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Le stade du Facebook Pregiudizi, echo chamber e dinamiche di soggettivazione sui social network

23 Gen 17

Di Fabio-Milazzo
«Se c’è qualcosa che sottolinea come sia immaginario il rapporto dell’uomo
– di ciò che si chiama con questo nome – con il proprio corpo,
questa è la portata assuntavi dall’immagine.
E all’inizio ho sottolineato proprio questo,
occorre pertanto almeno una ragione nel reale;
la prematurazione di Bolk […] solo la prematurazione spiega la preferenza dell’uomo per l’immagine,
che gli proviene dall’anticipazione della propria maturazione corporea,
con tutto quel che comporta,
ossia che non può vedere uno dei propri simili senza pensare che questo simile prenda il suo posto,
e quindi naturalmente che lo fa vomitare» .
J. Lacan, «La terza»
 

 
 
 

Il meccanismo- Napalm51 tra informazione e complottismi
 
Roberto Burioni, medico e professore di microbiologia e virologia all'università San Raffaele di Milano, autore di un essenziale libro – Il vaccino non è un'opinione: Le vaccinazioni spiegate a chi proprio non le vuole capire[1] – che smaschera tanta pessima informazione sulla questione dei vaccini, è l’ultimo celebre obiettivo di un fenomeno sempre più evidente: l’aggressività sui social. Un’aggressività particolare, reattiva, che riguarda la difesa armata del sistema di credenze attraverso cui il soggetto si identifica e, quindi, si riconosce. Un’aggressività che dunque, in una certa misura, riguarda tutti e che mette in gioco quel processo sempre in divenire che è la soggettivazione, vale a dire il costituirsi delle identità. Abbiamo scelto di incominciare riferendoci al dott. Burioni ma avremmo potuto fare riferimento a qualunque altro individuo fatto destinatario degli attacchi polemici – e quasi sempre strumentali – dell’aggressivo interlocutore di turno, un soggetto che interviene – di solito sulle bacheche altrui – per commentare un post con toni arbitrari, risolutivi, inspiegabilmente aggressivi e, spesso, sopra le righe. Un tono che ben difficilmente adotterebbe al di fuori del perimetro “social”, anche perché difficilmente verrebbe tollerato.



Riepiloghiamo la vicenda che ha interessato il dott. Burioni. Egli, da tempo, tiene su Facebook una pagina[2] in cui cerca di parlare di vaccini separando la scienza dalle opinioni. Più spesso, la realtà dalle bufale. Una esemplare operazione di “verifica dei fatti” – o di fact checking[3]– tanto utile, quanto foriera di innescare il ben noto “meccanismo-Napalm51”. Roberto Burioni, criticando dati alla mano una delle più diffuse bufale di questo periodo, vale a dire la credenza che i casi di meningite siano dovuti alle migrazioni dall’Africa, ha così giustificato la prassi di cancellare diversi commenti dei tanti interlocutori che, più o meno a sproposito, intervengono sulla sua pagina:
 
«Il mio tempo in generale viene retribuito in quantità estremamente generosa – si legge nel suo post -. Il rendere accessibile i concetti richiede semplificazione: ma tutto quello che scrivo è corretto, e inserendo io immancabilmente le fonti, chi vuole può controllare di persona la veridicità di quanto riportato. Però non può mettersi a discutere con me. Spero di avere chiarito la questione: qui ha diritto di parola solo chi ha studiato, e non il cittadino comune. La scienza non è democratica»[4]
 
