Domani andiamo al MUDEC, a folleggiare!
L. Calvi, 13.5.2016
L. Calvi, 13.5.2016
Torno adesso da Milano, sono quasi in Salento dopo undici ore di treno.
Un tempo lungo, ma necessario per permettermi di riappropriarmi delle mie cose meridionali e lasciare che quelle settentrionali, altrettanto mie, mi scorrano sulla giacca. Di solito è così, questo pomeriggio invece non è per nulla semplice.
Sono ancora sconvolto. Ho vegliato il mio maestro nel luogo in cui ha vissuto le sue ultime ore, sereno e lucido, tra l’affetto grande e la vicinanza della sua famiglia, moglie, figli e nipoti, qualche amico.
Mi tornano in mente da molte ore tante, troppe immagini davvero, prendo appunti disordinatamente sulla rivista di bordo di Trenitalia e strappo le pagine che ho scarabocchiato, spero di ritrovarvi poi qualcosa di comprensibile una volta arrivato a destinazione.
Le immagini e le parole sono davvero troppe, tutte, questa volta non credo di esagerare, significative e decisive per poter dare di Lorenzo Calvi l’immagine che ho conosciuto e vissuto in questi ultimi dodici anni circa. Darò di seguito conto di alcuni tra i tanti episodi che ho vissuto insieme a lui, facendo fede con il mio scrivere, questo il tentativo, al nostro stile di esistenza, di viaggio e di dialogo, in modo da poter dare a chi non lo ha conosciuto, o conosciuto solo per troppo poco tempo, uno spaccato sincero di quello che Lorenzo Calvi è stato e poteva essere, di quello che Lorenzo Calvi si è portato via (di me) andandosene, di quello che mi sono portato via (di lui) frequentandolo ‘a bottega’ per così lungo tempo.
La prima immagine è forse quella della scoperta, la scoperta della mia presenza. Eravamo una sera in ristorante a Firenze, oramai alcuni anni fa, insieme a Gilberto, mio fratello Lucio e un suo caro amico.
Si parlava di varie cose tra cui la formazione dei giovani clinici alla fenomenologia e alla psicopatologia (avevamo da poco fondato con Gilberto la Società che ha dato vita poi alla Scuola di Psicoterapia fenomenologico-dinamica), argomento cui teneva molto e al quale era sinceramente interessato. Ad un certo punto, mentre Gilberto e gli altri erano impegnati in una discussione, il prof. mi disse:
“Sai Paolo, alla fine mi resterà un solo allievo!”
Io, che speravo davvero di conoscere questo allievo, per poter apprendere da lui la lezione che aveva ricevuto dal Maestro, risposi:
“Mi dica chi è che vado subito a trovarlo!”
“Ma come chi è – mi rispose ridendo e con la sua tipica voce squillante – Sei tu!!”. Ce l’aveva con me. Compresi di avere un posto nella sua mente, un posto che era un percorso da fare assieme.
La prima volta delle successive, numerosissime prime volte, avevo 24 anni. Lorenzo Calvi ne aveva allora 74. In quel momento, era il mio primo corso di Figline Valdarno, ero davvero un principiante alle cose, nemmeno a parlarne delle ‘cose stesse’.
Si era a giugno, momento che attendevamo, e tutt’ora attendiamo con grande trepidazione, per via della cena di metà Corso che in quegli anni si teneva nel giardino, sotto le colonne del Casagrande. A lezione quel pomeriggio aveva parlato il prof., mi aveva lasciato a dir poco sconvolto, pieno di dubbi e domande, incomprensioni normali per chi s’affacciava allora al linguaggio e al fare fenomenologia che Calvi, senza alcuna pietà per le menti e gli occhi imberbi, dichiarava nella sua lingua chiara, aperta e precisa, in un italiano e in una forma senza macchie. I verbi al posto dei verbi, le parole giuste al posto giusto. I tempi del suo dire e dettare, misurati e spietati (ho capito solo da poco, a furia di parlare con lui delle nostre questioni e del modo d’affrontare le nostre cose, che si trattava dell’unico modo di aprire ai giovani, proprio perché tali, imberbi, le porte della fenomenologia, delle metafore, delle immagini e della visione: “In nome di Husserl, disse, tutti devono essere giovani!”, scrisse da qualche parte).
