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Dire di “si” o di “no” (ad un referendum): quando la psicoanalisi non ci aiuta

18 Dic 16

Di marco.nicastro
Devo dire che, da psicoterapeuta e conoscitore della psicoanalisi (un po’, quel tanto che basta), ho letto con interesse l’articolo dello psicanalista e filosofo Sergio Benvenuto – Si vota sempre no – recentemente apparso sulla rivista online Doppiozero.
Parto subito dalla mia tesi fondamentale: io non sono per nulla convinto, come sostenuto dall’autore ma anche da altri, che il metodo psicoanalitico possa essere applicato alla politica e ai fenomeni sociali “macro”; ritengo anzi che questa sia un’operazione sbagliata perché la psicoanalisi è nata essenzialmente come teoria e tecnica terapeutica per affrontare la sfaccettata complessità dei fenomeni psichici dei singoli individui (o di piccoli gruppi di individui), non certamente per spiegare fenomeni ancora più complessi quali la formazione delle ideologie politiche, le azioni e le scelte di masse di individui, in cui agiscono necessariamente un numero talmente elevato di variabili (economiche, storiche, sociali, culturali, politiche, ecc) da non poter essere affrontati con uno strumento così epistemologicamente delicato e fatto a misura del singolo quale è quello psicoanalitico. Le ipotesi teoriche che ogni psicoanalista avanza nel lavoro con uno specifico paziente sono già clinicamente molto difficili da dimostrare quando le si mette a confronto con quelle che potrebbe avere un osservatore esterno a quello specifico rapporto clinico (e dunque più neutrale) proprio perché esse nascono e si confermano nella specificità di quella relazione uno-a-uno. Quando si esce da quell’ambito ristretto esse perdono la loro potenza esplicativa (legata anche agli aspetti emotivi e transferali insiti nel trattamento analitico) e diventano più o meno opinioni di senso comune (certo, alcuni singoli fenomeni possono essere veri, come ad esempio la proiezione dell’ideale dell’Io su un leader da parte della folla, evidenziato da Freud e altri, ma non sono esaustive a spiegare in generale fenomeni sociali di così ampia portata).
 
Benvenuto sostiene che la psicoanalisi è utile perché mira alla comprensione dei contenuti latenti e non di quelli manifesti, come fa il discorso di senso comune in cui tutti abitualmente ci muoviamo. Essa potrebbe spiegare bene perché la riforma non è passata: pochissimi si sono interessati ai suoi contenuti manifesti, peraltro complessi, mentre la stragrande maggioranza si è mossa sulla spinta di motivazioni latenti/inconsce (fattori emotivi, irrazionali o “di pancia”, in particolare l’odio, secondo l’autore) e relative al rapporto simbolico del popolo con la politica e, nello specifico, con chi più di tutti ha portato avanti quella riforma: Matteo Renzi.