 
La risposta, dal tono piccato, risoluto, ha scatenato le prese di posizione di chi ritiene che tale atteggiamento sia anti-democratico e contrario allo spirito di discussione che dovrebbe animare le relazioni sui social network. L’idea di fondo è quella resa celebre da Pierre Levy attraverso il sintagma “Intelligenza collettiva”. Secondo lo studioso delle implicazioni culturali dell'informatizzazione «in primo luogo bisogna riconoscere che l'intelligenza è distribuita dovunque c'è umanità, e che questa intelligenza, distribuita dappertutto, può essere valorizzata al massimo mediante le nuove tecniche, soprattutto mettendola in sinergia. Oggi, se due persone distanti sanno due cose complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l'una con l'altra, scambiare il loro sapere, cooperare. Detto in modo assai generale, per grandi linee, è questa in fondo l'intelligenza collettiva»[5]. Una potenziale – e metafisica – intelligenza, secondo questa lettura, attende di essere risvegliata e sollecitata grazie allo scambio e alla messa in comune delle singole intelligenze attraverso il web. In evidente, quanto paradossale conflitto con questa presunta intelligenza, la pagina Facebook del dott. Burioni è stata invasa da commenti sulla questione “vaccini” – cancellati a detta dello stesso Medico – privi di qualunque argomento a supporto, violenti nei toni e arroganti come lo sono generalmente quelli mossi dalla convinzione di essere nella luce della Verità, quella con la maiuscola. Commenti che ben poco spazio lasciano allo scambio, alla discussione e alla sinergia. Ma chi sono questi soggetti e qual è la funzione di questi interventi? E perché il tono dei loro commenti è così aggressivo? Inoltre perché nel loro agire possiamo intravedere meccanismi osceni che in qualche forma riguardano tutti – in particolare i frequentatori dei social?
Maurizio Crozza, in quello che forse è uno dei suoi personaggi più riusciti, volendo rappresentare questo tipo di internetnauta, ha creato la maschera di «Napalm 51». Un personaggio a metà tra il troglodita e il sociopatico, che nel trucco evoca il Grande Lebowsky[6], e nell’etica rappresenta – prendendo in prestito e traslando le parole di Umberto Eco – la celebrazione dello «scemo del villaggio a portatore di verità»[7]. Napalm 51 sguazza nel clima eccitato ed esagitato di ogni discussione, anzi tende ad alimentarlo, proprio perché attraverso l’anonimato virtuale può dare sfogo a quell’aggressività che socialmente è disapprovata in quanto indice di mancanza di controllo. Contrariamente a quanto sostenuto da Levy, con l’idea di “intelligenza collettiva”, il confronto a cui prende parte Napalm51 non si giova del suo apporto ma diventa scomposto, polarizzato intorno a posizioni dicotomiche basate sul “pro” e sul “contro”. Il contenuto dell’intervento è divisivo e, quasi sempre, tende a presentarsi come risolutivo, definitivo, portatore di una verità che va oltre la verità e che ha lo scopo non tanto di informare, quanto di confermare lo status di chi se ne fa veicolo. Inoltre è sempre basato su informazioni dall’origine ambigua, confusa, non chiaramente verificabili e che afferiscono ad ambiti settari, quasi esoterici. Il ritratto è quello del presunto “controinformatore”, il “parresiasta 2.0”, una specie di moralizzatore del web che solo riesce a scorgere quella verità che i prigionieri incatenati sul fondo della caverna non vedono. La Verità con la maiuscola reclama la furia iconoclasta di questo soggetto convinto di poter far scivolare, con il proprio commento, il velo di Maya che offusca la vista di tutti gli altri.
