il bene della collettività. E questo concetto ci sembra valere ancor più, nel pensare che tali disposti legislativi hanno in animo di colpire – come ad es. le leggi di profilassi razziale – non tanto un soggetto che può avere solo la colpa di essere nato deficiente, quanto una discendenza che però potrebbe anche sorgere normale». E la voce conclude richiamando la “veramente serena” posizione della Santa Sede che nell’Enciclica “Casti Connubi” del 31 febbraio 1930 aveva condannato energicamente gli interventi preventivi per motivi eugenetici, condanna ribadita il 25 settembre 1933.
Anche la voce Razza e criminalità (antropologia e sociologia), non firmata, adotta un’impostazione sostanzialmente prudente, parlando di un probabile “falso problema” in quanto il fattore “bio-criminogeno” avrebbe “valore super-razziale”, e non lesinando critiche alla dottrina tedesca imbevuta «del concetto mistico della superiorità della razza nordica e del falso concetto di razze superiori e inferiori anche nelle nazioni civilizzate».
 
  1. In conclusione
 
Giungendo al termine di queste riflessioni sui rapporti fra Cesare Lombroso e l’eugenetica italiana ritengo di poter affermare che una disamina serena non consente di individuare alcuna reale derivazione – diretta o indiretta – fra il pensiero di Cesare Lombroso e l’eugenetica razzista; anzi, come è stato rilevato, per certi versi le sue concezioni in tema di degenerazione hanno contribuito a contrastare le  istanze più interventiste nel dibattito eugenico italiano. Altre furono, semmai, le radici culturali remote dei programmi di eugenetica negativa sperimentati nella prima metà del Novecento, in Germania e non solo.
Vero è che prevedere le implicazioni future di un’idea è esercizio che attiene più al dono divinatorio della profezia, che alla speculazione razionale degli scienziati, i quali spesso in questo si dimostrano singolarmente fallaci. 
Non era illusoria invece la grande coerenza etica che il padre dell’antropologia criminale seppe trasmettere a quelli che furono i suoi allievi diretti, Mario Carrara e Guglielmo Ferrero, che ne avevano sposato le figlie Paola e Gina e che rappresentarono, negli anni del regime, uno dei più limpidi punti di riferimento dell’antifascismo (18).
Voglio concludere ricordando proprio Mario Carrara, medico legale di grande prestigio, succeduto al genero nell’insegnamento dell’ antropologia criminale nell’Università di Torino e che nel 1931,  fu uno dei pochissimi docenti universitari (12 in tutta Italia!) che si rifiutarono di sottoscrivere quel giuramento al regime la cui formula richiedeva, tra l’altro: «…di esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri accademici, col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla patria e al regime fascista» (19). In occasione di quell’atto di coraggio che gli costò la cattedra e lo espose alla persecuzione poliziesca, Carrara inviò al Ministro della pubblica istruzione una lettera per chiarire le motivazioni del mancato giuramento, in cui, tra l’altro, scriveva: «non ho sentito di potermi impegnare a dare intonazione, orientamento, finalità politiche alla mia attività didattica, la quale in tanto reputo più efficace ed alta, in quanto più pura di finalità pratiche e contingenti (…) se noi dobbiamo formare nei giovani una conoscenza “scientifica”, dobbiamo guardarci dal turbarne la spontanea formazione con apriorismi dottrinari e preconcetti finalistici» (20).
Era e rimane un esempio luminoso di un uomo che, pagando di persona, non volle piegare al potere politico  la propria libertà di scienziato.
 
 
 
 
 