Vi arrivai, emozionato e ansioso con una buona mezz’ora di anticipo su tutti gli altri. Speravo nella fortuna che mi capitò, perché cercata e desiderata. Vidi Lorenzo Calvi passeggiare da solo per il chiostro, tra le grosse pietre e l’erbetta che ne dichiarava i confini, con le mani dietro alla schiena, unite, l’aria sognante e riflessiva allo stesso tempo. Senza fretta alcuna, osservava le siepi e le lampade, le candele sistemate sulle panche di pietra, osservava senza fretta. Non potevo lasciare perdere l’occasione, come non la lasciai perdere. Non potevo tirarmi indietro solo perché ancora quasi vergine di fenomenologia, non potevo tirarmi indietro quando avevo il prof. Calvi da solo e senza fretta, come ad attendermi.
Smisi di chiedermi e lo avvicinai al centro del cortile, sembra ieri e forse siamo ancora lì io e lui, con Marsilio Ficino, che nella villa teneva le sue lezioni ai conti, e la contessa Serristori a spiarci da una camera in alto sulle colonne.
Lo avvicinai e gli chiesi di fermarsi insieme a me, avevo una domanda da porgli, egli acconsentii. Quindi, davvero con ingenuità, gli chiesi cosa fosse davvero questo fantomatico ‘mondo della vita’. Nulla m’era meno chiaro della lebensvelt. Lorenzo Calvi sorrise, mi disse che, visto avevamo ancora tempo prima della cena, avrebbe avuto piacere a parlarmene. Fui così introdotto non tanto alla lebensvelt, concetto che non credo possa mai arrivare per nessuno ad essere del tutto chiaro (ancora a marzo discutevamo insieme, critici entrambi, della interpretazione che ne da, l’altrimenti ottimo, Klaus Held in un suo vecchio scritto), quanto alla sua presenza e al suo pensiero, alla possibilità di incontrarlo e con lui fermarsi a parlare di cose altrimenti ostiche, parlare con lui come fosse tutto semplice, naturale.
Questa questione, la sensazione ovvero che mi concedesse sempre un po’ di vantaggio nelle nostre conversazioni e discussioni, come si fa con i bambini giocando a dama, nella lettura dei miei testi e nell’ascolto delle mie domande, non sempre geniali, mi accompagna ancora oggi che sento il suo sguardo benevolo poggiarsi sulle mie mani mentre scrivo e sulla mia fronte spesso incerta.
Lorenzo Calvi, il mio Maestro, mi lasciava spazio ulteriore, disponibile, perché portassi avanti la mia domanda, perché non mi fermassi, non attendessi semplicemente la sua risposta, il suo dire saturo, il suo dire chiaro. Si metteva alla mia altezza, voleva ci arrivassi piano e da solo, voleva nuotassi da me in sua presenza, in acque mosse, dove non si tocca, dove lui sapeva però che, avessi steso le gambe nella loro intera lunghezza, avrei forse sfiorato la sabbia con la punta delle dita, avrei preso coraggio.
Un giorno mi parlò di un testo cui era molto legato, un vecchio libro di Manlio Cancogni, che ci ha lasciato nel 2015. Il suo consigliarmi quel libro faceva parte di quello scambio di testi e consiglii bibliografici che ha caratterizzato da sempre il nostro rapporto. Io gli passavo per lo più pubblicazioni di filosofia, fenomenologia e psicopatologia, magari quelle delle quali riuscivo prima di lui ad avere notizia, tra gli ultimi un piccolo libello di Merleau-Ponty, alcune interviste a Derrida e Il caffè degli esistenzialisti, testo che ha amato moltissimo e consigliato alla sua nipote londinese (che lo ha letto in lingua originale), lui mi regalava o consigliava romanzi o brevi saggi. Proprio di un romanzo si trattava quella volta: Azorin e Mirò, la storia di due giovani ragazzi che si conoscono e frequentano, diventano grandi amici sulla base di una comune sensibilità alle cose e al paesaggio, grazie alla quale riescono a doppiare il limite abituale delle cose. Una coppia di amici alle prese con il sublimine, il subliminare. Quel libro ci unì molto, ne parlammo molto spesso come un modello della nostra sintonia, mi scrisse un giorno, di ciò che ci univa e del nostro rapporto al limite delle cose note e troppo ovvie. Il sublimine.