Il fatto che il votare “di pancia”, spinti da amore-odio verso qualcuno, non è sempre qualcosa che ha a che fare con l’inconscio. Molte persone erano ben consapevoli di votare pro o contro Renzi, altre invece hanno votato nel merito (magari conoscendo bene solo alcuni specifici punti, non si può essere tutti costituzionalisti!), altri ancora, proprio come sostiene Benvenuto, hanno pensato consciamente di votare nel merito (razionalizzando le vere motivazioni) ma hanno invece votato “di pancia”. Tuttavia non si può sostenere che questi ultimi siano la stragrande maggioranza, perché altrimenti non solo si potrebbe portare lo stesso argomento anche per coloro che hanno votato SI, ma soprattutto bisognerebbe portare dati affidabili a riprova, altrimenti affermazioni di questo tipo rimangono sostanzialmente indimostrabili, luoghi comuni come altri.
Non mi pare poi convincente l’idea che Renzi non sia riuscito a conquistare una parte dell’elettorato di destra in questi ultimi anni; prova ne è il fatto che molte persone che votavano per il Partito Democratico (la cosiddetta base del partito) non hanno condiviso diversi aspetti della sua politica di questi ultimi anni (basti pensare al Jobs act), e che secondo i sondaggi circa il 25% dei voti per il SI proveniva da elettori di Forza Italia. Collegandomi a questo argomento, personalmente vedo, a differenza di Benvenuto, diverse analogie tra Berlusconi e Renzi. Non mi riferisco all’estrazione sociale, né al carattere dei due leader, quanto piuttosto al modo di portare avanti la loro narrazione (il cosiddetto storytelling), fatta di una visione sempre positiva delle cose a differenza di quanto spesso mostra la realtà quotidiana, di una spropositata e forzata fiducia nel futuro, di semplificazione delle questioni anche in contesti istituzionali (vedi massiccio utilizzo delle ormai famose slides) e di comunicazione persuasiva, cioè volta a solleticare l’emotività dell’uditore (proprio quella “pancia” che di semplificazioni estreme si nutre) più che a spiegare correttamente i contenuti. Se la politica fa ampio uso della retorica e le persone si lasciano convincere più da questa che dai contenuti obiettivi, non credo sia possibile escludere da tale propensione Matteo Renzi.
Nel suo caso, in analogia con altri che l’hanno preceduto, si è trattato di una retorica delle “magnifiche sorti e progressive” del nostro paese, basata sulla negazione costante o minimizzazione dei problemi strutturali che caratterizzano l’Italia e coi quali si scontrano quotidianamente centinaia di migliaia di persone che non sono frustrate o incazzate per motivi inconsci, come sostiene Benvenuto, ma che hanno sacrosante e realistiche ragioni per esserlo. Una retorica infarcita di concetti che rimandano continuamente alla speranza, al dinamismo, alla velocità, alla bellezza del nostro paese e delle sue risorse. Così, nel corso del dibattito recente sulla riforma, molti esponenti del SI hanno parlato di una Costituzione più competitiva, dinamica, “performante”, termini che si addicono più ad un motore a scoppio o alla produzione di un’azienda che ad una carta costituzionale (mi sovvengono gli allegri motti berlusconiani “Io amo l’Italia, io volo Alitalia” o, in piena crisi economica, “I ristoranti sono sempre pieni”). Un discorso fatto di positività a tutti i costi, di fretta e velocità, di minimizzazione o negazione dei problemi della realtà che può ricordare, da un punto di vista psicopatologico, alcuni aspetti dell’atteggiamento maniacale (se volessimo continuare nel gioco di forzare le categorie psicoanalitiche-psicopatologiche alla comprensione della dimensione pubblica-politica).
Non sono poi nemmeno d’accordo sul fatto che Renzi abbia avuto il merito di aver provato a superare certo linguaggio tradizionale della politica e dei concetti di destra/sinistra. In tal senso, e sempre che questo superamento sia poi effettivamente un merito, è stato anticipato dai Cinque Stelle, che Renzi tra l’altro ha cercato di emulare nel corso della campagna referendaria battendo con insistenza sulla questione del taglio dei costi garantito dalla Riforma (questione su cui ha perso) e insistendo sul termine “casta” (altra parola già da tempo nel lessico dei “grillini”) per designare chi si opponeva alla riforma. Solo che quando a portare avanti questo schema di pensiero è il M5S i suoi rappresentanti vengono tacciati di qualunquismo, quando invece lo fa il principale esponente del PD esso viene considerato come un segno di maturità politica, una “mutazione” necessaria che l’Italia tuttavia non sarebbe ancora pronta ad accogliere.
Rimanendo nelle considerazioni meramente politiche, non condivido nemmeno l’opinione che sia stato Renzi ad usare furbescamente Berlusconi, quanto il contrario: dopo la sentenza per frode fiscale e il conseguente declino di Forza Italia Berlusconi era spacciato politicamente e giocando un ruolo nel Patto del Nazareno è rientrato (lui sì furbescamente) in carreggiata, proprio come ha fatto in seguito virando d’improvviso verso il NO ad una riforma da lui stesso voluta.
Sulle “cose di sinistra” fatte dal governo Renzi non voglio qui pronunciarmi, non è mio intento né ci sarebbe lo spazio per approfondire. Altri più preparati ed aggiornati di me in merito alla qualità delle iniziative approvate dal parlamento negli ultimi tre anni potrebbero più efficacemente controbattere. Mi limito a dire che, accanto a cose buone, citate anche da Benvenuto, ci sono cose molto meno buone, specie in ambito economico: iniziative dispersive di sostegno al reddito nel complesso poco efficaci per far ripartire i consumi e che testimoniano, a mio avviso, la tendenza a voler prendere tempo più che affrontare alcuni nodi cruciali per l’economia di questo paese. E che dire poi della mancata riforma organica della Giustizia, lanciata da Renzi nel suo “crono-programma” dei primi mesi di Governo; di una lotta dura all’evasione fiscale (che non basato su condoni, innalzamento della soglia di punibilità dei reati o confusa e problematica ridefinizione degli stessi) e alla corruzione (per questo reato sono sì state alzate le pene, ma è difficile poi applicarle senza un blocco della prescrizione dei processi – legge come sappiamo da anni bloccata in commissione parlamentare – e altre misure da tempo propugnate da molti pm, come quella dell’utilizzo dell’“agente sotto copertura”, utilissima a scoprire la corruzione che è un reato difficile da provare). E che dire, infine, del taglio deciso della spesa pubblica (quello sì dovrebbe essere veloce e performante!), propugnato da molti commissari alla spending review ma mai attuato, dopo che è stato dato loro il benservito?
Piuttosto semplicistico infine dire che la sinistra vuole mettere tasse per finanziare i servizi pubblici: questa è semplicemente una cosa ovvia, perché senza tasse i servizi pubblici non possono sussistere. È cosa di sinistra fare in modo che dei servizi pubblici di qualità dignitosa possano essere il più possibile estesi alla popolazione e quindi conseguentemente che la più ampia platea di persone paghi le tasse per mantenerli (e poterne legittimamente usufruire). Se invece, come avviene da sempre in Italia, ci sono molti sprechi di denaro pubblico e un’evasione diffusa, le casse dello Stato non riescono più a sostenere i costi di quei servizi, le tasse finiscono per crescere esponenzialmente e gravare tra l’altro su una platea ristretta di persone che non possono sfuggirvi (i dipendenti pubblici e i pensionati) risultando alla lunga intollerabili e giustificando il malcontento e l’atteggiamento moralmente scorretto di coloro che non vogliono pagarle.
Sono quindi gli sprechi e l’evasione a determinare un ingiusto aumento delle tasse ed un governo di sinistra dovrebbe lottare duramente contro di esse, non perché è ideologicamente a favore della vessazione dei cittadini, ma perché ha a cuore che anche i più deboli della società possano beneficiare di buoni servizi pubblici (scuole, sanità, servizi socio-assistenziali, trasporti ecc).
 