Questo modo di agire, a tratti caricaturale in alcuni personaggi, favorito dal senso di distanza e dal possibile anonimato offerto da un profilo a cui può non corrispondere nessuna identità reale, fa presa soprattutto su un ambito di persone, quelle convinte che dietro a un fenomeno e alla sua spiegazione ufficiale ci sia sempre dell’altro. Qualcosa di poco chiaro che un complotto perdurante tenuto in piedi da misteriosi contropoteri globali farebbe di tutto per tenere nascosto. Questa sindrome del complotto si giova di un meccanismo cognitivo comune secondo il quale si tendono ad accettare più facilmente le informazioni che risultano conformi al sistema di credenze dell’individuo. Come sintetizza Walter Quattrociocchi, autore di Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità: «Ovvero, una ricerca di informazioni utili a confermare proprie idee e posizioni che necessariamente implica una tendenza opposta di sminuire o ritenere meno credibile ciò che è divergente o dissonante»[8]. Un meccanismo di auto-alimentazione e auto-rafforzamento che viene definito “bias di conferma”[9] e che «consiste nel ricercare, selezionare e interpretare informazioni che confermano le proprie convinzioni o ipotesi»[10]. Il dato, dunque, non ha valore in sé ma viene inquadrato in una cornice che corrisponde alla particolare visione del mondo del soggetto. Tutto ciò, se da una parte rinforza la percezione identitaria dell’individuo, dall’altra mina ogni illusoria aspettativa sulle possibilità dell’intelligenza collettiva. Infatti il confirmation bias restringe l’attenzione del soggetto solo alle informazioni che supportano quanto da lui già dato per vero; da ciò ne consegue che ben difficilmente verranno accolti input in grado di mettere in discussione le certezze di fondo. Nessuno è al riparo dal “meccanismo di conferma” ma in determinati contesti e, soprattutto, su alcuni temi – come le cellule staminali embrionali, gli OGM, il cambiamento climatico, i vaccini, tanto per citarne alcuni –, sembra che questo “pregiudizio” si irrigidisca polarizzando e irrigidendo le posizioni secondo una logica di chiusura di tipo tribale[11]. E’ il meccanismo virale che anima il processo di diffusione della disinformazione o, come viene più spesso presentata, della “controinformazione”, una informazione che per statuto ontologico va contro quella “ufficiale” ratificata in un discorso regolato da norme intersoggettivamente verificabili. In questo senso uno degli ambiti – ma non l’unico – in cui le “teorie alternative” esercitano la propria azione virale è quello scientifico e medico. Che si parli di medicina alternativa o di sempre attuali legami tra i vaccini e le patologie dello spettro autistico, la disinformazione prospera. Secondo il rapporto Censis del 2014[12] i genitori che «ricorrono al web per acquisire informazioni sulla salute sono il 32 per cento del campione»[13]. Di essi il 27 per cento ricorre a forum, blog e il 16 per cento ai social network. Il risultato è «che il 7,8 per cento dei genitori decide di non vaccinare suo figlio sulla base delle informazioni reperite su internet. Si tratta di un fenomeno in crescita, e che tra qualche anno potrebbe trasformarsi in un serio problema nazionale di salute pubblica»[14]. Molti di questi genitori, è facile dedurlo, acquisiscono le loro “informazioni” da uno dei tanti Napalm51 che infestano la rete. In questo senso ha ragione Carlo Ginzburg quando afferma:
 