Torno adesso da Milano, indosso la stessa giacca di quando, a Firenze in occasione dell’ottantesimo compleanno di Arnaldo Ballerini, dopo aver letto di Eleonora, il mio primo lavoro che gli spedii, Lorenzo Calvi mi disse con quella sua voce inimitabile:
“Paolo! Tu o sei fenomenologo, o sei sulla buona strada per diventarlo!”, più o meno, mi ha confessato questo marzo, quello che gli disse Danilo Cargnello durante uno dei loro incontri.
Avevo allora venticinque anni, ci separavano cinquanta anni di storia e di esperienze ma ci unì, e da quel momento ne ebbi la splendente certezza e ne sentì allo stesso tempo la responsabilità (la stessa che sento ora), una comune sensibilità votata alla ricerca della cosa stessa (die Sache).
Se è vero infatti che i fenomenologi applicano la propria ricerca in tutti i campi dello scibile umano, a contatto con i quali cercano di descrivere i fenomeni che vengono loro incontro, è anche vero che nella clinica psicologica e psichiatrica, la cosa stessa è il paziente. La nostra cosa stessa è il paziente (Callieri, Di Petta). Così, avevamo davvero qualcosa in comune, a parte Figline: un modo di incontrare l’altro, privo di orpelli teorici e di zavorre ideologiche. Ci univa insomma, caro Maestro, quel che ci mancava, una sospensione, un contatto profondo ma fatto di poco e di briciole, di vicinanza, di quegli stessi spiccioli che Husserl chiede ad alta voce ai suoi allievi.
Andai avanti a scrivere delle mie esperienze e mi trovai naturalmente a spedire di volta in volta i miei lavori al professore, sempre con un misto di timore e desiderio: passavano due, tre giorni al massimo dalla spedizione cartacea, che ricevevo la sua chiamata che principiava puntualmente con queste parole: “Paolo, non ho ancora terminato di leggere il tuo lavoro ma non ho resistito oltre, volevo dirti che…”, e avanti così tra complimenti e apprezzamenti o altre volte suggerimenti di modifica o di approfondimento. Sono stati a dire il vero soprattutto complimenti e apprezzamenti, anche spesso quelli, forse, di un maestro che vuole così spingere il proprio allievo a fare meglio, a non lasciare la strada che ha intrapreso. Quando lo andai a trovare tempo dopo aver pubblicato ‘Il caso Alessio’, il professore mi lasciò esterrefatto dicendo che lo avevo superato, che avevo ovvero portato avanti le sue idee e le avevo messe al servizio di un rapporto esplicitamente terapeutico, in uno studio privato della sua Milano, in una psicoterapia in qualche modo strutturata.
Così avevo portato, mi disse, in una vera e propria psicoterapia le sue intuizioni, avute invece in Ospedale Generale e nei reparti di Sondrio in cui vedeva malati di mente, psicotici, alcolisti e suicidi mancati. Così trovai accoglienza anche per alcune mie parti che in altri luoghi non potevano avere visibilità: una volta disse a Mariella in mia presenza, eravamo a pranzo a Lierna: “Sai perché Paolo mi è piaciuto sin dall’inizio? Perché ha da subito scritto di casi e persone, e non ha invece fatto come fanno tutti, ovvero dei lavori teorici su teorie e testi!”. Corrispondeva al vero, ma non avevo in realtà fatto nessuno sforzo, anzi, se devo confessarlo, non ho mai compreso come si possa scrivere di teorie, fare teoria della teoria insomma, allontanandosi quindi dal caso singolo, dal paradigmatico.