Benvenuto parla dell’odio come movente inconscio principale dell’opposizione a Renzi. Sarebbe in questo caso un odio motivato dall’invidia verso un vincitore, più forte, più bravo, più ricco di te (come in precedenza Berlusconi). Certo trovo assurdo il mero accostamento, sia pur metaforico, tra Renzi e Napoleone (un paragone per il quale Napoleone avrebbe da ridire, se fosse vivo).
Ora, che l’invidia sia un sentimento universale che si scatena quando notiamo in altri ciò di cui noi ci riteniamo mancanti e che desideriamo (consapevolmente o meno), non significa che chiunque abbia criticato o attaccato la politica di Renzi e altri prima di lui fosse mosso dall’invidia nei loro riguardi. Anzi, ritenersi spesso oggetto di invidia (parlo in generale e non di Renzi nello specifico) o ritenere che chi ti circonda sia pronto a provare invidia e a volerti abbattere come un nemico se provi a realizzare qualcosa è una modalità di pensiero tipica di un funzionamento caratteriale patologico, quello del narcisista. Tale tratto caratteriale che rientra all’interno dei criteri che il DSM-IV (manuale statistico e diagnostico dei disturbi psichiatrici) poneva per la diagnosi del disturbo di personalità narcisistica, recitando testualmente: “Prova spesso invidia o è generalmente convinto che altri provino invidia per lui”.
Quindi direi che qualsiasi persona (che sia un politico non fa differenza alcuna) che cerca di ridimensionare i propri avversari svilendo le loro critiche come attacchi frutto di invidia nei suoi riguardi testimonierebbe a mio avviso una tendenza caratteriale preoccupante (per lui innanzitutto), oltre che una pochezza di argomenti per controbattere a quelle.
Né tantomeno posso essere d’accordo con l’idea che la personalizzazione dell’Iter della riforma fosse un qualcosa di inevitabile: anche la personalizzazione di un programma collettivo, se vogliamo analizzare la questione a fondo – dando cioè peso proprio a quei “contenuti latenti” che l’autore dell’articolo vorrebbe valorizzare – può essere considerata da un punto di vista psicoanalitico una tendenza egocentrica ed onnipotente della mente che fonde (e confonde) l’idea e il movente personale del singolo con i contenuti elaborati e pensati collettivamente, quindi frutto dell’attività e del contributo di più persone, di più menti. Una concezione egocentrica del proprio mandato pubblico, che confonde la dimensione collettiva del proprio operare di uomo di governo con un’idea personalistica del mandato. Non vedo quindi questo aspetto come un segno di responsabilità o di maturità politica, né come qualcosa di inevitabile, piuttosto l’esatto opposto!
 