« internet […] è uno strumento di democrazia potenziale. […] Per navigare in internet, per distinguere le perle dalla spazzatura, bisogna avere già avuto accesso alla cultura – un accesso che di norma (parlo per esperienza personale) è associato al privilegio sociale. Internet, che potenzialmente potrebbe essere uno strumento in grado di attenuare le disparità culturali, nell’immediato le esaspera»[15].
 
Il successo e la diffusione del fenomeno presso gli utenti si giova della stessa condizione che ne favorisce l’emergenza: la semplicità. A differenza «delle spiegazioni scientifiche, in genere complesse e controintuitive,[16] le teorie alternative sono «più comprensibili, nel senso che riducono lo stress e la complessità, fornendo un disegno o una serie di responsabilità coerenti»[17], inoltre «si accordano con l’attitudine cognitiva (o bias) della percezione finalistica, che tende a creare connessioni tra dati casuali o privi di senso (apofenia)»[18]. Le teorie alternative, cioè, rispondono ad uno dei bisogni della nostra specie, vale a dire quello di avere a disposizione delle spiegazioni in grado di offrire una cornice simbolico-immaginaria agli eventi dell’esistenza. D’altra parte «l’interpretazione animistica del reale è una delle più antiche e resistenti strategie di adattamento e contenimento dello stress ambientale della nostra specie»[19]. Le spiegazioni alternative sono non soltanto più affascinanti, poiché forniscono l’illusione dell’accesso ad un sapere altro, settario, ma sono soprattutto più accettabili perché tendono ad essere paradossalmente iper-razionali nel loro saturare di senso gli avvenimenti, che risultano essere spiegabili attraverso narrazioni semplici, intuitive e alla portata di tutti.[20] Narrazioni che, di solito, hanno un effetto rassicurante poiché tendono a scaricare la responsabilità dell’evento su un colpevole chiaramente individuabile. Tutto ciò offre una cornice di senso simbolico-immaginaria in grado di disinnescare il portato di imponderabilità che, invece, contraddistingue qualunque accadimento dell’esistenza. Spiegazioni semplici per persone che in fondo vogliono essere rassicurate, questa la formula vincente delle teorie alternative e del complotto. In questa ottica Napalm51 e gli utenti che accolgono le teorie alternative su temi quali il cambiamento climatico, le cellule staminali embrionali, gli OGM, condividono bisogni cognitivi che sono propri della specie, legati «a strategie di adattamento e contenimento dello stress ambientale»[21] primordiali. Se dunque tanto i cospirazionisti, quanto i sostenitori delle verità “scientifiche” condividono logiche proprie della specie, cosa li differenzia? I sostenitori delle teorie alternative evidenziano una maggiore rigidità cognitiva e una più evidente chiusura nei confronti di tutto ciò che non risulta essere in linea con le loro credenze. Sono cioè più inclini a esporsi a precisi contenuti informativi che rispondono ai propri interessi e alle proprie credenze. In altre parole, attraverso i suggerimenti di amicizia, l’adesione a gruppi, il seguito di ben precise pagine, questi soggetti – ma come abbiamo detto è una caratteristica condivisa, in misura diversa, da tutti – si costruiscono un perimetro di convenienza, cioè uno spazio chiuso frequentato solo da individui con i medesimi interessi e che, alla fine, riflette solo e sempre se stesso. Un clan, una tribù, una setta che pratica una liturgia codificata intorno alla narrazione di riferimento del gruppo. Questi spazi vengono definiti «echo chamber» e sono a tutti gli effetti dei recinti all’interno dei quali si produce «il rinforzo e la diffusione in rete di informazioni anche non corrette che, una volta che sono stare assunte come credibili, difficilmente vengono poi smentite o ricalibrate»[22].
Questo significa che gli utenti che prediligono ipotesi “alternative” sul valore dei vaccini o sulla natura delle cosiddette “scie chimiche” tendono ad interagire con gruppi che «confermano o in qualche modo aderiscono al loro sistema di credenze»[23]. Un modo, anche questo, per gestire la complessità del reale e, dunque, per evitare di entrare in contatto con versioni, ipotesi e teorie in grado di mettere in discussione le proprie teorie[24]. Il principale effetto di questo modo di agire, che – lo ripetiamo – è legato a bisogni cognitivi di tutta la specie, è la volontaria reclusione all’interno di costellazioni simboliche nelle quali si rafforza il senso di appartenenza della comunità intorno «a narrazioni o visioni della realtà condivise»[25]. Ne consegue lo strutturarsi, e il successivo consolidarsi, di «una rassicurante visione manichea della società – “noi” onesti e autentici vs. “loro” imbroglioni e corrotti” –»[26] anche questa in linea con una più generale e universale «tendenza di ogni individuo a conservare il proprio sistema di credenze»[27]. Ma perché avviene questo strano comportamento, per molti versi contrario al principio di razionalità? Perché il soggetto sceglie di selezionare solo l’informazione che è aderente al proprio universo di credenze? Per quale ragione sui social network il soggetto appare più aggressivo e in generale imperversano i toni urlati, gli interventi arroganti e autoreferenziali, la mancanza di eleganza e, soprattutto, la moda del vomitare insulti per attaccare chi la pensa diversamente? Molto semplicemente perché i social network fungono da catalizzatori per le proiezioni alienanti attraverso cui il soggetto costruisce la propria identità. Ancora con le parole di Walter Quattrociocchi: «E’ evidente […] che questo processo ci allontani parecchio dall’assunto dell’uomo razionale figlio della speculazione umanista»[28]
 