Quest’ultimo anno, a metà della lettura di Eugenia, la mortificazione, che gli avevo mandato in anteprima, mi chiamò è disse: “Paolo, complimenti. Ne ho letto la metà ma non ho voluto attendere oltre per chiamarti perché hai fatto un ottimo lavoro, completo e complesso. C’è un po’ una grandine di mie citazioni, ma va bene. Hai fatto un ottimo lavoro. Complimenti”. La grandine c’era tutta ma sono convinto non si possa fare a meno di parlare di fenomenologica-clinica, della versione clinica della visione delle essenze, senza citare la strada che Lorenzo calvi ha battuto per decenni, spesso da solo, unico tra i suoi colleghi ad insistere sulla via della fenomenologia delle essenze.
Il rapporto che Lori, per come la signora lo chiamava, intratteneva con Mariella è stato per me sempre un modello di vita insieme: attenzione e curiosità, attesa e complicità, tolleranza. Differenti in tante cose, quasi opposti, i due si bilanciavano e si prendevano amabilmente in giro. In una occasione, vedendoci passeggiare nella loro piazzetta di Lierna, a discutere di barche e del lago, disse: “Lori, perché non parlate di psicopatologia e fenomenologia? Paolo è venuto per questo!!”.
Il professore, alzando bonariamente le spalle, così replicò:
“Che vuoi che ti dica, Mariella. Noi siamo vicini alle cose!”.
Con poche parole aveva così sottolineato la nostra libertà di sostare presso le cose e fare così davvero fenomenologia, come andrebbe fatta. Sostando, fermandosi, osservando e descrivendo il proprio mondo dalla propria prospettiva. Essere vicini alle cose come possibilità strenuamente ricercata del filosofo, del fenomenologo e psicopatologo, ma anche come disgrazia prima del malato se è vero come pensava lui e anche io penso che la sofferenza mentale abbia molto spesso alla propria origine un’epochè subita la quale il soggetto si trova d’un colpo senza più possibilità di prendere le misure e distanziarsi dalle cose del mondo, le proprie e quelle degli altri.
La psicopatologia, secondo Calvi, aveva già detto tutto (lo affermò, facendo la metafora degli abiti che passano da un cassetto all’altro senza che nulla cambi, anche in un’occasione in via dei Serpenti, ospite della prof.sa Ales Bello), toccava ora alla fenomenologia riprendere a dire la sua, rilanciare ovvero le sue possibilità di apertura ed eterna opera di smontaggio del castello (Leoni). Allo stesso modo, sempre dubbioso e poco convinto sulla possibilità e l’opportunità di insegnare la fenomenologia (pur amando il fatto di avere intorno a sé sempre nuovi giovani interessati al suo pensiero, cosa che ancora era capace di stupirlo), preferiva parlare di fenomenologia clinica e non di psicoterapia fenomenologica.
Ciò che mi aveva avvicinato a Lorenzo Calvi, al suo modo di vedere le cose, che solo dopo compresi essere visionario, per immagini e metafore, eidetico si direbbe in termini pedanti (Dalle Luche cit.), era stata l’intuizione e quindi la comprensione di come l’Altro malato e il suo mondo potessero essere avvicinati, dopo il fallimento dell’empatia jaspersiana (fenomenologia soggettiva) e senza l’aiuto delle coordinate binswangeriane (fenomenologia oggettiva), sulla base del metodo che lo stesso Calvi descrive in maniera assolutamente cristallina nei suoi numerosi casi clinici (raccolti nei testi del 2005, 2007, 2013).