Forse il tentativo non obbligatorio di Renzi di indire spontaneamente un Referendum sulla riforma potrebbe addirittura essere stato spinto dal desiderio di ottenere, ritenendosi sicuro del proprio successo, quel consenso popolare che ha avuto solo indirettamente – dopo il voto alle elezioni Europee – ma mai direttamente con un voto politico nazionale, cosa spesso rinfacciatagli da molti dei suoi avversari. E chissà se questo “desiderio di conferma” (conscio? inconscio?) non abbia alla fine giocato un ruolo decisivo nella sua scelta azzardata di personalizzare il confronto politico sulla riforma costituzionale nella speranza di ottenere, pur senza passare democraticamente e pericolosamente dalle urne, la chiara dimostrazione di un sostegno popolare di cui si è sentito mancante a furia di sentirselo ripetere dagli avversari.
No, direi che la retorica, che parla alla “pancia” delle persone, è il pane della politica (della politica in generale, anche “renziana”) e che la psicoanalisi non c’entra proprio nulla con la politica e con gli errori e le storture che questa nei decenni ha perpetrato, specie nel nostro paese. Il malcontento dei cittadini italiani è spesso oggettivamente giustificabile e non può essere ridimensionato ad una razionalizzazione di un malessere più profondo e inconscio dei singoli che scaricherebbero poi la frustrazione contro chi li governa.
Il “sì” è una particella che può significare anche sottomissione e passiva adesione; il “no”, nella crescita di un bambino, segna il momento in cui egli esce dal connubio rassicurante con il proprio genitore ideale, da cui dipende in modo assoluto, per affermare la propria personalità; è cioè il segno del limite che un individuo pone verso chi gli sta vicino per distinguersi da lui ed esserne autonomo.
Il “no”, se non diventa un atteggiamento standardizzato di risposta (si ricadrebbe allora in un altro tipo di “patologia”), si pone come il baluardo dell’identità del singolo e della sua integrità. Di per sé è, potrei quasi dire, la “risposta della crescita”(sia quando pronunciato che quando ricevuto da altri) e spesso è molto più difficile da pronunciare o da tollerare rispetto ad un “sì”.
Questo ci insegna la psicoanalisi: sta a noi poi non piegarne le conoscenze per fini che esulano dalla sua sfera di pertinenza, che è quella della mente del singolo e della sua evoluzione (o involuzione).

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