Spettri dell’identità
 
Il fenomeno che abbiamo descritto può essere compreso facendo riferimento all’attrezzatura concettuale della psicoanalisi, in particolare quella lacaniana. Questa sa che ogni comunicazione, ogni scambio, ogni relazione – quindi anche quelle che avvengono sui social – implicano un rapporto con l’immagine dell’altro e, quindi, con il processo di identificazione che lo regola. Infatti, ogni qual volta il soggetto si rivolge ad un interlocutore, attraverso la risposta di questo ultimo, ottiene qualcosa che può o meno confermarlo nella propria identità. Ciò avviene attraverso i significati espressi nell’intenzione verbale. Parlando si può essere capiti, fraintesi o, semplicemente, incompresi del tutto. Per questo le parole possono essere la cifra di un’identificazione o il contrassegno di un mancato riconoscimento legato alla fallita comprensione dell’altro. E’ la ragione per cui i significati che il soggetto crede di possedere, in realtà, lo posseggono, non soltanto perché sono il risultato del rinvio differenziale tra lui e l’interlocutore ma anche perché riguardano ciò che il soggetto crede di sapere su se stesso, sulle proprie intenzioni, e che possiamo definire il suo «immaginario». La conseguenza di questo discorso è che la realtà che il soggetto è convinto di conoscere si configura nei termini di una costruzione immaginaria, relativa a ciò che pensa di sapere su se stesso, sul suo essere intenzionale. Prendere parola significa cercare sempre una qualche conferma sul proprio statuto identitario, sul proprio chi sono. Ma questa conferma, in fin dei conti, è soltanto una fantasia, legata cioè all’immagine che il soggetto si fa dell’altro e, quindi, di se stesso. Un’identificazione animata da una profonda ambivalenza: in fin dei conti l’altro è colpevole della instabile condizione identitaria che rende l’Io una formazione paranoica, una costellazione che nell’altro proietta rabbia e frustrazione destinati a se stesso. Ma chi è questo altro verso cui il soggetto indirizza le proprie proiezioni? Lacan lo ha illustrato fin dal principio del suo insegnamento con il celebre stadio dello specchio. Secondo questa teoria ogni individuo per costruire la propria identità deve intraprendere un percorso di differenziazione rispetto alla madre; questo processo si compie attraverso l’identificazione con un’immagine, quella che Lacan definisce l’«unità ideale, imago salutare»[29] di se stesso riflessa in uno specchio – lo sguardo della madre, ad esempio. L’identificazione con l’immagine ideale allo specchio è priva di mediazioni ed è salvifica, visto che consente all’infante di disinnescare, attraverso l’inglobamento in un quadro contenitivo ideale, la violenza pulsionale del non-sense che lo abita: così, immaginandosi nella forma dell’Uno si costituisce in quanto oggetto. E’ la celebre tesi dello «stadio dello specchio»[30] di Lacan, secondo la quale il bambino tra i 6 e i 18 mesi, guardando la propria immagine riflessa in uno specchio prova gioia immaginandosi come un tutto, un Uno, un oggetto assoluto che si padroneggia, al posto del corpo in frammenti («corp morcélé»), le «membra disgiunte», che gli causano umiliazione e avvilimento. Questo processo non ha termine con l’infanzia ed è attivo sempre, ad esempio ogni qual volta il soggetto si relaziona ad un altro che attraverso lo sguardo, i gesti, le parole, lo può confermare come Ego o mettere in discussione, comprendere o disconoscere. In fin dei conti il soggetto in quegli sguardi cerca sempre le premure e le attenzioni della madre, la sponda immaginaria necessaria per disinnescare le pulsioni del corpo-in-frammenti. Per dirla con il Deleuze di Logica del senso ogni individuo è «come uno specchio per la condensazione di singolarità, ogni mondo una distanza nello specchio»[31]. Questo significa che l’identità del soggetto è uno scarto effetto della relazione con l’altro, con la sua immagine, con il suo sguardo. Tutti elementi che fungono da specchio e che possono rimandare un’immagine unitaria del soggetto o riflettere un insieme disperso di frammenti in cui è difficile riconoscersi e, quindi identificarsi.