In questo senso, pescando in una mia naturale predisposizione, ho lui proposto alcuni testi che ora definirei molto discutibili, ovvero degli esercizi fenomenologici su due oggetti del quotidiano mercanteggiare medico quali la pinza del dentista e il dermatoscopio. M’ero impegnato ad osservarli attentamente, sospendendo il loro uso e la loro identità per alcune ore. Ne avevo ricavato dei testi che sapevano di immersione in mondi davvero altri, che prendevano le mosse unicamente dall’apparenza di quegli oggetti banali per andare poi verso immagini e variazioni eidetiche inedite, verso i fenomeni.
Gliele avevo consegnati, penso ora con grande incoscienza, un pomeriggio ad Ascoli Piceno, nel 2013, in attesa dell’arrivo di Arnaldo Ballerini che volevamo portare con noi a cena. Lorenzo Calvi passò quasi mezz’ora a leggere quelle due paginette senza battere ciglio, e dichiarò, al termine della lettura, che gli erano piaciute, che quelle parole potevano essere un buon inizio di riflessione e che, soprattutto, provenivano da un giovane, uno che non aveva dovuto sollevare poi chissà quanti e quali strati mondani di polvere dagli oggetti stessi per osservarli in quel modo inedito. Mi lasciò incerto sul da farsi, come sono ancora adesso incerto sul destino dei due lavori che ho spedito un giorno a Guenda Bernegger, che aveva in mente di principiare sulla sua rivista una rubrica dedicata agli oggetti.
Quella trasferta ad Ascoli la ricordo non tanto per le relazioni del pur interessante convegno, ma per alcune scene che sono ancora impresse, fresche, nella mia memoria.
Visto che Ballerini tardava ad arrivare pensammo, dopo la lettura degli oggetti di fare un giro per la splendida piazza della città marchigiana. Era il calar della sera, il sole si era oramai perso dietro i portici bianchi della piazza e noi giravamo senza fretta per le stradine dintorno. D’un tratto, dopo un attimo di silenzio, il prof. mi fermò tenendomi per il braccio e disse:
“Osserva, dobbiamo ogni tanto fermarci e, dopo esserci detti che certo siamo fortunati ad essere nati in un luogo così bello, come l’Italia, dobbiamo dirci anche che siamo sfortunati a non sapere cosa si sente a non essere di qui, a non aver mai visto un luogo simile. Facciamo quindi per un po’ gli svedesi!”.
E così ci rimettemmo in cammino come due turisti scandinavi, non più gli stessi, per poi commentare lo spazio d’intorno il tempo e la città che ai nostri occhi sospesi era, per pochi minuti, divenuta, tornata fonte di stupore. Mi vedevo catapultato alla massima potenza al centro di un gioco, un esercizio di sospensione in cui l’ironia (riduttiva) del professore, applicata alla vita di tutti i giorni e ai paesaggi noti, nella più vera declinazione della fenomenologia (alla ricerca attiva dello spiazzamento, del non familiare, della parte meno nota dell’oggetto) trionfava sull’abitudine e sulla polvere. La ricerca di una seconda, e poi terza prospettiva.
Una volta rifattici italiani, momentaneamente marchigiani, tornammo quindi in albergo, decisi a stanare Ballerini. Appena entrati nel cortile di Palazzo Guiderocchi, albergo che ospitava il prof. e Arnaldo, ci venne incontro un signore che non conoscevo ma che avevo incrociato alla SOPSI dell’anno prima.
Il prof. Calvi mi fa: “Conosci il prof. Volterra di Bologna? Ora te lo presento!”
“Caro Vittorio, ti presento Paolo Colavero – disse- una delle grandi promesse della…”
Volterra non lo fece concludere e, senza nemmeno fermarsi, tagliò corto:
“… una delle TUE grandi promesse, Calvi!”, e ci lasciò lì a guardarci e sorridere di quel personaggio e di quell’incontro insieme, nonché di quella definizione che ho e abbiamo trovato da subito azzeccata: qualunque cosa fossi ero certo una delle grandi promesse di Lorenzo Calvi. Fenomenologo.