 
NOTE BIBLIOGRAFICHE
 
 
  1. MOSSE G.L, Il razzismo in Europa, Dalle origini all’olocausto, Milano, Mondadori, 1992, 92-94; cfr. anche FRIEDLÄNDER, H.,  Le origini del genocidio nazista. Dall’eutanasia alla soluzione finale, Roma, Editori Riuniti,  1997.
  2. Cfr. Mac KENZIE D., Eugenic in Britain, in Social Studies of Sciences, 1976, 3/4, 499-532.
  3. Si veda la critica a tali concezioni sviluppata da Enrico Morselli nel suo proemio a BRUGIA R., I problemi della degenerazione, Bologna, Zanichelli, 1906.
  4.  BEGGS T., Repression and Prevention of Crime, London, Tweedie, 1868,  pp.7-8
  5.  LOMBROSO C., L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza ed alle discipline carcerarie. Delinquente nato e pazzo morale, III ed. completamente rifatta, Torino, Bocca, 1884, p.588. Già nel 1889, del resto, pure Enrico Ferri aveva posto in evidenza l’eccessivo ricorso a quel concetto, anche in criminologia: «Altri sostiene che la delinquenza è una forma di degenerazione. Il quale concetto ha ora una estensione massima, tanto che credo opportuno specificarla; poiché il concetto della degenerazione viene messo innanzi per spiegare troppi casi patologici, così i delitti e la pazzia e il suicidio come la tisi e la scrofola, e quindi volendo spiegar troppo finisce collo spiegar troppo poco» (FERRI E., Delitti e delinquenti nella scienza e nella vita, Milano, Treves, 1889, p. 46).
  6.  Molti anni dopo la morte di Lombroso, in una lettera del 18 febbraio 1926, indirizzata allo psichiatra Enrico Morselli, Sigmund Freud così si esprimeva: « penso con soddisfazione che Lei chiama se stesso scolaro di uno dei miei compagni di stirpe, il grande Lombroso».   (Cfr. FREUD S., Epistolari, Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti. 1873-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 1990,  p.302)
  7.  FRIGESSI D., Cesare Lombroso tra medicina e società, in MONTALDO S., TAPPERO P. (a cura di),  Cesare Lombroso cento anni dopo, Torino, Utet, 2009,  p.14.
  8. Cfr. LOMBROSO C., L’uomo di genio in rapporto alla psichiatria, alla storia ed all’estetica, VI ed., Torino, Bocca, 1894, pp.XIII-XV
  9.  CASSATA  F.,  Dall’uomo di genio all’eugenica, in MONTALDO S., TAPPERO P.,  op.cit., , p.177.
  10. SOMMER R., Die Criminalpsychologie, in Allgemeine Zeitschrift fur Psychiatrie, 1895, 51, 782-98..
  11.  POGLIANO C., Scienza e Stirpe: Eugenica in Italia (1912-1939), in Passato e Presente, 1984, 5, 61-97.
  12.  MANTOVANI C., Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni trenta, Soveria Mannelli,  Rubettino, 2004.
  13.  CASSATA F., Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia,Torino, Torino, Bollati Boringhieri, 2006
  14.  Ibidem, p.20.
  15.  CASSATA F., Dall’uomo di genio all’eugenica, cit., p.177.
  16.  DI TULLIO B., Manuale di Antropologia e Psicologia Criminale, Roma, Anonima Romana editoriale, 1931, p.310.
  17.  PENDE N., Ortogenesi (scienza della), in FLORIAN E., NICEFORO A., PENDE N., Dizionario di Criminologia, vol. II, Milano, Vallardi, 1943, p.60
  18.  Una testimone dell’epoca rammenta, a proposito della casa torinese di Paola Lombroso e Mario Carrara: «[…]casa Carrara fu per tutti quegli anni un centro di antifascismo: non nel senso che ci si raccogliesse precisamente per “lavorare”; ma quanti erano stati perseguitati o invisi al fascismo erano certi di esservi accolti come amici» (ALLASON B., Memorie di una antifascista, 1919-1940, Milano, 1961, p.136). Fra gli antifascisti frequentatori di «casa Carrara» vi furono, fra gli altri, Altiero Spinelli, Adriano Olivetti, Leone Ginzburg; ne parla anche Natalia Ginzburg in Lessico familiare, Torino, Einaudi, 1963, pp.92 e ss.
  19.  Cfr. l’art.18 del D.L.1227 del 28.8.1931 («Disposizione sull’istruzione superiore»).  La vicenda di Carrara ricorda per certi versi un episodio che aveva avuto come protagonista Cesare Lombroso oltre trent’anni prima. Nei mesi roventi del 1898, quando le manifestazioni popolari venivano  stroncate nel sangue con lo stato d’assedio ed i tribunali militari e si applicava la censura sulla stampa, Lombroso decise di iniziare una raccolta di firme contro la repressione e in difesa dei detenuti politici. A tal fine inviò una sua lettera di protesta in 150 copie «a tutti i professori e uomini più eminenti d’Italia», che però ottenne solo 21 adesioni.
  20.  Il testo di questa e di un’altra lettera indirizzata al Rettore dell’Università di Torino sono riportati in GALANTE GARRONE A., I miei maggiori, Milano, 1984, pp.37-39.
 
         Il presente articolo riprende parzialmente i contenuti della relazione presentata al “Seminario Internazionale di Studi su Medicina e Shoah”, Trieste, 29 gennaio 2013. 

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