Secondo Lacan, dunque, «l’Io (moi) è alla lettera un «oggetto – un oggetto che adempie a una certa funzione che chiamiamo immaginaria»[32]. La funzione è quella di dare una consistenza al corpo disperso, facendo di ciò che è parziale, frammentato e sbiadito, un oggetto in cui riconoscersi. Questo Io, però, essendo un’immagine artefatta è sempre in potenza di andare in pezzi; ne fa continua esperienza il soggetto quando non viene riconosciuto dall’altro – memoria dello sguardo distante della madre – e ciò fa emergere quel sentimento perturbante che nei termini di memoria corporea ricorda al soggetto la propria origine frammentata. In quegli istanti l’Io si percepisce come un altro, diviso, distante, a tratti irraggiungibile. E’ proprio questo altro ostile che nello specchio dei social network sollecita e riattiva l’aggressività dell’individuo prodotta dal suo bisogno di confermarsi in quanto Ego, dimensione raddoppiata «che rappresenta il transito tra il familiare e l’estraneo, tra lo stato indifferenziato e quello differenziato della mente»[33]. Ma perché avviene tutto questo? Perché nella giungla social il soggetto non si relaziona innanzitutto con persone, piuttosto interagisce con profili, cioè con figure che, proprio per la loro caratteristica virtuale, non possono che risultare fantasie rivestite dalle proiezioni alienanti del soggetto stesso. Infatti quei profili, quelle bacheche fatti di parole, foto e immagini, non rimandano mai alla persona che li abita, quanto al loro simulacro che non è necessariamente falso ma di certo artefatto e incompleto. Manca infatti la possibilità di sentire gli odori, di scrutare i movimenti, di osservare i tic e gli sguardi, in altre parole manca la facoltà di scrutare il soggetto negli elementi che scenarizzano il dire attraverso il detto. Da qui la conseguenza dell’essere posti non davanti a persone, quanto alla propria immagine specchiata nei loro simulacri. Questo spiega, ad esempio, la sensazione provata davanti ai post generici – ma strumentalmente allusivi – degli amici che sembrano sempre chiamare in causa in prima persona.
Se dunque – come vuole Lacan – ogni scambio discorsivo è un processo di soggettivazione che si delinea intorno ad effetti di senso che emergono intersoggettivamente come prodotto di dialettiche fatte di appelli, comprensione e risposte, il carattere marcatamente immaginario delle relazioni sui social situa lo scambio sul versante delle proiezioni rivolte all’altro come medesimo. Proprio come davanti a un foglio bianco, sulla pagina del social network, il soggetto riversa i suoi schizzi immaginari, le fantasie, le idealizzazioni, i sogni e gli incubi. Lacan ha descritto questo surrogato di comunicazione facendo riferimento alla «parola senza risposta»[34] che la costituisce, quella nutrita dalle identificazioni dell’immaginario che, proprio per questo, si configura come «parola vuota». Una parola che, pur rimbalzando verso l’Altro, non restituisce che lo stesso, il medesimo nutrito dalle rassicuranti identificazioni alienanti. Questa parola, che alla fine della comunicazione non subisce trasformazioni e resta invariata, è quella congelata tipica di tante rigide costellazioni patologiche. In questo senso, pur senza virare sulle descrizioni apocalittiche secondo cui internet renderebbe stupidi[35], è necessario incominciare a fare fino in fondo i conti con le trasformazioni che l’uso sempre più massiccio della comunicazione digitale comporta sui processi cognitivi e sulle forme di vita. Infatti, a differenza di quando si prende la parola per stabilire uno spazio di condivisione con l’interlocutore, uno scambio entro cui vivere l’esperienza del reciproco riconoscimento, nel caso dell’irrigidimento narcisistico che si registra nella comunicazione virtuale nessun appello all’Altro è veramente possibile, poiché l’unico perimetro accettato risulta essere quello stabilito dalle coordinate dell’immaginario. La parola allora si fa «vuota», come lo sterile rimbombo delle fantasie che si ripetono sempre uguali nell’ininterrotto dialogo che il soggetto intrattiene con se stesso. L’individuo allora si irrigidisce, le sue proiezioni diventano meno flessibili e permeabili, meno disponibili ad essere messe in discussione. Ciò scatena quell’aggressività che, in fin dei conti, è desiderio d’essere riconosciuti, di non essere espropriati della propria immagine, della propria consistenza identitaria. Quella consistenza che lo specchio social sembra far rimbombare come bucata, divisa, e in cui il soggetto fa fatica a riconoscersi ma che tuttavia è la sua. Un’immagine che a tratti sembra essere quella di un altro distante, irraggiungibile. Proprio come quell’altro enigmatico che emerge durante le sedute di analisi: l’inconscio.