Arnaldo Ballerini fu quindi fatto chiamare da noi direttamente in camera dalla receptionist, e fatto così scendere ‘con la forza’; ci disse però subito che lui era in attesa dell’autista della ASL che lo avrebbe condotto al ristorante perché ospite della presidenza del convegno per una cena cui dovevano partecipare Mario Rossi Monti, Francesco Bollorino, lo stesso Arnaldo e alcuni altri colleghi. Noi però, dopo tanto attendere e vagare, eravamo ben lontani dal perderci d’animo e avevamo inoltre molta voglia di passare una serata con Arnaldo. Calvi disse: “Arnaldo, non ti preoccupare, quando arriverà l’autista saliremo con te in auto e ci inviteremo manu militari alla cena! Ci pensiamo noi due!”. Così fu.
Passammo una serata memorabile, ad ascoltare e raccontare storie insieme agli altri ospiti di Mariani; scoprì in quella occasione l’Anisetta Meletti, indicatami proprio da Lorenzo Calvi quale prodotto indimenticabile (quanto aveva ragione) della tradizione cittadina. Alla mia partenza ne portai via alcune bottiglie.
Il giorno dopo, fatta colazione insieme, andammo alla libreria della piazza alla ricerca del suo testo ‘La coscienza paziente’, da poco uscito per Fioriti. Non trovandolo sullo scaffale dedicato alla psicologia, si mosse verso la commessa e le raccomandò di ordinare alcune copie del testo di un certo Lorenzo Calvi, che avrebbe parlato al convegno quello stesso giorno. Poi, tornando insieme verso l’esposizione dei titoli, dopo aver comprato un paio di piccoli libri dei quali mi fece dono (per come lo intendeva lui), mi fece notare la presenza dell’intera, o quasi, opera di Sigmund Freud, e aggiunse:
“Beh, non si può dire che non abbiamo una certa concorrenza qui!”.
Maestro caro, non sei stato bene in questi ultimi mesi. Ogni tanto, tra un nostro incontro e l’altro, la tua voce al telefono si faceva più flebile e, quando passavo a trovarti la tua persona lottava contro i limiti del tuo respiro a volte troppo debole.
Sono corso a Lecco in dicembre, quando i medici avevano lasciato poche speranze, ma invece ce l’hai fatta e fatta bene. Commentavi attento ogni cosa in quella stanza d’ospedale dove mi aveva accompagnato Giuseppe; la luce nei tuoi occhi, dopo la crisi, era quella di sempre, non vedevi l’ora di riprendere a lavorare su Comprendre e sugli scritti che avevi in mente. Mi hai detto della tua prefazione alla traduzione di un articolo di Minkowski, ne avevi chiesta una copia del testo anche per me, elaborammo poi insieme un piano di lavoro per i prossimi mesi: “Ora hai lavoro per tutta l’estate!”.
Lessi per te insieme a Giuseppe alcuni canti dell’Inferno di Dante, che ascoltavi ad occhi chiusi, beandoti delle parole e del loro suono, delle immagini infernali che il poeta sapeva portarti attraverso le nostre voci in un luogo che era il tuo momentaneo purgatorio.
In marzo siamo stati poi nuovamente insieme, a dialogare sulle nostre cose, su Eugenia e il progetto di farne qualcosa di più che un articolo, sulla formazione dei giovani. Avevo preparato le mie solite domande, tu avevi preparato la tua solita ironia, la tua proverbiale calma nel rispondere e discutere con me. Abbiamo visto un video di un filosofo insieme, in silenzio, lo abbiamo commentato. Lo hai criticato. Acuto e familiare. Attento e sempre pronto a nuove intuizioni.
Maestro caro, ricorderai, venerdì 12 sono passato a trovarti, ero a Milano perché avevo lezione all’IIPG, dagli psicoanalisti che ci hanno ospitato l’anno scorso. Non eri stato bene, ancora non ti eri ripreso, mi hai invitato a raggiungerti lo stesso, ma solo 'perché noi siamo intimi', hai detto. Intimi, amici dicevi: “Paolo, il mio allievo e amico del sud!”, mi sentivo presentare da te. Con gioia.
Nel pomeriggio ci lasciarono soli, tu appoggiato sul divano e io su una sedia, poi entrambi sul divano, a darci il cambio. Per la prima volta vinsero i silenzi contro di noi. Consapevole delle tue non ottimali condizioni, non avevo portato nulla con me, nessuna domanda da farti e interrogativo da farmi chiarire.
Dovevo parlare di me, volevi sapere cosa stessi scrivendo. Ti dissi di cosa avevo in mente, dei miei scritti e del percorso da Pinel a Calvi cui sto lavorando: mi guardasti felice e stupito. Ti spiegai quindi il senso, il filo rosso dell’illuminismo a legare i secoli, le opere e gli uomini. Confermasti contento la mia idea, parlasti del tuo Cabanis, della sua opera e di Pinel, della Gladys Swain.
Abbiamo passato, dopo tanti e tanti incontri sulla fenomenologia, sul fare e solo dopo dire di fenomenologia, per le città d’Italia, i musei milanesi, il tuo lago etc., abbiamo passato un pomeriggio ed una serata differenti.
“Parlo proprio come un nonno, non è vero?”. Era vero. Come altrettanto vero che io parlavo forse da nipote.
Abbiamo infatti detto soprattutto di famiglia, la tua e la mia che non mancavi mai di ricordare, dei tuoi cari figli e di tua moglie, dei tuoi amatissimi nipoti, tutti, senza esclusione, dei quali mi sono sentito per qualche ora il maggiore.
Mi hai detto che ti avevano chiamato tre giovani psicologi di Lecco, cui Gilberto aveva dato il tuo numero, e che avevi rimandato l’incontro con loro di una decina di giorni. Eri felice della loro chiamata ma non volevi riceverli così, come non avresti voluto ricevere nessuno.
Silenzi e occhi chiusi, ci facemmo cosa sola con il grande salone e i suoi quadri, che mi indicasti uno per uno, felice dell’appartamento che appariva finalmente pieno, colmo di mobili, anche di ciò che da Lierna avevi potuto portare con voi, compreso il corrimano delle scale (che indovinai!), ora sul muro a tirare una linea di continuità tra il lago e via Ariosto.
Quando tornò Mariella cenammo insieme a Giacomo. Poche parole a cena, non avevi molta fame.
Fatte le ventidue e quaranta ti salutai con un bacio. Tornai poi indietro, ti strinsi un braccio senza dire nulla, tu mi dicesti:
“Spero di poterti accogliere meglio la prossima volta che verrai!”. Una confessione: lo hai fatto ogni volta delle tante volte che abbiamo condiviso, lo fai ancora ogni giorno quando ti penso. Da quasi dodici anni. Siamo stati insieme, da soli a condividere e rifare insieme il racconto di questa fenomenologia che ci legava e ci lega di spirito prima che di letture, di visione prima che di testi, di immagini e vicinanza prima che di convegni, di strade e paesi, di laghi prima che di pagine e penne, di sguardi e sorrisi, e silenzi prima che di amicizie e colleghi, di cose ovvie prima che di scoperte geniali, di banalità e modi di dire prima che di filosofi, teorie e paroloni senza senso perché lontani dalla singola esperienza e vissuto.
La nostra fenomenologia essenziale, di piccole cose e divano prima che di cattedra.
Dimenticavo. A dicembre mi avevi promesso che mi avresti accompagnato sui tuoi luoghi in Valtellina, per un giro a Sondrio e nella casa in montagna, dalla tua libreria. Ci avrebbe accompagnato in auto Giuseppe (gliel’ho ricordato ieri sera), avevamo progettato il giro per la primavera, quando con il primo tepore le tue condizioni andavano sempre migliorando.
Non ho dimenticato la promessa, ti ho preso in parola. Ci andiamo presto, insieme.
Libero dal peso, dal respiro stanco, sei ora immagine e ricordo, sei libertà e utopia, sei modello e paradigma.
Siamo tutti più soli, ci resta la tua voce, immenso regalo.
Addio Maestro caro.
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