[1] Cfr. R.Burioni, Il vaccino non è un'opinione: Le vaccinazioni spiegate a chi proprio non le vuole capire, Mondadori, Milano 2016.
[4]https://www.facebook.com/robertoburioniMD/photos/a.2045888082303031.1073741828.2045450802346759/2205456229679548/?type=3&theater
[5] Cfr. Pierre Levy, L'intelligenza collettiva, Parigi-European IT Forum, intervista in «Mediamente», Rai Educational, 4.9.1995, http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/l/levy.htm#link001
[6] Il riferimento è al celebre personaggio del film «The Big Lebowski», del 1998, diretto da Joel Coen e prodotto dal fratello Ethan.
[7] Cfr. Umberto Eco: “Con i social parola a legioni di imbecilli” in “La Stampa”, 10/06/2015, http://www.lastampa.it/2015/06/10/cultura/eco-con-i-parola-a-legioni-di-imbecilli-XJrvezBN4XOoyo0h98EfiJ/pagina.html
[8] Cfr. W.Quattrociocchi e A.Vicini, Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità, Franco Angeli, Milano 2016, p.63.
[9] Cfr. M.J.Wood, K.M.Douglas, R.M.Sutton, Dead and Alive: Beliefs in Contradictory Conspiracy Theories in “Social Psychological and Personality Science” 3 (6) 2012, pp. 767-773.
[10] Cfr. A.Grignolio, Chi ha paura dei vaccini?…cit., p.45.
[11] Cfr. J.Haidt, Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione, Edizioni Codice, Torino 2013.
[12] Cfr. Censis.Cultura della vaccinazione in Italia: un’indagine sui genitori. Ottobre 2014, 4. L’informazione vaccinale sul web, pp. 59-69.
[13] Cfr. A.Grignolio, Chi ha paura dei vaccini?, Codice ed., Torino 2016, p.42.
[14] Ivi, p.43.
[15] Cfr. C.Ginzburg, Discorso di ringraziamento alla cerimonia di consegna dei Premi Balzan 2010, Fondazione internazionale Balzan, Milano 2011.
[16] Cfr. A.Grignolio, Chi ha paura dei vaccini?…cit., p.44.
[17] Ibidem.
[18] Ibidem.
[19] Cfr. A.Bessi et al., Science vs Conspiracy: Collective Narratives in the Age of Misinformation, in “PloS ONE”, 10(2), 2015.
[20] Cfr. J.Byford, Conspiracy Theories: A Critical Introduction, Palgrave Macmillan, London-New York 2011.
[21] Cfr. A.Grignolio, Chi ha paura dei vaccini?…cit., p.44.
[22] Cfr. W.Quattrociocchi e A.Vicini, Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità, Franco Angeli, Milano 2016, p.67.
[23] Cfr. W.Quattrociocchi e A.Vicini, Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità, Franco Angeli, Milano 2016, p.49.
[24] Cfr. S.Lewandosky et.al, The Role of Conspiracist Ideation and Worldviews in Predicting Rejection of Science, in “PloS ONE”, . 8(10).
[25] Cfr. W.Quattrociocchi e A.Vicini, Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità…cit., p.49.
[26] Cfr. A.Grignolio, Chi ha paura dei vaccini?…cit., p.45.
[27] Cfr. W.Quattrociocchi e A.Vicini, Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità…cit., p.50.
[28] Ivi, p.51.
[29] Cfr. J. Lacan, L’aggressività in psicoanalisi, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 107.
[30] Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio in Scritti…, cit., p.88.
[31] Cfr. G.Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2005, p. 158.
[32] Cfr. J. Lacan, Il seminario, libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi( 1954-1955), trad.it. a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 2006, p.53.
[33] Cfr. L.Russo, Destini delle identità, Borla, Roma 2009, p.172.
[34] Cfr. J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in Scritti…cit.,, p.241.
[35] Solo a titolo di esempio vedi: N.Carr, Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello, Raffaello Cortina ed., Milano 2011

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1 commento

  1. info_11

    Uno dei piu’ricorrenti e
    Uno dei piu’ricorrenti e banali fraintesi da parte di chi “sta alla porta” del lavoro analitico, mantenendo dura e pura l’inibizione ad accedervi, e’la fantasia – ben descritta nell’articolo – di “quell’altro enigmatico che emerge durante le sedute di analisi : l’inconscio”. Niente di piu’ esilarante davvero, dato che nella realta’ qualunque e quotidiano colloquio di lavoro e’ quanto di piu’ prossimo allo scenario riferito dall’autore. Osservo tuttavia che la mistica lacaniana, abbondantemente citata nell’articolo e che infiammo’ di passione una intera generazione di psicoanalisti, disposti a tutto pur di sfidare le inibizioni altrui, si trova ora a fronteggiare la concorrenza temibile della “comunicazione virtuale” in cui “nessun appello all’Altro e’ veramente possibile”. Internet, Facebook, Twitter, tuttavia non rendono stupidi, ma semplicemente vaccinati.

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